Leggere il dissacratore della filosofia contemporanea Davila per abbattere la politica del buonismo

Siete stufi di buoni sentimenti ed empatia? Non sopportate più i vizi, le miserie e le violenze degli esseri umani? Dubitate del liberalismo e pensate che la democrazia sia il regno della mediocrità? Bene, allora le Notas di Nicolás Gómez Dávila faranno al caso vostro: un monumentale viaggio, quello proposto da GOG edizioni, con uno tra i più grandi dissacratori della filosofia contemporanea.

Sfogliare le pagine delle novità editoriali o delle classifiche dei libri più venduti, per i frequentatori compulsivi di librerie, è una piccolo, settimanale, personale dramma. Da coloro che pretendono di essere baluardo di resistenza al dilagare di ignoranza e intolleranza non si ricevono che figurazioni desertiche in cui di oasi fatte di pensiero e libertà non v’è che il miraggio. Se sia colpa degli editori o dei lettori poco importa. Nelle cattedrali di paglia costruite su pagine, libri, autori, trovare spilli pungenti è impresa che richiede due considerazioni.

La prima, come insegna il Cioran dei Sillogismi dell’amarezza, è che il pubblico si getta perlopiù sugli autori cosiddetti “umani”, quelli da cui non ha nulla da temere, rimasti a metà strada, che non mettono in crisi con l’atrocità del dubbio credenze e certezze. La seconda, di André Gide, è che con i buoni sentimenti si fa cattiva letteratura. Si finisce travolti dall’orgia del banale. Nella superficie arida dell’editoria si trovano tuttavia le occasioni per ribaltare il tavolo. È quanto ha fatto GOG Edizioni pubblicando nella sua collana di classici le Notas (2019,) del reazionario Nicolás Gómez Dávila, con un saggio introduttivo del compianto Franco Volpi.

Introdurre il caos nell’ordine è la parola d’ordine che Adorno, in tempi ordinati, consegnò all’arte. Obiettivo dei reazionari è introdurre ordine nei tempi caotici che viviamo. Re dei paradossi, Dávila lo fa nella forma più disordinata, l’aforisma, il fendente di spada che in poche righe colpisce l’obiettivo. Il filosofo colombiano sgrana il rosario delle proprie riflessioni, inanellando aforismi che non sono mai soluzioni ideologiche, ma sempre occasioni di pensiero. Compito dell’aforista è stare in equilibrio tra letteratura e filosofia, e Dávila è maestro in quest’arte: come il saggista distilla il senso dell’essere dalle parole, come il poeta distilla parole dal senso dell’essere.

Il senso profondo del pensiero reazionario abita nella convinzione che l’uomo, con i suoi vizi, le sue violenze, le sue miserie, sia un problema. I maestri del pensiero reazionario, da de Maistre a de Bonald, grattano l’uomo e trovano il male. Lo spagnolo Donoso Cortés, tanto amato da Carl Schmitt, si spinge fino a dire che «il rettile che il mio piede schiaccia sarebbe meno spregevole di un uomo». Il senso profondo dell’essere reazionario di Nicolás Gómez Dávila, invece, è nella considerazione che tale problema, l’uomo, non ha alcuna soluzione umana. «La nostra vita» scrive Dávila «è un esperimento destinato al disastro». Non c’è salvezza all’interno dei prodotti della cultura umana: non ve n’è nell’arte, né nella filosofia, né nella letteratura. Vuota di salvezza è pure la religione, che le Notas innalzano a «insieme di problemi, non insieme di soluzioni», archiviando il pregiudizio ateistico del religioso come uomo che insegue facili credenze. In cosa dovrebbe aiutarci la religione, che ci strappa dalla dimensione terrena investendoci dell’«esperienza dell’insufficienza del mondo»? Non c’è salvezza, infine, nemmeno nella politica. Reazionario è innanzitutto chi rifiuta le tre ideologie della modernità – liberalismo, socialismo, fascismo – e le loro facili soluzioni a questioni complesse.

È contro ogni statalismo che Dávila si scaglia con maggiore violenza. Che lo Stato sia un mostro (e la politica sia «l’arte di debilitarlo») non è una sciocchezza borghese. L’individuo non trova la propria realizzazione in compagnia di uno Stato forte, perché «nella misura in cui lo Stato cresce, l’individuo si sminuisce». E se pronunciamo statalismo, diciamo soprattutto socialismo, la «filosofia della colpevolezza altrui», «la teoria di chi non osa accusare se stesso», secondo le parole di Dávila. Il reazionario non potrebbe che respingere chi predica la liberazione dell’uomo dalle proprie catene; sa che senza catene (sovrastrutturali, va da sé) l’uomo rimane una scimmia. I fatti dello spirito contano più della distribuzione del capitale o dei mezzi di produzione: «cosa ci importa chi debba essere il padrone della fabbrica, se la fabbrica deve continuare ad esistere?».

