Elogio dei Giochi Paralimpici, uno schiaffo all’edonismo e al narcisismo

L’estate è ai titoli di coda, e con essa tanti avvenimenti, più o meno curiosi, più o meno importanti in ogni campo sociale, economico, politico, scientifico, culturale e finanche sportivo. A seguito del campionato di calcio europeo che ha visto trionfare l’Italia dopo un digiuno di 53 anni e la splendida olimpiade di Tokyo 2020 – record di medaglie, con, tra gli altri, Tamberi, Jacobs e la staffetta 4×100 che hanno inciso a fuoco per sempre il nome del Belpaese nella storia – questi ultimi giorni e settimane ci hanno portato in dote i Giochi Paralimpici, che si svolgono tradizionalmente sempre dopo la fine dei Giochi Olimpici “tradizionali”.

Felice intuizione dei tempi recenti – a onor del vero una delle poche – i Giochi Paralimpici rappresentano l’equivalente dei Giochi Olimpici per atleti con disabilità fisiche e motorie. Nel 1960 sono nati quelli estivi, mentre nel 1976 si registra la prima edizione di quelli invernali, nel rispetto delle molteplicità degli sport e delle discipline riconosciute.

Sessanta anni fa, quindi, si è promossa la brillante e per certi versi rivoluzionaria idea di attribuire finalmente allo sport in generale quel carattere di universalità e inclusività da tutti sulla carta riconosciuto rispondendo a un tale semplice quesito: per quale motivo anche chi viene definito diversamente abile non può misurarsi in gare, Giochi e competizioni?

Questa domanda ha mosso fin da subito personalità e comitati organizzatori che hanno contribuito in modo decisivo alla nascita delle Paralimpiadi così come le conosciamo oggi; non sempre si è trattato di un percorso facile, non sempre si è trattato di un percorso privo di ostacoli e fraintendimenti.

Quello più aggrovigliato, perché più difficile da districare, è stato – ed è tutt’ora – quello legato ad una improbabile e poco proponibile competizione mediatica tra Giochi Olimpici e Giochi Paralimpici, su chi ha diritto a più visibilità rispetto a che cosa, sullo stabilire se la medaglia dell’atleta paralimpico sia da far risplendere di più rispetto a quella dell’atleta normodotato o viceversa. Mettere in competizione le due manifestazioni, significa non perseguire lo spirito con cui sono nate, oltre che voler livellare ad ogni costo trofei e medaglie, con parametri aprioristici e magari, vista la loro popolarità attraverso codici numeri e statistiche.

Le Paralimpiadi hanno la stessa dignità delle Olimpiadi, pur in condizioni e contesti diversi, non sono né da considerarsi inferiori, né superiori, magari sotto il mal celato velo di qualche atteggiamento di ipocrita compassione.

I giochi paralimpici rappresentano una risorsa in più, mostrabile a tutti, di cosa sono capaci di fare uomini e donne quando fiducia, passione, coraggio, intraprendenza, solidarietà, rispetto e spirito di sacrificio vengono a galla, in tutta la loro meravigliosa potenza e indipendentemente da qualsiasi condizione di partenza.

Ciò non significa, è evidente, che differenza e peculiarità non esistano e che siano da abbattere. Diversità e omogeneità sono due facce della stessa medaglia, due ricchezze non in contraddizione le une con le altre, nello sport come nella vita pubblica o politica: si deve amare la propria Patria come si rispetta e si riconosce la Patria altrui. Così nello sport: si ama il gesto atletico di Filippo Tortu che per un battito d’ali consegna all’atletica leggera italiana la medaglia più importante, allo stesso tempo della staffilata di Bebe Vio, che dopo Rio 2016 si ripete a Tokyo 2020 con un’impresa leggendaria.

A livello mediatico e comunicativo, tuttavia, le Paralimpiadi – è innegabile – pur con evidenti passi in avanti e miglioramenti, non hanno avuto le migliori fortune delle “classiche” olimpiadi: il livello di attenzione, seppur alto, è minore, curiosità e seguito non sono costanti come ci si potrebbe legittimamente aspettare. Colpa o demerito di tutti noi, video-telespettatori interessati.

Al netto dei nostri impegni imperanti, del nostro lavorare 40 (o 50?) ore settimanali per avere un mese all’anno di ferie e del poco tempo a disposizione per svagarci e allietarci, le Paralimpiadi ci mettono davanti ad una realtà che in tanti, troppi facciamo finta di non vedere.

In una società giunta al suo massimo stadio di edonismo e di narcisismo, in cui selfie e foto-ritocchi contano di più della sostanza dei rapporti interpersonali, oberata da un culto individuale fine a se stesso, le immagini degli atleti paralimpici ci infastidiscono, perché ci ricordano quanta sofferenza e quanta difficoltà esiste proprio lì, a due passi da noi.

E non è solo l’aspetto fisico, la disabilità, le menomazioni: riguarda anche fragilità e debolezze di cui ognuno di noi soffre. Guardare le gare di questi atleti ci dovrebbe spingere a vedere l’altro da sé come una forza viva, a renderlo mai fuori posto ma dentro il cerchio tracciato del vivere civile, anche a discapito di una vita tranquilla e priva di scossoni.

Basta poco. Un gesto, un saluto, un sorriso, qualcosa che dica di noi agli altri di più del nostro conto in banca o dell’ultima macchina sportiva che abbiamo festosamente comprato.

Le Paralimpiadi in definitiva interrogano la nostra coscienza, la nostra sensibilità, ci costringono a misurarci con una realtà considerata distante, per poi magari averla a due passi da casa senza accorgersene.

