Impressionismo e Avanguardie. Capolavori dal Philadelphia Museum of Art a Palazzo Reale di Milano fino al 2 settembre

Quasi fosse l’apertura di un nuovo museo di arte moderna, per l’eccezionale periodo di 180 giorni, il Philadelphia Museum of art si trasferisce fino al 2 settembre a Milano nella magnifica cornice di Palazzo Reale con una selezione di 50 capolavori, un’occasione unica per ammirare opere dei più grandi pittori a cavallo tra Otto e Novecento nel loro periodo di massima espressione artistica in un allestimento studiato per valorizzare ogni singola opera. L’esposizione è promossa e prodotta da Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale e MondoMostreSkira.

Opere di artisti celeberrimi come Pierre Bonnard, Paul Cézanne, Edgar Degas, Edouard Manet, Paul Gauguin, Claude Monet, Vincent van Gogh, Camille Pissarro, Pierre-Auguste Renoir fino alle sperimentazioni di Georges Braque, Vasily Kandinsky, Paul Klee, Henri Matisse, Marc Chagall, Constantin Brancusi, Pablo Picasso, passando per il surrealismo di Salvador Dalí e Joan Mirò. A questi si aggiungono i lavori di tre grandi artiste: Mary Cassatt, Marie Laurencin, Berthe Morisot.

La mostra è curata da Jennifer Thompson e Matthew Affron, curatori del museo americano con la consulenza scientifica di Stefano Zuffi.

Il Philadelphia Museum of Art

Fondata nel 1681, Filadelfia si considerava sempre la prima e la più bella delle città degli Stati Uniti e nell’Ottocento era la più grande città nordamericana, i suoi commercianti facevano fortuna nel commercio, nelle navi a vapore, nelle ferrovie, nelle banche ed abbellirono la città, gareggiando per renderla la capitale culturale dell’America. La prima Fiera mondiale ufficiale negli Stati Uniti fu tenuta proprio a Filadelfia nel 1876 e fu visitata da più di 10 milioni di persone (il 20% della nazione), contribuendo a stimolare i ricchi americani a viaggiare in Europa, dove l’arte era al top nella loro lista della spesa. Ne è nato il Philadelphia Museum of Art, che ha aperto l’anno successivo, e possiede oggi una collezione di oltre 240.000 opere, rappresentative di oltre duemila anni di produzione artistica. Lo sviluppo del museo si deve a Fiske Kimball, direttore per trent’anni dal 1925, che dotò il museo di arredi originali di vari paesi e epoche, convinto di voler offrire ai visitatori un’esperienza vivida della storia di ogni forma d’arte. Un susseguirsi pressoché continuo di donazioni da parte di imprenditori illuminati e appassionati collezionisti ha arricchito negli anni il museo che ora possiede opere d’arte di ogni epoca e tipologia: dalle terrecotte e sculture giapponesi e cinesi a miniature, xilografie e sculture asiatiche, dai dipinti antichi, disegni e stampe italiani a una collezione di armi e armature, da oggetti di argento e porcellana a opere d’arte e design contemporanei, compresa una collezione di fotografia che consta di trentamila stampe in bianco e nero e a colori.

