Floriana Porta: “Dove si posa il bianco”

Dove si posa il bianco

Contemplazione, silenzio, interiorità; parole, queste, dalle quali spesso fuggiamo, ne abbiamo quasi timore e la nostra vita è troppo frenetica per fermarci a riflettere, a metterci in contatto con la parte più profonda di noi stessi, magari attraverso la lettura di una raccolta di poesie. Già, la poesia, quel tempio della parola nel quale si attinge ad aspetti della vita sconosciuti alla maggior parte della gente, e capaci di suscitare emozioni. Una forma di comunicazione emotiva ed evocativa dunque che presuppone una forte sensibilità da parte di chi scrive versi, ma purtroppo bisogna ammettere che chi scrive, spesso, considera la poesia un accessorio nell’epoca della comunicazione di massa; scrivono tutti ormai, magari per scaricare lo stress, per narcisismo, per passatempo, rifiutando ogni aulicità, considerata fuori moda e gli editori che pubblicano hanno ovviamente bisogno di vendere su larga scala, come accade per qualsiasi merce, cultura compresa, e la poesia per la sua natura stessa, più cerebrale e riflessiva, mal si presta a diventare prodotto di consumo, per le masse.

Ma in questo triste e desolante scenario poetico, che latita di talenti, si muove delicatamente un’autrice emergente che non teme di esprimere le proprie percezioni, la propria visione delle cose, restituendo alla poesia la sua aura originaria, il suo scintillio, la sua dignità. La torinese autrice, fotografa e pittrice Floriana Porta, classe 1975 ha già avuto diversi riconoscimenti in premi letterari nazionali, pubblicando due sillogi di poesie e haiku: Verso altri cieli (Digital Book -Edizioni REI, 2013), e Quando sorride il mare (AG Book Publishing, 2014). Dal 2011 è membro della giuria del prestigioso Concorso Internazionale di Poesia Haiku promosso dall’Associazione culturale Cascina Macondo.

L’ultima raccolta di poesie dell’autrice torinese si intitola Dove si posa il bianco (Sillabe di Sale Editore, Novembre 2014), un inno alle immagini e alle parole stesse che compongono le poesie che ci fanno (ri)scoprire il silenzio appartenente a luoghi senza tempo; un inno alla contemplazione e all’interiorità, aspetti che Floriana Porta tocca attraverso la dimensione surrealista ed ermetica per cogliere l’essenzialità delle cose:

Sovrapporsi,
immaginando parole
perdendoci nel nulla.
Respirandone l’odore
e il piacere taciturno
fuori campo, abbracciandosi
a perpendicolare sul vento
e più oltre.

Come si arriva a questo oltre? Perdendosi nel silenzio dopo aver immaginato parole.

E ancora:

È soltanto
l’inizio del viaggio.
Una calma profonda,
più in alto del cielo,
dell’aria, del buio inabitato.
Là dove la tua pelle trema.
Là dove l’anima
ha la voce del vento
e del mare.

La ricerca è un viaggio dell’anima, un viaggio metafisico che coinvolge le nostre paure, poiché tocca anche le tenebre, tale passaggio è necessario per approdare ad una dimensione spirituale ed eterna; ed ecco che la poesia, con le sue illuminazioni e i suoi attimi, riassume il suo “scintillio” originario e diviene “il punto culminante della fusione tra l’esprimibile e l’inesprimibile, tra la realtà e l’irrealtà, tra spiritualità e materialità. Oltre il razionale, oltre la comune percezione dello spazio e del tempo”.

Le liriche di Floriana Porta tendono ad una sorta di astrattismo poetico, scandite da un ritmo di chiusura e apertura; sono versi ermetici, da decifrare, ma che senza dubbio ci parlano di misticismo e di coscienza e non è un caso infatti che la poetessa abbia dedicato una poesia al “gesuita proibito,” il teologo, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin e una a Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi.

Soffermandoci sul misticismo, è importante sottolineare come il linguaggio adottato dall’autrice sia spesso di un’ineffabilità assoluta, come dimostrano la seguenti poesie:

Il proprio io s’offre
a chi raggiunge a ritroso
il centro d’ogni luogo.
A chi è proteso
a tastare nel buio
scie luminose.
A chi nell’orma del fango
si fa sentiero
da luogo a luogo.

 

Ricordati che
il dissetare
è un risalire
obliquo
in un qualsiasi luogo
come in nessun luogo.
Un resistere,
attendendo
di ritornare fossili.

 

Cammino
sul bordo delle origini
fino agli occhi
sigillati
che mi sognano.
Nessun punto
alla fine del viaggio.

Sull’illimite screziato

un mondo vuoto, sconfinato,

nasconde le albe e le notti
di pensieri inconsci,
in sospensione sul nulla
nelle terre dell’esilio.
Cicli cosmici
sviscerano parole
e ogni mia cellula
disobbedisce agli dèi.

Se quindi da un lato è impossibile esprimere ciò l’anima cattura, d’altro la nostra natura terrena non può fare a meno di cercare di spiegare e descrivere con parole ciò che prova. A tal proposito ci è utile l’affermazione di Massimo Baldini secondo il quale “il linguaggio della poesia, come quello della mistica, è un linguaggio intessuto di paradossi. La paradossia risveglia l’attenzione della mente dalla letargia delle comode abitudini linguistiche, crea stupore, sorpresa, pone in nuova luce ciò che il linguaggio ordinario (o quello teologico) avevano opacizzato”.