Non meno velenose sono le frecce scagliate contro democrazia, nazionalismo e liberalismo. Chi cerca di rivalutare Dávila con il beauty case del taglio selettivo, cercando di sedare il suo vigore antimoderno e di ammansire il suo spirito antiliberale per dare del filosofo un’immagine più facilmente spendibile nel circuito bigotto della cultura italiana, non ha capito lo spirito del colombiano o è in malafede. Come si può credere in un Dávila liberale, di fronte all’affermazione che «è certamente più importante la relazione fra l’uomo e il mondo che la relazione fra l’uomo e il diritto di proprietà»? Davvero si crede di poter democratizzare chi ritiene che l’errore del pensiero democratico sia «attribuire a ciascun individuo la totalità degli attributi propri del concetto di uomo»? Chi, più di Dávila, è capace con due aforismi di affondare il pugnale al cuore dei problemi? Per il colombiano la democrazia è il regno della mediocrità; più alto è il numero di minuscole volontà che sbraitano, più ampia è la partecipazione degli uomini al governo dello Stato, più ineluttabilmente si genera «una tirannia assoluta e una assoluta mediocrità».

Gli aforismi delle Notas tradiscono un Dávila antiromantico, contro l’idea che si possa dedurre l’essenza di un popolo dai suoi caratteri (pensiamo agli italiani poeti, santi e navigatori), come se esistesse una “anima nazionale” e le sue proprietà spirituali migliori fossero la ricetta per la “grande nazione”. Non c’è niente di più fittizio di «un popolo che cerca la definizione del suo essere» prima ancora di agire, «incapace di operare per il timore di falsificarsi, quando la falsificazione è quello stesso timore» – chi vorrà, riconoscerà in queste parole la recente riproposizione in salsa teologica del nazionalismo ottocentesco italiano, che vuole uniti popoli profondamente diversi per lingua e modo di stare al mondo.

Nella distopia che il colombiano chiama progressista noi identifichiamo le prime avvisaglie del presente. L’ossessione per l’empatia, propagandata a gran voce in ogni sede letteraria, filosofica, artistica, politica, annichilisce senza possibilità di appello l’uso della ragione, lo strumento di quell’intelligenza che non è mai – come vogliono le vestali del benpensare – comprensione aprioristica dell’altro, empatia che annulla le differenze. L’intelligenza, ricorda il nostro, «non si manifesta con un gesto di accoglienza e di affetto», anzi è «perfida e traditrice, sospettosa e diffidente, comincia sempre col respingere e ribattere, sempre rifiuta e sempre protesta». Chi conduce le proprie battaglie social, moderno crociato digitale, a colpi di #restiamoumani e #facciamorete, slogan che nell’autoelevazione a rappresentanti dell’umanità contengono la disumanizzazione di ogni pensiero diverso, confonde i sentimenti con le idee, credendo di aver detto qualcosa di nuovo, saggio e meditato, quando invece ha espresso niente più che simpatia o antipatia.

L’intellettuale engagé, il regista militante, lo scrittore chiacchierone, i giovani apostoli della cultura, queste insopportabili figure che ben conosciamo e che, gonfie di ego, ammorbano con i loro veti e le loro banalità pagine di giornali e fiere del libro, sono i massimi rappresentanti di uno stile che rifugge l’inflessibile dovere della ricerca della propria perfezione. Quando ci preoccupiamo di problemi di scala maggiore, che richiedono appelli alla società, alla civiltà, al destino dell’umanità tutta, non facciamo che rifugiarci «nella puerile vanità di sentirci i responsabili del mondo», declinando l’invito a migliorare prima di tutto noi stessi. Ecco, per abbattere l’ossessione dei buoni sentimenti basta la lezione intelligente delle Notas di Nicolás Gómez Dávila:

L’umanitarismo è l’umanesimo degli imbecilli.

 

Alessio Mulas

Fenomenologia della tradizione e il mondo moderno e tecnico

Sono nato in un’epoca in cui si sentiva spesso parlare di un lemma ormai dimenticato: tradizione. Oddio, anche ai miei tempi (non troppo remoti) si assisteva alla disputa inconcludente fra tradizionalisti e progressisti, solo che a carte scoperte, gli stessi avanguardisti del moderno avevano dei punti fermi, dei loro riferimenti tradizionali. Eppure tradizione la trovo una parola bellissima, che non ha nulla da spartire col bigottismo morale, il bacchettonismo culturale, ciò che è retrivo, nemico della civiltà e del progresso. Essa si fa risalire al sostantivo latino traditio, derivato dal verbo traděre, ovvero dare, passare qualcosa a qualcuno, consegnare, affidare e anche trasmettere o tramandare.

