‘Tenet’: il grandioso spy-thriller di Nolan che sfida Netflix e il pubblico con un budget stellare

Se Inception vi sembrava tortuoso, allora Tenet sarà un vero rompicapo. Con la consueta maestria Nolan ci conduce per centocinquanta minuti di pura adrenalina sapientemente alternata a momenti di quiete apparente, nei meandri di una trama di spionaggio complessa e frammentata.

Due ore e mezza che filano via veloci, senza intoppi, a patto che non abbiate la sfortuna di trovarvi in una di quelle sale dove si accendono le luci per l’intervallo, obbligandovi a uscire dall’immersione cinematografica e a ricordarvi del distanziamento sociale; perché la grande abilità del talentuoso regista londinese coincide con il più vecchio trucco del Cinema: far immedesimare lo spettatore, facendogli letteralmente dimenticare d’essere seduto sul seggiolino.

E Nolan è – insieme a Tarantino e Eastwood – il regista hollywoodiano più conservatore: esclusivamente pellicola da 70mm “girata” alla vecchia maniera, senza troppi effetti speciali da post-produzione, per dei film che riescono a trasudare realtà anche quando leggiamo sul muro “Occupy Gotham City”. È l’unico regista – non a caso europeo – che sembra abbia lo scopo di ridare lustro, se non proprio riscrivere, la mitopoiesi del grande Cinema americano con un taglio d’autore, partendo da cervellotici soggetti propri e mantenendo il controllo assoluto su ogni aspetto della produzione.

Tenet è fondamentalmente una summa delle grandi tematiche ricorrenti nella sua cinematografia: storia d’azione e di spionaggio, ma anche indagine e contemporaneamente pellicola di fantascienza. Un film così semplicemente complesso da essere, a tratti, sovrabbondante, quando dallo schermo fuoriesce una mole d’informazioni impossibili da decifrare, come suggerisce lo stesso enigmatico palindromo “tenet” – irrisolto mistero medioevale del cosiddetto quadrato di Sator -, che qui diventa il codice di riconoscimento di un’oscura organizzazione che deve sventare la futura Terza Guerra Mondiale.

La concezione del tempo, seconda grande ossessione del Cinema nolaniano, è il fulcro della sceneggiatura; dove il tempo fasullo di Memento, quello sospeso di Inception e quello relativo di Interstellar, si fondono per diventare addirittura tempo reversibile; come il film stesso che procede eppure si svolge anche all’indietro, ma senza flashback né struttura circolare.

La fine coincide con l’inizio ma è un altro autentico inizio, lontanissimo da quello che capitava a Leonard Shelby e ai suoi difetti di memoria; eppure è anche conclusiva. Questa volta non ci sono margini di errore, regna l’estrema lucidità. L’incipit è veloce, violento e grezzo, paragonabile solo all’apparizione di Bane nell’ultimo capitolo della trilogia di Batman e ci scaraventa immediatamente nell’inferno di un teatro preso d’assalto da spietati terroristi.

Ci troviamo in Ucraina ma la mente e la dinamica riportano subito la mente al teatro Drubovka di Mosca, tra terroristi, forze speciali e il gas che rende gli spettatori incoscienti della cruenta battaglia che infuria intorno. Una platea addormentata e anestetizzata come noi spettatori inconsapevoli della guerra imminente, seduti dentro una sala mezza vuota con le mascherine a coprirci il volto, come anche i protagonisti a un certo punto saranno costretti a indossare per sopravvivere. L’ennesimo cortocircuito. È il futuro stesso a farci guerra con fantascientifiche manovre a tenaglia, con algoritmi “fine di mondo” e paradossi temporali ma, in realtà, è lo stesso Nolan a essere sceso in guerra.

La sfida del regista inglese per attirare il pubblico nei cinema grazie a un film dal budget colossale – 205 milioni di dollari – parte già azzoppata dal Covid. Il film è uscito (per ora) solamente nelle sale europee a capienza ridotta e ha subito la minaccia di boicottaggio da parte cinese se non si fosse accorciata la durata di mezz’ora per recenti disposizioni sanitarie. Anche solo per questo, allora, varrebbe la pena di andare a vederlo integralmente, senza pause e senza paura.