Non è dunque possibile cercare di esprimere l’ineffabile e l’eternità dello spazio, che scompare nel bianco del foglio di carta, se non attraverso le rivelazioni dei quattro elementi, terra, aria, acqua, fuoco; in questo senso la poetessa piemontese scava nel pensiero, nel “logos”, immergendolo tra immagini e simboli, per descrivere la realtà, per svelare l’occulto. Ed è proprio il bianco che getta luce su questa profonda indagine, come si evince da una poesia stessa che porta il titolo Il bianco e il suo spazio:

Il bianco

racchiude in sé
le cicatrici dell’isolamento,
tra il passeggero
e il permanente,
in questo spazio
di materia specchiante
dai mille sguardi.
Nelle sue cavità:
il continuo sovrapporsi
di qualcosa di intimo.

 

Fossili, lacrime, universi ingarbugliati, memoria, anima, fantasia: questi sono gli elementi che abitano tra i versi liberi di questa talentuosa autrice che sperimenta romanticamente (nel senso letterario del termine) l’infinito e il mistero della vita attraverso l’interiorità:

Tu sei il primo sole
di ruggiti e sguardi
al loro primo viaggio.
Tu sei il corpo e il sogno
appena ritmato da ritrovare.
Tu sei lo sguardo
di fiabe e leggende
oltre i confini.
Tu sei il temporale
nel suo respirare
la vera pioggia.
Tu sei il mare e l’aria
nonostante lo svanire
per mano del vento.

Il falco di Maggio, di Elisabetta Bricca

“La Cailleach era lì, uno sguardo penetrante negli occhi […]. <<Non puoi fare molto, Gwalch, ma farai tutto ciò che è in tuo potere per questa terra, Dov’è la colpa, strega, dove?>> Il viso dell’anziana donna si fece severo. <<Non è mai colpa della madre terra, ma solo degli uomini>> Bruce la fissò negli occhi senza alcun timore.                                                                                        <<Perché continui a chiamarmi Gwalch? Mia madre mi chiamava così…Perché come il falco puoi volare alto, verso il sole… devi solo spiegare le ali e trovare la forza per farlo>>.

 

Il falco di Maggio di Elisabetta Bricca è l’ultimo romanzo storico (genere poco sfruttato in Italia) della scrittrice italiana autrice di romanzi come D’amore e di ventura, pubblicato da Mondadori nel 2010, e del racconto Parigi… encore arrivato tra i finalisti del concorso letterario, indetto da Il Messaggero, Donne che fanno testo.

Il falco di Maggio, edito da La Mela Avvelenata nel 2014, tratta la storia di Bruce Cavedish, marchese irlandese dal passato difficile, che nel 1846 eredita dal nonno fortuna e titolo nobiliare e si trasferisce nella residenza di Gwalchmai, dove aveva vissuto da bambino. Il suo comportamento fuori dagli schemi lo rende inviso alla nobiltà del luogo e lo fa avvicinare alla popolazione delle sue terre, colpite da una grave carestia. Bruce non è il classico gentiluomo snob abituato ai vezzi e alle comodità; ha ricevuto una severa educazione da parte del nonno materno, che preferiva i colpi di frusta ai rimproveri verbali, e ha perso i genitori da piccolo, evento che lo ha segnato e allontanato da tutti. Con la maggiore età arriva l’indipendenza: riesce finalmente a scappare dal giogo che lo teneva costretto a subire le decisioni del nonno, Lord Hamilton. Scappa dall’Irlanda e si trasferisce in Inghilterra dai parenti del padre. Ritorna in Irlanda soltanto per ereditare il titolo. Inizialmente la gente del luogo lo vede come l’ennesimo tiranno sfruttatore venuto a togliere loro quel poco che possiedono, ma ben presto si accorgeranno tutti del proprio errore di giudizio. Lord Cavedish, infatti, prova un grande attaccamento alla sua terra e lo dimostrerà diventando membro dell’alleanza feniana, in lotta per l’indipendenza dell’Irlanda dal giogo inglese.

La storyline di Bruce Cavedish si snoda di pari passo con quella di Lord Flannagan, che tenta di far incolpare Bruce di un complotto ordito ai danni della regina di cui in realtà è lui stesso il responsabile, in accordo con il viceré. L’odio nei confronti del marchese nasce a causa dell’opinione discordante sul futuro dell’Irlanda libera: Lord Flannagan desidera razziare i raccolti e lasciare morire di fame gli irlandesi, Lord Cavedish sogna per il suo popolo un futuro diverso. È così che la guaritrice del villaggio lo ribattezzerà Gwalch, falco, per portare nuova luce al suo Paese. Insieme al riscatto per Gwalchmai, Bruce riuscirà anche a conquistare il cuore della ribelle Fionnula O’Halloran, un personaggio lontano dallo stereotipo della bellezza femminile, povera e con le mani annerite dal lavoro nei campi.

