Oscar 2016: vince ‘Il caso Spotlight’

Oscar 2016: una notte magica che ha visto finalmente premiati il grande compositore Ennio Morricone per la colonna sonora del film The hateful eight di Tarantino e Leonardo Di Caprio per la sua interpretazione (probabilmente non la sua migliore in assoluto) in Revenant-Redivivo di Iñarritu. La migliore pellicola è Il caso Spotlight di Tom McCarthy, la cui bontà dell’argomento, i terribili abusi sessuali perpetrati da diversi sacerdoti di Boston ai danni di minori, ha giocato un ruolo predominante rispetto all’effettiva qualità artistico-tecnica del film, che si presenta come un’inchiesta giornalistica (quella del Boston Globe del 2001) alla Pakula o alla Redford, senza colore (sarà forse per la presenza di luci e scenografie scadenti). Il caso Spotlight è un film ricattatorio che non poteva non trionfare durante la notte delle statuette.

Sei statuette (miglior trucco, miglior scenografia, miglior sonoro, miglior costumi, miglior montaggio, miglior montaggio sonoro), sono andate a Mad Max-Fury Road, delirio visivo post-apocalittico, capolavoro nel suo genere, metafora rock-punk del nostro tempo di George Miller con una “furiosa” Charlize Theron, calva e senza un braccio nel film e meravigliosa, di rosso vestita in occasione della gran serata di ieri al Dolby Theatre di Los Angeles. L’Oscar 2016 per il miglior regista ancora una volta Alejandro Iñarritu per Revenant; Brie Larson è stata premiata come miglior attrice protagonista per il drammatico Room, di Lenny Abrahamson, scalzando Cate Blanchett per Carol e Jennifer Lawrence per Joy. Al bravissimo attore shakespeariano Mark Rylance (da brivido sono i suoi dialoghi con il protagonista Tom Hanks), è andato il premio per il miglior attore protagonista per il film Il ponte delle spie di Steven Spielberg, battendo il favorito Sylvester Stallone per Creed e Christian Bale per La grande scommessa, pellicola cui invece è andato il premio per la miglior sceneggiatura non originale. Ad Alicia Vikander è andata la statuetta per la sua interpretazione da non protagonista, di moglie devotissima del pittore Einar Wegener, nel melodramma The Danish girl di Tom Hooper, che racconta la vera storia del primo transgender che si sottopose ad un intervento per la riattribuzione del sesso nel 1930 sottoforma di love story incentrata sugli eccessivi virtuosismo (perlopiù smorfie) di Eddie Redmayne, e che aggancia temi attuali intorno ai quali si straparla ma si approfondisce poco.

La statuetta per il miglior film straniero è andata, come da pronostico, al film ungherse Il figlio di Saul di László Nemes, che pone al centro della tragica vicenda della Shoah, raccontandola come mai nessuno ha fatto prima d’ora, il cadavere di un ragazzino che un padre vuole sottrarre ai forni crematori, optando per un formato limitato che limita lo sguardo e mettono in risalto il punto di vista del protagonista. Merita particolare menzione l’assegnazione del premio come miglior film d’animazione a Inside out, gioiellino della Pixar che regala emozioni a bambini e adulti, facendoci (ri)scoprire l’importanza del sentimento della tristezza nella vita di un adolescente. Durante il commovente momento In memorian dedicato alla commemorazione dei personaggi del mondo del cinema scomparsi lo scorso anno, è stato ricordato anche il nostro Ettore Scola, mentre puntroppo, ci si è dimenticati dei registi Rivette e Zulawski.