 

Alvise Pozzi

 

Pensieri da Oscar: anche quest’anno fuori i non inclini al conformismo ideologico, ma con un certo garbo

Peccato che non abbia vinto “Il corriere – The Mule”. Ah, già, il film di Eastwood agli Oscar non era neppure candidato. Dimenticavamo che quando si srotola il red carpet del Dolby Theatre Hollywood non ammette deroghe: anche quest’anno, infatti, una volta fatto fuori il maestro poco incline a conformarsi ai diktat ideologici, le statuette s’accomodano sotto l’ala del politicamente corretto.

Perlomeno, però, con un certo garbo: “Green Book” è un film solido e scaltro, gratificato dal fascino vintage dei film di Capra e impreziosito oltre i suoi meriti da un duetto recitativo d‘alta classe, mentre “Roma”, di gran lunga superiore, permette a Cuaròn di mettere a segno la memorabile accoppiata migliore regia/miglior film straniero. Non solo: il messicano, che non è uno schizzinoso autore all’europea visto che appena cinque anni fa con il kolossal fantascientifico “Gravity” incamerò sette statuette, sdogana definitivamente proprio nel tempio del cinema-cinema Netflix, la piattaforma streaming forte di 125 milioni di abbonati nel mondo peraltro ormai orientata a trattare sulle reciproche convenienze con gli ex arcinemici produttori, distributori ed esercenti.

Siccome c’è sempre uno più puro che ti epura, è significativa anche la notizia che il grande Mortensen di “Green Book” nelle more del trionfo è stato accusato di razzismo (al regista Singer di “Bohemian Rhapsody” è andata peggio: protestato perché denunciato per molestie sessuali). Sempre riguardo ai buoni sentimenti, che non fanno male ma non determinano il quoziente artistico, troppo poco risalto è stato pour cause concesso a “La favorita”, il magnifico apologo in costume in cui la migliore attrice Colman fa a gara in perfidia e morbosità con la Stone e la Weisz sconfitte nella categoria delle non protagoniste dalla King del flebile “Se la strada potesse parlare” (peraltro superiore a “Blackkklansman”, migliore sceneggiatura grazie a uno dei peggiori film di Lee che si ricordino).

Inevitabile, invece, il premio al super-imitatore di Mercury Malek perché piace immensamente al pubblico a cui, però, sui trasgressivi Queen per colmo di mistificazione è stato confezionato un biopic edificante. Come del resto quello a “Shallow”, la canzone strappamutande di Lady Gaga insuperabile per come s’esalta abolendo anziché indossando i trucchi e le mise del proprio personaggio.

 

Pensieri da Oscar

Venezia 75: “Top” e “Flop”

La Mostra cinematografica di Venezia 2018 verrà ricordata come un successo, per i registi presenti e per la qualità dei film. È stata l’edizione di Netflix, al Lido in forze dopo che Cannes aveva rifiutato i suoi film, ma anche l’edizione con una sola regista in gara.

 

TOP

Killing
Il samurai che non volle uccidere. Solo il maestro Tsukamoto, già cantore del cyberpunk di culto “Tetsuo”, poteva elevare un purissimo inno alla pace e all’amore senza un briciolo di predica ideologica.

The Sisters Brothers
Cavalcarono insieme come in Ford o Peckinpah. Grandioso ritorno del western con tutto il suo omerico fascino d’epopea avventurosa. No Leone, no Tarantino.

Roma
Gruppo di famiglia in un interno messicano. L’assoluta credibilità psicologica coniugata con l’estrema raffinatezza tecnica. Ovvero la formula ideale del cinema.

FLOP

Doubles vies
Quanto chiacchierano a vuoto e quanto si crogiolano nelle proprie tresche i “bobos”, i bourgeois-bohémiens parigini. Perfetti per il bistrot o il dibattito in libreria, ma poi i voti vanno a Le Pen e Macron.