Le collezioni d’arte moderna e impressionista – ci raccontano Jennifer Thompson e Matthew Affron, conservatori del museo e curatori della mostra – sono uno dei fiori all’occhiello del Philadelphia Museum of Art. La loro peculiarità è che sono il risultato di donazioni, non solo di singole opere, ma di intere eccezionali raccolte caratterizzate dalla forte personalità dei collezionisti. Gli americani, ma in particolare gli abitanti di Philadelphia, sono stati tra i primi collezionisti dell’impressionismo, in gran parte grazie all’artista Mary Cassatt che ha a lungo abitato a Parigi e fatto da tramite tra i propri concittadini e i mercanti e gli artisti francesi. L’atmosfera intima e affascinante dei dipinti impressionisti era ideale per decorare le grandi residenze di questi imprenditori, che hanno poi donato le proprie opere al museo. Alexander Cassatt, fratello della pittrice e capo della Pennsylvania Railroad per primo acquistò opere di Manet, Monet, Degas e Pissarro, contagiando altri dirigenti che fecero a gara nell’acquisto di opere d’arte francesi. Frank Graham Thomson, successore di Cassatt, cercò di conoscere Monet, mentre la Cassatt lo portò nella galleria parigina di Paul Durand-Ruel, il più importante mercante d’arte impressionista dell’epoca. Thomson acquistò nel tempo dodici dipinti di Monet e altre opere impressioniste.
I primi dipinti impressionisti – proseguono nel racconto i due curatori americani – entrarono nella collezione del Philadelphia Museum of Art nel 1921, quando il W.P. Wilstach Fund consentì di acquistare dieci opere dagli eredi di Alexander Cassatt. Tra gli altri collezionisti che contribuirono a fare del museo una meta imperdibile per gli appassionati d’impressionismo negli Stati Uniti figura anche Samuel Stockton White III.

Samuel Beckett e il teatro dell’assurdo: ‘Aspettando Godot’ e il bisogno di andare oltre il Tempo

Molte delle esperienze sperimentali e d’avanguardia del Novecento hanno agito soprattutto modificando la scrittura e la struttura letteraria, senza la proposta di particolari aspetti ideologici. Tuttavia altri scrittori, in particolare di teatro, hanno inserito nella loro sperimentazione letteraria un’aperta riflessione filosofica sulla crisi dell’uomo contemporaneo. Tra essi spiccano l’irlandese Samuel Beckett (1906-1989) e il rumeno Eugène Ionesco (1912-1994), autori di quello che viene definito il teatro dell'”assurdo” per l’assoluta assurdità delle situazioni messe in scena, a rappresentare la crisi della vita sociale e l’impossibilità di una vita di relazione fondata sulla comunicazione interpersonale.

Con Aspettando Godot, scritto in francese e non nella propria lingua per poter risultare più distaccato dalla materia sulla quale sta operado, Beckett presenta la lunga attesa del personaggio misterioso di Godot, da parte di due personi comuni, che nel frattempo sviluppano un dialogo privo di senso, come privi di significato sono gli interventi di altri due personaggi, uno dei quali è tenuto alla corda quasi fosse un animale. Godot non arriva, anche se resta aperta la speranza che compaia l’indomani: chi sia,, del resto, non solo nessuno lo sa, ma non si può nemmeno arrivare a interpretarlo con certezza , come afferma lo stesso scrittore interpellato al riguardo.

Beckett e il suo capolavoro Aspettando Godot

La simbologia sottesa al testo teatrale di Beckett resta dunque inespressa e forse ogni lettore e spettatore può introdurre la propria interpretazione. In Aspettando Godot, tuttavia, come negli altri testi di Beckett, da Finale di partita, a Giorni felici e nelle pagine narrative di Molloy, Malone muore, e L’innominabile, usciti negli anni ’50, Beckett esprime il suo più radicale nichilismo dell’esistenza umana. Come i personaggi dei suoi drammi o della sua narrativa, ogi uomo è infatti isolato da tutti gli altri, con i quali non può entrare, per nessuna ragione, in comunicazione.

Al dialogo quindi si sostituisce il monologo, alla parola il silenzio. Se in Atto senza parole, un uomo, solo sulla scena e muto, cerca, invano, di afferrare alcuni oggetti che scendono dall’alto, in Respiro, dramma di 35 secondi aperto da un vagito e chiuso da un rantolo, domina il nulla. Proprio questo ulla compreso nei pochi secondi tra il vagito e il rantolo di Respiro diventa l’emblematico simbolo della vita umana del nichilismo filosofico di Beckett, che radicalizzado in direzione dell’assurdo la scrittura teatrale, ha voluto mettere in scena, attraverso nuove forme di rappresentazione, la crisi dell’uomo nella realtà contemporanea.

