Mario Vargas Llosa. Leggere è protestare contro le ingiustizie della vita

Nato ad Arequipa, in Perù, il 28 marzo 1936, Vargas Llosa è scomparso oggi, all’età di 89 anni. A soli otto anni scrisse la ‘Lettera a Gesù Bambino. Il rapporto difficile con il padre, incontrato quando aveva 10 anni, lo segnò profondamente e influenzò il suo lavoro. Fu su sua insistenza che entrò in una scuola militare, la Leoncio Prado di Lima, dove subì una dura disciplina che si rifletté in ‘La città e i cani (1963), romanzo bollato come “comunista”. Finì la scuola superiore alla scuola San Miguel di Piura. Nel 1953, all’età di 17 anni, tornò a Lima, dove studiò Letteratura e Giurisprudenza all’Università Nazionale di San Marcos e si laureò in Filosofia e Letteratura. Due anni dopo, a 19 anni, sposò la zia acquisita Julia Urquidi, di dieci anni più grande di lui, dalla quale si sarebbe separato nel 1964.

Mario Vargas Llosa tenne un discorso a Stoccolma il 7 dicembre 2010 in occasione del conferimento del premio Nobel per la letteratura. Questo discorso si tiene presso l’Accademia Reale delle Scienze di Svezia a Stoccolma. Ci si sofferma, in primo luogo, sul titolo del discorso. La prospettiva in cui lo scrittore sudamericano si pone è quella del lettore, egli infatti parla di lettura e non di letteratura. Questo titolo contiene un’endiadi (=termine della retorica classica, si usa per indicare un concetto unitario espresso attraverso l’uso di due sostantivi). Ciò che ci dice è che egli è diventato uno scrittore per la passione nutrita nei confronti della letteratura.

Il termine “finzione”, il suo corrispondente italiano sarebbe “invenzione”. Si può citare, a questo proposito, lo scritto di Alessandro Manzoni sullo stimolo del giudizio di Goethe sui Promessi Sposi.

Goethe aveva letto la prima edizione (1827) e la aveva molto elogiata, sollevando alcune obiezioni sul troppo peso della parte storica. Manzoni pubblica nel 1850, all’interno della raccolta Opere varie, questo saggio intitolato Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e di invenzione. Con questo titolo si intendono una serie di componimenti che abbinano fatti realmente accaduti a fatti inventati dalla fantasia del romanziere. Il termine finzione ha molto successo anche per la somiglianza con il termine inglese “fiction”. La fiction si distingue, in inglese, dalla non-fiction. Quest’ultimo termine indica una categoria che comprende opere di carattere
storico, biografico, documentario. Tutto quello, quindi, che non si fonda sulla creazione dell’immaginazione. Il termine fiction, invece, tende a significare “narrazione” in generale.

“Leggere è protestare contro le ingiustizie della vita, così come scrivere. Chi cerca nella finzione ciò che non ha, dice, senza la necessità di dirlo, e forse senza neanche saperlo, che la vita così com’è non è sufficiente a soddisfare la nostra sete di assoluto. E che dovrebbe essere migliore”.

Il discorso si apre con Vargas Llosa che parla di come abbia imparato a leggere all’età di cinque anni, nella classe di fratel Justiniano, nel Colegio de la Salle, a Cochabamba in Bolivia. Si pone insistenza su questo evento antichissimo, in quanto MVL lo definisce come la cosa più importante che gli sia mai successa nella vita. Llosa sostiene che i libri hanno arricchito la sua esistenza, abbattendo le barriere del tempo e dello spazio.

I ricordi dell’infanzia possono essere considerati di secondo grado: non ci si ricorda tanto dei fatti in sé ma, più che altro, dei racconti su di essi (es. i fatti che riguardano la nostra infanzia tendiamo a ricordare maggiormente i racconti dei nostri genitori circa alcuni episodi
che ci sono accaduti da bambini). Un esempio in favore di questo riguarda i ricordi della mamma, la quale ha raccontato a Vargas Llosa che da bambino cambiava i finali dei racconti che leggeva perché gli dispiaceva che finissero o per cambiargli il finale. Il lettore desidera, in questo senso, farsi autori, collaborare alla creazione. Tra i libri che da bambino hanno arricchito la sua esistenza cita:

Ventimila leghe sotto i mari (Jules Verne), I tre moschettieri (Alexandre Dumas), I miserabili (Victor Hugo). Mentre per quanto riguarda la madre, dice che ella era solita commuoversi leggendo Amado Nervo e Pablo Neruda.