Oscar 2016: tutti i premi

Spotlight
 
Miglior film
Leonardo Di Caprio
The Revenant
Miglior attore
Brie Larson
Room
Miglior attrice
Alejandro González Iñárritu
The Revenant
Miglior regista
Mark Rylance
Il ponte delle spie
Miglior attore non protagonista
Alicia Vikander
The Danish Girl
Miglior attrice non protagonista
Il figlio di Saul
László Nemes
Miglior film straniero
Writing’s on the Wall
Sam Smith, Jimmy Napes
Miglior canzone originale
Spotlight
Tom McCarthy, Josh Singer
Migliore sceneggiatura originale
Emmanuel Lubezki
The Revenant
Miglior fotografia
The Big Short, La grande scommessa
Adam McKay, Charles Randolph
Miglior sceneggiatura non originale
Ex Machina
Andrew Whitehurst, Sara Bennett, Paul Norris, …
Migliori effetti speciali
Amy
Asif Kapadia, James Gay-Rees
Miglior documentario
David White
Mad Max: Fury Road
Miglior montaggio sonoro
Mark Mangini
Mad Max: Fury Road
Miglior montaggio sonoro
Margaret Sixel
Mad Max: Fury Road
Miglior montaggio
Inside Out
Pete Docter, Jonas Rivera
Miglior film d’animazione
Jenny Beavan
Mad Max: Fury Road
Migliori costumi
Gregg Rudloff
Mad Max: Fury Road
Miglior sonoro
Chris Jenkins
Mad Max: Fury Road
Miglior sonoro
Ben Osmo
Mad Max: Fury Road
Miglior sonoro
Lisa Thompson
Mad Max: Fury Road
Migliore scenografia
Colin Gibson
Mad Max: Fury Road
Migliore scenografia
The Hateful Eight
Ennio Morricone
Migliore colonna sonora
Lesley Vanderwalt
Mad Max: Fury Road
Miglior trucco
Damien Martin
Mad Max: Fury Road
Miglior trucco
Elka Wardega
Mad Max: Fury Road
Miglior trucco

 

Teoria gender: tra propaganda e poteri forti

Che cos’è la teoria gender? Esiste davvero o è, come alcuni anticattolici pensano, un’allucinazione della Chiesa per combattere un nemico che non c’è? La teoria del genere esiste eccome e sostiene la convinzione, priva di scientificità, che ogni uomo è libero di scegliere cosa può diventare nel mondo. Più nello specifico, la sua libertà è legata alla distinzione tra cosa siamo alla nascita e cosa diventiamo poi, e si batte contro un processo tassonomico di educazione alla differenza in atto da secoli.

Alle origini della teoria gender

La teoria gender è nata negli anni Cinquanta e da pensiero filosofico attualmente è passata ad essere proposta politica, i cui fondatori sono individuabili in Alfred Kinsey, autore della Relazione sul comportamento sessuale degli americani, e il sessuologo John Money, discepolo di Kinsey, entrambi accaniti sostenitori della pedofilia. Il dottor Money elaborò una teoria secondo cui il sesso biologico di nascita non conta, ma ogni bambino può essere cresciuto indifferentemente come maschio o femmina, ma i suoi studi vennero smentiti dal tragico caso di Bruce, bambino da lui fatto crescere come una bambina, che si tolse la vita. Negli anni del 1960 la femminista Judith Butler teorizzò il sesso fluido o queer: l’uomo può essere davvero libero se ha la capacità di autodeterminarsi, di riservarsi una continua ridefinizione dell’identità sessuale. Altre tappe fondamentali per la teoria gender sono quelle dei Gay and Lesbian Studies, sino ad arrivare ai 58 generi diversi o ai 23 generi ufficialmente riconosciuti dall’Australian human rights commission. Esistono poi centri come il Nordic Gender Institute, per sostenere l’ideologia di genere, acutamente criticato dal documentario girato dal comico norvegese Harald Meldal Eia. La teoria gender dunque non è affatto frutto di un’allucinazione della Chiesa come purtroppo pensano i cattofobi.

Il genere è una sovrastruttura culturale?