Senza dubbio Aspettando Godot è l’opera più conosciuta di Beckett, nonché tra le più rappresentative e di successo del Novecento, una tragicommedia costruita intorno alla condizione dell’attesa, si è detto, ma probabilmente, come ha notato qualche critico, c’è più di una chiave di lettura. In Godot si è cercato di vedere un simbolo: Dio (Godot-God), il destino, la morte, la buona sorte. Dal canto suo, l’autore irlandese ha sempre dichiarato che se avesse saputo chi fosse Godot lo avrebbe scritto nel copione. Ma la grandiosità e la fortuna di Godot sta proprio nella sua astrattezza, il che non vuol dire che ognuno di noi è libero di vedere in Godot quello che meglio crede, ma che l’attesa di Vladimiro ed Estragone è la sintesi di tutte le attese possibili.

L’idea dell’attesa è quella intorno a cui ruota anche l’analisi di Annamaria Cascetta nel suo studio sulla drammaturgia di Beckett:

“Quel che si deve fare è ‘passer le temps’: l’espressione, ripetuta più volte, assume il rilievo di una chiave: passare il tempo, ma anche protendersi oltre il tempo“. E a sostegno elenca una circostanziata serie di riferimenti biblici per poi concludere: “La domanda, forse l’unica domanda che veramente interessa [Beckett], è la possibilità o meno che il Fondamento di senso si manifesti […], che si riveli e incontri gli uomini nella storia: è una domanda alimentata dalla suggestione biblica del Dio che incontra appunto l’uomo nella storia […] Beckett ama nascondere nei giochi di parole […] i sensi più profondi: la Bibbia aiuta a passare il tempo, ma anche ad andare oltre il Tempo”. (SamuelBeckett.it)

La rivoluzione teatrale di Beckett

Con Aspettando Godot, Beckett ha rivoluzionato il teatro contemporaneo, mettendo in burletta il linguaggio teatrale: la sua commistione di registri alti e bassi, alternando citazioni teologiche e turpiloquio, si unisce al mix dei generi, disinnescando quelli che fino a quel tempo erano considerati punti fermi intoccabili (azione, trama, significato), con le sue pause, i suoi silenzi, i suoi ritorni inconcludenti. Beckett ha insomma demolito e ricreato il teatro, compiendo un atto liberatorio.

In Beckett si avvertono echi hegeliani, kafkiani e proustiani, e paradossalmente è ravvisabile un certo stimolo, uno sprone verso noi lettori e spettatori ad essere attivi el percorso della nostra vita, a fare, a muoverci. E in questo, in effetti, c’è ben poco di assurdo, nonostante questo manifesto dell’esistenza sia asfissiante e carico di suspence, con i suoi personaggi apatici e per nulla dinamici.

A tal proposito può essere utile roportare le parole dello stesso Beckett a proposito della sua celebre pièce teatrale, rivolte a Michel Polac nel 1952:

“Mi domandate cosa ne penso del teatro e in particolare di “Aspettando Godot”, del quale mi fate l’onore di pubblicarne alcuni frammenti al “Club d’essai”. Non ho idee sul teatro. Non ne so nulla. Non ci vado mai. E’ legittimo. Quello che forse lo è meno è di scrivere un’opera e, una volta finita, di non avere nemmeno idee su quanto si è scritto. Purtroppo questo è il mio caso. Non è dato a tutti di poter passare dal mondo che si apre sotto la pagina a quello dei profitti e perdite, e ritorno, imperturbabile, come tra il lavoro e il Café del Commercio. Non ne so di più di quest’opera di colui che la legge con attenzione. Non so in quale spirito l’ho scritta. Non so nulla dei personaggi se non ciò che dicono, ciò che fanno e ciò che succede loro. Del loro aspetto ho dovuto indicare quel poco che ho potuto intravedere. La bombetta per esempio. Non so chi sia Godot. Non so neanche, soprattutto, se Godot esiste. E non so se ci credono o meno, i due che lo aspettano. L’entrata in scena degli altri due verso la fine di ognuno degli atti è forse dovuta al bisogno di rompere la monotonia. Tutto quello che ho potuto sapere l’ho mostrato. Non è molto. Ma mi è sufficiente, e di gran lunga. Direi che mi sarei anche accontentato di meno. Quanto a voler trovare a tutto questo un senso più ampio e più elevato, da portarsi via dopo lo spettacolo, con il programma e il gelato, sono incapace di trovarci l’interesse. Ma questo deve essere possibile. Io non ci sono più e non ci sarò mai più. Estragon, Vladimir, Pozzo, Lucky, i loro tempi e il loro spazio, non ho potuto che conoscerli un poco, molto lontano dal bisogno di comprendere. Forse vi devono delle spiegazioni. Che se la vedano loro. Senza di me. Loro ed io siamo pari”.