Elisabetta Bricca porta su di sé un fardello pesante da sorreggere; cerca infatti di inserirsi in quel filone di romanzi stranieri che vede tra le sue collane nomi di autrici come Kathleen E. Woodiwiss, Lisa Kleypas e Mary Balogh, tradotte in tutto il mondo. Il risultato è un romanzo avvincente ma consumato troppo in fretta, e ancor più velocemente concluso. I protagonisti sono ben delineati, ma i personaggi secondari sono poco più che accennati e vengono lasciati irrisolti gran parte degli interrogativi posti. Ad esempio Lord Hamilton e la sua follia: da cosa nasce? Di quale disturbo soffriva il marchese e cosa lo ha indotto ad essere così violento con il nipote? Lord Flannagan e le sue ambizioni politiche, a cosa è dovuto un tale risentimento nei confronti di Lord Cavedish? I personaggi negativi, con la loro parte di oscurità, sono una grande risorsa per ogni autore e andrebbero sviluppati al pari dei protagonisti, perché limitarsi a bollarli come ‘cattivi’ è riduttivo e non riesce a dare un giusto prospetto sull’intera storia. La scrittrice romana subisce evidentemente il fascino della cultura celtica, già riportata in auge nella letteratura di stampo storico dalla saga di libri di Diana Gabaldon de La straniera, e la tratta con dovizia di particolari, soprattutto soffermandosi sulla condizione della donna a quel tempo,  sulla povertà della popolazione, costretta sotto il giogo inglese, e sulla fierezza degli irlandesi, che discendono da una stirpe di guerrieri. Tale concetto è ben spiegato nel seguente passo del romanzo:

“Era qualcosa che aveva nel sangue, l’eredità di sua madre che tanto amava quella natura indomita, il ruggito dell’Atlantico, il vento che sussurrava tra i fiori vermigli dell’erica. Si sentiva libera, diceva lei, lì su quel picco a ridosso dell’Atlantico, mentre lo teneva, ancora bambino, sulle ginocchia e gli tempestava il viso di baci. ‘È il sangue dei Celti’, ripeteva accarezzandogli i capelli. ‘Forse, un giorno, dovrai lasciare il Donegall ma l’eco degli antichi, dei guerrieri, dei bardi ti riporterà alla terra cui appartieni”.

 

 

Gaetano Profenna: ‘Senza maschera’, un complesso viaggio emotivo

Gaetano Profenna nasce a Napoli il 30 gennaio 1966. È responsabile nel settore della ristorazione presso un noto ristorante al Vomero, Napoli. La sua prima raccolta Senza maschera, pubblicata per il gruppo Albratros il filo, è un complesso viaggio emotivo tra le pieghe dolorose del suo cuore. Egli utilizza la poesia come arma contro le ingiustizie sociali, il dolore e la miseria umana. I suoi versi richiamano un mondo musicato tipicamente napoletano e rispettano a pieno le tradizioni e il folklore di un popolo a cui restituisce dignità.

La raccolta non rispetta l’ordine cronologico di composizione: si apre con una poesia del ’98 A’ maschera, che si pone come chiave di lettura di tutta la raccolta, attraversando un arco temporale che va dal 1993 al 2013. La presenza della maschera nel titolo crea un gioco di doppi e di rimandi costanti con la prima poesia della raccolta, manifesto della sua poetica. Con un forte gioco di contrapposizione legato alla presenza e all’assenza della maschera, Profenna (mutuando l’altisonante denominazione da Salvatore Bova) vuole denudarsi, liberarsi dalle oppressioni dei ricordi dolorosi, dalle ingiustizie della vita, cercando una soluzione nelle profetiche e divine risposte dell’amore.

L’autore alterna versi in italiano e napoletano, dimostrando di onorare la terra da cui proviene. È proprio l’utilizzo della lingua napoletana che dà il via libera, fa scrivere senza filtro (come direbbe l’autore senza maschera), ma solo con la voce dell’anima. Un’eco che non si dissolve nel tempo moderno malato di distrazione, ma resterà per sempre padrone dei suoi ricordi e dell’amore. Di questo si parla, dell’amore come motrice dirompente che spezza gli inganni del nostro tempo.

Il leitmotiv amoroso crea un filo rosso che in punta di piedi passa nella cruna dell’ago, ridestando i ricordi per una madre ormai scomparsa. Il dolore è una costante che sfiora ora con violenza le strade di Napoli con la poesia Napule:

Napule cara… napule mia/ che tristezze pè stì vvie/ Si turnasse Masaniello, e guardasse stà città/ addò mettess’e mmane po’ mmale ca cè stà? […] Napule cara… Napule mia… Adderizzele stì vvie […] Napule cara… Napule bella… Turnammo à cantà à tarantella!

Ora si ricongiunge al ricordo di una madre addolorata, per un figlio che invoca il suo perdono:

Ho visto quello che ogni uomo/ non vorrebbe mai vedere/ ho visto piangere una madre […] piangi ancora dolce madre ma/ Perdona chi ha colpito/ perché tu fosti perdonata/ Da chi al silenzio e al dolore/ La morte ha preferito! (Da Dolce madre)

Profenna non mette in scena solo esperienze personali, ma è in grado di oggettivarle, creando un collegamento tra testi con rimandi spesso molto forti. Da Madre natura leggiamo:

Nun à facimme murì, essa nun cè hà fatto/ niente, anzi… ce ha dat’à vita, e nun è poco.