La teoria gender sostiene perciò che ogni individuo è libero dalle convenzioni, per cui qualcuno potrebbe dirgli sei uomo mentre lui si sentirà sempre e solo una donna al di là dei suoi connotati. Ma perché si parla proprio ora di questa teoria e cosa ne verrà fuori? Nel passato l’impostazione patriarcale della famiglia e delle società ha fatto sì che ogni uomo rispettasse anche con vigore la sua collocazione, il posto a lui “assegnato”. Così si potevano distinguere bene uomini e donne, e in un angolino in disparte e negletti stavano gli omosessuali, i transessuali. Oggi questa teoria è arrivata a sostenere che non si può decidere cosa sia un uomo prima della sua nascita, o comunque, l’essere uomini è una scelta, una sovrastruttura culturale, come l’esser donna. Questo perché non sussiste una categorizzazione che vincoli gli individui ad identificarsi in un’ imposizione. Il fattore biologico che ha condannato la donna per secoli ad essere sottomessa è stato sconfitto, ma non del tutto ancora. Tuttavia oggi con assoluta fermezza possiamo dire che tra uomo e donna non c’è alcuna discrepanza, né rapporto di sussistenza o subordinazione. La donna è come e volte più dell’uomo. La donna è, l’uomo è. Punto. Per tale motivo la scelta del proprio genere alla domanda: chi sei? diviene un diritto naturale intoccabile. Alt. C’è la chiesa cattolica, la non fautrice della teoria che ovviamente la combatte, e l’Italia più di altri paesi e baluardo di una tradizione secolare che pone i diritti confessionali al disopra di ogni altra rivendicazione. In sintesi, da una parte sono schierati i cattolici convinti che la vita sia prima della vita; ovvero si nasce e dal quel momento l’uomo esiste già come essere pensante e vivente quindi non può decidere cosa sarà, ma è già al momento in cui la madre lo mette al mondo, presa di posizione che si rifà alla corrente filosofica dell’essenzialismo. Dall’altra parte invece si trovano i difensori dell’esistenzialismo: cioè ogni singolo nasce soltanto dopo la sua venuta al mondo. Ovviamente l’universo cattolico si è subito accanito contro i sostenitori della teoria gender e oggi esiste molta confusione anche nella comunità LGBT. Perché un conto è dire che ogni singolo ha il “diritto” di non sentirsi a proprio agio con il proprio sesso biologico, con la propria anatomia, che non coincide con la sua psicologia, un altro è farne un caso politico, propaganda a partire dalle scuole, cercando di indottrinare dei bambini (pochi anni fa in Germania due coniugi sono stati addirittura incarcerati per quaranta giorni perché la figlia, iscritta alle scuole elementari, si era rifiutata di partecipare ai corsi di educazione sessuale previsti dall’istituto, e sei bambini si sono sentiti male dopo che in classe erano state mostrate loro immagini esplicite a sfondo sessuale, nell’ambito di un progetto di educazione alla “diversità di genere”), esaltazione, cercando come al solito nemici nella Chiesa o nei cosiddetti moralisti e denigrando chi la pensa diversamente in nome della formula vuota “i tempi cambiano”. A ciò però si aggiunge un’analisi puramente “clinica” del transgenderismo e del transessualismo e vi sono pareri discordanti con il pensiero politicamente corretto che vuole questi fenomeni frutto di una scelta; alcuni psichiatri come il dottor McHugh hanno affermato che il transessualismo è un “disturbo mentale”, di “presupposizione” che merita trattamento e che il cambiamento di sesso è “biologicamente impossibile”. McHugh ha anche citato un nuovo studio in cui si mostra che il tasso di suicidi tra le persone transgender che si sono sottoposte ad intervento chirurgico di riassegnazione è 20 volte superiore al tasso di suicidi tra le persone non transgender, in paesi, come quelli del nord Europa, gay e transfriendly. Inoltre gli psichiatri che hanno osato mettere in discussione la “normalità” del transgenderismo sono stati messi alla gogna mediatica; della serie c’è posto solo per il pensiero unico.

Tra propaganda e poteri forti

Tuttavia le teoria sulla creazione dell’uomo senza identità suscita reazioni anche nel mondo laico o comunque conservatore, fedele ad una visione tradizionale dell’individuo, inteso come entità in cui caratteri biologici e identità di genere non sono divisi ma sono causa e conseguenza l’uno dell’altro. Alla base del confronto tra queste due differenti visioni dell’individuo vi sono due diverse concezioni dell’esistenza, due diverse filosofie. L’ideologia, in fondo, non è che una personale o collettiva interpretazione di una filosofia. Ma a chi giova questa propaganda? Cosa si nasconde dietro questa pericolosa teoria? Proviamo a fare i “conti in tasca” ad una delle più potenti ed influenti lobby del mondo: dalla Goldman Sachs a George Soros, da JPMorgan alla Rockefeller Foudation, questi i nomi di alcuni poteri finanziari ai quali certamente non dispiace la genderizzazione del mondo. Di recente, ha fatto ha fatto molto discutere negli USA l’atteggiamento tenuto da alcune grandi fondazioni bancarie come Goldman Sachs e JP Morgan che hanno pubblicamente festeggiato alla decisione della Corte Suprema USA favorevole alla legalizzazione dei matrimoni omosessuali. Il miliardario filantropo ebreo George Soros, a capo di “Human Right Watch” e “Amnesty International”, con altri  miliardari come Jeff Bezos di Amazon e Bill Gates, ha donato milioni di dollari ai comitati pro-matrimoni gay negli Stati Uniti, toccando anche molti deputati del Partito Repubblicano (il cui elettorato è per il  90% contrario ai matrimoni gay).