 

 

 

 

Introduzione alla poesia del Novecento

Non è semplice rispondere alla domanda: “Quando comincia la poesia, specialmente quella italiana, del Novecento?” I critici infatti hanno trovato difficoltà nello stabilire una linea di demarcazione universale. Senza dubbio questo secolo è celebre per la sua indecifrabilità e frammentarietà e si può cercare di comprenderne le caratteristiche poetiche solo dividendolo in vari spezzoni. Per quanto riguarda la poesia italiana  primi segnali di cambiamento, che aprono strada al Novecento, si intravedono ne “I Canti” di Leopardi, con le sue rime sparse, che trasgrediscono il classicismo; secondo alcuni poi è Pascoli, con la raccolta “Myricae” l’iniziatore della poetica del Novecento, lasciandosi alle spalle la tradizione per far emergere, quasi fosse una stupefacente scoperta, la natura, gli animali, le piccole cose, dando loro voce. La metrica risulta più libera, piena di rinvii, parla all’animo del lettore, ma  questo accade perché cambia il ruolo del poeta, se ne ha una concezione diversa.

Non esiste più il poeta guida o il poeta romantico in grado di esprimere sentimenti difficilmente esprimibili per i più, ma il poeta ora è consapevole della crisi che vive, è desolato che non sa che dire se non parole sentimentali vane;  non è un caso che Corazzini si chieda in una sua composizione: “Perchè tu mi dici poeta?” e che Montale affermi che il poeta non è più  portatore di illuminazioni intellettuali e sentimentali (“Non chiederci la parola che squadri l’animo nostro informe…non domandarci la formula che mondi possa aprirti,/sì qualche storta sillaba e secca come un ramo./ Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».

Lo stesso Pascoli nella sua prosa “Il fanciullino” sostiene che il poeta si debba affidare ad uno sguardo infantile per poter liberare la realtà e il mondo dalla sterili abitudini, scoprendo nuovi orizzonti.

Ci si interroga, si riflette sul compito del poeta, si cercano nuove strade da percorrere attraverso avanguardie e sperimentazioni; a tal riguardo , convenzionalmente, si è posto come inizio il 1903 quando ci si ribella alla poetica di D’Annunzio, Carducci e anche Pascoli; fanno tendenza i crepuscolari attraverso il loro movimento, estranei alla cultura accademica e ispirati dal decadentismo europeo. I maggiori esponenti del crepuscolarismo sono Corazzini, Palazzeschi, Gozzano, Govoni che esprimono sentimenti di rassegnazione, malinconia; la poesia di Gozzano  è intrisa di ironia e raffinatezza , si pensi a “Nonna Felicita”considerata il suo capolavoro, dove il ricordo languido di un amore si confonde con la consapevolezza dello scorrere del tempo che rendono l’uomo angosciato. Gozzano inoltre conferisce ad oggetti e cose un certo alone evocativo e simbolico; e i crepuscolari sono tra i primi a sperimentare la poetica delle piccole cose che tanto caratterizzerà gli ermetici, successivamente.