Dovrebbero insegnarci che non con grandi avventure in pompa magna, ma con gesti silenziosi e concreti si costruisce una società più equa, dove quando si intraprendono opere buone “la mano destra non deve sapere ciò che fa la sinistra” con limiti, doveri ed equilibri saldi e ben individuabili.

 

Filippo Massetti

Olimpiadi di Tokyo 2020. L’Italia che corre più veloce e salta più in alto

I 100 metri piani sono la specialità più sublime delle Olimpiadi, la gara regina, perché tutto si gioca in un attimo, il duro allenamento e i sacrifici trovano la loro manifestazione sulla pista rossa che pare avere le sembianze della Terra Promessa.

Ma la terra promessa, la beatitudine si raggiunge proprio nel Giorno del Giudizio; lo stesso giorno, quando l’infinito e l’immortalità si concentrano in movimenti perfetti, in muscoli scintillanti.

In questo giorno psiche e turbamento si fondono nel fisico alchemico dell’atleta che ha fatto del suo corpo strumento di lavoro, perché noi siamo corpo. Il corpo modellato perché ogni microscopico muscolo è un perla rara da donare al vento, alla corsa, agli applausi, ai flash dei fotografi, alla rivoluzione delle statistiche e dei primati.

Stavolta a trionfare alle Olimpiadi, nei 100 m non è stato un americano o un jamaicano, bensì un italiano, di origine texana, dal sorriso disarmante e padre, a 26 anni di tre figli. Il suo nome è Lamont Marcell Jacobs che insieme al marchigiano Gianmarco Tamberi, 28 anni (oro nel salto in alto), hanno regalato all’Italia una grande impresa.

L’Italia che faticava a trovare l’oro ai Giochi di Tokyo è anche quella delle prime volte sorprendenti e memorabili. L’altra faccia del medagliere, nel quale gli azzurri non sono ancora alle posizioni del passato, racconta una verità finora passata sottotraccia e portata ora alla ribalta dal lampo di Marcell Jacobs, splendido campione olimpico sui 100 metri, cosa mai vista anche ai tempi di Berruti e Mennea, e di Tamberi, oro ex aequo nel salto in alto. Un’impresa mai compiuta da atleti azzurri alle Olimpiadi in una domenica del primo mese di agosto che rimarrà nella storia dello sport.

L’uomo che corre e l’uomo che si alza più alto. Il primo è una falena che si dimentica di se correndo, illuminato all’improvviso, pronto a scoppiare in un lampo, il secondo vuol sentirsi mancare la terra sotto i piedi, magari indietreggiando prima di compiere il gesto che lo renderò immortale. Perché indietreggiare è pensare prima di buttarsi, è vivere, e lo si fa per saltare meglio.

Questi cavalieri dell’atletica mentre saltano e mentre corrono probabilmente hanno già vinto perché si avventurano laddove il cielo e la terra non sono divisi. C’è stata divisione di oro invece, per il salto in alto, due atleti reduci dallo stesso infortunio che hanno entrambi meritato di salire sul gradino più alto del podio e deciso di non andare allo spareggio, ma di abbracciarsi e condividere la medaglia più importante.

Che non ci sia qualcosa di zen e apocalittico nell’atletica?

 

‘Maradona, l’albatros che danza’, dello scrittore Ivano Mugnaini

Questo pezzo non parla di Maradona. Parla del sogno e parla della realtà, della bellezza del calcio generato da lui. 

Dopo il memorabile goal all’Inghilterra ai Mondiali del 1986 un commentatore argentino definì Maradona “aquilone cósmico”. Un altro cronista esclamò una mezza dozzina di volte “un poema de goal!”

Se si accosta Maradona alla poesia, mi viene in mente l’Albatros di Baudelaire: “Il Poeta principe delle nubi / sta con l’uragano e ride degli arcieri/ esule in terra […] con le sue ali di gigante”.

Maradona è stato un albatros che rideva e sorrideva. Dissimile, in questo, da un altro albatros, Fausto Coppi. Anch’egli atleta fuori dall’ordinario, per doti fisiche e talento. Il ciclista piemontese era malinconico e possente come una salita da compiere da solo, là, davanti a tutti, con una maglietta bianca e azzurra, un cielo che guarda muto, un destino che chiama a sé, anzitempo.

Maradona era un albatros che sorride. Di gioia, di esuberanza di vita. Quando era nel suo elemento naturale, il campo di calcio, con un pallone tra i piedi danzava, sorrideva, cadeva, si rialzava e danzava ancora.

Volava, sul campo, Maradona. I suoi compagni di squadra e gli avversari dicevano che quando ti correva accanto sentivi un fruscio, un alito di vento, un pensiero felice. Entrambi imprendibili.

In varie interviste Maradona ha affermato che dentro il campo c’è la felicità.

“Los dolores se van. La vida se va”. Se ne va quella parte della vita che è frustrazione, pena, pesantezza. Resta il privilegio, la leggerezza del gioco.

Maradona voleva dare la felicità. Lo ha ripetuto decine di volte. Lo ha detto riferendosi ai tifosi dell’Argentina. Lo ha detto ai tifosi del Napoli. Voleva farli felici. Voleva realizzare quello che neppure gli dei sono mai riusciti a fare: rendere felici gli uomini. 

E lui rispondeva ai giornalisti che gli chiedevano come si sentisse a essere considerato un dio, con un sorriso agrodolce che nascondeva chissà quali pensieri: “Io credo che sono cose differenti”. 

Maradona ha voluto rendere felice una città che ha subito e vissuto umiliazioni per secoli.

Napoli era la città perfetta per Maradona. Lo specchio della sua vera identità, il luogo del mondo in cui la passione ha la sincerità di uno scugnizzo, la sua stessa sete di vita, di gioco, di passione.