Consegnare, affidare, trasmettere, tramandare, parole che non dovrebbero farci diffidare. Parole che abbiamo avuto in consegna, affidate, tramandate insieme al concetto profondo che in esse è racchiuso, affinché lo custodissimo. Già, custodire, altro concetto che non sappiamo più dove abiti, ingarbugliati come siamo dentro i meandri di una modernità frenetica, senza classe né talento e troppo presi ad apprendere ipnoticamente una neolingua globalista a vocazione anglofona (). Prigionieri di un totalitarismo eufemisticamente chiamato liberalismo, che attraverso le leggi di mercato e la logica consumistica… procede allo sterminio delle anime e delle culture.

La tradizione non è il passato… [essa] ha a che vedere col passato né più né meno di quanto ha a che vedere col presente e col futuro. Si situa al di là del tempo. Non si riferisce affatto a ciò che è antico… bensì a ciò che è permanente, a ciò che sta dentro.
(A. De Benoist, Le idee a posto)

Cosicché vorrei evitare equivoci maldestri e far sì che il discorso non si assimilasse, banalmente, alla più classica querelle des anciens et des modernes, il pensiero tradizionale contro quello della globalizzazione, della razionalità, dell’utilitarismo e della modernità fondata su specialismi tecnologici. Il giorno della Fine non ti servirà l’inglese cantava Battiato. Quindi sposterò l’asse su un certo tipo di cultura, che Marcello Veneziani ci notifica, ovvero quel complesso arcipelago di idee ed umori cui facciamo riferimento nel nostro procedere nei rapporti intellettuali, sociali e umani. La cultura non è pertanto uno scaffale di libri, asettico per quanto potenzialmente devastante di conoscenza, ma è attraverso quello scaffale che individuiamo il nostro tratto identitario, che segna e determina in seguito il complesso arcipelago di idee e umori cui facciamo riferimento nel quotidiano.

In senso tradizionale – ce lo suggerisce Michele Federico Sciacca – la cultura è primieramente paideia, ovvero educazione e tradizione nel senso più pieno delle sue accezioni: La tradizione è sempre contemporanea. Ascoltiamolo:
C’è da fare quello che hanno fatto i nostri padri, che non hanno accettato passivamente e stancamente ripetuto formule vecchie; hanno ripensato secondo il loro tempo.
Per cui consigliò di non affidare niente all’oblio,
opere valide, tramandate; sottratte alla dimenticanza, non al tempo, anzi solo ciò che è valido si affida al tempo; infatti sono elementi della tradizione e, in quanto tali oggetti formativi o di studio, opere vive, contemporanee e perciò produttive di altre opere, ricchezza che investita ne produce altra.
Non bisogna mettere in soffitta Platone e Aristotele, Agostino e Tommaso, Cartesio e Leibniz, Hegel e Rosmini, cioè il pensiero umano nel suo itinerario di approfondimento e sofferenza, piuttosto
raccogliamoci e pensiamo, ciascuno con la propria testa e come quei pensatori si sono sforzati di rinnovare e innovare la tradizione, rinnoviamola e innoviamola anche noi, ché la tradizione rinnovata, soltanto essa, è l’autentico progresso.

Sciacca operò sempre nel segno della prospettiva cristiana, ma in filosofia seppe cogliere l’allarme già lanciato da molti nomi della cultura europea, per questo combatté ogni forma di empirismo e di positivismo in quanto essi vedono l’ens e perdono di vista l’esse e l’ens senza l’esse è nulla, ammonisce col tono dell’invettiva. A questo punto è perfino pleonastico dirlo, ma la critica di Julius Evola alla civiltà occidentale è condotta dal mondo della tradizione, ed è emblematica l’opera del 1934 Rivolta contro il mondo moderno. Ma anche La dottrina del Risveglio, laddove bolla la civiltà moderna come quella che “del samsara ha fatto un vero e proprio culto”: una civiltà quindi, “votata al divenire” cui contrappone le civiltà tradizionali “fondate sull’essere” (Sandro Consolato, J.Evola e il Buddhismo).