Nuestro tiempo

Nell’allevamento di tori i bambini si sbracano nel fango e il feticcio cinefilo Reygadas gode nell’asfissiare lo spettatore. Solo quando il boss spinge la moglie a sfogare con altri le incontenibili voglie, le corna metaforiche diventano più gradevoli di quelle dei malcapitati bestioni.

Sunset
Record di riprese da mal di testa ed estenuanti allucinazioni. Chi aveva decretato che l’ungherese Nemes di Il figlio di Saul è più o meno all’altezza di Kubrick, dovrebbe andare a nascondersi.

 

VENEZIA 75: “Top” e “Flop”

Cannes 2018 come Fort Apache e la crociata contro i film di Netflix

L’ultimo segnale controverso, si sa, riguarda la (forse) mancata selezione del film di Sorrentino. Ma se volessimo allungare il tiro e sintetizzare in un titolo il nebuloso stato di salute del più importante cinefestival del mondo penseremmo a Cannes Fort Apache. Perchè se è pur vero che nessuno può scippare ai francesi la consolidata tradizione del marchio abbinata al fulgore ammaliante della Croisette, una serie di scelte strategiche, impennate ideologiche e schermaglie mediatiche rischiano sul serio da qualche anno di fare assomigliare la kermesse primaverile cara ai cinèfili a un fortino assediato dai cambiamenti epocali dell’industria dell’intrattenimento e deciso a custodire sino all’estremo sacrificio un culto ogni giorno che passa impoverito di adepti.

Qualcuno dei festivalieri di lungo corso tende a darne la colpa al potente delegato generale Thierry Frémaux, un monumento di competenza purtroppo gravato da tutti i vizi degli intellettuali d’oltralpe (supponenza, sciovinismo, fanatico specialismo) che peraltro fa il suo mestiere macerandosi nel tentativo di non fare spegnere ulteriormente la passione per l’ex arte chiave del Novecento. Sta di fatto che nella conferenza stampa che ha appena rivelato a un sempre meno eccitato parterre l’elenco dei titoli che gareggeranno per la Palma d’oro si è sperperato un quarto d’ora sul “rivoluzionario” provvedimento che probirà agli invitati di fare selfie mentre procedono o stazionano sul tappeto rosso. Per salvare il cinema, insomma, la grandeur di Cannes dovrebbe ricorrere a tali mezzucci anche se, scorrendo al volo il deprimente elenco dei film arruolati, viene subito da pensare che l’aborrita pratica quantomeno avrebbe fatto ottenere una maggiore copertura sui social. Il tappeto rosso è, infatti, facciata e immagine, quindi se ne deve parlare altrimenti è inutile o addirittura dannoso come sostengono i numerosi ossessionati dai pericoli e le lusinghe della mondanità. Senza parlare dell’abolizione delle proiezioni anticipate per la stampa, escogitata anche per evitare il malumore dei produttori che non di rado vedono il proprio film incalzato anzitempo dalla furia sbracata dei blogger di cattivo umore.

Il problema ben più spinoso è quello costituito dalla crociata contro i film prodotti da Netflix, capofila più agguerrito dei network che ormai producono titoli ambiziosi e competitivi destinati, però, a essere trasmessi solo sulle proprie reti. Giá l’anno scorso, infatti alcuni cineasti devoti alla “purezza” della distribuzione e visione nelle sale avevano minacciato il boicottaggio, ma per l’imminente edizione Frémaux ha indossato i panni del barricadero sancendo la loro perentoria esclusione dal cartellone. Naturalmente è utile sapere che il suo non é un embargo dettato dal puro principio perchè è stato spinto a decretarlo dalle pressioni degli esercenti francesi, per i quali le leggi di settore prevedono un sistema integrato d’investimenti, obblighi e privilegi. A niente sono dunque servite le proteste del boss di Netflix Sarandos contro il cambiamento delle regole di ammissione in nome dello spirito di qualsiasi festival del mondo teso a garantire la chance di tutti i film a farsi scoprire da tutti i pubblici. Sulla querelle, peraltro, incombe una minaccia terribile per il destino del cinema: la trasformazione dei festival da luoghi “pagani” di celebrazione e promozione dell’arte popolare per eccellenza in sacrari arroccati in difesa dalla volgarità del mondo che cambia. Intanto, per concederci un brivido nazionalistico, immaginiamo che i vertici della Mostra di Venezia, reduce da cartelloni vincenti nonchè ormai orientata a programmazioni molto più glamour, stiano fregandosi le mani allegramente.