Dolce madre e Madre natura sono indiscutibilmente collegate dalla volontà di esprimere, attraverso i dolorosi ricordi, l’universalizzazione del concetto madre ed elevarla a una visione eterea (perché impressa nella memoria) e ultraterrena, ovvero cristallizzata in un tempo eterno, ma che sia anche emblema dell’universalizzazione del dolore.

Intervista a Dorian Dyler, autore emergente

Dorian Dyler è un poeta emergente, la cui raccolta Stelle cadenti, spiazza per verità e durezza, come colpisce la sua definizione di poesia: “La poesia è un mare di sangue dentro a una goccia di verità” e la consapevolezza che i poeti passano ma i versi rimangono. Un giovane autore che si distingue per profondità ed umiltà tra chi presuntuosamente e azzardatamente si definisce un talento emergente nel panorama letterario italiano.

 

 

Quando hai iniziato a scrivere poesie?

Quando tutto cominciò ero solo un bambino di sei anni; allora non potevo rendermi conto;ricordo ancora quei giorni, i miei cartoni animati preferiti come Banner lo scoiattolo, Conan, Mazinga e poi qualche poesia; scrivevo e nascondevo tutto, ancora oggi mi capita di trovare delle poesie nei quaderni delle scuole elementari, tanti sono andati persi, altri no; da allora non ho mai smesso

 

Cos’è per te “poesia”?

La poesia è un mare di sangue dentro a una goccia di verità. I poeti passano, i versi rimangono; questo mondo è stracolmo di poesia, di vera poesia; è nei diari dei ragazzi che ancora vanno a  scuola, è nelle scritte sui muri dei paesi di provincia,è nelle lettere che ognuno di noi scrive ma poi va’ a finire che non le spedisce mai, è negli occhi di tutti coloro che temono di tenerli aperti a lungo perché hanno paura di ciò che potrebbero riconoscere. Credo che dinanzi a una pagina bianca siamo tutti uguali; quando abbassi gli occhi e prendi in mano una penna  non ci sono più barriere , né ricchi né poveri, né fortunati o sfortunati;conta solo quello che scrivi.

 

Dalla finanza alla poesia, un bel salto. Ci vuole molto coraggio?

Non so  se si tratti di coraggio o chissà cos’altro: io ho sempre fatto quello che ho voluto, penso che le regole siano per i matematici, per chi risolve equazioni e per chi lavora alla NASA; per chi come me non può fare a meno di tenere una mano in tasca e l’altra sul cuore…beh..mi rendo conto della fortuna che ho ad essere ancora vivo. Credo che la vita sia fatta di stanze, quando né lasci una devi entrare in un’altra; la stanza della finanza è chiusa, nessun rimpianto.

 Con quali poeti senti di avere delle affinità?

Di poeti ne ho letti ( non so se troppo o troppo poco) ma ho cercato di non permettere a nessuno di entrarmi dentro; se lo avessi fatto avrei perso i miei versi. Leggo solo chi purtroppo non è più a questo mondo, chi è già morto da un pezzo. I poeti moderni non mi interessano e sinceramente nemmeno li conosco; a dirla tutta non sò nemmeno quali siano i loro nomi.

 

Chi si cela dietro lo pseudonimo Dorian Dyler?

Sono soltanto un ragazzo che fa quello che può; tutto qui. Per anni ho provato un inaudito senso di inadeguatezza nei confronti del mondo, celare ciò che scrivevo mi ha messo al riparo ma infondo ormai non conta più di tanto: un uomo è il suo carattere. Io sono quello che sono, nel bene e nel male. Non ho nulla da insegnare, io non scrivo per chi legge poesie ma per chi non lo ha mai fatto o ha smesso di farlo. Non faccio parte del giro, non partecipo a concorsi letterari, non salgo in cattedra e l’unico piedistallo su cui stò sono le mie scarpe.

 

 La poesia ha ancora un valore oggi?

La poesia non è una ricchezza nelle mani dei cosiddetti “saggi” che se la tirano solo perché  sanno citare questo o quel poeta, o perché imperversano in qualche salotto televisivo, o perché  hanno vinto un concorso ; la poesia  sta nella cassaforte del cuore di ogni essere umano, la poesia è nelle scritte sui muri dei ragazzi, nelle loro ribellioni, nei loro sogni e nelle loro speranze.La poesia non è di chi dice di essere un poeta ma è di tutti coloro che non sanno nemmeno di esserlo.

 

Nelle tue poesie si avverte un’amara presa di coscienza della nostra contemporaneità e al contempo un desiderio di rinascita…

La verità è che io scrivo senza starci a pensare; è un flusso continuo che magari non ha alcun valore, ma cosi è. Scrivo e poi nemmeno rileggo. Far entrare la ragione nella stanza del cuore significherebbe solo creare un gran casino! Insomma come si potrebbe arrivare al cuore (che non ha regole ) scrivendo poesie  che rispettano certe regole? Mi sembra un controsenso..

 

Il poeta è un uomo che soffre più degli altri?

Mentirei se non dicessi che fa male ma chi è che quando si mette a nudo non si sente in bilico fra questo e l’altro mondo? A questo mondo se vivi con il cuore in mano va’ a finire che prima o poi il cuore ti cade per terra; ok fà male…ma è l’unico modo che conosco per non sporcare la coscienza e chissà….magari salvarsi l’anima.