Bisogna però chiarire che molti omosessuali sono a loro volta contro la teoria gender, ritenendola portatrice di discriminazioni. Insomma l’ideologia di genere sembra essere un valido “strumento”,  che alcuni poteri forti sono pronti ad utilizzare per scopi che vanno oltre le rivendicazioni delle persone dello stesso sesso, ma che mirano, con buona pace di chi pensa che si tratti di ridicolo complottismo, a manipolare la natura stessa dell’uomo, allo scopo di generare un “uomo nuovo”, liberandolo della sua “vecchia” identità, rendendolo più debole, e di conseguenza una società sempre più nevrotica, narcisista, infantile, incapace di riconoscere ciò che è bene e ciò che è male, consumistica che scambia le proprie ossessioni, i propri desideri, le proprie confusioni per diritti. Non meraviglierebbe in questo senso se si arriveranno a considerare anche da noi la pedofilia e l’incesto orientamenti sessuali “normali”, da promuovere, in virtù dell’assenza di differenze, in virtù di un’egualitarismo becero il cui vessillo sventola su ogni individualismo meschino che ne rivendica il trionfo.

L’uomo del futuro sarà davvero un “modello unico”, manifesto del Capitale, del liberismo selvaggio e del relativismo radicale? Relativismo già sostenuto qui in Italia, da Antonio Gramsci nella sua Egemonia Culturale, le cui idee stanno alla base della teoria gender, modificate poi dalla Scuola di Francoforte. E questo sarebbe progressismo? Progressismo non vuol dire sviluppo, come sosteneva il non certamente ultracattolico Pierpaolo Pasolini. Ma poi, se i due sessi non hanno nulla di specifico da rivendicare ma sono intercambiabili, allora possiamo mandare a benedire anni e anni di contestazioni femministe per rivendicare un ruolo proprio per le donne.

Gianfranco Rosi vince l’Orso d’oro a Berlino

Non sorprende la vittoria di Gianfranco Rosi al Festival di Berlino 2016 con il suo Fuocoammare, commovente docu-dramma politicamente corretto dei migranti, complice l’assenza della concorrenza. Gianfranco Rosi, già premiato a Venezia 2013 grazie ad un altro docu-film, Sacro GRA, racconta Lampedusa attraverso la storia di Samuele, un ragazzino che ama tirare sassi con una fionda e andare a caccia di uccelli; gioca sulla terraferma anche se tutto intorno a lui parla di mare, quel mare, teatro di tragica attualità, attraversato da chi è alla ricerca di una vita migliore e che invece, spesso, ha trovato la morte. Grazie a Samuele, lo spettatore entra nella quotidianità delle vite di chi abita un luogo che è continuamente in emergenza, ma lui non incontra mai i migranti, a differenza del dottor Bartolo, unico medico di Lampedusa che non può fare altro che constatare decessi.

Il mio pensiero va a tutti coloro che non sono mai arrivati a Lampedusa nel loro viaggio di speranza, e alla gente di Lampedusa che da venti trenta anni apre il suo cuore a chi arriva”, queste sono state le parole di Gianfranco Rosi pronunciate al momento della consegna del prestigioso riconoscimento, concludento un discorso che il regista aveva avviato i giorni scorsi lungo il red carpet della Berlinale: “L’accoglienza non deve essere fatta dalle singole nazioni, ma dall’Europa. L’esempio che ieri ha dato l’Austria, che sta iniziando a chiudersi, non è un grande esempio, l’Italia ha fatto tantissimo, per venti anni ha fatto da sola, ora non è più il momento di agire singolarmente”.