Evola, ripercorrendo la cosmologia indù, fa ricorso ad un concetto metafisico, il kali-yuga, l’Età Oscura – ultima di quattro Età – corrispondente all’Età del Lupo delle tradizioni nordiche e all’esiodea Età del Ferro (Consolato) per definire il mondo moderno, il suo limite stesso. Quindi ci indica la differenza fra l’uomo della tradizione e gli altri, e ce lo dice in un passo di Rivolta: L’uomo tradizionale – spiega – non aveva la stessa esperienza del tempo subentrata nell’uomo moderno, egli aveva una sensazione sovratemporale della temporalità e in questa sensazione egli viveva ogni forma del suo mondo. Ma diversamente non aveva scritto Guénon, il quale ne La crisi del mondo moderno non esita a dire che fra lo spirito religioso, nel vero senso di questa parola e lo spirito moderno, non può che esserci antagonismo, precisando però, che vi è differenza fra il punto di vista metafisico, che è puramente intellettuale e quello religioso, che implica la presenza di un elemento sentimentale che influisce sulla stessa dottrina.

Ragion per cui l’Occidente moderno così come lo abbiamo preso in consegna, è limitato dal suo sentimentalismo e dal suo bisogno di azione che gli impediscono di raggiungere le attitudini intellettuali naturalmente familiari all’Oriente (Oriente e Occidente).

Alla fine quindi, sia Evola che Guénon guardano a Oriente, a forme metafisiche non europee, perché non riscontrano più elementi tradizionali al pensiero e alla cultura dell’Occidente, decaduto ad un convulso formulario di dottrine, dettate ora dall’individualismo esasperato, ora dallo scientismo, oggi dal rigor mortis della cultura che ha rinnegato se stessa per mano del parricida più spietato e impunito: l’uomo. Per un approccio “verticale” ai problemi attorno alle cose del mondo e al mondo stesso inteso come concetto: religione è, tradizione. Metafisica è, tradizione. Filosofia con la quale cerchiamo le domande prima ancora delle risposte è, tradizione. Per Evola e Guénon l’attività intellettuale degli individui è fondata sulla tradizione, la quale non è semplice conservazione o fede bigotta – come ci sovviene a più riprese Veneziani – bensì il nesso tra idee e realtà, tra eventi e soggetti di diversa portata. Essa [la tradizione] è la facoltà principale dell’uomo, cioè la capacità di annodare, stabilire o scoprire nessi, cogliere le relazioni spaziali e temporali e disvelare la sequenza di causa ed effetto […] il filo di Arianna che congiunge Logos a Religio.
Perché la tradizione ha la stessa radice di Logos, di Comunità, di Religione e di Destino: in tutti l’elemento cruciale è il legame (lègein) (Marcello Veneziani, Di padre in figlio). Ed è nuovamente Veneziani ad ammonirci, con le parole di Guénon stavolta, a non confondere la tradizione con la consuetudine, come purtroppo spesso accade a causa dell’ignoranza dell’uomo moderno nei riguardi di ciò che è tradizione nel vero senso della parola, perché dove la tradizione viene a mancare si tende a sostituirla, consciamente o non, con una specie di parodia (René Guénon, Iniziazione e realizzazione spirituale in Marcello Veneziani, Di padre in figlio).

Heidegger poi, avvicinava l’oblìo dell’essere alla spoliazione degli dèi (entgötterung con la possente lingua tedesca) sottolinea Alain De Benoist, il quale aggiunge, utilizzando Tacito come fonte, che i Germani chiamavano sacro il segreto dei loro boschi. Il bosco – che rimanda peraltro al concetto heideggeriano di lichtung, la radura, l’apertura, il lucore dell’essere – è il segreto della tradizione, l’identità perduta con la civilizzazione; con la negazione del segreto degli avi, della terra che ci ha partorito, della sacralità di quella terra, dei suoi boschi. La spoliazione degli dèi altro non è che l’oblìo dell’essere, il passaggio nefasto del pensiero occidentale dal discorso sull’essere a quello sull’ente. In breve: l’annichilimento della tradizione che traspare nei diversi livelli di interrogazione del mondo, non inteso come mero deposito di realtà utensili, ma come il luogo nel quale il tempo, a sua volta non inteso in senso matematico e lineare, si fa garante dell’esperienza dell’essere attraverso il divenire.
Heidegger è un filosofo della tradizione che intuì la differenza ontologica fra una filosofia dell’essere, legata a doppia mandata alla comprensione filosofica dei primi filosofi greci, ed una filosofia dell’ente, cui fa riferimento il pensiero occidentale dai presocratici in poi, tanto che a un certo punto del suo cammino teoretico, dopo “Essere e tempo”, inizia la sua “svolta”, la kehre, spostando il baricentro della sua ricerca dalla verità dell’esistenza, derivata dall’esserci (l’uomo), alla verità originaria dell’essere. O come direbbe ancora Michele Federico Sciacca, andando oltre gli entes particolari. Il senso profondo della tradizione – ribadisce – quello che direi metafisico-ontologico, è proprio questo: sentire, pensare, volere e agire nell’infinito dell’essere (M.F. Sciacca, Gli arieti contro la verticale).