 

Cannes come Fort Apache

Far East Film Festival, il viaggio nel lontano Est dal 20 aprile: il cinema tra vent’anni

Il viaggio nel “lontano Est” si apre venerdì 20 aprile, con il super spy thriller coreano Steel Rain e il dramma malesiano Crossroads: One Two Jaga, per chiudersi il 28 aprile con il war thriller indonesiano Night Bus. Vent’anni fa. Sul tema è stato già detto tutto, forse anche di più. Canzoni. Aforismi prêt-à-porter. Libri. Film. La nostalgia ti aspetta dietro l’angolo, pronta a tenderti un agguato, ed esiste un unico modo per evitarla (o, quantomeno, per attutirne l’impatto): trasformare “vent’anni fa” in “tra vent’anni”. Ecco perché il Far East Film Festival, simulando una certa noncuranza di fronte a quel 20 che campeggia nel logo, ha scelto di muoversi lungo una linea diversa. Lontana dalle tentazioni autocelebrative, lontana dal reducismo e, pur senza disporre dell’apposita sfera di cristallo, indirizzata verso il futuro: cos’è il cinema oggi e cosa sarà, appunto, tra vent’anni?

Il modo in cui l’industria cinematografica sta sfruttando il prodotto-film sta cambiando. E, va da sé, il pubblico sta subendo una rapida mutazione genetica, determinata in larga parte dalle piattaforme on demand, Netflix e Amazon su tutte. Per parlare al “nuovo pubblico”, che è già il “pubblico di domani”, servono dunque nuovi linguaggi (non è certo difficile scommettere sulla grammatica della serialità), nuovi autori e nuovi registi. Magari, perché no, proprio i nuovi autori e i nuovi registi che quest’anno affollano la line-up del FEFF.
Il dato è davvero impressionante: 21 dei 55 titoli in concorso, su 81 titoli complessivi, sono opere prime o seconde: un autentico vivaio di cineasti asiatici del futuro.

Non era mai capitato nella lunga storia del Far East Film Festival e il Far East Film Festival, guardando avanti, ha deciso di non sottoporre i “Fab 21” soltanto all’esame degli spettatori (da sempre, ricordiamo, arbitri supremi della classifica finale), ma anche di una giuria internazionale altamente qualificata. Tre i componenti: il produttore hongkonghese Albert Lee, il produttore americano Peter Loehr e lo sceneggiatore italiano Massimo Gaudioso, firma storica del cinema di Garrone.

Ai tradizionali audience awards udinesi per il miglior film, il Gelso d’oro assegnato dal pubblico e il Gelso nero assegnato dagli accreditati Black Dragon, si aggiungerà quindi il Gelso bianco per la migliore opera prima o seconda assegnato da Lee, Loehr e Gaudioso. Una piccola rivoluzione che porta chiaramente in sé qualcosa di più grande: tutte le radici che il FEFF ha piantato, curato e visto crescere dal 1999.
L’Asia è sempre lontana, certo, il cinema di vent’anni fa è già storia e, per sapere cosa sarà il cinema tra vent’anni, gli spettatori dovranno seguire il FEFF ancora a lungo. Poi, magari, chissà: il battito d’ala di una farfalla a Udine, in un film del festival, potrebbe anche terremotare il cinema in tutta Europa!

http://www.fareastfilm.com/
(a cura di Andrea Coco)

‘Annihilation’ di Alex Garland uscito in Italia su Netflix: il primo musical meta-fantascientifico della storia del cinema