Il regista nato in Eritrea è il sesto italiano a vincere l’Orso d’oro, gli ultimi a trionfare in terra tedesca erano stati i fratelli Taviani con Cesare non deve morire, anch’essa pellicola che trattava tematiche sociali e di grande attualità. La sensazione è che il cinema italiano per vincere all’estero abbia purtroppo bisogno troppo spesso di film prevedibili, spesso noiosi e politicamenti corretti. Se Sacro GRA aveva piacevolmente sorpreso per il suo taglio grottesco, Fuocoammare tra atmosfere suggestive e stranianti e una narrazione poco avvincente, si adagia sull’ovvio limitandosi a presentare una realtà, senza fornire possibili rimedi.

Per quanto riguarda le interpretazioni, quello per la migliore attrice è andato alla danese Trine Dyrholm, protagonista di Kollektivet (La comunità) di Thomas Vinterberg, l’Orso d’argento per il miglior attore protagonista è andato al giovane tunisino Majd Mastoura protagonista di Inhebbek Hedi, film che si è aggiudicato anche il premio per la miglior opera prima, per la regia di Mohamed Ben Attia. Al polacco Tomasz Wasilewski è andato l’Orso d’argento per la sceneggiatura di Zjednoczone stany Milosci mentre quello per il contributo artistico al direttore della fotografia taiwanese Mark Lee Ping-Bing del film Chang Jiang Tu (Crosscurrent) del cinese Yang Chao.

 

In morte di Jacques Rivette

Da qualche tempo era affetto da Alzheimer, Jacques Rivette, l’elegante regista esponente della Nouvelle Vague, lodato dalla critica e poco conosciuto al pubblico, che si è spento a ottantasette anni il 29 gennaio scorso a Parigi. Nato a Rouen nel 1928, Rivette, si trasferisce a Parigi per studiare presso la Sorbona ma ben presto sceglie la cinefilia collaborando alla “Gazette du cinéma” e sui celebri “Cahiers du cinéma” (di cui è stato anche direttore nel 1963) e stringendo amicizie registi come Astruc, Godard e Rohmer. L’esordio dietro la cinepresa avviene grazie ad un corto del 1956, Le coup du berger, ma il suo primo film è Paris nous appartient, prodotto da altri due grandi rappresentanti del cinema francese, Truffaut e Chabrol, un must da cineteca, un thriller esistenzialistico che però risulterà essere un fiasco.

Jacques Rivette, un regista raffinato

Il cinema di Jacques Rivette offre il ritratto di un universo caleidoscopico e labirintico, che riflette tra finzione e realtà, un’umanità angosciata, pensiamo alla pellicola Suzanne Simonin, la religieuse, tratto dal romanzo di Denis Diderot, scritto prima per il teatro e poi trasposto sul grande schermo. Si tratta di un’opera di successo ma che è stata molto criticata e censurata.
Con L’amoru fou (1967), Rivette affronta tematiche contemporanee sempre col piglio esistenzialista, “tampinando” una coppia come se si trovasse in uno dei realities odierni, mentre con Out 1: spectre (1970), il regista francese intreccia spunti balzacchiani ai percorsi di una compagnia teatrale. Ma Rivette continua ad essere ignorato dal pubblico. Tuttavia i successivi film Merry-Go-Round, Céline et Julie vont en bateau, L’amore in pezzi, Una recita a quattro, Alto basso fragile e Chi lo sa? risultano più interessanti per la raffinatezza che Rivette conferisce alle immagini, mettendo in rilievo la recitazione di taglio teatrale dei suoi attori. Ma in Jacques Rivette convivono più anime, ricontrabili in due film antitetici tra loro: La bella scontrosa (1991), uno dei più bei film sulla creazione artistica resa attraverso lo scontro sensuale tra la protagonista, la modella interpretata da Emmanuelle Beart e il pittore Michel Piccoli alle prese con un quadro incompiuto e l’inquietante noir Storia di Marie e Julien (2003), che racconta di un amore oscuro scandito dai tic tac degli orologi che arredano la fatiscente casa del protagonista.

L’Eros, i segreti, l’inquietudine, il doppio, la memoria, il tempo: sono queste le tematiche intorno alle quali ha riflettuto Rivette, la cui ultima sortita al cinema risale al 2009 con Questione di punti di vista, stravagante opera sullo spettacolo del circo ambulante, che riflette sui drammi sentimentali.