Ma Heidegger non meno di Evola e Guénon, di Spengler e di Nietzsche è un acuto diagnosta del tramonto dell’Occidente, definito in Sentieri interrotti” come il momento in cui la notte del mondo va verso la sua mezzanotte: nessuna esperienza esoterica a differenza di Evola e Guenon, nessuna analisi socio-biologica come Spengler e nessuna affabulante “filosofia del martello” come Nietzsche. L’unica “trasgressione” estetizzante è nei confronti della poesia (“un amore comunque non corrisposto”, secondo Pietro Emanuele) con la quale cercherà il senso dell’essere, caduto nella storia. Ed è a quel punto che cercherà l’innocenza del sacro, perché, come ci indica Mircea Eliade,il sacro è saturo d’essere”. Quel sacro depauperato dal tempo storico lineare, dalla rivelazione ebraico-cristiana e dalla ragione, “il più omicida dei monoteismi”, per dirla con Gilbert Durand. Tutte queste esperienze che assistono alla caduta del sacro nella storia, alla riduzione dell’essere a ente, all’oblio della verità dell’essere, al retaggio biblico che influenza la metafisica occidentale, alla razionalizzazione della “temporalità segreta” dell’essere, rappresentano l’abbandono di un ‘pensiero meditante’, che in quanto tale, meditando su se stesso, avverte la propria prigionia in una regione che non riconosce più i cardini della tradizione, che della regione ontologica è la scaturigine e il sostrato.

La desacralizzazione e l’oblio dell’essere sono la punta massima di storicizzazione del mondo, che ha prodotto oggi la globalizzazione e il pensiero strumentale-mercantilistico, il tramonto della tradizione occidentale, complice la tecnica. Quella tecnica che è intesa da Spengler come tattica della vita, strumento di lotta e di affermazione riscontrabile anche negli animali, che è poi il “destino dell’uomo occidentale, cioè dell’uomo faustiano”. Però l’affermazione della volontà di potenza dell’uomo faustiano attraverso la tecnica, provoca una rottura fra l’uomo stesso e le leggi della natura, in modo che la “tattica”, diviene oltre che la potenza titanica dell’uomo, il suo limite più insidioso.
D’altronde Heidegger (Sentieri interrotti) commentava con una certa preveggenza:

[…] è invece l’essenza incompresa della tecnica che incominciò a minacciare i nostri padri e le loro cose.

La tecnica ad ogni modo non è invenzione recente, figlia prediletta della scienza e dei Lumi; relativamente recente è semmai la problematizzazione dei suoi esiti. Tant’è che gli antichi definivano con la parola téchne, da noi tradotta riduttivamente con “arte”, un insieme di abilità e le regole ad esse connesse, utili e indicative per l’attività umana:

Con la parola téchne i Greci indicavano ogni abilità, conseguita per mezzo di un’applicazione cosciente, che conferisse all’uomo un dominio sulle cose e sugli uomini,
spiegano G. Flores d’Arcais e L. Stefanini.

Anche se non in questi termini storicamente maturi, un filosofo di rottura per i suoi tempi, Karl Marx, attaccò la logica capitalistica e la tecnica disumanizzante, attraverso la quale l’uomo smette di essere uomo e diviene cosa fra le cose: la macchina, lo strumento, non mediano più, venendo meno al proprio compito che è quello, appunto, di mediare l’attività dell’operaio nei confronti dell’oggetto. Pertanto, a differenza dello strumento che l’operaio anima” grazie alla “propria attività e abilità, ora è la macchina che possiede abilità e forza al posto dell’operaio, riducendo l’attività di quest’ultimo ad “una semplice astrazione… regolata da tutte le parti dal movimento del macchinario. Tale situazione viene spiegata chiaramente da Adorno ed Horkheimer in “Dialettica dell’Illuminismo”, i quali presentano il loro libro come una genuina (e cruda) analisi della società tecnologica contemporanea, la quale, partendo dall’assunto di Bacone che intendeva estendere i confini dell’impero umano ad ogni possibilità, piuttosto che abolire miti ne crea altri e ben più insidiosi. In guisa che l’Illuminismo fa scadere il sapere da critica a tecnica, complici la ragione strumentale e il pensiero amministrativo.