Alessandro Falzani: “Lorian, l’alleanza dei caduti”

“La neve fatica ad imbiancare le vaste pianure di Roxville, nulla pare essere cambiato, solo qualche piccola casa in più. I fiumi dei camini avvolgono il cielo grigio e i pavimenti lastricati della cittadina sono coperti da un manto soffice e tenue, le impronte delle scarpe creano solchi a terra che subito la neve ricopre, l’aria è gelida e per le strade le persone sono difficili da riconoscere, coperte da molti manti e cappelli”.

Le poche righe, estratte da pagina 52 del romanzo Lorian, l’alleanza dei caduti, sono sufficienti per apprezzare le doti del giovane scrittore Alessandro Falzani, autore di un insolito genere fantasy, quasi un nuovo stile in cui i personaggi sono noti, ma hanno sfumature originali ed imprevedibili, sviluppati quindi in un modo inatteso e sorprendente.
Lorian è il suo romanzo d’esordio, storia epica ed avvincente e di grande impatto in cui il protagonista, Lorian appunto, tra mille peripezie arriva a trascendere la propria condizione di uomo per salvare il mondo e l’intero universo.

La trama, abbastanza scontata, segue il filone catastrofista: la peggiore delle minacce incombe sulla terra, ma non solo: l’intero universo, il paradiso e l’inferno sono prossimi a scomparire. Non ci sono speranze, addirittura Dio stesso è succube di tale minaccia, ad essa è in realtà profondamente legato, la conosce bene e sa che nulla, nemmeno il suo potere, può fermarla. Forse, l’unico barlume di speranza si nasconde nel più disperato tentativo: Dio si rivolge alla razza umana, ai suoi figli e tra questi uno soltanto è in grado di sentirlo e di rispondere alla sua chiamata: Lorian. Corre l’anno 1812, l’anno che vedrà un umano affrontare ostacoli indescrivibili e ricevere sostegno e aiuto da forze insperate, nel tentativo di diventare l’unica speranza di salvezza per tutte le razze e per l’universo intero. Lorian sarà privato di qualsiasi affetto, solo morte e tormento lo seguiranno per tutta la vita, perderà ogni cosa e desidererà ardentemente la morte; ma quando anch’essa gli verrà negata, comprenderà che dietro vi è un disegno immensamente più grande.

Ricordiamo inoltre l’altro romanzo di Alessandro Falzani, Glenvion, la matrice che ha come protagonista Patrich Martens. Ma quale oscuro segreto custodisce la sua memoria? La misteriosa morte del padre, quell’emblema che alla mente torna, l’incontro casuale con un sacerdote, sul petto di quest’ultimo uno strano emblema. Due fattori che destano Patrick Martens da un torpore interno e le notti insonni e gli incubi ricorrenti lo riconducono sempre e solo a quel simbolo: cosa significa e perché lo crede importante? In lite con la madre per avergli nascosto particolari del suo sofferto passato, e deciso a chiarire i suoi dubbi, Patrick parte per il Belgio, diretto alla sua città natale e qui la sua incredibile avventura ha inizio. Uomini all’apparenza normali lo seguono e lo bramano con insistenza, attentando alla sua vita senza che lui ne sappia il motivo. Altri lo seguono nell’ombra, lo hanno sempre fatto e lo condurranno ad una realtà per Patrick impossibile da accettare: riportare alla luce un’antica leggenda e darle vita, trovare la matrice, la chiave di un potere oscuro ma allo stesso tempo essenziale, per lui e per il suo antico ordine. Patrick scoprirà luoghi nascosti ai più, da secoli celati agli occhi più attenti, ma andrà ben oltre quello che i suoi custodi gli offriranno, ben oltre la loro stessa immaginazione, verso un destino che mai avrebbe voluto. Un antico ordine lo segue nell’ombra, lo protegge da una minaccia di cui è egli stesso, a sua insaputa, la causa. Questi cercheranno di salvarlo e condurlo al suo destino: una realtà incredibile, una verità celata da secoli che a pochissimi eletti è concessa e di cui egli è l’ultimo custode.

Le storie raccontate da Alessandro Falzani mostrano situazioni complesse e misteri da svelare, elementi che, sebbene siano trattati frequentemente, catturano facilmente l’attenzione del lettore. Una strada facile, troppo battuta da scrittori emergenti? Può darsi, ma vale sempre l’assunto “Non conta cosa ma il come” e il romanzo di Falzani da questo punto di vista è una storia avvincente che promette ottimi spunti di riflessione intorno a tematiche come la predestinazione e i concetti di bene e di male.

“Merce e follia”, incontro con l’autore Dario Piccirilli

Un nuovo romanzo fantascientifico, a dicembre nelle librerie italiane ed online. Si tratta di  Merce e follia di Dario Piccirilli, ambientato nella città de l’Aquila, questa volta destinato ai giovanissimi che amano del tipo psicologico, che non trascura di mettere in guardia il lettore con colpi di scena, suspense, e sorprese continue. E che tira in ballo una prolifica mescolanza di generi (quali fantascienza-psicologia-horror-thriller) che si amalgamano felicemente. Se siete under 20 e volete risvegliare l’energia vertiginosa dell’adrenalina che vi accende ogni qualvolta che guardate un film di Dario Argento, se desiderate viaggiare in un ‘trip’ cerebrale, alla scoperta dei recessi della mente umana, accomodatevi; il libro fa al caso vostro.