La società liquida di Zygmunt Bauman

La nostra società è stata più volte definita come ‘società liquida’. Tale concetto è stato sviluppato dal sociologo Zygmunt Bauman e ben si inscrive nell’orizzonte epistemologico del Postmoderno, nomenclatura che indica la nostra epoca. Senza dubbio è un’espressione efficace anche se si è prestata ad applicazioni di ogni genere.

Infatti il concetto di società liquida condivide il medesimo destino del fratello ‘villaggio globale’, coniato da Marshall McLuhan. In entrambi i casi il passaparola generalizzato ha dato adito ad eccessive esemplificazioni che hanno depotenziato lo spessore del problema sollevato dai due sociologi. Secondo Bauman l’epiteto si riferisce alle forme di esperienza che caratterizzano la cultura consumista e che hanno comportato una trasformazione radicale delle relazioni sociali e delle pratiche di vita quotidiana. L’approccio eclettico adottato dai teorici postmodernisti costruisce la lente che consente di cogliere i tratti distintivi di questo nostro tempo, estremamente articolato. Bauman accetta la sfida senza rinunciare ad una dimensione etica.

La società liquida sembra legittimarsi attraverso l’ambivalenza delle esperienze e degli stili di vita, ben lontana da quell’uomo a una dimensione teorizzato da Marcuse. Tuttavia non si può negare che la pluralità apre il varco alla complessità. Il richiamo di Bauman all’etica è senza dubbio un elemento che riporta la questione su un livello tutt’altro che effimero e disimpegnato. L’espressione “La postmodernità è la modernità che ha riconosciuto la non realizzabilità del proprio progetto”, suona come un’abdicazione della quale si dovrebbe prendere atto.

Marx e la ‘fusione dei corpi solidi’

Alla base della sdoganata etichetta coniata da Bauman, c’è una metafora dalle ascendenze illustri. E’ già Marx ad utilizzare l’espressione ‘fusione dei corpi solidi’, per indicare il tentativo di minare alle fondamenta ogni tradizione, di dissolvere nell’aria le spoglie del passato. La società liquida è dunque conseguenza di una serie di concause passate che spalancano un orizzonte di incertezza e d’altro canto trovano nel consumo una strategia difensiva da parte dell’individuo, un effetto placebo altamente seduttivo che fa della merce non più il feticcio – sempre per citare Marx – ma la promessa di una felicità, un sogno ad occhi aperti alimentato dai mezzi di comunicazione sempre più pervasivi.

Già McLuhan ha descritto gli strumenti della comunicazione di massa come estensioni dei nostri sensi; siamo dunque parte di un sistema comunicativo immanente e il nuovo linguaggio è ciò che detta le coordinate della nostra esistenza. L’uomo estende se stesso diffondendo i propri sensi percettivi nei linguaggi, nei media e nelle nuove tecnologie, secondo un principio di fabulazione.

Secondo i teorici della postmodernità, la ‘società liquida‘ risulta più complessa proprio perché la moltiplicazioni di visioni del mondo risultano tutte legittime. La società postmoderna è quindi una società della comunicazione generalizzata e dominata da immagini plurime del mondo. Si evince quanto la comunicazione non sia più solo un fattore tecnico ma la categoria interpretativa adottata dalla società stessa: la trasparenza è il suo valore positivo.

Il Postmodernismo

Sul versante prettamente culturale, il Postmodernismo pratica il ritorno al pre-moderno e non dovrebbe stupire la rivalutazione degli aspetti più irrazionali del pensiero, come l’immaginazione, il desiderio e la propensione per la spettacolarizzazione del reale.

Infatti, la condizione postmoderna (titolo del saggio illustre di Jean François Lyotard) ha segnato nell’ambito della letteratura, e non solo, la fine delle ‘grandi narrazioni’, quelle capaci di ricostruire un’immagine unitaria del mondo. Il Postmoderno sfugge a qualsiasi definizione univoca ma anche i suoi effetti culturali sono maturati in momenti diversi, con esiti eterogenei. Per quanto riguarda l’Italia, si è datata la comparsa di una tendenza letteraria postmoderna tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Resta implicita l’idea che è finita un’epoca, quella della modernità appunto: fase storica caratterizzata dalla dinamicità, dal progresso e dalla trasformazione. La tendenza del Postmoderno ha naturalmente suscitato vivaci discussioni: c’è chi la ritiene frutto di una netta frattura rispetto alla modernità e che dà origine ad un’epoca nuova; chi la ritiene una fase interna al moderno e preferisce parlare di ‘tarda modernità’ o chi ritiene che ormai il Postmoderno si sia concluso dopo gli eventi dell’11 settembre.