Vargas Llosa definisce la scrittura come “passione, vizio e meraviglia”. Si può notare, a tal proposito, come nei discorsi si ricorre spesso alla cadenza ternaria (= utilizzo di tre parole), in quanto conferiscono al discorso una particolare incisività. Il termine “passione” è un termine ambivalente: deriva dal verbo patire infatti significa anche “sofferenza”. Lo stesso termine però può anche essere utilizzato come sinonimo di “amore”. Lo scrittore in questo caso, utilizza il termine soprattutto come un impeto, un trasporto. Il termine “vizio”, invece, ha di solito una valenza negativa. Nella migliore delle ipotesi è una cattiva abitudine, un difetto o una debolezza. Alla luce di queste considerazioni, i due termini utilizzati congiuntamente possono significare qualcosa che eccita, che esalta le facoltà ma che allo stesso tempo ha un risvolto di debolezza.

Il termine “meraviglia” deriva del verbo mirare, cioè guardare. Si prova meraviglia di fronte a ciò che stupisce e incanta. Questo è il miracolo di trasformare “il sogno in vita e la vita in sogno”. Llosa celebra la capacità della letteratura di trasformare la nostra percezione della realtà attraverso l’esercizio della fantasia, così da rompere i vincoli di tempo e spazio. La letteratura è magia che traduce le parole in immagini. Attraverso l’immaginazione, accesa dal testo che si legge, la vita si arricchisce. La letteratura crea quindi una vita parallela dove rifugiarsi dalle avversità. Fa diventare “normale ciò che è straordinario e straordinario ciò che è normale”. Ci sono due cose da notare: la letteratura come rifugio, come tregua rispetto alla vita quotidiana che evidentemente è spesso fonte di delusioni, frustrazioni, sofferenze, ecc. e poi c’è la letteratura come volo fantastico.

La finzione è l’inizio dello spirito critico. “Leggere è protestare contro le ingiustizie della vita”. Llosa evidenza l’esistenza di un nesso fra l’invenzione letteraria e lo spiritico critico. Tutto questo si può cogliere nel fatto che i regimi dittatoriali instaurano sempre controlli, censure, reprimono la libertà espressiva. Come lo spirito critico si sviluppa? La risposta che emerge da questa conferenza può così essere sintetizzata: l’invenzione letteraria, la finzione (e solo essa), rappresenta realtà diverse da quella che ci circonda, ci fa vivere mondi immaginari.

Ma se è possibile immaginare mondi diversi è possibile anche modificare la realtà esistente. Il pregio insostituibile della finzione è
quello di introdurre nella nostra coscienza la dimensione della possibilità. Per cui la realtà così com’è non è scontata né necessaria e inevitabile. È soltanto una delle possibilità esistenti, ma ne esistono anche altre. È possibile non accontentarci del mondo così com’è. La letteratura, sostiene lo scrittore peruviano, è una rappresentazione fallace della vita che però ci aiuta a capirla meglio e ci aiuta a orientarci. Il discorso sul valore della finzione è svolto all’inizio e alla fine della conferenza.

La letteratura, inoltre, tende ponti tra diverse persone: al di là delle lingue, del credo, degli usi e dei costumi, dei pregiudizi. La letteratura, in questi termini, crea una sorta di fratellanza all’interno della diversità umana ed eclissa le barriere erette dall’ignoranza, dalle ideologie, dalle religioni e lingue altre.

Si considera il pregio e il carattere delle opere letterarie che ad un certo punto finiscono, sono delimitate, e questo ci consente di interpretarle. Rispetto alla nostra vita, dove siamo attraversati da un flusso costante di emozioni, parole e stati d’animo, i romanzi che leggiamo sono storie chiuse e il fatto che ci sia una fine ci permette di poter fare una riflessione. Quello che noi impariamo leggendo delle storie inventate è il dare senso agli avvenimenti. Questa propensione la possiamo applicare anche alla vita reale. Leggendo, alle volte, ci succede di incontrare delle parole che sembrano scritte appositamente per noi. I grandi romanzieri riescono a dire di noi cose che
nemmeno noi stessi saremmo in grado di dire.

Noi abbiamo bisogno di dare un senso a tutto quello che ci succede. L’insensato ci disorienta e ci mette ansia. Usiamo le parole per umanizzare il mondo e la letteratura rientra in questa fenomenologia. Giacomo Debenedetti scrisse che la letteratura serve a battezzare le contingenze esistenziali, serve a dare un nome a nodi di vita. Si può pensare, a tal proposito, quanti nomi di personaggi sono poi diventati comuni: da Boccaccio, boccaccesco; da Kafka, kafkiano (=neologismo che indica una situazione paradossale e in genere angosciante. Si usa di solito per descrivere una situazione in cui non ci si riconosce e dove non si capisce ciò che sta succedendo).

