“The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars”, in ricordo di David Bowie

The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars- RCA-1972
The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars- RCA-1972

La morte di un grande artista è sempre un colpo difficile da digerire. A causa dell’indiscussa capacità di scatenare sensazioni uniche grazie alla facoltà di vedere il mondo con occhi diversi rispetto a chiunque altro, la loro dipartita non viene quasi mai accettata serenamente o come un fatto naturale dal momento che quando se ne vanno una piccola parte delle nostre emozioni se ne va con loro trasformandosi in ricordo. Quando poi ad andarsene è un personaggio del calibro di David Bowie, scomparso il 10 gennaio scorso a New York, a 69 anni per un cancro al fegato, le cose si complicano ulteriormente. Al dolore si aggiunge la consapevolezza di aver perduto un protagonista assoluto del panorama artistico-musicale dell’ultimo mezzo secolo capace di anticipare tendenze, aprire nuove strade e “dettare legge” in ogni ambito toccato dal suo genio. Visionario, eccessivo (ma mai pacchiano), elegante, raffinato, a tratti ambiguo e spiazzante, capace di trasformarsi, cancellarsi, reinventarsi, il Duca Bianco è stato un vero e proprio camaleonte, non solo sul palcoscenico ma nella sua stessa vita, in grado (uno dei pochi) di coniugare la sperimentazione più estrema con il successo di massa.

Bowie è stato uno dei primi, se non il primo in assoluto, a giocare con la sua identità sessuale vestendosi da donna sulle copertine di The Man Who Sold The World (1970) ed Hunky Dory (1971). Nel pieno degli anni ’70, grazie alle sue mise scintillanti ed album “spaziali” quali Ziggy Stardust (1972) Aladdin Sane (1973), Pin Ups (1973) e Diamond Dogs (1974) , fonda il glam rock, consegnando alla storia il suo alter ego Ziggy Stardust. Nel frattempo lancia la carriera solista di amici come Lou Reed (produce il suo grande album Transformer del 1972) ed Iggy Pop (con cui lavora a The Idiot e Lust For Life entrambi del 1977). In piena era disco music e punk vola a Berlino per incidere con Brian Eno l’epcale trilogia composta da Low (1977), Heroes (1977) e Lodge (1979) piena di elettronica e nichilismo che traghetta il rock negli anni ’80.

Il ritorno a sonorità più pop anche se venate da una certa dose di ricercatezza, come negli album Let’s Dance (1983) Tonight (1984) e Never Let Me Down (1987) ne decretano il successo mondiale e lo status di star intergenerazionale. Persino le contraddittorie opere degli ultimi anni non ne hanno minimamente scalfito l’immensa fama e considerazione. Il suo continuo mettersi in gioco, nella pittura come nel cinema (memorabili le sue interpretazioni in L’uomo che cadde sulla terra ed in Labirinth) ne hanno confermato il coraggio e la grande intelligenza. Davanti a questo piccolo excursus della carriera di un’icona del ventesimo secolo, diventa difficile, se non addirittura ingeneroso, scegliere un solo album a simbolo di una personalità così sfaccettata ma, dovendolo fare, ho orientato la mia scelta verso quello che a, mio modo di vedere, racchiude tutta la poetica fantascientifica e la forza rivoluzionaria di Bowie: The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars. Di questo disco è stato detto:

“Il vero capolavoro di Bowie…. forse ha cambiato la vita di persone in un colpo solo più di tutti gli altri, prima e dopo”. (Q Magazine-1997)