 

Le fonti di ispirazione? Ogni scrittore è anche un famelico lettore, e in questo caso, non possiamo certo dire il contrario.

I miei modelli letterari? Ne cito tre: Philip K. Dick è il mio preferito, in quanto a fantasia e lungimiranza li batte tutti. Jostein Gaarder è un altro grande scrittore, con cui cerco di rapportarmi in termini di stile e semplicità di scrittura. Richard Matheson è un buon riferimento per i romanzi horror, specie per i punti di alta suspense. Infine, in campo cinematografico Christopher Nolan è il mio regista preferito.

Certo, ma come mai il thriller? Perché non un altra tipologia di romanzo?

Non ho molta scelta sul genere da scrivere, penso che ognuno debba scrivere ciò che sente suo e credo avvenga naturalmente. E’ come se il romanzo avesse scelto me e non il contrario. Io sono un tipo introverso, attratto dall’ambiguità, dai tempi lontani dal presente, dai sentimenti e dalla mente umana. Oggi ciò che riuscirei a scrivere sarebbero solo romanzi psicologici o fantascientifici, sono le storie che riescono ad emozionarmi maggiormente.

L’Aquila resta ancora oggi una città travagliata dagli eventi sismici e violentata dalla politica, dalle bugie e che, ancora oggi, porta in alto i segni del post-sisma del 2009. Ma, proviamo a capire com’è nata quest’opera e di che cosa parla realmente. Non si tratta solo di battere i denti per la paura, o le gambe per il gelo aquilano. Scherzi a parte, c’è molto di più dietro il velo dell’horror/thriller. Per esempio, la filosofia orientale, di cui l’autore è fedele, appassionato conoscitore. Il terremoto. La paura, ma anche l’emozione. Sì, perché l’autore ci ha raccontato che per lui, scrivere significa emozionarsi. Non potrebbe mai dedicarsi ad un genere diverso, in quanto la scrittura, è per Dario diretta sì a chi legge ma anche a colui il quale, scrivendo, partorisce mondi, universi paralleli altrimenti inesplorabili ed inconoscibili. Colpisce la sua ansia felice di darsi, manifestare agli altri la propria creatività serbata fino a questo punto, come per donarla in modo dirompente, eccentrico. Ancora, c’è la ricerca, lo scandaglio e la voglia di essere (e non sembrare!) diversi. Ciò implica in un certo senso il coinvolgimento attivo del lettore, che tenta di migliorare e diventare un’altra persona. E’ Dante a vivere le vicende ma sarà il lettore a fare i conti, anche grazie alle tecniche adoperate dal narratore, con i propri dubbi, incertezze, scivolando in una complessa auto-identificazione nel protagonista.

Ma tornando al romanzo, cosa comunica davvero? La perdita della certezze, sabbie mobili per gli scettici, di tutti i sistemi prestabiliti di una vita che, invece, giocherà a dadi con il protagonista. Non vi sveleremo che un assaggio della intricata storia che ha per protagonista lo studente all’Accademia delle Belle arti: Dante. Il giovane si troverà, dopo aver sperimentato la drammaticità del terremoto, a combattere con i suoi dubbi, riflessioni tortuose ad angoscianti sul futuro. In realtà la storia di Dante è doppia; chissà forse la doppiezza coincide con l’intensa ricerca di un alter ego spazio-temporale del narratore. Una persona-personaggio che è uguale, simile, affine a te, come in uno dei mondi possibili raccontati dai filosofi contemporanei. Dall’altra parte del romanzo c’è Evan, taglialegna del XIV secolo. Non si può dire altro.Per capire qualcosa in più sul romanzo, dal titolo direi assai suggestivo e stimolante la fantasia, ci siamo rivolti direttamente a Dario.

Il genere di romanzo che prediligo è il fantascientifico e lo psicologico; adoro la filosofia, per di più quella orientale e non mi dispiace mettere un pizzico di stile horror-thriller. In “Merce e follia” credo di aver inglobato tutti questi tratti, cerco di confondere il lettore e costringerlo a farsi delle domande sulla vera natura di quel che sta leggendo.

 

Ma chi è Dario Piccirilli? Ecco come l’autore parla di se e della gestazione di Merce e follia, dopo la tipica “crisi del foglio bianco”:

Dopo tre anni, dopo il terremoto ed un altro evento che mi ispirò sulla trama, ripresi lo scritto e lo finii dopo un anno, ricordo ancora il giorno, il 25 dicembre 2013, un giorno di grande sollievo! Non ho molta scelta sul genere da scrivere, penso che ognuno debba scrivere ciò che sente suo e credo avvenga naturalmente. E’ come se il romanzo avesse scelto me e non il contrario. Io sono un tipo introverso, attratto dall’ambiguità, dai tempi lontani dal presente, dai sentimenti e dalla mente umana.