“Segreto a più voci” di Fernando Bermúdez tradotto per la prima volta in Italia da Edizioni Spartaco

Fernando Bermúdez, Premio Cortázar 1994 e Premio Juan Rulfo 1997, è per la prima volta in Italia, ospite di “Un borgo di Libri 2024. Intelligenza naturale…” a Casertavecchia (borgo antico di Caserta), festival diretto da Luigi Ferraiuolo, per la presentazione del suo nuovo atteso romanzo “Segreto a più voci”.

Domenica 15 settembre nella cattedrale di Casertavecchia, Bermúdez è stato presentato il romanzo “Segreto a più voci”, tradotto dallo spagnolo da Giovanni Barone e pubblicato in prima edizione assoluta in Italia dalla casa editrice indipendente Edizioni Spartaco, libro atteso da lettori e critica da trent’anni, dopo la fortunata raccolta di racconti “La metà del doppio”, che è valsa allo scrittore prestigiosi riconoscimenti.

Nato a Buenos Aires nel 1962, Bermúdez vive a Stoccolma dove ha riunito un circolo di autori latinoamericani lì residenti, il Grupo Estocolmo, e vi coordina laboratori di scrittura. È docente di Linguistica moderna all’Università di Uppsala e membro della Writers Society Sweden.

In segreto a più voci, protagonista è un ragazzino la cui voce si alterna con quella di María Carmen, una donna stravagante che ogni giorno depone fiori sulla tomba di Perón e che finisce per essere testimone di un fatto di cronaca che colpì molto la società argentina del tempo: la profanazione della cappella funebre e il furto delle mani del corpo imbalsamato del presidente.

Le due storie si alternano ed entrano in contatto, costruendo un contrappunto che acquista sempre maggiore intensità fino a sovrapporsi in un finale sorprendente.

Bermúdez utilizza e decostruisce diversi generi letterari, dal poliziesco al romanzo di formazione, dai racconti del terrore al romanzo storico, giocando sulla tensione tra realtà e finzione.

Segreto a più voci : trama

Un ragazzino ascolta le ultime parole del padre ormai in fin di vita. Durante l’agonia, l’uomo svela all’adolescente “una teoria cospirativa secondo la quale l’allora presidente argentino Juan Domingo Perón è già deceduto e che un gruppo di congiurati sta cercando di occultare la sua morte per mantenere il potere”. Da qui prendono vita le storie di Paulino, il Paraguaiano, Maria Carmen.

Addirittura, questa donna stravagante, mentre va a portare i fiori sulla tomba del presidente defunto, assiste alla “profanazione della cappella funebre e al furto delle mani del corpo imbalsamato del presidente”. Un fatto che la fa apparire come la Maria Maddalena che sarà testimone della Resurrezione di Gesù; e proprio tale similitudine, lascia pensare che ogni lettore possa dare vita al proprio romanzo.

Segreto a più voci. Contenuti e stile

Segreto a più voci è una pregevole opera di letteratura che richiama Finzioni di Borges, come il grande scrittore argentino, anche il suo connazionale Bermudez Borges, in realtà, non si preoccupa tanto della scrittura ma piuttosto della lettura, e soprattutto del lettore, in quanto l’atto dello scrivere nasce proprio da un fine didattico: è il narratore a spiegarci come va il mondo in cui viviamo e che arreca in noi tanta confusione. Ma colui al quale si rivolge chi scrive, il destinatario comprende davvero il linguaggio di quel testo?

L’universo variegato proposto da Bermudez, in cui le vite degli uomini comuni sono mischiate a quelle dei grandi nomi della storia, e in particolare a quello di Peron che aleggia su l’intero romanzo, può essere una finzione che diventerà ipotesi e poi realtà? Bermudez mostra come la letteratura possa penetrare la vita, modificarla, elevarla, sublimarla, attraverso l’immobilizzazione del tempo, richiamando alla mente una frase del racconto I Teologi di Borges: “Il tempo che fuggì resta nella memoria; sarò di certo capace di ricostruire quel che allora accadde”.

Bermudez imbastisce una storia complessa e affascinante il cui fine è quello di risultare credibile per il lettore: ogni personaggio, ogni scenario, ogni interpretazione sembrano suggerire il pensiero: ma io cosa c’entra con questa storia? Mi può riguardare?

L’autore si avvale di uno stile asciutto e diretto, primo di retorica, ma ricco di ricordi che fluiscono in un flusso narrativo che a volte sembra un fiume in piena, altre volte si arresta, quasi in stallo, pervaso da un senso di morte. Peron è un archetipo; una sorte di Ade che tira i fili dei personaggi terrestri anche dall’oltretomba, rappresenta il trauma storico con cui l’Argentina ancora oggi deve convivere, la storia che l’Occidente ancora non conosce a fondo.