«Uno, poi due, poi quattro, poi otto e ancora avanti, fino a plasmare tutta la vita del pianeta, forse dell’Universo. Tutta la vita terrestre è riconducibile a pochi prevedibili numeri?» La progressione geometrica della mitosi cellulare è scandita in apertura di questo Annihilation dalla protagonista, la biologa Lena interpretata da Natalie Portman. La vita per lei si è appena fatta molto complessa: il marito, militare disperso in azione e dato per morto, è tornato a casa insperatamente vivo, ma non parla ed è malatissimo. L’esercito preleva la coppia e la porta al limitare della misteriosa Area X, un’anomalia spazio/temporale (ma non solo) che sta lentamente ingoiando la costa meridionale degli Stati Uniti e nella quale l’uomo era stato impiegato per un’operazione segreta della quale è l’unico sopravvissuto. Assieme ad un team di volontarie, Lena parte all’esplorazione.

Sono queste le premesse narrative per la seconda regia di Alex Garland, il quale dopo il bellissimo Ex Machina (2014) dirige Annihilation, ispirato dal romanzo omonimo di Jeff VanderMeer e uscito in Italia direttamente su Netflix. C’è chi parla di capolavoro, chi invece di un film insulso – e a questi ultimi, soprattutto a chi lo condanna come “troppo lento”, consigliamo di dedicarsi alla visione di un Transformers a scelta: ne trarranno sicuro giovamento e si parla comunque di mutazioni. Per tutti gli altri, dobbiamo dire che no, probabilmente questo non è un capolavoro (ma il tempo lo deciderà, non noi), bensì di un film comunque estremamente interessante sul piano estetico. Tre le direttrici principali per analizzarlo e comprenderne i riferimenti principali.

La cornice di Annihilation è senza dubbio debitrice di Cuore di Tenebra: il viaggio verso l’ignoto, l’immersione in un progressivo straniamento, l’alienazione crescente rispetto al mondo esterno e normale. Il debito tuttavia è indiretto e passa per Foresta di cristallo, che di Cuore di tenebra è la versione fantascientifica firmata da quel genio di J.G. Ballard. L’opera viene omaggiata nel libro di VanderMeer con i nomi delle protagoniste e nel film di Garland con degli alberi appunto di cristallo che vedremo verso la fine del viaggio delle donne.
Non un viaggio iniziatico, ma di morte/rinascita, come Apocalypse Now!, che termina in un utero di terra, nel ventre della spiaggia in cui l’anomalia ha avuto inizio e dove la Portman, come un gamete giunge a fecondare l’ovulo deposto dalle stelle.

Il secondo enorme debito è al genio di David Cronenberg, filosofo estetico più che autore cinematografico. Garland non ha nulla della sensualità registica del canadese e anzi le scene più viscerali vengono rese con un distacco e una freddezza più deludenti che eleganti; ma i temi sono quelli sul quale il Maestro della Nuova Carne ha costruito la propria meravigliosa carriera artistica. La materia muta a livello cellulare dentro l’area X, animali si mescolano ad altri animali e ai vegetali, le rocce alle piante, il tempo si piega. Tutto contamina tutto.
L’area X è quindi un immenso tumore: non è dato sapere se benigno o maligno, ma senza dubbio Garland coglie l’aspetto creativo, innovativo e rinnovativo di questa mutazione. D’altronde l’evoluzione, fisica come ideale, non è un opera di innesto e modifica di quanto già esistente in precedenza? Gli strappi nella storia del pensiero non sono sempre nati da anomalie? Questo è forse l’aspetto sul quale Garland avrebbe potuto spingere ancora di più. Cronenberg, nel suo delirante Crimes of the future (1970), proponeva tra i suoi personaggi un uomo che cresceva volontariamente nuovi organi, che continuamente gli venivano espiantati. “I miei organi sono pianeti e il mio corpo è una galassia”, sosteneva delirante: c’è più carnalità in questa frase che in tutto il film di Garland, che invece (purtroppo) imbocca una via più minerale e vegetale per la mutazione, cercando di buttarla sulla metafisica. Ci riesce, ma ci saremmo divertiti di più con David (quando tornerà a fare un nuovo film? Forse mai…)