Come e quando nasce l’opera? Anche dall’esperienza diretta di Dario, ennesimo testimone della tragedia che si è abbattuta sul territorio aquilano. Fantascientifico ed eclettico, dunque Dario Piccirilli. Così si definisce, specificando di aver scelto un linguaggio semplice e chiaro, senza troppi fronzoli o belletti, perché, spiega, le tematiche trattate sono già troppo capillari, nevralgiche e non necessitano di ulteriori complicazioni. Sono le dinamiche della storia: dell’intreccio ingarbugliatissimo, grazie anche alla messa in atto di flashback e flashforward.

Non ci resta perciò che attendere l’uscita del romanzo, prevista entro il prossimo 20 dicembre, e dare il nostro in bocca al lupo a Dario Piccirilli, augurandogli una lunga carriera.

Merce e follia da dicembre in alcune librerie e online, disponibile anche in e-book.

 

di Donatella Conte 

Stelle cadenti, di Dorian Dyler

Un autore e il suo garbuglio interiore, uno scrittore che decide di parlare senza indugi e con sincerità al lettore; è una graduale ed emozionante confessione quella dell’autore che si firma con lo pseudonimo Dorian Dyler della racconta che porta il suggestivo titolo Stelle cadenti.

Dorian Dyler è un ragazzo che fino a qualche tempo fa si dimenava fra i titoli di Borsa, dopo una laurea, un Master e un lavoro nel mondo della finanza tra Milano, Londra e Ginevra, ma tenendo sempre accesa la passione per la poesia, pur nascondendola. Probabilmente nemmeno lui era pienamente consapevole del proprio talento e della forza della sua passione. Ma con il passare del tempo Dorian Dyler ha provato a convivere con la sua voglia di scrivere, di dare colore e intensità alle proprie emozioni e sentimenti, magari tra uno scambio di valute e l’altro.

Dyler è tornato in Italia e ci sorprende con la sua raccolta (autoprodotta) Stelle cadenti che ha tutta l’aria di essere una confessione, un atto di pacificazione con la scrittura, che potrebbe riassumersi in una massima dello scrittore Sergio Solmi:<<Far poesia vuol dire riconoscersi>>. E il coraggioso Dyler si riconosce, riconosce il suo universo interiore che ha deciso di scandagliare. Non vuole più nascondersi; porta con se angoscia e speranza, mistero e rivelazione, misticismo e dolore.

Il giovane autore riflette anche sul senso di essere poeti, condizione che inevitabilmente implica solitudine e incomprensione da parte degli altri come dimostra la seguente poesia, dal titolo Non va via nessun altro:

Se sapeste cosa si prova …..vi passerebbe la voglia,
si … vi passerebbe la voglia,
di rinascere poeti.
E se qualcuno vi dirà che un poeta può essere felice …
Beh allora … sappiate che mente … sappiate che mente.
Perché sulla pelle del poeta il vento non scivola ma stride,
sugli occhi del poeta il sole non scalda ma brucia.
I poeti tremano ogni volta che depistano in cassaforte un briciolo di speranza,
i poeti piangono ogni volta che l’ultimo avvenire sembra non essere poi cosi lontano,
i poeti muoiono ogni volta che muore qualcuno
ma quando sono loro ad andarsene via ……
non và via nessun altro ………… non và via nessun altro.

Il giovane autore dimostra di averl capito bene il “mestiere” di poeta: il poeta partecipa alla sofferenza di tutto il mondo, percepisce sensazioni che sfuggono a molti, è responsabile nello scegliere le tematiche, la lingua, lo stile, il proprio interlocutore. Dyler osserva con molta  attenzione il mondo esterno per poi esplorare quello interno, facendo emergere quello che è rimasto inespresso sia dentro se stesso che fuori; come dice il grande scrittore Eliot: “E la fine di tutto il nostro esplorare / sarà arrivare dove abbiamo cominciato. / E conoscere quel luogo per la prima volta”.

Le poesie (in versi liberi, caratterizzati da un inconsueto uso dei punti di sospensioni e da ripetizioni) di Dyler creano uno spazio parallelo in cui tutto sembra emanare una luce più intensa:

Con questi occhi sono svanito fra gli scherzi atroci di ogni orizzonte
Con questi occhi sono scivolato fra le braghe calanti di ogni destinazione
Con questi occhi ho visto l’aria abbronzarsi a un metro dal sole
Con questi occhi ho visto stelle abbracciarsi a mezzanotte
Con questi occhi ho visto piogge asciugarsi i capelli
Con questi occhi ho visto fiocchi di neve dipingersi la schiena
Con questi occhi ho visto nuvole rincorrersi in giardino
Con questi occhi ho visto sogni che soffrivano d’insonnia
Con questi occhi ho visto dei domani scriversi di nascosto
Con questi occhi ho visto generazioni future perdersi per strada
Con questi occhi ho visto corpi vivi bruciare all’inferno
Con questi occhi ho visto anime bussare al Paradiso
Con questi occhi ho visto i secoli raccogliere le briciole dalla tavola dell’ eternità
Con questi occhi ho visto la morte arrivare … e poi l’ho vista andare via
Con questi occhi..con questi occhi.