Il problema della tecnica viene affrontato ancora da Heidegger, il quale dal punto di vista della speculazione filosofica è senz’altro più raffinato di Spengler. Egli affronta la tecnica dall’ottica del filosofo che assiste all’eclisse dell’essere e nel far ciò usa il termine “Ge-stell” per descrivere l’essenza della tecnica, laddove il prefisso Ge sta per “insieme” e il verbo stellen significa invece “porre”, quindi “totalità del porre tecnico” a detta di Giovanni Fornero. Ma la traduzione corrente è ancora duplice, ovvero “impianto” (come fa Volpi), o “im-posizione” (come fa Vattimo), nel senso che la natura viene ridotta a “fondo”, riserva di energia pronta per l’uso: Quell’appello pro-vocante che riunisce l’uomo nell’impiegare come fondo ciò che si disvela, noi lo chiameremo gestell, chiarisce in Saggi e discorsi del 1954.

L’illusione tutta faustiana che l’uomo producendo la tecnica ritrovi se stesso fa dire al filosofo tedesco che, in realtà, tuttavia, proprio se stesso l’uomo di oggi non incontra più in alcun luogo: non incontra più, cioè, la propria essenza.
In verità l’uomo ha dimenticato il problema centrale della sua esistenza, aggiunge Piero Di Giovanni (Etica, politica e metafisica, in: Heidegger e la filosofia pratica) che non è un problema semplicemente pratico o speculativo; l’uomo moderno misconosce e disconosce la comprensione dell’essere che costituisce la finitezza dell’esserci.

Massimo Fini (Il vizio oscuro dell’Occidente), spietato critico della civiltà occidentale ormai decaduta a poco più di una formuletta ad uso e consumo dei barbari accademici, ci parla per via indiretta della perdita (e della sua negazione) di ciò che è una società fondata su valori tradizionali:
L’uomo che vive nel migliore dei mondi possibili sconta poi una paurosa perdita di identità. L’omologazione è una conseguenza ovvia della globalizzazione e della mondializzazione che esigono e presuppongono una omogeneità; omogeneità di stili di vita, di consumi, di istituzioni […] legittimata da un pensiero totalitario che si ritiene portatore del Bene […] distruggendo culture, lingue, specificità, territori…

La tradizione segue un tracciato ideale che ruota intorno a capisaldi ben precisi, che qui abbiamo appena toccato. E come ci rammenta Adriano Romualdi:
Quel che separa il mondo tradizionale dal mondo moderno, è che, mentre quest’ultimo si fonda sui criteri dell’utile e del tempo, il primo si riferisce ai valori del sacro e dell’eternità.
E ancora Marcello Veneziani:
La tradizione è dunque una cultura nel senso più ampio dell’espressione. Non un’opera intellettuale, ma una visione del mondo e un’interpretazione del tempo, che permea una mentalità (o forma mentis) e anima una civiltà (Kultur).

 

Claudio Zarconeeno

 

Alfie Evans e la cultura della morte: il liberalismo selvaggio la difesa della vita in quanto esseri umani

Non è progressista una civiltà in cui si registrano più aborti che nascite, più divorzi che matrimoni, più cannabis club che sale giochi, dove non è possibile esercitare la libertà d’espressione dietro l’accusa di essere fascisti, o quella di riunione dietro la minaccia dei cosiddetti antagonisti (del buon senso). Soprattutto, non è realmente progressista una civiltà in cui non è possibile esercitare la libertà di movimento per fuggire da una condanna a morte e reclamare la difesa della vita di un figlio malato e bisognoso di cure urgenti quale diritto inalienabile di ogni essere umano – ogni riferimento ad Alfie Evans è puramente intenzionale. La cultura della morte ha vinto ed esteso i suoi tentacoli in tutto l’Occidente; a ricordarlo ci ha pensato la sentenza del giudice Anthony Hayden, che sarà prima o poi chiamato a rispondere dell’accusa di omicidio ai posteri (per i laici) o a Dio (per i credenti).

Huntington si sbagliava: non saranno la civiltà islamica, sinica od ortodossa a galvanizzare il crollo di questo (post-)Occidente da tempo incamminatosi sul viale del tramonto, ma il totalitarismo liberal-democratico. Un’ideologia nel cui nome vengono abbattuti governi ostili, vietati indumenti e simboli religiosi nei luoghi pubblici, censurati pensatori anti-sistema ed impedite manifestazioni, ma che napoleonicamente si è autoincoronata paladina dei diritti umani e della giustizia. La scienza come riflesso del potere ideologico dominante, una teoria del pensatore Michel Foucault oggi più che mai corroborata dalla piega che ha preso la medicina nei paesi occidentali, più interessata al profitto che alla salute. Gli ospedali e i centri di ricerca sono divenuti luoghi di business, nei quali i pazienti sono dei semplici numeri agli occhi di chi dovrebbe curarli.