Dimenticato D’Annunzio e la sua mitografia magniloquente e sensuale,si approda ad un tono più dimesso per rappresentare la realtà; e si giunge cosi all’importante esperienza dell’ermetismo, parola che indica chiusura, consapevolezza dello stato di disagio in cui vive l’uomo (“Spesso il male di vivere ho incontrato”dirà Montale in una delle sue poesie). I poeti ermetici sono avulsi dalla retorica, la loro attenzione è rivolta alle cose minimali, Ungaretti, Montale e Quasimodo rifiutano l’ottimismo, optando per l’essenzialità, adottando un linguaggio libero da ogni condizionamento retorico, prediligendo (soprattutto Ungaretti) l’analogia.

Più rarefatte risultano invece le poesie  di Montale, ricche di occasioni, di presenze, di incontri che rafforzano l’attaccamento del poeta verso la vita, pur non avendo meta. Rievoca il passato anche Quasimodo, che gli procura angoscia esistenziale nel presente, avvalendosi di spazi bianchi e di articoli indeterminativi, ma ricercando comunque la pace interiore.

Tutta l’arte (già dalla fine dell’Ottocento) diventa merce che tende ad essere considerata dalla classe borghese come strumento di svago e di distrazione, banalizzandola, conferendole un valore semplicemente ludico. Questo “consente” ad artisti e poeti di perdere il loro prestigio e tendano a vedersi come dei buffoni di corte con il trucco sbavato. I poeti maledetti (Baudelaire, Verlaine, Mallarmè . Rimbaud) si ribellano attraverso  della figura del dandy,  di chi ostenta la propria bellezza, eleganza e raffinatezza snob, avvalendosi della poesia pura. Protestano anche gli Scapigliati, contro il Romanticismo e il provincialismo della cultura risorgimentale; si lasciano affascinare dal disordine, dall’anticonformismo, dal tema della malattia.

Questo il manifesto degli Scapigliati, attivi nell’Italia settentrionale (termine utilizzato per la prima volta da Cletto ):

«In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di individui d’ambo i sessi v’è chi direbbe una certa razza di gente – fra i venti e i trentacinque anni non più; pieni d’ingegno quasi sempre, più avanzati del loro secolo; indipendenti come l’aquila delle Alpi, pronti al bene quanto al male, inquieti, travagliati, turbolenti – i quali – e per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione e il loro stato, vale a dire fra ciò che hanno in testa, e ciò che hanno in tasca, e per una loro maniera eccentrica e disordinata di vivere, e per… mille e mille altre cause e mille altri effetti il cui studio formerà appunto lo scopo e la morale del mio romanzo – meritano di essere classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia civile, come coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte quante le altre. Questa casta o classe – che sarà meglio detto- vero pandemonio del secolo, personificazione della storditaggine e della follia, serbatoio del disordine, dello spirito d’indipendenza e di opposizione agli ordini stabiliti, questa classe, ripeto, che a Milano ha più che altrove una ragione e una scusa di esistere, io, con una bella e pretta parola italiana, l’ho battezzata appunto: la Scapigliatura Milanese».

La nascita della società di massa porta anche allo sviluppo di una piccola borghesia intellettuale che vive  nell’industria culturale. Il bisogno di recuperare ruolo sociale importante si fa sempre più forte e gli artisti lo dimostrano attraverso la pubblicazione di riviste politico-culturali, nate a Firenze, come il Leonardo, La Voce, Lacerba, L’Unità, Il Baretti, La Ronda. Tra le avanguardie più significative spicca l’Espressionismo, i cui temi principali sono la città mostruosa, la civiltà delle macchine viste come caos senza senso, che si esprime attraverso le allucinazioni e le visioni inquietanti. All’interno di questo movimento, si sviluppa il Futurismo fondato da Marinetti nel 1909 che manifesta la necessità  di abolire i musei e le biblioteche,simboli di un passato  da superare, anzi da distruggere, esaltando invece il progresso, la velocità, la violenza, la guerra, la macchina. Marinetti  propone  parole in libertà, senza sintassi, abolizione della punteggiatura, uso dei verbi all’infinito. Sulla stessa lunghezza d’onda si pone anche il Dadaismo, che  rifiuta il moderno, la novità, ma anche la letteratura del passato. Per il Surrealismo invece l’arte deve  esprimere l’inconscio, luogo dove  reale ed immaginario, passato e presente si mescolano; proponendo una scrittura automatica, attraverso libere associazioni mentali.