Alcuni personaggi nel romanzo si percepiscono anche se non vengono citati, come il dittatore Jorge Rafael Videla, perché ogni romanzo è figlio della Storia collettiva e personale, agitata dalle nevrosi, dalle paure e dai conti non fatti con essa, di ognuno di noi.

 

La casa editrice

Edizioni Spartaco è nata nel 1995 a Santa Maria Capua Vetere: l’avventura è cominciata con quella che per decenni è stata l’unica guida della città, nonostante il formato sia diventato tascabile e il prezzo più economico. Dal 2003 ha solcato il mare della distribuzione nazionale, un oceano irto di insidie, infestato dai mostri sacri dell’editoria, bastimenti più forti economicamente e più potenti per tradizione e autorevolezza presso i media, capaci di pubblicare opere immortali oppure di scivolare sull’acqua con leggeri bestseller dalla vita intensa ma breve.

Una piccola casa editrice, una casa editrice del Sud, una casa editrice di Terra di Lavoro (e nemmeno di Caserta centro) deve avere più coraggio: come il capitano MacWhirr di Conrad, deve affrontare il tifone che le fa sfiorare il baratro ogni volta, deve tenere duro e andare avanti. Anzi, non deve, il bello sta nella sfida, nello scegliere di ritagliarsi uno spazio di libertà, complici gli autori che meglio e con più efficacia riescono a raccontare, a dire, a comunicare. E non ti va di fallire un progetto così bello, perché “incominciando col gustare un po’ di libertà, si finisce per volerla tutta”. Lo ha detto Errico Malatesta, anche lui nato a Santa Maria Capua Vetere. Edizioni Spartaco, di Malatesta, ha pubblicato l’Autobiografia mai scritta. Ricordi (1853-1932), a cura di Piero Brunello e Pietro Di Paola, edito anche in Germania dalla casa editrice Nautilus Frug Schrift, alla quale sono stati venduti i diritti.

 

 

 

‘Avventure della ragazza cattiva’ di Vargas Llosa. Ossessione d’amore tra Europa e America Latina

Nella prima parte è un continuo procedere per accumulo, non ci sono sviluppi nel romanzo del 2006, Avventure della ragazza cattiva dello scrittore peruviano naturalizzato spagnolo Mario Vargas Llosa, a metà fra il picaresco e la storia d’amore. Solo nella seconda parte ci si appassiona alle vicende di Lily, femme fatale trasformista e di Ricardo, anonimo interprete peruviano, un uomo medio senza ambizioni.

Nel 1950 il giovane Ricardo scopre di essere innamorato di una ragazza cattiva, una niña mala che lo fa impazzire con il suo charme ma gli dice sempre di no. Quando le loro strade si separano, Ricardo si trasferisce a Parigi. Ma anche qui la niña mala riappare, in una nuova versione: una militante del Mir in partenza per Cuba, dove verrà addestrata alla guerriglia. Da allora, nella vita di Ricardo, si alternano il lavoro di interprete e i tormenti che la ragazza cattiva gli infligge, in un crescendo che porterà il protagonista ad affrontare il suo vero sogno: scrivere. Un ritratto palpitante del mondo europeo e latinoamericano, dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, un’ispirata rievocazione condotta senza nostalgie ma con lucida intensità, sostenuta da una scrittura che si fa sempre piú limpida e rarefatta. Con protagonisti ed eventi reali e altri di fantasia, che insieme congiurano a creare l’affresco illuminante di un’intera stagione.

Stai diventando una huachafita [donnetta sentimentale, n.d.r.] anche tu, niña mala, – la baciai sulle labbra. – Dimmene un’altra, un’altra, per favore.

Lily, però, non giganteggia su Ricardo, non ha fascino e carisma perversi, risulta ripetitiva e prevedibile nella sua inaffidabilità. Ed è proprio quo che risiede l’aspetto più sorprendente e riuscito del romanzo: il premio Nobel Losa non rende la protagonista l’eroina della storia, semmai il personaggio più riuscito risulta Ricardo, con la sua umanissima e comprensibile debolezza, con la sua pazienza, col suo amore che sembra non subire mai un rallentamento. Ricardo è umile, è un uomo che lavora per vivere, che ama la letteratura e le lingue straniere, soprattutto il russo. È un uomo non bello, ma costante e stabile. E sembrano risiedere proprio qui la sua forza e straordinarietà che fa da contraltare alla “banalità” della cattiva ragazza che intontisce l’uomo ordinario, destinato prima o poi a soccombere.