Parte tutto dalla manipolazione semantica: il diritto alla vita è inalienabile ed è irrimediabilmente legato al diritto alla salute, del quale è accessorio essenziale il divieto dell’accanimento terapeutico, ne consegue la possibilità di cessare le cure ad un malato terminale od incurabile o di aiutare a morire mediante suicidio assistito una persona afflitta da depressione. La ricerca costa troppo, i governi non vogliono assumersi l’onere di finanziarla e i cosiddetti filantropi, stile famiglia Rockefeller o Bill Gates, elargiscono generose quote dei loro personali averi esclusivamente su base ideologica, ossia ad istituti ed entità coinvolte nella promozione dei diritti lgbt o della genitorialità pianificata. Il capitalismo per sopravvivere ha bisogno di plasmare e trasformare in merce ogni sfera ed aspetto delle relazioni umane, dalla religione, al sesso, sino alla salute: lo mostra il caso di Alfie Evans, e lo ribadisce l’analisi “The Genome Revolution” di Goldman Sachs inerente la non-remuneratività della ricerca farmaceutica in cure definitive per le malattie. In breve, il rapporto giunge alla conclusione che lo sviluppo di farmaci e trattamenti di cura definitivi riduca nel lungo termine in maniera sensibile le possibilità di nuove infezioni, annullando il ritorno economico per i produttori. La ricerca farmaceutica dovrebbe quindi puntare a delle cure parziali, in modo tale da creare dei malati cronici, dipendenti dai farmaci o desiderosi di un costoso suicidio assistito?
Riflessioni ed invettive contro la mercificazione della salute a parte, difendere il diritto alla vita di Alfie Evans, un bambino affetto da un’epilessia mioclonica progressiva, non è solo un dovere che spetta ai suoi genitori, ma a tutti coloro che ritengono di possedere un’anima, o quantomeno una coscienza funzionante e non corrotta dalle dottrine liberal-progressiste. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sorta per vegliare sulla corretta applicazione ed il rispetto della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, chiamata in causa dalla famiglia Evans, ha scelto di (non) intervenire, mostrando per intero la sua coerente inutilità.

Nessun paese comunitario ha protestato per il trattamento riservato dalla giustizia e dalla sanità inglese a questo cittadino in fasce colpevole soltanto di essere afflitto da un male per il quale la ricerca non ha ancora prodotto risultati. Nessuno è intervenuto per fermare l’omicidio in diretta di un bambino dato a più riprese come morto cerebralmente ed incapace di vivere senza l’aiuto delle macchine, eppure capace di aprire gli occhi, muovere gli arti superiori, respirare spontaneamente e, soprattutto, sopravvivere nonostante la disintubazione e la cessazione dell’idratazione e della nutrizione. Nonostante le accuse di inazione, il Vaticano ha abilmente sfruttato la propria influenza nella politica italiana per spingere il ministero dell’interno e degli esteri a concedere la cittadinanza a questo bambino in tempi straordinari, nell’aspettativa di convincere le autorità inglesi a permettere il suo trasferimento all’ospedale Bambino Gesù, dichiaratosi pronto ad ospitarlo e trattarlo con un protocollo sperimentale. L’intromissione italo-vaticana nella vicenda non è stata però gradita dalla corte d’appello che in data 25 aprile è stata chiamata per rivedere la sentenza del giudice Hayden: al bambino è stato negato il trasporto all’estero, è stata rifiutata l’eventualità di una giurisdizione di Italia e Vaticano sul caso, ed è stata ribadita la validità della precedente sentenza che ha difatto prevaricato la potestà genitoriale trasformando Alfie Evans in un bene privato la cui sorte è gestita dall’ospedale.

Ogni ricorso della famiglia Evans in sede nazionale e comunitaria è stato vano, come vani sono stati i riferimenti fatti dai legali della coppia alle libertà e ai diritti previsti dai documenti che formano la costituzione britannica, tra i quali l’Habeas Corpus Act. Michela Marzano, docente di filosofia morale all’Université Paris Descartes, in un editoriale per La Repubblica ha giudicato l’intervento della coppia Minniti-Alfano come un pasticcio incomprensibile di un governo dimissionario che dovrebbe occuparsi solo di ordinaria amministrazione, trovando anche il tempo per parlare di ius soli. Lo stesso governo che però è piaciuto molto ai liberali di tutto l’Occidente quando, seguendo il cordone angloamericano di rappresaglie nei confronti della Russia in reazione al caso Skipral, ha espulso due diplomatici russi.