Napoli era la città più sbagliata al mondo per Maradona. La perfezione assoluta di quell’amore eccessivo, sconfinato, lo avrebbe presto o tardi soffocato di egoismo, di idolatrie, di bocche di sanguisughe della privacy e dello spazio individuale. 

Voleva fuggire. Non glielo hanno consentito. E lui, in quel clima, con il corpo e la mente già minati dalle dipendenze, con un presidente che gli parlava a stento, è riuscito a regalare alla gente il secondo scudetto. 

Maradona era il ragazzo nato povero, nella periferia della periferia. Pensavano di poterlo comprare con i Rolex d’oro e le Ferrari. Per eccesso di amore o semplicemente per cercare di controllarlo, legandone le ali, come una preda. La camorra lo ha corteggiato per poter esibire il trofeo dei trofei. Per lanciare un messaggio: se controlliamo lui possiamo controllare tutto e tutti.

Maradona era forte ed era bambino. Entrambe le cose alla massima potenza. Il contrasto tra questi due estremi ha avuto un effetto lacerante. Nello spezzone di un documentario a lui dedicato si vede Maradona che gioca con la figlia. Ad un certo momento il suo riso è identico a quello di lei. Ha la stessa voce e gli stessi occhi del bambino che giocava a pallone sul campo polveroso di Villa Fiorito.

L’albatros vola e cammina. Ferisce le sua stessa carne nella sproporzione, nel dissidio tra il volo e la realtà. 

Come Ayrton Senna. Entrambi felici e disperatamente persi dentro una passione unica, assoluta, divorante. Per Senna era la velocità, per Maradona il pallone. Quello da cui da ragazzo non si staccava mai. Neppure a letto, neppure quando dormiva.

Cosa sia un “mito” non si sa. Non si sa definire, non se ne conoscono le cause e le manifestazioni. Ma una cosa è certa: essere un mito non è facile. Lo ha scoperto a sua spese Marilyn Monroe, se ne è reso conto suo malgrado James Dean, ed Elvis, e con loro tutti gli altri. Quelli chiamati a sperimentare sullo propria pelle e sulla propria carne il divario tra l’amore assoluto per il loro “demone”, quello che hanno reso perfetto, e la vita, quella fuori del set, dello stadio, dello studio televisivo, del teatro dove si recita e dove si vive il sogno. La vita, come ogni donna che si sente tradita, non te lo perdona, ti avvelena. Ti strappa anzitempo dal tuo amatissimo demone e da tutti coloro che amando la tua stessa ossessione hanno amato te.

Essere un uomo, e sentire nella testa e sulle ossa la pressione di migliaia di occhi e menti. Reclamano e pretendono la tua attenzione, vogliono che realizzi il loro sogno, vogliono che tu sia quello che loro vogliono. A tutto questo, nessuno può reggere a lungo.

Maradona ad un certo momento ha sbagliato. Certo. Per l’eccesso della pressione sulle pareti del cervello e dei pensieri. O semplicemente ha sbagliato per un errore, umanissimo. Ha sbagliato. Ma chi voleva trovare un santo o un dio su un campo di calcio ha cercato in un luogo inadeguato. Maradona, visto in alcune foto da bambino, avevo un sguardo da indio. Forse qualche goccia di sangue indio scorreva nelle sue vene. Così come in quelle di Carlos Monzon. 

Monzon sfogava il marchio di un’atavica emarginazione con pugni assestati con una forza gelida, chirurgicamente feroci. Benvenuti lo sa bene. Ne ha un ricordo indelebile.

Maradona ha avuto il dono e il privilegio di sfogare e riscattare quel marchio danzando.  Sul terreno di gioco la rabbia diventava sorriso.

Life is life. Una canzone degli Opus del 1985. Il 19 aprile del 1989 sul campo di Monaco di Baviera, Maradona, con gli scarpini slacciati, danza, assieme al compagno di squadra Antonio Careca, al ritmo di quelle note. Ed è un’esuberanza spontanea che diventa simbolica in modo assolutamente naturale. Life is life, la vita è la vita. Come a dire la vita non si comprende. Non c’è niente da capire. Basta rispondere con le scarpe slacciate alla voglia di giocare e di stare bene, e di vincere, magari assieme ad un amico brasiliano.

Monzon si è riscattato a suon di pugni. Maradona a suon di sorrisi.

Perfino nell’intervista concessa negli anni più bui ad un noto giornalista argentino, quella in cui piange, grasso, irriconoscibile, reduce dalla clinica psichiatrica, con la commozione che gli riga la faccia di lacrime, trovo il modo di sorridere. Il giornalista gli dice “Hai sempre lottato, ce la farai anche stavolta”. E lui risponde “Stavolta sono KO”. Ma perfino lì sorride. 

Magari pensava al campo. A tutto quello che gli aveva dato e che aveva avuto.

Perché il campo di calcio è uno dei rarissimi luoghi al mondo dove sussiste la possibilità del merito e della giustizia.  Immaginiamo un potentissimo presidente padre-padrone che voglia imporre a tutti i costi il proprio figlio, o il nipote o il cognato. Ordina all’allenatore di farlo giocare e l’allenatore cede. Il raccomandato scende in campo. Al primo liscio una risata collettiva. Al primo passaggio sbagliato una salva di fischi. Al terzo errore marchiano viene giù lo stadio. Su un campo di calcio non si può barare. Gioca chi sa e quasi sempre vince il migliore. Sì, almeno su un campo di calcio gioca e vince il migliore. Per questo motivo amo ancora l’idea del calcio. Non amo il calcio di oggi, i prospetti e i profili, la freddezza del cambio di maglia. Non amo la trasformazione in azienda. Mi manca la passione e la rabbia di rivalsa: Riva, Boninsegna, Domenghini e mille altri.