Vargas Llosa riesce a costruire un intreccio narrativo di grande effetto puntando sulla personalità dei personaggi, in cui lo stesso Ricardo, il Niño Bueno, racconta in prima persona le proprie pene d’amore, la sua vita costellata dalla presenza-assenza della femme fatale (“Ero sicuro che l’avrei amata sempre, per mia felicità ed anche per mia infelicità”).

L’autore peruviano tuttavia non si limita a raccontare una storia di amore e di ossessione, inducendo il lettore ad empatizzare con il protagonista, evidenzia infatti la sua capacità di emersione dalle “paludi” di un paese dell’America Latina, il Perù, ancora molto, troppo povero, afflitto da tensioni e instabilità politiche tali da non garantire condizioni di vita dignitosi per il suo popolo, arricchendo così il contenuto di questa opera di riflessioni extra sentimentali.

Llosa infatti conduce il lettore in un’Europa in pieno fermento, partendo da Parigi, città affascinante e piena di opportunità, centro nevralgico della vita culturale europea e culla delle rivolte studentesche sessantottine, per poi spostarsi in oltremanica, in una Londra hippie anni settanta, centro di avanguardia artistica, capitale mondiale di una rivoluzione psichedelica fatta di droga, rock’n’roll e amore libero, passando per per Tokio, dove all’ordine e al rigore che traspaiono dalle strade durante il giorno, si contrappone la perversione della vita notturna. Nei cangianti (come le identità di Lily), contesti storico-geografici si muovono le disavventure amorose di due protagonisti legati da un rapporto viscerale tra Europa e America Latina.

Pensieri sparsi su Borges, di Davide Morelli

Borges è stato senza dubbio uno dei più grandi scrittori del Novecento. La sua cultura è stata enciclopedica. La sua memoria è stata prodigiosa. Forse talvolta Borges ha avuto paura di essere come il suo Funes. Ricordo che per il Funes la memoria sprovvista di filtro ed incapace di oblio era diventata “un deposito di rifiuti” e aveva reso il personaggio sovraccarico di letture e di sensazioni al punto da non riuscire più a pensare. Forse questa era una sua ossessione.

Di sicuro sappiamo di altre sue ossessioni. Ad esempio odiava il calcio perché aveva paura delle folle. Aveva l’ossessione degli specchi perché moltiplicavano l’uomo e la copula. A qualcuno talvolta Borges potrebbe apparire come un reazionario. Ma se è vero che non si impegnò mai in politica, è altrettanto vero che fu cieco per buona parte della sua vita. Infatti perse la vista sia perché affetto da una grave forma di miopia, sia perché leggeva forsennatamente. Va ricordato anche che per Borges il miglior assetto politico e sociale era quello che conciliava il massimo della libertà individuale con un minimo di governo. Non un reazionario quindi, ma un intellettuale disincantato.

I suoi scritti sono colmi di miti, metafore, paradossi. La sua è una letteratura fantastica. D’altronde la letteratura nell’antichità era sempre fantastica: era innanzitutto cosmogonia e mitologia. I maestri di Borges sono stati Dante, Kafka, Pascal, Whitman, Cervantes, Keats, Valery.

Borges è stato anche un profondo conoscitore della letteratura orientale, tanto è vero che nei suoi saggi fa più volte riferimento alle “Mille e una notte”. È grazie alla vastità delle sue letture che creerà il racconto “La ricerca di Averroè”, in cui narra di questo medico arabo che chiuso nell’ambito dell’Islam cerca di tradurre le parole “commedia” e “tragedia” da uno scritto di Aristotele.

Lo scrittore argentino in poche pagine mette in evidenza magistralmente i limiti gnoseologici della traduzione perché Averroè lavora vanamente e non conosce minimamente il contesto storico e culturale dell’antica Grecia. Lo scrittore sudamericano non disdegna neanche la filosofia. Infatti da Berkeley prenderà a prestito l’idea di un Dio che sogna il mondo, mentre da Platone riprenderà la concezione del tempo come “immagine mobile dell’eternità”.