La poesia europea è segnata dai nomi di Breton, tra i padri del Surrealismo, del futurista   Majakovskij in Russia; in Italia di Sbarbaro, di Rebora, di Campana e il loro senso di sradicamento, a causa del Fascismo  della guerra.

Negli anni trenta vengono a delinearsi  due tipi di letterati: “il letterato-letterato” e “il letterato ideologo”. Il letterato-letterato, sulle orme di Croce, è votato ad una poetica di disimpegno, trasfigurando il dato reale in  simbolo. L’intellettuale ideologo che si oppone al regime, come Gobetti e Gramsci, è messo a tacere . C’è anche molta letteratura, invece che letteratura che sostiene il regime, come Bartolini, Soffici, Rosai collegati al movimento Strapaese e alla rivista il Selvaggio, o  Bontempelli, collegato al movimento Stracittà e alla rivista “900”.

Incomincia in questo modo, con la poesia dell’impegno, la stagione neorealista o di denuncia che trova massima espressione anche nel cinema. Una grande influenza sulla poesia italiana di questo periodo ha la poesia europea rappresentata soprattutto dall’angloamericano Eliot e dal francese Valery; Eliot  con la sua poesia allegorica influisce sicuramente su Montale che renderà la sua poesia, appunto, allegoria a partire dalle seconda raccolta de “Le occasioni” con le sue donne-simbolo.

Nel 1956 nasce la rivista “Officina”, per opera di Pasolini, Leonetti e Roversi, che si propone di opporsi sia al neorealismo che al Novecentismo, ovvero contro la tradizione lirico-simbolico-ermetica , proponendo lo sperimentalismo, forme di scrittura nuove. Esplode in tal senso l’Antologia “I Novissimi” che contiene poesie di Giuliani, Sanguineti, Balestrini. Nel 1963, a Palermo nasce il “Gruppo 63”, movimento di neoavanguardia  di cui fanno parte  illustre personalità: Guglielmi, ,Eco, Lombardi, Arbasino, Sanguineti, Leonetti, e altri.

«Gruppo 63 è una sigla di comodo di cui spiegheremo un po’ più avanti l’origine. Di fatto dietro a questa sigla c’era un movimento spontaneo suscitato da una vivace insofferenza per lo stato allora dominante delle cose letterarie: opere magari anche decorose ma per lo più prive di vitalità […]. Furono l’ultima fiammata del neorealismo in letteratura, fioca eco populista della grande stagione cinematografica dei Rossellini e dei De Sica». (Balestrini, Giuliani)

Mentre  Calvino  invita a non considerare la letteratura come l’unica forma di contestazione possibile , Vittorini sostiene che  il tema industriale deve entrare nelle poesie e nei romanzi. Tuttavia intorno al ‘74-‘75 la Neoavanguardia è  già conclusa, sostituita  dall’irrazionalismo nietzschiano/heidggeriano dei filosofi Vattimo e Cacciari. Il 1984 rappresenta un anno importante: a Palermo si svolge  un dibattito, titolato “Il senso della letteratura”dove affiora una tendenza, anche se minoritaria, espressionista e neoallegorica.

Molta fortuna hanno riscosso riscuotono anche i poeti stranieri in Italia come Neruda, Kahlil, Garcia Lorca, Pessoa, Prevert, Allan Poe, Thomas, Stevenson, Dickinson, Renard, Lee Masters, Eliot, Kerouac, Sarandaris, Apollinaire, e tanti altri.

 

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