David Bowie e Mick Ronson-1972

E probabilmente tale affermazione è vera. Grazie alla sua coerenza concettuale e bellezza melodica assimila il passato e rivela il futuro. Sembra quasi che tutto il rock fino a quel momento sia stato un lento percorso verso quest’opera e tutto ciò che viene dopo una sua diretta emanazione. La storia di Ziggy Stardust, un ragazzo umano che diventa rockstar grazie ad un aiuto alieno in un modo sull’orlo della distruzione, si dipana attraverso undici canzoni di straordinaria bellezza lirico/musicale. L’identificazione di Bowie con Ziggy è totale; talmente perfetta da renderne quasi impossibile la distinzione quasi che quel buffo personaggio dai vestiti impossibili e dal trucco clownesco rappresentasse in tutto e per tutto la sua vera personalità. Sarebbe tuttavia ingiusto dire che Bowie ha fatto tutto da solo. Mark Bolan ed i suoi T Rex con le loro canzoni piene di boogie e fantasie tolkeniane hanno fornito la base rock per la concezione dell’album. L’amicizia del Duca bianco con Lou Reed ha fornito le parole giuste per la composizione ed Iggy Pop con la sua animalità da palcoscenico, il modo adatto per raccontarlo al pubblico. Il resto proviene dagli Spider From Mars, leggendaria backing band, che annovera tra le sue file campioni quali il chitarrista Mick Ronson, il bassista Trevor Bodler ed il batterista Mick Woodmansey i quali hanno fornito i suoni ed il supporto scenico necessario. Grazie alla fusione di questi elementi Bowie/Stardust diventa un personaggio messianico, l’archetipo della rockstar che assurge a fama vertiginosa per poi cadere rovinosamente nel dimenticatoio, diventando il simbolo dell’inesorabile parabola del successo.

Gli artisti diventano buffoni su un palco, vestiti in maniera improponibile, veri e propri alieni che farebbero di tutto per il successo, salvo poi scoprirsi fragili ed insicuri dal momento che la caduta è dietro l’angolo. Si tratta quindi di un’opera altamente ironica e dissacrante in grado di rivelare quanto tormentate ed umane siano in fondo le star, costantemente in bilico tra esaltazione e depressione. La dolente Five Years, con le sue previsioni apocalittiche, apre il viaggio, per poi proseguire con la malinconica riflessione sull’amore di Soul Love. La torbida ed eccitante Moonage Daydream presenta al mondo Ziggy Stardust mentre Starman, divenuta nel tempo vera canzone-simbolo di Bowie, rivela il messaggio di salvezza inviato dagli alieni. La paranoica It Ain’t Easy narra le difficoltà della caduta; la deliziosa Lady Stardust è incentrata sull’ambiguità sessuale di Ziggy e sulla sua carica animalesca che lo fa diventare una Star, come citato dalla canzone omonima. Il sesso è di nuovo al centro della tambureggiante Hang On To Yourself mentre il leggendario assolo di Ronson caratterizza Ziggy Stardust vera e propria biografia in musica del protagonista. Il glam rock più puro disegna l’equivoca Lady Suffragette il cui significato è in bilico tra richiesta di privacy ed un cambio di sesso. Le ultime dolenti ore di Ziggy narrate in Rock‘N’Roll Suicide, sorta di amara riflessione su ciò che oramai è diventato, chiudono l’album.  La vocalità di Bowie si adatta meravigliosamente ai brani facendosi tremolante, sussurrata, urlata a seconda degli stati d’animo del suo alter ego.

Ziggy Stardust

Semplicemente superbo il lavoro degli Spiders e di Ronson in particolare, che con la sua poliedricità, esegue meravigliosi ricami in ogni brano, sia quando è necessaria la sua chitarra tonante o il suo piano battente. Uno stato di grazia unico, un’ispirazione enorme ed una bellezza indiscutibile hanno fatto di quest’opera un classico già al momento della sua pubblicazione, il 6 giugno del 1972. I critici vanno in visibilio, il pubblico premia l’album con milioni di copie vendute mentre decine di spettatori si recano a vedere le mirabili follie di Ziggy Stardust, l’alieno del rock, riempiendo ogni stadio toccato dalla tourneè. Niente sarà più come prima. Il mondo del rock è pieno di citazioni e rimandi a quest’album. Generazioni di musicisti ne hanno riconosciuto la grandezza e amato la bellezza. Spandau Ballet, U2, Straws, Travis fino al nostro Renato Zero, solo per citarne alcuni, hanno pagato il giusto tributo a mr. Bowie ed alla sua straordinaria creatura. Ma il debito di riconoscenza che il mondo della cultura ha nei confronti del Duca Bianco certamente non può essere limitato solo a questo disco straordinario, ma va esteso lungo tutta la sua irripetibile carriera diventando pressoché insolubile. Forse è per questo che è bello pensare, citando un frase condivisa sui maggiori social network, che David Bowie non è morto, sono solo venuti a riprenderselo.