La realtà postmoderna è caratterizzata dalla frantumazione, dalla complessità incoerente, un caos che però non è stato vissuto tragicamente dal soggetto (almeno ai suoi albori) bensì con un’accettazione ludica. Se appare impossibile la produzione del nuovo allora è lecita nel campo della letteratura, delle arti, del teatro e del cinema, la ripetizione del già noto. Salta dunque il tabù dell’originalità a tutti i costi per riprendere semplicemente gli stili del passato combinandoli e contaminandoli tra loro, mediante assemblaggi di citazioni. Basti pensare al cinema di Quentin Tarantino, ai romanzi di Andrea De Carlo, Pier Vittorio Tondelli o ancor prima di Italo Calvino e alle sperimentazioni dei primi anni ’80 nel campo della videoarte. Il romanzo postmoderno, quindi, non è più un ‘genere’, ma rappresenta la ripresa di tutti i generi già sperimentati.

In America il maestro della nuova corrente è Thomas Pynchon, che utilizza una straordinaria molteplicità di linguaggi derivati dal mondo dell’informazione, dello spettacolo e della tecnologia. A questi si aggiunge la coscienza che la comunicazione non serve a mettere in rapporto gli uomini, ma solo a distribuire merci. La lingua che serve a esprimere questi motivi, presenta una continua mescolanza di culture e voci diverse.

La cultura postmoderna inoltre, non si rivolge a un pubblico ristretto, ma cerca di raggiungere un vasto pubblico di lettori e audience utilizzando il linguaggio dei mezzi di comunicazione di massa e riprendendo i generi ‘forti’ della tradizione, senza distinguere tra produzione ‘alta’ e letteratura di consumo.

Per questo, tratti caratteristici del postmodernismo sono il citazionismo, la frammentazione e l’ibridazione. I metodi narrativi riprendono le modalità espressive della televisione, degli audiovisivi e della pubblicità. L’imperativo è quello di decostruire, sovvertire, decontestualizzare e spaesare, il senso del sé è dunque mancante. I confini diventano fluidi, l’unità si converte in una pluralità di sfaccettature. Non ci sono noccioli duri né caratteri duraturi né aspetti in profondità, la sostanza cede il posto alla superficialità, il contenuto alla forma. La forma è tutto, è tutto lì, in superficie. In conseguenza di ciò non vi sono nemmeno interpretazioni, ma solo il gioco del linguaggio che dissemina il senso nello stesso modo in cui disperde l’io.

Resta un quesito: se l’uomo è mancanza ad essere, quali esperienze possono offrirci la possibilità di squarciare la breccia esistenziale delle nostre vite così tecnologicamente avanzate? La bellezza salverà il mondo o è solo questione di pixel?

Gli Eagles spiccano il volo con “Desperado”

Desperado-Asylum Records-1973

In occasione della morte di Glenn Frey, membro fondatore degli Eagles, avvenuta il 18 gennaio scorso, è doveroso ricordarlo e omaggiarlo proponendo uno degli album più famosi della band cui apparteneva. In questo senso Hotel California sarebbe senz’altro la scelta più semplice, dal momento che si tratta del vero blockbuster del gruppo, il disco della gloria imperitura, ma proprio per questo sarebbe anche la scelta più banale. Bisogna ricordare il vero merito degli Eagles, ossia quello di aver sdoganato definitivamente il country presso il grande pubblico portandolo in cima alle classifiche di tutto il mondo, codificando, una volta per tutte, quello stile che sarà famoso col nome di country-rock. Già altre band avevano tentato un esperimento simile, come i Flying Burrito Brothers, i Byrds, ma solo Frey e soci hanno saputo trovare l’alchimia giusta per far si che la musica tradizionale americana acquisisse milioni di fan trasformandosi in fenomeno di costume. Proprio tenendo conto di queste premesse, la scelta si è orientata su Desperado, concept album del 1973, dedicato alla vita dei fuorilegge del vecchio West, i desperados appunto, sempre in bilico fra distruzione e leggenda. Figura chiave su cui poggia tutta la costruzione tematico/musicale, è la gang dei Doolin’ Dalton, banda criminale attiva negli Stati Uniti alla fine dell’800. Si tratta di un lavoro crepuscolare, malinconico, dolente che riflette perfettamente il dramma umano dei banditi americani costretti, molto spesso da una situazione miserevole, ad una vita al limite.