 

Il racconto completo qui LIFE IS LIFE – L’albatros che danza – Ivano Mugnaini

Universiadi 2019: l’emozionante spettacolo allo stadio San Paolo di Napoli

Le Universiadi 2019 sono finalmente iniziate. Grande emozione ieri allo stadio San Paolo di Napoli per la cerimonia d’apertura. A mettere la firma di questo emozionante show è l’italiano Marc Balich, già curatore di numerose cerimonie olimpiche e ideatore dell’Albero della vita dell’EXPO.

Le Universiadi, organizzate dalla FISU (Federazione Internazionale Sport Universitari) sono una competizione mondiale, seconda solo alle olimpiadi estive. Dopo l’edizione del 1959 a Torino, le Universiadi estive approdano in Campania. Un grande orgoglio per tutta la regione che metterà a disposizione i suoi 70 impianti per le competizioni sportive tra Avellino, Benevento, Napoli, Caserta e Salerno.

Una notte da ricordare, dunque, per i tremila spettatori sugli spalti e per il pubblico da casa che ha potuto assistere alla cerimonia in Tv. Il terreno di gioco dello stadio si trasforma nel Golfo di Napoli: una grande U campeggia sotto la curva, è l’abbraccio che Napoli e tutta la Campania vuole regalare agli sportivi. Non poteva mancare il simbolo della città partenopea, il Vesuvio che si staglia sulla curva opposta. Uno spettacolare gioco di luci accompagna l’ingresso della sirena Partenope con uno strascico di 60 metri: a vestirne i panni l’Apneista Maria Felicia Carraturo.

“Do il benvenuto in questo bellissimo stadio e nella città dei mille colori, dello Sport, dei giovani, della pace, dell’accoglienza nella città dell’amore. IL mio augurio e quello di tutti i napoletani è che possiate trascorrere giorni di forti emozioni. Ciao guagliò”. Con queste parole il sindaco di Napoli Luigi de Magistris saluta gli atleti.

La festa può cominciare: inizia la sfilata delle 108 delegazioni che parteciperanno all’evento sportivo. Apre la parata l’Albania e chiude il paese ospitante, l’Italia con 303 atleti, accompagnati dalla portabandiera Ilaria Cusinato.

Il sorriso e la giovialità partenopea sono stati l’ingrediente dello show. E si sa, il sorriso è contagioso. Non sono mancanti, infatti, momenti divertenti durante la sfilata: l’ingresso dell’argentina con la maglia numero dieci si è trasformata in un festoso omaggio alla mano de dios, Diego Armando Maradona, la leggenda calcistica napoletana e mondiale. Gli atleti brasiliani in veste di cuochi hanno sfoggiato un bellissimo grembiule con scritto “grazie Napoli per l’accoglienza, per la cultura e per la pizza”.Infine gli atleti uruguaiani che, hanno sfilato con lo striscione “Grazie Napoli, Uruguay ti ama”.

Ottomila sono gli atleti che si sfideranno in 18 discipline: Atletica, Pallacanestro, Pallavolo, Pallanuoto, Ginnastica ritmica ed artistica, Tiro con l’arco, tiro a segno, Tuffi, Scherma, Calcio, Judo, Rugby a sette, Vela, Nuoto, Tennis, Tennis da tavolo e Taekwondo.
Ad accompagnare gli atleti le voci di artisti campani dal rapper Livio Coli, Carmen Pierri ad Anastasio.

Malika Ayane canta L’italiano. Fa il suo ingresso Bebe Vio, la campionessa paralimpica multimedagliata con il Tricolore. Vengono aissate il tricolore e la bandiera della FISU. La cerimonia entra nel vivo con gli omaggi a Totò, De Filippo, alla maschera di Pulcinella. Un’imperdibile occasione per far conoscere la storia e le tradizioni napoletane e campane in tutto il mondo. Alla Kermesse hanno partecipato diverse autorità: il Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, il Presidente della Camera Roberto Fico, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio di Ministri Giancarlo Giorgetti, il Presidente del Coni Giovanni Malagò e il Presidente della FISU Oleg Matytsin.

Una grande festa ma anche un’importante opportunità per ricordare temi importanti come l’immigrazione. Napoli risponde con un messaggio di aggregazione: i cartelli con i nomi degli stati partecipanti vengono condotti da giovani ragazzi migranti, affinché la tavolazza dei colori del mondo sia sempre più ricca e più bella. Non bisogna dimenticare la legalità: ad assistere allo spettacolo la piccola Noemi, la bimba di quattro anni ferita nell’agguato di camorra lo scorso Maggio. La piccola è la vera mascotte delle Universiadi, simbolo di quella Napoli che nonostante le difficoltà trova sempre la forza di rialzarsi. “L’Universiadi passerà, i nostri giovani rimarranno e lo sport li aiuterà a riconoscere i valori” dice il presidente della regione Vincenzo De Luca.

Il momento più atteso è stato l’accensione del braciere olimpico: i primi due tedofori, i due fratelli Diego e Marco Maddaloni, passano la torcia prima a Carlotta Ferlito e poi Alex Meret. L’accensione del braciere è una sorpresa per tutti gli spettatori: la teda accede un pallone, che Lorenzo Insigne, con la maglia della nazionale numero 10, calcia nel cratere del Vesuvio. Così iniziano ufficialmente a Napoli le Universiadi Estive 2019.

L’evento si è concluso con una suggestiva performance del tenore Andrea Bocelli che termina lo show con la canzone Nessun dorma dalla Turandot. Tutti ci auguriamo che gli atleti si possano aggiudicare tante medaglie gioendo per i meritati successi ma soprattutto che a vincere sia l’Umanità, il rispetto, l’amore e lo sport e conferendo alla Campania e ai napoletani una grande possibilità per essere valorizzata e farsi apprezzare in tutto il mondo.