“The Joshua Tree”: il viaggio degli U2

U2- The Joshua Tree- Island Records-1987

L’America è posto affascinante, pieno di possibilità, di speranze, di promesse. Ma più che un luogo l’America è sempre stata, nell’immaginario collettivo, un mito, una leggenda, una sorta di Eldorado in cui si sono rifugiati i sogni di chi ha sempre creduto in un futuro migliore. Per gli irlandesi in special modo, il Nuovo Continente, è stato un simbolo di rinascita, in cui ricominciare una nuova vita lontano dalle ristrettezze mentali, sociali ed economiche del Vecchio Continente. Lo sanno bene gli U2, forse la più grande rock band irlandese di tutti i tempi, che col mito americano hanno dovuto comunque fare i conti.

L’America è la terra promessa per molti irlandesi. Io sono solo uno di una lunga serie di irlandesi che hanno affrontato il viaggio” (Bono Vox– Rolling Stone-1987)

Questo viaggio comincia ben tre anni prima, nel 1984, quando gli U2 pubblicano l’epocale The Unforgettable Fire che si distanzia in maniera significativa, sia dal punto di vista tematico che musicale, dai precedenti lavori della band. I pezzi si sprovincializzano passando da semplici ricordi e sensazioni dublinesi quali I Will Follow, New Year’s Day, Sunday Bloody Sunday, Fire, a brani dalle tematiche ben più ampie e profonde quali Pride (In The Name Of Love), Bad, 4Th Of July, Elvis Presley And America. Anche i suoni si fanno più precisi ed affilati passando dal post-punk degli esordi ad una miscela di country, blues e pop che denota una raggiunta maturità tecnica e compositiva. Anche lo stile vocale di Bono cambia raggiungendo un’espressività davvero notevole in grado di esprimere efficacemente sensazioni primordiali quali la rabbia, l’orgoglio, la sofferenza e l’amore.

U2 e The Joshua Tree-1987

In The Joshua Tree, gli U2 riprendono questo viaggio iniziatico fino a portarlo a compimento. Si sporcano le mani di gospel, masticano blues, giocano col rock per ottenere un suono assolutamente inedito ed innovativo. Le liriche si fanno eccezionalmente poetiche e profonde per affrontare argomenti di grandissima rilevanza che poco hanno a che fare con gli Stati Uniti in senso stretto. The Joshua Tree non parla dell’America, o meglio non solo, ma è lo sguardo irlandese degli U2 sul mondo filtrato dalle lenti del mito americano.

Si parla di droga (la struggente Running To Stand Still) di Dio e dell’amore (la tenera With Or Without You), dei dubbi della fede (l’ammaliante I Still Haven’t Found What I’m Looking For), di embargo e povertà (l’apocalittica Bullet The Blue Sky), di emarginazione (la tonante Where The Streets Have No Name), di omicidio (la spettrale Exit), di morte (la drammatica One Tree Hill), di disoccupazione (la rabbiosa Red Hill Mining Town), di natura (la contagiosa In God’s Country), dei desaparecidos (la dolente Mothers Of Desappears), di felicità (la blueseggiante Trip Through Your Wires). Su tutto l’incredibile lavoro di Dave “The Edge” Evans che, attraverso l’uso del delay, disegna liquidi ricami chitarristici ed arricchisce ogni traccia con eleganti armonie vocali. La potenza della macchina ritmica composta dal duo Adam Clayton/Larry Mullen rende ogni brano solido come una roccia mantenendone alta la potenza e la tensione.

Il resto lo fa Bono Vox grazie alla sua presenza, all’intensità delle sue interpretazioni ed alla bellezza dei suoi versi. Il risultato è un album sorprendente, bellissimo, un vero capolavoro, ma nel contempo drammatico, pieno di ombre e di domande. L’iconica copertina in bianco e nero che rappresenta il gruppo accigliato in mezzo ad un paesaggio desolato ben rappresenta la tensione nascosta all’interno del disco. Gli U2 sono cresciuti ed accantonano la spavalderia giovanile per i dubbi della maturità. Fanno i conti con se stessi e con il mondo, abbandonano la sicurezza delle patrie sponde per confrontarsi con “l’altro” affrontando un viaggio dal quale usciranno stremati, incerti ma anche ricchissimi (non solo materialmente è ovvio) e con una nuova percezione delle cose. Di li a poco pubblicheranno l’ottimo Rattle And Hum e l’altro capolavoro assoluto Achtung Baby che darà il via al loro periodo berlinese, ma nessun altro album possederà quel senso di precarietà, di inquietudine e d’incertezza presente in questo disco che fa suonare gli U2 più fragili ed umani che mai.