I leader del mondo libero, Angela Merkel ed Emmanuel Macron, non sono stati pervenuti, fornendo una prova ulteriore della visione che l’Unione Europea ha della vita e dell’etica – la stessa Ue che oltre un decennio fa rifiutò di inserire ogni riferimento all’influenza cristiana nella storia europea nel progetto di carta costituzionale, facendo presagire quale direzione avrebbe preso il progetto europeista. È normale che una civiltà avente più riguardo per la morte dei suoi figli, che per la loro nascita e crescita, un bambino venga condannato a morte da un tribunale e che i connazionali di questo inconsapevole imputato siano maggiormente presi a festeggiare una nuova vita nella famiglia reale che a protestare per la morte di un figlio del popolo. L’Occidente è destinato al tramonto e non perché lo abbia detto Spengler, ma perché ha deciso di abbracciare la cultura della morte ed il relativismo culturale a detrimento del cristianesimo, ringraziato periodicamente e in maniera alquanto vaga per l’aiuto fornito nella realizzazione di una civiltà basata sulla giustizia e sullo stato di diritto.

Arthur Moeller van den Bruck diceva che il liberalismo fosse un cancro capace di colpire ogni aspetto dell’essere umano, pensiero, creatività, ingegno e spirito, un’ideologia da distruggere per mezzo di una rivoluzione conservatrice. Allo stesso modo, Alberto Ruiz-Gallardon, capofila del movimento antiabortista spagnolo e ministro della giustizia sotto il governo Rajoy, dichiarò ai tempi della proposta di riforma della legge sull’aborto quanto fosse importante combattere per fatare il mito della superiorità morale della sinistra.
Nel caso di Alfie Evans, proprio di sinistra e liberalismo si parla, perché i giudici che lo hanno condannato a morte hanno pubblicamente assunto posizioni di matrice liberale e progressista nei confronti di tematiche come il recupero sociale dei criminali e dei terroristi e i diritti lgbt. Hayden è il coautore di un libro intitolato “Children and Same Sex Families”, mentre Andrew McFarlane, il giudice della corte d’appello, ha assunto rilevanza internazionale nel 2015 per aver creato un precedente su un tema molto sensibile quale la surrogazione di maternità e il diritto di rescissione, dando ragione alla coppia omosessuale che aveva comprato un bambino, negando ogni diritto di potestà alla madre surrogata.

Il destino di un bambino, figlio di due persone che hanno ritrovato la fede in questi mesi di lotta legale per via dell’incredibile umanità proveniente e dimostrata dal mondo cattolico, tanto da causare un diretto interessamento del pontefice e, tramite esso, del governo italiano, è stato affidato a dei giudici noti per le loro posizioni estremamente progressiste, ma forse è solo una coincidenza. Lasciando le convinzioni etiche, religiose e politiche a parte, il caso di Alfie Evans interessa l’Italia anche da un punto di vista legale dal momento in cui gli è stata concessa la cittadinanza: ad un cittadino italiano viene impedito di tornare in patria per ricevere delle cure urgenti, tra l’altro negate nonostante il parere contrario della famiglia, e al governo italiano viene negata ogni possibilità di giurisdizione sulla vicenda da un tribunale inglese, un precedente gravissimo che in futuro impedirebbe ai governi di fornire cure a dei cittadini sequestrati illegalmente in paesi terzi. In ogni caso, Alfie non morirà invano: se dovesse sopravvivere o morire al protocollo sperimentale, allora la sua vita servirebbe alla ricerca medica come opportunità di crescita e conoscenza, e se fosse lasciato morire perché ritenuto una voce di spesa eccessiva per l’ospedale che teoricamente dovrebbe curarlo ed impeditagli ogni possibilità di cura altrove, allora il suo omicidio lo trasformerebbe in un martire, la cui storia forse servirà alla massa per capire quanto atroce e brutalmente incoerente sia il liberal-progressismo.

I maestri del liberalismo selvaggio hanno insegnato a chiamare libertà e diritti qualsiasi loro capriccio e desiderio egoistico, parafrasando Nicolas Gomez Davila. Ed è così che nelle società del malessere si riesce a malapena a trovare una folla da portare in piazza per protestare contro i tagli ai servizi pubblici e al sociale, mentre quasi chiunque è disposto a firmare una petizione o a scendere in strada per uno spinello o contro l’obiezione di coscienza.

 

Emanuel Pietrobon

 

 

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