Giochi Paralimpici, al via la XV edizione

Rio de Janeiro 2016: la festa continua. Alle 22:00 ore locali un gremito Maracanà riaccenderà le luci per l’inaugurazione della XV edizione dei Giochi Paralimpici. Saranno 4300 i candidati che tenteranno di scrivere un altro pezzo di storia, nei medesimi impianti, dove hanno avuto luogo le Olimpiadi. 161 paesi si confronteranno in 23 discipline.Grande assente sarà la Russia che è stata esonerata dalla competizione sportiva per il doping. 101 sono gli atleti italiani che lotteranno per portare in alto il tricolore. La “carica 101”, denominata così per l’occasione,sarà capeggiata  da Martina Caironi, la nostra portabandiera. La campionessa mondiale ed europea nei 100m t42, cercherà di replicare a Rio l’oro conquistato a Londra.

L’Italia a caccia di medaglie

Il Presidente del Cip (Comitato italiano paralimpico), Luca Pancalli  dice di voler fare meglio di Londra, “rompendo gli argini in modo che, lo tsunami paralimpico possa invadere il territorio italiano”.

Molti infatti, sono i protagonisti che intendono centrare l’obiettivo medaglie: Alex Zanardi, vuole  arricchire il suo medagliere nel handbike. Agli antipodi, la giovanissima fiorettista Beatrice Maria Vio, che punta ad impreziosire ancor di più un palmares di titoli

Grandi  aspettative si hanno per la celeberrima Giusi Versace, per Assunta Legnante nel lancio del peso, per Eleonora Sarti  nel tiro con l’arco, per il nuotatore Federico Morlacchi e per Ferdinando Acerbi nell’equitazione. Questi sono solo alcuni dei atleti, ma in realtà tutti meriterebbero un encomio.

Giochi Paralimpici: uno spettacolo di sport e di vita

Quello che vedremo in questi giorni, non sarà solo uno spettacolo sportivo: non ci troveremo di fronte soltanto a 4300 atleti, ma a delle stelle. Astri che brillano nel firmamento più bello e più imprevedibile, quello della vita. Oriana Fallaci diceva “chi ama la vita, non riesce ad adeguarsi, subire, farsi comandare“. Questo è ciò che hanno fatto questi “Indomiti”: si sono messi in gioco con caparbietà, hanno comandato, perchè amano la vita, hanno lottato e hanno fatto dello sport un nuovo progetto di vita.

Tra gli atleti paralimpici ci sono molte storie incredibili di persone che hanno cercato di concentrarsi su ciò che hanno, sul loro talento, piuttosto che su ciò che hanno perso e piangersi addosso.
Riuscire a partecipare alle Paralimpiadi è un grandissimo risultato per questi atleti ma in futuro si auspica che gareggino nello stesso periodo degli atleti normodotati, ovviamente separatamente. E si sa, purtroppo, che per realizzare questo è indispensabibile che, gli sponsor mettano soldi per dare il giusto spazio e far conoscere questi meravigliosi atleti a tutti, piuttosto che circoscriverli ad un evento discriminatorio.

 

 

 

Giochi Olimpici 2016: medaglie, encomi e delusioni

Giochi Olimpici di Rio 2016: è calato il sipario. Goethe alla domanda: “Come raggiungere un traguardo?” Replicava “Senza fretta e senza sosta”. Parimenti Rio de Janeiro, a piccoli passi, ha concluso, la sua “corsa”più importante, le Olimpiadi 2016. Il Maracanà ha ospitato la kermesse finale dei Giochi Olimpici ed è “riapparso” anche Alberto Santos Dumos. Sotto i suoi piedi, un enorme orologio ha cominciato a muovere le sue lancette per il conto alla rovescia.

Ha inizio il megashow di musica, colori e balli per salutare all’insegna della magnifica saudade questa 31ma Olimpiade, firmato nuovamente dal nostro connazionale Balich. Ed è subito carnevale carioca, grazie alla regia di Rosa Magalhães. Sotto una pioggia a catinelle, ha iniziato a prendere forma un meraviglioso “arcobaleno umano”. Le nazioni partecipanti hanno fatto il loro ingresso come un unico grande popolo, per celebrare la comunione e la pace. Gli atleti accompagnati da un’esultante torcida hanno sfilato insieme sorridenti e rilassati, improvvisando danze, scattando selfie per immortalare il momento.

In un tripudio di colori e musica si è giunti al momento clou della cerimonia: da un cilindrone verde è apparso Super Mario, il Premier giapponese Abe, celebrando la staffetta da Rio a Tokyo, che nel 2020 ospiterà i Giochi Olimpici. Una scritta “See you in Tokyo” è apparsa sul campo confermando il passaggio di testimone. Rio de Janeiro ha calato il sipario sulle Olimpiadi, con la mise en place dello show.                  Rio ha fatto scorrere i titoli di coda di questo meraviglioso sceneggiato, spazzando via le diffidenze iniziali.

Ed ora, che è stata scritta la parola “The end”, si comincia a guardare i numeri e fare bilanci. Questa è stata in maniera indiscussa, un’Olimpiade a “trazione stelle e strisce”, infatti gli Usa, con 121 medaglie toccano il cielo dal punto più alto dell’Olimpo. A seguirli con molto distacco, la Gran Bretagna che dopo Londra 2012 ha investito molto nello sport, e la Cina, rispettivamente con 67 e 70. Poco più dietro la Russia e la Germania, con 56 e 42. Nono posto per l’Italia, con 28 titoli olimpici. Chiude la top ten l’Australia con 29 medaglie.