“Green River” dei Creedence Clearwater Revival: American Way Of Life

 

Green River-Fantasy Records-1969

Cosa rende i Creedence Clearwater Revival una delle band fondamentali della musica americana e, più in generale, della storia del rock? Non certo il loro strano e lunghissimo nome così difficile da pronunciare e da ricordare. Nemmeno la loro tecnica lontana da virtuosismi e funambolismi. Il loro aspetto forse? Probabilmente la maggior parte degli ascoltatori non sa nemmeno i loro nomi ne tantomeno conosce le loro facce. A dirla tutta persino la loro vena compositiva non è eccellente dal momento che hanno infarcito i loro cinque dischi ufficiali di numerose cover. Ma allora cosa li rende una delle band più importanti e più popolari della storia?
Il groove, il sound inconfondibile, la loro capacità di fondere tutte le maggiori correnti della musica americana: il country, il blues, il rock’n’roll, la swamp music e persino la psichedelia. Californiani di nascita, i Creedence Clearwater Revival si consideravano profondamente “sudisti”. Dopo un album d’esordio omonimo composto interamente da brani altrui riveduti e corretti in chiave psichedelica (Suzie Q e I Put A Spell On You su tutti), ed un secondo lavoro, Bayou Country, dominato dall’arcinota Proud Mary, la band pubblica Green River, il suo album più compiuto e rappresentativo.

John Fogerty, il leader indiscusso, trova il proprio stile abbandonando le divagazioni allucinate dei primi dischi a favore di brani molto più brevi e orecchiabili perfetti per la programmazione radiofonica. Dall’intro lancinante della title-track, al galoppare scatenato del batterista Doug “Cosmo” Clifford in Commotion, fino al basso pulsante di Stu Cook in Bad Moon Rising ed alla chitarra battente di Tom Fogerty in The Night Time Is The Right Time, Green River” è un viaggio al centro della musica e della filosofia americana. Le tematiche affrontate sono tratte dalla vita di tutti i giorni. La guerra del Vietnam in Wrote A Song For Everyone, la difficoltà a sbarcare il lunario in Lodi, il viaggio come stile di vita in Cross Tie Walker, tutti argomenti che fanno di Green River un capolavoro universale che trascende anni e stilizzazioni.

 

Creedence Clearwater Revival-Aprile 1970

Generazioni di musicisti sono stati influenzati dai Creedence Clearwater Revival e da Green River in particolare. Basti pensare al Bruce Springsteen di Born In The USA, ai Lynyrd Skynyrd di Second Helping, agli Eagles di Hotel California fino ai recentissimi U2 di The Joshua Tree, tutti hanno un debito piuttosto consistente nei confronti della band di El Cerrito. Nello spazio di cinque anni, dal 1967 al 1972, e di cinque album i Creedence Clearwater Revival sono stati capaci di lasciare una traccia indelebile nel rock, riuscendo tuttavia a non cedere mai ai dettami dello show business né a trasformarsi in celebratissime superstar. Certo hanno collezionato dischi d’oro a volontà, hanno dominato le classifiche, sono entrati nella Rock’n’Roll Hall Of Fame ma hanno sempre conservato quel carattere di genuinità e semplicità che ha da sempre caratterizzato i loro dischi.

Ascoltare Green River, anche ad anni di distanza, è come partecipare ad una festa campestre in Louisiana, mangiare il tacchino durante il giorno del Ringraziamento o passeggiare lungo le sponde del Mississippi. USA allo stato puro, niente di più niente di meno. E’ un viaggio immaginifico nell’American Music che parte dalle melmose paludi del bayou e, come un treno a vapore, attraversa le desolate città della remota provincia statunitense per arrivare al caldo sole della California. Questi sono i Creedence Clearwater Revival; questo è quello che hanno fatto e scusate se è poco…
Di Gabriele Gambardella.

Revolver dei Beatles: Il sacrario del pop

“Revolver”- Parlophone-1966

Da bambino chiesi a mio padre (beatlesiano ortodosso e presente all’epoca dei fatti): “Papà qual è il disco più bello dei Beatles?”