Inoltre nella sua raccolta di saggi “Discussioni” illustrerà in modo illuminante uno dei cardini della filosofia di Nietzsche: l’eterno ritorno. Si veda a questo proposito il tempo circolare, secondo il quale l’universo sarebbe composto da quanti d’energia illimitati per la mente umana ma non infiniti. Una volta esauritesi tutte le combinazioni tra i quanti di energia si ripeterebbero gli eventi. Questa idea è alla base dell’arte combinatoria di Borges. Una delle sue tematiche di fondo infatti è che la casistica del mondo è vasta ma limitata. Ecco spiegato perché nei suoi racconti fantastici esistono personaggi che a distanza di secoli commettono le stesse azioni o creano le stesse opere. Da qui deriva la concezione borgesiana secondo cui “nessuno è qualcuno e ciascuno è tutti”, espressa nel suo racconto “L’immortale” nell’ “Aleph”. Partendo quindi dal presupposto che siamo sempre gli stessi e viviamo svariate vite possiamo essere in tempi diversi santi e assassini, scrittori e analfabeti, guerrieri o codardi. Perderemmo quindi la nostra individualità. Perderemmo i meriti e i demeriti della singola esistenza.

La biblioteca, la sfera e il labirinto sono i simboli più importanti dell’opera narrativa di Borges.

Per quanto riguarda la produzione poetica i simboli che spiccano sono la rosa e la tigre. In “Finzioni” la biblioteca di Babele è “una sfera il cui centro esatto è qualsiasi esagono e la cui circonferenza è inaccessibile”. I bibliotecari che vivono tutta la vita in un angolo della biblioteca sono alla perenne ricerca del “libro totale”, ovvero dell’opera che può racchiudere il significato ultimo. Borges ci dice che i bibliotecari alla fine si scoraggiano perché nessuno riesce a trovarlo.

Trovare quel libro significherebbe carpire il segreto dell’esistenza. Ma lo scrittore ci fa sapere che probabilmente la razza umana si estinguerà e la biblioteca sopravviverà ai suoi lettori. La biblioteca è quindi il simbolo della conoscenza universale. Veniamo invece alla sfera, ovvero all’Aleph. Questo ultimo è “il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli”. La sfera quindi è per Borges il luogo che permette all’uomo di travalicare gli angusti limiti della propria percezione visiva e della propria corporeità.

Se la biblioteca è simbolo della conoscenza, invece la sfera è simbolo dell’esperienza, a mio modesto avviso. Per Borges il libro è sempre stato un labirinto di simboli: un’opera aperta in cui il lettore può scegliere tra diverse alternative. Se il labirinto però sembra descrivere il groviglio inestricabile dell’esistenza umana dobbiamo riferire che è per Borges un simbolo di vita e non di morte. Infatti nell’ “Aleph”, più esattamente nel racconto “I due re e i due labirinti”, due sovrani si sfidano tra loro.

Il primo rinchiude il secondo nel labirinto, ma questo ultimo riesce a uscirvi. Il re fuggito dal labirinto invece fa prigioniero l’altro e lo mette nel deserto in cui morirà di fame. Borges in definitiva ci insegna che l’uomo senza l’attività simbolica sarebbe niente. In fondo per gli antropologi l’uomo è giunto alla civiltà quando è iniziato il culto dei morti: riti e pratiche che senza capacità simboliche non sarebbero esistite. Borges ci ricorda anche che la vita umana è una vita in profondità.

 

Di Davide Morelli

Eva, Luna e le donne di Isabel Allende

La letteratura, almeno negli ultimi due secoli, sembra uno dei pochi campi in cui le donne hanno pari possibilità di emergere, se comparate con gli uomini. Si pensi alla visionaria Virginia Woolf, e più indietro nel tempo alla solitaria e passionale Emily Dickinson o alle sorelle Bronte che riuscirono ad emergere in tempi assolutamente misogeni. Ogni donna, nella letteratura e nei suoi scritti porta qualcosa: se stessa, la storia del suo mondo, i suoi demoni.

La donna-scrittrice del Sudamerica è, senza alcun dubbio, Isabel Allende. La Allende rappresenta l’uragano inarrestabile che caratterizza la sua cultura di origine e la verbalizza nei suoi romanzi attraverso figure femminili forti, determinate ed indimenticabili. La sua abilità, oltre alla capacità di maneggiare splendidamente un ampio vocabolario attraverso una prosa scorrevole ed intrigante, sta nell’intrecciare abilmente e instancabilmente vite, storie e personaggi, con continue analessi e prolessi, che permettono al lettore di vivere in una temporalità quasi astratta, circolare e continua, senza mai nessuna brusca interruzione . Il viaggio da un continente all’altro, da una generazione all’altra, da una mente a una seconda, è delicato e fluido come un liquido che scorre lento e diventa impossibile perdersi. I lettori che hanno imparato a conoscere il suo stile semplice ma con punte di artistico puro, già dalle prime pagine sapranno riconoscere i futuri intrecci ed incontri tra i diversi personaggi, ma resteranno sempre stupiti dall’intreccio, dalle coincidenze e dalle occasione che porteranno i giganti in lotta e gli amanti nelle stanze della passione.