Giochi Olimpici di Rio 2016: Italia nella top ten del medagliere

Protagonisti assoluti sono stati i fuoriclasse Michael Phelps e Usain Bolt. Il primo che, va in “pensione” dopo aver conquistato cinque ori e un argento, per un totale di 23 ori in tutta la sua carriera. Il secondo l’uomo più veloce del mondo, che con tre medaglie d’oro raggiunge quota nove e conclude la sua ultima olimpiade, eguagliando le leggende Lewis e Nurmi. Anche l’Italia ha il suo re, Niccolò Campriani che porta a casa due luccicanti ori in due competizioni della carabina. Flop per Djokovic e Tom Baley che scivolano vorticosamente dall’Olimpo.                                                                                          Diversi i successi da parte degli atleti delle 207 nazioni. Per l’Italia la “Festa dello sport” è stato, un evento che è andato al di là delle più rosee aspettative. I nostri campioni non si sono voluti accontentare di 25 medaglie, prefissate Hanno trionfato, equiparando i risultati dei Giochi Olimpici di Londra 2012.

E’ stato un vero successo già nel primo giorno delle gare, grazie all’argento di Rossella Fiamingo, nella spada femminile. A seguire un bronzo per Gabriele Detti nei 400 stile libero. La seconda giornata si è tinta d’argento, con  Borghini, nel ciclismo, Cagnotto-Dallapé nei tuffi e  Giuffrida nel judo.               Applausi scroscianti per Fabio Basile che ha indossato al collo una preziosa medaglia d’oro. Grande emozione per Daniele Garozzo che, in una gara all’ultima stoccata ha ottenuto l’oro.

Un plauso anche per Giovanni Pellielo e per Marco Innocenti che hanno portano a casa due medaglie d’argento. Prezioso argento anche per Elisa di Francisca. Bronzo per il canottaggio2senza con Abbagnale-diCostanzo e per il canottaggio4senza con gli azzurri Castaldo, Lodo, Montrone e Vicino.

Gioia smisurata quando, nel cielo di Rio hanno sventolato contemporaneamente due bandiere che annunciavano il trionfo di Diana Bacosi e del suo oro e di Chiara Cainero con l’argento. Il tiro al volo si è vestito d’oro con Gabriele Rossetti. Ancora, una volta doppia festa per l’Italia con l’oro di Paltrinieri e il bronzo di Detti nei 1500 stile libero. Bronzo anche per Tania Cagnotto. I festeggiamenti, sono proseguiti in casa Garozzo, Enrico, fratello del medagliato d’oro ha vinto l’argento con Fichera, Pizzo e Santarelli nella spada a squadre. Rachele Bruni ha conquistato un argento in acque libere ed Elia Viviani un oro nel ciclismo su pista.

Un’altra medaglia durante questi Giochi Olimpici è arrivata dalla spiaggia di Copacabana, dove Lupo-Nicolai hanno vinto l’argento contro i padroni di casa, fregiandosi di condurre la bandiera italiana durante la cerimonia di chiusura. Ancora un sogno in piscina, il Setterosa ha combattuto con determinazione, ma alla fine ha dovuto accontentarsi dell’argento contro gli Usa. Anche il Settebello ha fatto la sua parte, portando a casa un bronzo contro il Montenegro.                                                                                                                                    

Rammarico per Chamizo e l’Italvolley

Ultime, ma non meno importanti le medaglie, di bronzo di Frank Chamizo (derubato da parte della giuria della finale) nella lotta libera, e l’argento, con un po’ di rammarico, nel volley. L’Italvolley, dopo aver sconfitto gli USA dopo 5 spettacolari set, ad un passo dall’oro, si è dovuta arrendere ai padroni di casa del Brasile (già battuti peraltro nel girone) dopo tre set dopo aver lottato senza quell’aggressività e pizzico di follia che li aveva contraddistinti nei matches precedenti, con un mezzo sorriso, ma ugualmente a testa alta ha conquistato la medaglia d’argento.

Ben dieci sono le medaglie di legno che L’Italia non è riuscita ad impreziosire, l’ultima è stata quella delle Farfalle della ginnastica ritmica che, si sono viste strappare il bronzo dalla Bulgaria per due decimi. Accanto alle prestazioni di livello, come in ogni competizione è inevitabile che ci sia stata qualche delusione e rammarico: alcuni sono ritornati a casa con un po’ di amaro in bocca, come Federica Pellegrini, la Errigo e Nibali, vittima di una caduta. La Dea bendata questa volta non li ha baciati, ma ugualmente onore a loro che, si sono dimostrati grandi sportivi. I vincitori, infatti non sono soltanto quelli che al collo indossano la medaglia ma quelli che nonostante la sconfitta, continuano a sorridere, ad impegnarsi in attesa di una prossima occasione. Se questa non dovesse sopraggiungere, nessuno li rimprovererà, perché comunque ci hanno regalato momenti di pura emozione, rappresentandoci nel migliore dei modi.

I Giochi Olimpici 2016 hanno avuto un ottimo riscontro di spettatori, visti le oltre oltre 490.000 persone che ogni giorno hanno incitato i propri atleti durante 17 giorni di gara.                                                                Eugenio Montale scriveva: “Se la notte sogno, sogno di essere un maratoneta”. Noi siamo parte di quel sogno, abbiamo condiviso con i nostri atleti, non solo la corsa verso il podio, ma anche le loro gioia, quando siamo stati spettatori di curiosi fuori programma come la, proposta di matrimonio da parte del fidanzato della tuffatrice cinese medaglia d’argento He Zi e quella tra una giocatrice di rugby e la sua compagna.