Lui, senza pensarci un momento, rispose: “Revolver”

Io, li per li, non dissi niente.

Ma come Revolver? E Sgt. Pepper allora? Il White Album? Abbey Road?

A più di vent’anni da quella domanda e dopo innumerevoli ascolti dell’intera produzione beatlesiana, posso dire che aveva ragione. Il disco più bello dei Beatles è Revolver. Meno unitario del precedente Rubber Soul ma più caleidoscopico e sperimentale, quest’album rappresenta il momento esatto in cui i Fab Four prendono la volgare canzonetta e la innalzano ad opera d’arte.

Nel 1965 al gruppo accadono due cose fondamentali: cessano di esibirsi dal vivo ed esplorano tutte potenzialità che offre lo studio di registrazione. Ormai lontani dall’isteria dei fans e dallo stress delle tournèe, i Beatles si chiudono negli studi EMI di Londra e danno sfogo a tutta la loro creatività: il classicismo di Paul McCartney, il misticismo di George Harrison, la psichedelia di John Lennon, l’ironia di Ringo Starr si amalgamano in un coacervo incredibile di stili, tendenze e musicalità diverse. Il risultato è sorprendente.

«Dal giorno in cui uscì, Revolver cambiò per tutti il modo in cui si facevano i dischi. Nessuno aveva mai udito niente di simile.» (Geoff Emerick-tecnico del suono)

 

The Bealtles-1965

L’arguta critica sociale di Taxman, la dolente bellezza di Eleanor Rigby, gli umori acidi di She Said She Said, l’allegria di Yellow Submarine, la sperimentazione pura di Tomorrow Never Knows, elevano Revolver al rango di capolavoro assoluto e manifesto di un’intera generazione. Perfino la copertina (straordinario collage creato dall’amico di vecchia data Klaus Voorman) cessa di essere una mera fotografia per diventare parte integrante del disco. Arte visiva e musicale, oriente ed occidente, pop e musica colta, amore e filosofia, i Beatles alzano il tiro, spingendo “oltre” la loro ambizione e la loro consapevolezza. Ormai fanno terribilmente sul serio. Si sbarazzano dello spettro di Bob Dylan (che aveva caratterizzato gli album precedenti) e dell’etichetta di “phenomenal pop combo” per raggiungere lo status di guru della musica moderna.

Aiutati anche da un crescente consumo di LSD e da possibilità economiche pressoché illimitate, i Favolosi Quattro recepiscono ogni sentore di mutamento, ogni minima vibrazione socio/musicale, ogni tensione rivoluzionaria e li trasformano in splendide melodie realizzando idee assolutamente inconcepibili fino a quel momento. Riescono nell’impresa di diventare il gruppo più innovativo del mondo e, nello stesso tempo, il più commerciale. Revolver, infatti, raggiunge, nel suo anno di pubblicazione, la vetta delle classifiche sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti ed è, successivamente, inserito ai primi posti in quasi tutte le liste dei migliori album mai pubblicati.

Anche dal punto di vista lirico e poetico quest’album rappresenta un punto di svolta. Sono lontane le semplici parole d’amore di Michelle, She Loves You, Love Me Do e You Won’t See Me. Qui trovano spazio la solitudine e la tristezza, la satira politica e la filastrocca, le droghe ed il “Libro Tibetano Dei Morti”. L’impatto sul mondo musicale è enorme. Un terremoto vero e proprio. Le tecniche di registrazione, i testi criptici ed ermetici, i nastri suonati al contrario, il sitar e la tambla, gli archi e gli ottoni, i rumori di fondo, tutto, ma proprio tutto, viene studiato e ripreso da gruppi contemporanei e successivi (inclusi gli stessi Beatles). Pink Floyd, Who, Byrds ma anche U2 e Chemical Brothers hanno fatto un punto d’onore riprendere e cercare di superare Revolver. Si tratta di un disco rivoluzionario sotto ogni punto di vista. Lontano eppure attualissimo tanto da continuare a lasciare tracce visibilissime a quasi cinquant’anni dalla prima pubblicazione. Dopo Revolver, nulla sarà più come prima. La via era stata indicata ed il solco tracciato. Il mondo era ormai pronto per Sgt. Pepper.

 

 

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