Sebbene tematiche ed ambientazioni possano ricordare il realismo fantastico del grande Gabriel Garcia Marquez e dei suoi Cent’anni di solitudine o de L’amore al tempo del colera, l’autrice spicca e si distingue nell’accurata personalizzazione e profondità di carattere che dona ad ogni attore che interviene nella storia, sia esso un personaggio minore o il protagonista stesso, con una particolare attenzione, come si è già detto, per il genere femminile. Eva Luna, Maya, Inès Suarez sono donne che appaiono quasi mitologiche, più o meno reali, donne che si assomigliano un po’ tutte tra loro poiché il tratto comune che le caratterizza risiede nel fatto che tutte hanno affrontato e vinto condizioni sfavorevoli, donne lontane ma attuali, che vincono la vita.

Donne non marginali, donne non solo innamorate che ci regalano i romanzi rosa, ma donne umili e coraggiose che fanno la storia: Eva partecipa alla rivoluzione, Inés conquista il Cile al fianco del suo amante. E forse, le donne, sono solo strumento modellato da una geniale Allende per raccontare il suo bel continente, troppo spesso disegnato dalla corruzione, dalle lotte e dalle dittature, per contestare questa storia sbagliata ma, allo stesso tempo, per esaltare i miti, le culture, l’amalgamarsi di razze che sono confluite nello stesso paradiso terrestre.

Una donna che scrive di donne dunque, per sconfiggere la censura, i pregiudizi, per dare forza e valore alla parte debole della società, che spesso ancora cela e nasconde il valore del genere femminile. Ma anche un esempio di tolleranza e apertura nei confronti degli altri, del diverso, di ciò che fa paura. Una via, forse, da seguire, per chi ancora è nascosto e cerca la forza di lasciarsi guardare. La Allende sembra invitare gli uomini stessi (che nei suoi romanzi vivono di luce riflessa delle donne, restando sullo sfondo della storia), a coltivare la loro energia femminile più nascosta, quell’intraprendenza unita alla pietas che può non fare che bene al mondo, senza però mai dimenticare che ci sono donne e donne e uomini e uomini.

‘Finzioni’, l’opera capitale e ricca di simbolismo di Borges

Stimato come uno dei classici più interessanti  del novecento, Finzioni è l’opera capitale di Jorge Luis Borges. Tale raccolta di racconti è divisa in due parti: Il giardino dei sentieri che si biforcano (1941) ed Artifici (1944). L’opera annovera al suo interno racconti che sono diventati capisaldi essenziali per l’analisi del pensiero borgesiano. Sono infatti inclusi nella raccolta racconti quali: la Biblioteca di Babele, Tlon, Uqbar e Orbis Tertius, Il giardino dei sentieri che si biforcano.

Attraverso un uso spropositato di un simbolismo accattivante e a volte ferocemente distante, l’autore argentino ci guida nel viaggio personale attraverso un’interpretazione critica e molto spesso anche intuitiva  della realtà circostante. Borges crea un linguaggio universale, capace di parlare al di là delle parole e dei simboli, di arrivare al lettore e di riuscire ad instaurare con lui un dialogo, e tutto ciò nonostante esso risenta di uno smodato enciclopedismo. L’opera, attraverso la mano sapiente dell’autore, mostra un modo di percepire la vita totalmente innovativo e sicuramente interessante, invitandoci a riflettere sulla reale entità delle cose.

Finzioni, al contrario di quanto dice il titolo, diventa una straordinaria, simbolica e labirintica ricerca della verità. Borges affida al termine finzioni quelle realtà materiali che risultano espressioni congetturali di un senso comune troppo legato al materialismo esistenziale e vi contrappone una visione dellea realtà che va ad abbracciare punti di vista fantastici e metafisici, diversi tra loro.

Lo scrittore ci fa scoprire una realtà nascosta dentro la realtà stessa, una realtà che è celata dal tempo, dagli uomini e dal mondo. La stessa realtà che Funes abbraccia con la sua mente e che non lascia mai, la stessa che Pierre Menard cerca di riprodurre e contemplare nel suo plagio idealistico. Nell’universo di Finzioni, la realtà è mutevole ed osservata dai suoi differenti punti di vista non è mai componibile e pensabile come un unica realtà oggettiva, bensì essa è rappresentata come una realtà che si ramifica in più realtà, soggette alle arbitrarie interpretazioni dell’uomo.
Queste realtà vanno a comporre quel dedalo inestricabile di incomprensioni e rivalutazioni degli eventi che matura in una visione innovativa e soggettiva delle cose, una visione per cui una riproduzione perfetta e simmetrica del don Chisciotte, redatta agli inizi del XX secolo dalle mani di Pierre Menard, diviene un opera completamente diversa da quella originale del XVII secolo di Cervantes, una visione per cui la parola cane, che identifica un cane alle tre e un quarto visto di fronte, non identifica un cane alle tre e un quarto visto di profilo (esempi tratti dall’opera).
Questo tipo di realtà è appunto soggetta a parametri esterni di valutazione quali il progresso o il regresso della memoria e della storia, ovvero della realtà sensibile e percepibile.