Per finire è giusto encomiare il grande gesto di fair play tra le due atlete dei 5000 metri femminili: la neozelandese è caduta trascinando con sé l’atleta americana, entrambe infortunate, sorreggendosi a vicenda hanno tagliato il traguardo, hanno perso la gara ma hanno vinto in solidarietà. 

Questa è stata la grande eredità che, le Olimpiadi di Rio hanno lasciato alle generazioni future. Adesso non resta che sperare, che quest’onda olimpica non si disperda come spesso accade, nel giro di pochi giorni, in attesa di Tokyo 2020.

Olimpiadi: quando l’etica della sconfitta determina un vincitore

Gli occhi dei telespettatori in questo caldo mese di agosto sono tutti concentrati sulle Olimpiadi che, ogni quattro anni, aiutano a lenire la sensazione di sedentarietà tipica del nostro mondo sviluppato. Il medagliere, con l’immancabile corollario di entusiasmo in caso di vittoria e di delusione se il verdetto è una sconfitta, diventa l’argomento cardine delle chiacchiere da bar e con gli amici.

Il giudizio sulle prestazioni sportive delle Olimpiadi in corso, espresso per lo più da esperti improvvisati, è legato alle aspettative che si nutrono nei confronti di un atleta o una squadra. L’emblema, suo malgrado, delle delusioni sportive è diventata la nuotatrice Federica Pellegrini entrata in vasca medaglia d’oro ed uscita con al collo una medaglia di legno.

Ma se durante questa prima parte dei giochi estivi Federica Pellegrini, che è e rimane una campionessa che ha portato ad altissimi livelli il nuoto italiano, non avesse perso, come avrebbe fatto Emma McKeon ad aggiudicarsi il bronzo? La domanda può apparire superflua se il soggetto sconfitto non si chiamasse Federica Pellegrini, ma se sostituiamo il suo nome con quello di Andrea Murez, ultima tra le ultime, la prospettiva assume dei contorni diversi. Nello sport c’è chi corre per vincere e chi invece non ha alcuna possibilità di raggiungere quel traguardo. Eppure, la preparazione delle due categorie di atleti è la stessa consudore, lacrime, sorrisi, sofferenze e tanto lavoro quotidiano che si concretizzano per sicuri sconfitti nel futuro oblio.

Perché il mito dello sport possa diventare tale è necessaria la presenza di una schiera di sconfitti. Il meccanismo che si innesca tra vincitori e vinti ricorda molto da vicino quello raccontato da Hegel nel rapporto tra servo e padrone. Nel racconto hegeliano il signoresi pone al di sopra dell’uomo che è divenuto suo servo ma, essendo questi essenziale con i suoi servigi per la sopravvivenza del signore, riesce a ribaltare la subordinazione.

Proviamo ad immaginare se tutti coloro che non hanno alcuna possibilità di ottenere una vittoria si ritirassero, se, ad esempio, nel campionato di calcio tutte le squadre che non sono all’altezza della Juventus (e del suo potere) dovessero rifiutarsi di giocare, cosa accadrebbe?

Certamente i più forti restano superiori, ma rispetto a chi? Quale diventa il termine di paragone per determinare la forza? I perdenti, nello sport come nella vita, consentono ai vincitori di primeggiare e di ottenere riconoscimenti che senza la loro presenza non otterrebbero mai.

Ma siamo poi sicuri che l’obiettivo di tutto possa essere soltanto la vittoria?

Olimpiadi 2016- Rio de Janeiro: crocevia di aggregazione ludica e sociale

Olimpiadi 2016 al via. A partire da ieri 5 agosto fino al 20 agosto 2016, Rio de Janeiro per la prima volta, sarà la cornice di uno degli avvenimenti sportivi più importanti : la 31ma edizione dei giochi olimpici estivi. Si è aperto il sipario sull’opening show, confezionato ad hoc dall’architetto italiano Mario Balich in collaborazione con una società produttrice di cerimonie; è stato lo stadio <<Maracanà>> ad aprire le porte all’evento suggestivo. Alle 19:30, Il Cristo redentore sopra al Tempio del calcio, si è tinto dei colori brasiliani e lo spettacolo ha avuto inizio: un trionfo di colori, canti, balli e gioia. Si è cominciato con un tuffo nel passato:  sono state ripercorse le tappe salienti della storia brasiliana, dallo Stanziamento degli Indisos nelle capanne, all’arrivo degli schiavi africani e di Cristoforo Colombo, fino alle prime urbanizzazioni e al decollo  nei cieli del leggendario 14bis per omaggiare Alberto Santos Dumos, il primo aviatore che, nel 1906 fece decollare e poi volare un aereo senza spinte. Il programma ha previsto poi la sfilata delle Nazioni partecipanti con i corrispettivi portabandiera: la Grecia, come patria delle Olimpiadi ha aperto il passaggio, l’Italia ha sfilato come 101ma Nazione. A condurci in questa meravigliosa avventura,  è stata la nuotatrice Federica Pellegrini, che proprio nel giorno del suo ventottesimo compleanno, ha avuto l’onorevole compito di condurre e issare il nostro vessillo, in queste che  presumibilmente, saranno le sue ultime olimpiadi.