 

La poesia, caratterizzata dalla presenza dell’anafora Con questi occhi, è un invito da parte del poeta verso il lettore a credere davvero che lui ha visto con i propri occhi meraviglie (stelle abbracciarsi a mezzanotte, nuvole rincorrersi in giardino) e  orrori (corpi vivi bruciare all’inferno, generazioni future perdersi per strada) sottolineando la sensibilità e la profondità che appartiene ai poeti.

Dorian Dyler, con il suo stile riconoscibile è certamente un autore da tenere sotto controllo augurandogli di essere una stella non cadente nel panorama letterario italiano.

Gianfranco Di Fiore: “La notte dei petali bianchi”

Segnaliamo ai visitatori di 900letterario il romanzo dello scrittore campano (nato ad Agropoli, ma residente nel  Cilento) Gianfranco Di Fiore, classe 1978: “La notte dei petali bianchi”, una storia d’amore tra una  donna cristiana ed un uomo musulmano ambientata nell’Italia dei nostri giorni.

Gianfranco Di Fiore nasce in una famiglia di musicisti, e da sempre ha avvertito un amore particolare per le storie, più che per la scrittura o i libri di narrativa. Lo affascinavano in particolare le biografie, avvertendo l’esigenza di capire cosa o chi si celava dietro quelle storie. Per prima però è arrivata la celluloide. Ha lavorato diversi anni per il cinema (al Giffoni Film Festival e per alcune società di produzione, sia a Parigi che a Barcellona), e ciò ha influenzato molto il tono e la “concezione” della sua scrittura. Considera la narrativa come una proliferazione di esistenze in grado di generare un universale strumento di comprensione, un filtro attraverso il quale guardare dentro di sè osservando il mondo e le storie che leggeva, e viceversa – mettendo da parte qualsiasi tipo di giudizio moralistico o di natura politica e sociologica. Ciò che  tenta di fare, come afferma lui stesso, è mostrare, scavare in determinati abissi, piccoli o grandi, e provare a piantare in quel buio una piccola luce, così da rendere visibile almeno una parte di ciò che spesso ci sfugge o ci fa paura.

copertina romanzo

 

“Non posso dire di avere veri e propri modelli di riferimento, potrei citare più registi che scrittori – forse – WongKarwai, Inarritu, Godard, Chabrol, Von Trier, Finchero Kaurismaki, più che i soliti grandi nomi della letteratura classica che ho smesso anni fa di leggere”. Ammette anche di avere un rapporto un po’ strano con la letteratura, soprattutto quella italiana, che legge molto poco. Tra isuoi scrittori preferiti figurano: Carver, Richard Ford, Osvaldo Soriano, Olivier Adam, EtgarKeret, AmyHempel, KavinCanty, Richard Yates, Paul Auster, ColumMcCann, JosephineHart, Salinger, John Fante, J. G. Ballard, Guillermo Arriaga, Chuck Palahniuk, Rick Moody, Cormac McCarthy.

Ma torniamo al romanzo, pubblicato da Laurana Editore dal titolo suggestivo che promette di far percepire al lettore atmosfere e sensazioni intense. “La notte dei petali bianchi”è  arrivato in finale ai premi letterari “Rhegium Julii 2012, Opera Prima – Fortunato Seminara” ed “ESOR-DIRE 2012 organizzato dalla Scuola Holden di Baricco e dalla Feltrinelli.

Questa la sinossi: C’è un distretto produttivo, tra Brescia, Chiari e Rovato, fatto solo di fabbriche e capannoni. È il personale inferno di Dante, che di mestiere fa la guardia giurata e gira, notte dopo notte, per verificare che tutto vada per il meglio. Vive insieme a sua madre, una donna che da quando è rimasta sola sembra rinata. Ma rinata male, perché passa il tempo tra creme e sesso trovato via internet. Nella stessa zona vive anche Samira, una giovane musulmana. Ha un padre violento, reso ancora più violento dal fatto di vivere in un posto che sente straniero e ostile: l’Italia. Così quest’uomo sarebbe pronto ad ammazzare sua figlia se soltanto sapesse che ha incontrato Dante, un cristiano, e che si ostina a frequentarlo. Perché Samira è già una donna, e vuole essere una donna libera. Mentre un gruppetto di suoi connazionali sta preparando un attentato miserabile, da poveracci, e Dante finirà per imbattersi anche in loro… “La notte dei petali bianchi” prova a rispondere a una domanda: fa più paura stare da soli o fanno più paura gli altri, i diversi da noi? E lo fa mettendoci a disposizione una lucida visione dell’Italia dei nostri anni e un inedito talento nel raccontarla.

Non si può non essere colpiti anche dalla scelta del nome del protagonista Dante , quasi a voler rappresentare, allegoricamente, la piena italianità che si rapporta con il diverso personificato anche qui da un nome tipicamente orientale. Una storia d’amore contornata, non solo da riferimenti e rimandi letterari (La Divina Commedia”) ma purtroppo anche dalla triste attualità, sulla quale l’autore pone attenzione con acuto realismo, presentando la dramamtica situazione delle donne musulmane che vogliono vivere all’occidentale ma sono osteggiate con violenza dai loro padri-padroni.

“La notte dei petali bianchi”offre molti spunti di riflessione e, considerando i gusti letterari del giovane autore campano,da tenere d’occhio, siamo abbastanza certi che il romanzo meriti di essere letto e apprezzato.

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