Al di là della matrice materiale del mondo, Borges identifica una matrice iper-materiale,che è quella delle idee (tale concezione è presente nei racconti Tlon, Uqbar e Orbis Tertius, Le rovine circolari, Il giardino dei sentieri che si biforcano, La lotteria a Babilonia). Le idee infatti possono toccare la realtà e renderla effettiva. Non è dunque solo la realtà materiale ad influenzare le componenti più “astratte”dell’esistenza, bensì è vero anche il contrario: le idee creano la realtà, o meglio le realtà. Infatti di pari passo allo sviluppo dell’idea dell’origine metafisica della realtà vi è lo sviluppo dell’idea di infinità molteplicità della realtà stessa. La realtà caratterizzata come “nostra” è solo una delle infinite possibilità che aleggiano nell’esistenza. Vengono perciò a crearsi infinite realtà che si muovono parallelamente l’una all’altra. Queste realtà molteplici ed infinitamente diverse vengono a distinguersi a partire dagli eventi,che possono risolversi in esiti diversi,ma addirittura possono ripetersi, come ci ricordano Il giardino dei sentieri che si biforcano, La Biblioteca di Babele e La lotteria a Babilonia. 

Determinante a questo punto diviene un altro filone che si viene a creare nell’opera: il filone della verità. Tale filone interessa quasi tutti i racconti; in ognuno di essi c’è una rivelazione, un paradigma prima sconosciuto che ora diviene la componente più veritiera e importante della realtà. Uno degli elementi più interessanti circa questo filone appare ne L’Accostamento ad Almotasim, dove la ricerca della verità viene condotta per canali molteplici e soggettivi, infatti ogni cercatore di Almotasim lo immagina e conosce in maniera differente.
La ricerca della verità diventa unico significato da ricercare nella realtà, così per alcuni dei personaggi dei racconti, come gli uomini nel racconto La Biblioteca di Babele, o per Le rovine circolari. La verità celata ne La Biblioteca di Babele, quella che tutti gli uomini cercano in un mondo in cui la realtà è composta da realtà eternamente infinite, mutuando elementi dalla teoria dell’eterno ritorno di Nietzsche, diventa a sua volta una finzione e per questo non costituisce la vera chiave per definire la realtà, bensì un altra interpretazione arbitraria di quest’ultima e un incompleta visione delle cose.

In questo labirinto di realtà arbitrarie, misteriose,indefinite, nascoste, impercepibili e sfuggenti, in maniera indiretta viene a delinearsi un filo conduttore a cui aggrapparsi. L’opera apparentemente sembra una critica che non si accontenta di esserlo. L’opera di Borges infatti riesce ad evitare uno dei maggiori rischi di un opera critica, quella di restare fine a se stessa nel ruolo di critica sterile, ovvero di evidenziare i problemi e non offrire soluzioni. Anche se Borges sembra muoversi in questo senso, infatti il più delle volte non fornisce un modo giusto di interpretare l’esistenza, ma preferisce una pacifica e tranquilla presa di posizione indipendente e personale, come nel caso del finale di Tlon, Uqbar e Orbis Tertius o ancora in Le tre versioni di Giuda, ma indirettamente sembra gridare ed auspicare una presa di coscienza della realtà.

Le finzioni di cui Borges ci parla in tutta l’opera appaiono come comuni e universali, vicine alla quotidianità umana e si delineano come quelle interpretazioni approssimate e fittizie della realtà da parte dell’uomo. L’invito indiretto fatto dall’autore sta nel non considerare tutto come stabilito e definito, ma nell’appropriarsi della materia di cui sono fatte le stesse finzioni, ovvero nella capacità critica e interpretativa dell’uomo. Borges sembra inserire il messaggio più importante della sua vita, un messaggio che diviene automaticamente il retaggio e l’eredità lasciata ad ogni fiero lettore dell’autore e dell’opera, l’autore argentino sembra pronunciare in quest’opera un’esortazione, che diventa un imperativo per raggiungere la verità indefinita dell’esistenza: siate critici e non credete alle finzioni.

 

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