Morire come singolo per rinascere come multiplo: questo è il destino del gamete sessuale in procinto di farsi nuova vita, come pure della cellula sul limitare della scissione moltiplicatrice. L’uno che si fa due, nuovamente in uno spazio chiuso come già è successo in altre pellicole firmate (regia o sceneggiatura) da Garland: l’ultimo debito del regista è con sé stesso e con alcune riflessioni già proposte in Ex Machina. Gli uomini e le donne che percorrono il fiume di tenebra interiore attraverso la mutazione fino al faro dove tutto ha avuto origine si infilano in un ventre dal quale è impossibile fuggire e dove il regista mette in scena l’elegante allegoria di un’inseminazione. Nella progressione geometrica uno-due-quattro-otto-eccetera della mitosi cellulare, l’atto rivoluzionario è quello che conduce dall’uno al due. Il resto è conseguenza.
Cos’è la copia della cellula rispetto alla cellula madre? È lo stesso o è altro? La danza che la Portman inscena con se stessa, esito di una sequenza finale che da sola vale il prezzo dell’abbonamento di Netflix, è la rappresentazione coreografica del perturbante rapporto con il doppio: le nostre copie, i nostri figli, sono nostre mutazioni. Ma noi stessi siamo la mutazione quadridimensionale di noi stessi; lo capiamo esaminando la relazione tra Lena e il marito attraverso brevi flashback. Io sono io o sono la mia copia? L’enigma dell’identità, proposto in termini di pensiero e memoria in Ex machina (ma anche in Blade Runner 2049) è qui suggerito in termini fisici. Il nostro corpo muta continuamente, le nostre cellule muoiono e si riproducono, noi restiamo sempre noi stessi. Perché? Cosa ci rende noi? E se fossimo una galassia di noi differenti e mutanti?

Annihilation non è un capolavoro, ma forse diverrà di riferimento sotto molti aspetti nei prossimi anni. Le domande che pone sono molte e interessanti, anche se nessuna particolarmente originale; ma l’impatto estetico è meraviglioso, soprattutto nei minuti finali dove il combinato di immagini, musica e coreografia genera il primo musical meta-fantascientifico della storia del cinema: presa a sé questa sequenza è senza dubbio un gioiello artistico, una meravigliosa mutazione nel film e nel genere.

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

‘The Crown’, la serie targata Netflix rinnovata per una seconda stagione

The Crown è una serie tv anglo-americana realizzata per Netflix da Peter Morgan, pubblicata sulla piattaforma il 4 Novembre 2016 e composta da dieci episodi. Si tratta di un dramma storico che ripercorre i primi anni di regno della regina Elisabetta II, dal suo matrimonio con Filippo fino al ritiro dalla vita politica del primo ministro Winston Chuchill. Netflix ha già annunciato una seconda stagione, raddoppiando il budget già stellare. Il cast è composto da Claire Foy (nei panni della Regina Elisabetta II), Matt Smith (Principe Filippo), Vanessa Kirby (Principessa Margaret), John Lithgow (Winston Chuchill).

The Crown: il peso della Corona

La fortunata serie, apprezzata da pubblico e critica, ha riscontrato anche il favore della regina stessa che, secondo l’ufficio stampa di Buckingam Palace, guarderebbe la serie insieme al figlio minore Edoardo e alla nuora Sofia. The Crown è una serie tv sulla nobiltà inglese, ma vista dall’insolito punto di vista della ‘normalità’. La Corona è rappresentata non solo come privilegio concesso da Dio, ma dovere che comporta più obblighi e privazioni che altro. Elisabetta dovrà combattere contro se stessa in più occasioni, trovandosi a scegliere tra la sua vita privata e la sua famiglia e i doveri della Corona, arrivando a corrodere anche il proprio matrimonio con Filippo e il rapporto con la sorella Margaret. Un altro punto forte della serie è senz’altro la presenza di costumi curati nei minimi dettagli da Michele Clapton, costumista anche di Game of Thrones, dalle gonne a ruota anni ’50 all’elegante vestito dell’incoronazione di Elisabetta, riprodotto ad arte.