Federica Pellegrini è stata la prima nuotatrice italiana ad aver vinto una medaglia d’oro ai Giochi Olimpici di Pechino 2008, e ad aver conquistato quattro titoli mondiali e sette ori negli Europei. Si è proceduto con l’ingresso in campo di tutte la altre nazioni, che come un tavolozza di colori, sono andati a ad ultimare un quadro già meraviglioso e molto suggestivo. Non è mancata l’emozione quando a sfilare sono stati i rifugiati sotto la bandiera della Cio. Infine l’ingresso della teda, la fiamma olimpica, e l’accensione del braciere da parte del tedoforo Vandarlei Cordero Lima, il maratoneta che ad Atene 2004, a causa dell’aggressione di un  predicatore irlandese, perse preziosi secondi che gli costarono la medaglia. Una cerimonia inaugurale accattivante, dunque dove attraverso la Gambarre, l’arte di arrangiarsi con poco, è stato messo su uno spettacolo all’altezza dell’evento. Uno show fatto di colori, musica e gioie ma anche di sostenibilità nei confronti del mondo e della natura: immancabile l’omaggio alla Foresta Amazzonica. Per sensibilizzare a questo tema così importante, ogni atleta durante la sfilata ha portato con sé, una cartuccia contenente un seme, che sarà piantato a conclusione delle Olimpiadi.

Olimpiadi 2016: gli azzurri in gara e il caso Russia

Gli atleti partecipanti alle Olimpiadi 2016, si sfideranno nei 26 sport tradizionali, più  il rugby e il golf, che sono stati introdotti nel 2016 come parte integrante dei Giochi. I medesimi impianti dal 7 al 18 settembre saranno teatro della 15ma edizione delle Paralimpiadi, dove saranno in competizione oltre 4.300 atleti provenienti da 176 Paesi del mondo. Anche per questa categoria, vi sono novità sportive all’orizzonte: introduzione della canoa e del Triatlon. In un Brasile in delirio, si incroceranno i sogni  degli atleti che, con vigore e sportività si contenderanno le medaglie olimpiche, dando vita ad uno strabiliante spettacolo di risonanza mondiale. Ognuno nel mondo resterà costantemente in contatto con i proprio beniamini: i fortunati, direttamente dagli spalti degli impianti, altri invece attraverso varie emittenti. Il numero degli atleti che formano l’Italia team sono 297, tra cui 155 uomini e 142 donne. Grandi aspettative si prospettano per la squadra azzurra, che punta alla vittoria di 28 medaglie, eguagliando il successo riscosso a Londra nel 2012, anche se il presidente del Coni, Giovanni Malagò ha dichiarato: Se arriviamo a 25 facciamo il nostro”. Molte speranze sono riposte in vasca per la Pellegrini, che dopo aver assolto il suo compito di portabandiera, vestirà i panni dell’atleta, sfidando le avversarie fino all’ultima bracciata, così come Gregorio Paltrinieri, che sogna la vittoria nei 1500 stile libero. Tanto ci si aspetta anche da Tania Cagnotto nei tuffi. Si auspicano risultati  rilevanti per il Settebello, il Setterosa e le Farfalle azzurre della ginnastica ritmica.

Non mancano segnali positivi nemmeno nell’atletica leggera con Meucci e Giorgi, nella box dove  Clemente Russo ,Valentino Manfredonia e Irma Testa, assicurano battaglia sul ring, nella scherma con Rossella Fiamingo, che sarà la prima italiana a calcare la pedana. Non mancheranno pronostici nelle discipline del  tiro a segno, del tiro con l’arco, del tiro a volo. Riflettori puntati anche sul vincitore del Giro d’Italia Vincenzo Nibali e sullo schermidore Aldo Montano, che sogna l’oro nella gara individuale. Il motto delle Olimpiadi recita “l’importante non è vincere ma partecipare”, tuttavia  guardare il cielo di Rio dal gradino più alto del podio, sarà un’esperienza sensazionale. Ma se i suddetti atleti si preparano a combattere per entrare nella storia delle olimpiadi, c’è qualcuno che attende ancora il pass per poter partecipare, come Alex Schwazer: l’atleta, infatti è stato trovato positivo ad un controllo antidoping lo scorso gennaio, dove si è riscontrato una modesta quantità di Testosterone. Dopo 20 controlli antidoping e dopo l’ultimo test risultato negativo, il marciatore dovrà comunque attendere la sentenza del Tas. La  questione doping è stata, quasi sempre, purtroppo, corollario degli eventi sportivi: anche in queste Olimpiadi 2016 la macchia nera del doping ha inquinato il candore del fair play. Ancor aperto è il controverso caso della Russia, dove si parla di “doping di stato”: la Commissione di inchiesta dell’Agenzia Mondiale antidoping (Wada) accusa la Federazione russa dell’atletica, di aver dopato i propri atleti con la complicità del Ministero dello Sport. Un caso agghiacciante dunque: pare che sotto la questione doping si nasconda un  mondo occulto, un giro illecito di tangenti e un ferrato boicottaggio dei controlli. E tra le grida di un complotto politico, o un semplice errore  umano nell’effettuare i controlli, aleggia il silenzio del Comitato Olimpico, che prende tempo, rinviando la decisone.

Ma noi auspichiamo che le Olimpiadi 2016 “siano, una competizione internazionale sana e in buona salute, un gioco tra i paesi, che rappresenti il meglio di ognuno di noi e una cooperazione mondiale come affermò lo scrittore americano John Williams. Tutto il mondo infatti si unirà per seguire le gare. In questo periodo di conflitti e di disgregazione, dove la violenza e i soprusi la fanno da padroni, è più che mai necessario un momento di aggregazione e di interculturalità vera, non ipocrita e fasulla tanto per fare i buonisti. Difficilmente riusciremo a liberarci da questo regime di terrore che attanaglia le nostre vite con sempre più forza, ma almeno in queste occasioni sarebbe bene prendere esempio proprio dalla cultura brasiliana che con la loro anima festaiola e gioviale riesce con un sorriso a dimenticarsi almeno per qualche ora dei problemi e delle difficoltà. Le Olimpiadi 2016 che tutti chiediamo di vedere: un mondo di sport ma anche di legalità, giustizia e fratellanza.

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