Un dettaglio da non sottovalutare è anche la scelta degli attori, che incredibilmente somigliano molto agli originali, soprattutto la regina e il principe Filippo. The Crown ha vinto due Golden Globe nel 2017 come ‘Migliore serie drammatica’ e ‘Migliore attrice protagonista in una serie drammatica’ (a Clare Foy), nonché i premi come ‘Migliore attrice in una serie drammatica’ (a Clare Foy) e ‘Migliore attore in una serie drammatica’ (a John Lithgow) agli Screen Actors Guild Award sempre nel 2017. La seconda stagione di The Crown verrà rilasciata a un anno dalla prima, a Novembre 2017, e coprirà un periodo storico che va dal 1955 agli anni ’60.

‘Tredici’, la serie tv targata Netflix che ha diviso la rete

La serie tv Tredici, conosciuta negli Stati Uniti come 13 Reasons Why, è sbarcata sulla piattaforma Netflix il 31 Marzo 2017. La serie è stata creata da Brian Yorkey sull’omonimo romanzo di Jay Asher, autore conosciuto per i suo romanzi indirizzati prettamente al pubblico adolescente e che trattano i temi propri di quest’età. Tredici racconta la storia di Hannah Baker, ragazza suicidatasi prima dell’inizio dell’episodio pilot e che, nelle ore che hanno preceduto la sua morte, ha inviato una serie di tredici cassette (da qui il nome della serie) a tutti coloro che, in minima o grande misura, hanno contribuito a spingerla al suicidio. Il primo episodio vede uno dei più grandi amici di Hannah, Clay Jensen, ricevere il pacco di audiocassette e cominciare a interrogarsi sulla morte della ragazza della quale era segretamente innamorato da anni.

Analisi di un fenomeno della rete: i difetti di Tredici

La serie Tredici, non a caso, è composta da tredici episodi, ognuno concernente una delle ‘verità’ di Hannah. La storia è raccontata dalla sua voce narrante, ma la ragazza è protagonista degli episodi raccontati a Clay anche fisicamente. Il ritmo della narrazione si mostra, nei primi episodi, incalzante e carico di suspense, e così anche nei tre episodi finali, durante i quali viene svelato interamente il mistero sulla morte della protagonista. Ma, isolando gli episodi centrali, si può notare un profondo calo di interesse dovuto alla volontà di allungare la storia più del dovuto, pecca che di certo si può riscontrare anche nell’omonimo romanzo di Jay Asher. I racconti di Hannah si concentrano su piccoli e grandi episodi di bullismo, fino a sfociare nella violenza sessuale, eppure per la prima parte della serie è difficile per lo spettatore entrare davvero in empatia con la protagonista, che sembra in alcuni casi causa dei suoi stessi problemi, ovviamente escludendo dal discorso i casi di violenza. Per il resto Hannah sembra risentire con eccessiva sensibilità di episodi più adatti alle ‘burle’ da scuola elementare che alla vita di una ragazza di 18 anni, come il furto di alcuni foglietti indirizzati a lei o la pubblicazione di una sua poesia sul giornale della scuola senza il suo consenso. Così facendo, il regista ha spostato il focus dalle vere ragioni del suicidio di Hannah, descritte solo nelle ultime audiocassette. Per non parlare del protagonista, Clay Jensen, inglobato nel gruppo degli ascoltatori e potenziali istigatori al suicidio senza alcun valido motivo.

Tredici è una serie che ha diviso l’opinione pubblica fra chi l’ha aspramente criticata per il modo in cui è stata realizzata, lenta e piena di episodi non necessari, e chi l’ha lodata, sicuramente ritenendo più importante il tema trattato. Ma su questo genere di storie sono state create molte serie di successo, da I segreti di Twin Peaks alle più recenti Pretty little liars e Big little lies, in cui i temi caldi, dalla violenza al bullismo, sono stati ben bilanciai da un ritmo narrativo di certo più accattivante. Cavalcando l’onda del successo, Netflix ha già commissionato una seconda stagione di Tredici per l’anno prossimo.

Exit mobile version