“La cosa bella è che, anche se si tratta di un insieme unificato di canzoni, non è un’opera rock, un concept album, o qualsiasi altra cosa che pretenda di essere molto più di un insieme di buone canzoni che stanno bene insieme”. (Paul Gambaccini- Rolling Stone-1973)

Questa citazione aiuta a capire quanta fluidità e coerenza ci sia tra i brani in scaletta sia dal punto di vista stilistico che tematico. Il suono è ancora sospeso; non è propriamente country ma è ancora lontano dalle divagazioni rock e pop degli album successivi. Con la primigenia formazione a quattro, gli Eagles danno il loro meglio, producendo meravigliose armonie vocali e memorabili interpretazioni che danno vita a canzoni di grande impatto emotivo. Non mancano, ovviamente i successi spacca classifiche, come la stupenda title track affidata al timbro roco di Don Henley, oppure l’arcinota Tequila Sunrise, cantata proprio da Frey, che ipnotizza col suo incedere rilassato.

Glenn Frey-1973

Un album complesso

Non bisogna dimenticare però l’epica bellezza di Doolin Dalton, gunfighter ballad caratterizzata da una lamentosa armonica che soffia lungo tutta la melodia; la tambureggiante Twenty-One col banjo di Bernie Leadon in grande evidenza; il ritmo infuocato di Out Of Control,  il cantato altissimo del bassista Randy Meisner in Certain Kind Of Fool, la durezza di Outlaw Man, la tenerezza di Saturday Night, l’allucinata e psichedelica Bitter Creek, che segnano le tappe di un incredibile viaggio musicale nel West più selvaggio e pericoloso. Le atmosfere sono perfette, i testi estremamente evocativi, la perizia tecnica della band stupefacente. Frey, Henley, Leadon e Meisner fondono gli strumenti della tradizione (il mandolino, il banjo e l’armonica) con quelli tipici del rock (chitarra elettrica, piano, organo e batteria) dando vita ad una miscela veramente esplosiva ed innovativa. La grande ispirazione compositiva gli ha permesso, inoltre, di affrontare con classe temi difficili quali, il crimine, la violenza, la vita al di fuori della legge, evitando di cadere nella celebrazione o nell’apologia. Il risultato è dunque un album complesso ma estremamente efficace e gradevole, ben suonato e arrangiato, che merita, senza dubbio, un posto d’onore nell’intera produzione musicale degli anni ’70. I successi planetari sono dietro l’angolo per gli Eagles, che attraverseranno quarant’anni di musica mantenendo pressoché inalterato il loro richiamo ed il loro fascino e continueranno a riempire gli stadi, nonostante polemiche, scioglimenti, cambi di formazione e riappacificazioni. La loro turbolenta parabola fa parte del mito, come i continui litigi e le hit immortali, ma quest’album ci restituisce un gruppo ancora giovane in cerca della suo stile, capace ancora di fantasticare sugli eroi del West senza badare troppo alle vendite, di osare mescolando suoni e stili. Proprio per questi motivi Desperado va ascoltato con attenzione e rispetto, soprattutto adesso che le Aquile non voleranno più.

Revenant, l’epicità di Alejandro Inarritu

Revenant – Redivivo (2015) è l’atteso film di Alejandro Gonzáles Inarritu, dopo il Golden Globe e si giocherà la partita per ben 12 nominations agli Oscar 2016, di cui la più attesa è quella per il miglior attore protagonista. Ispirato alla storia vera raccontata nel romanzo di Michael Punke, già trasposto sullo schermo nel 1971 con il cult Uomo bianco va’ col tuo Dio per la regia di Sarafian, il film è il risultato di un progetto colossale. Per non parlare dell’irta, imperscrutabile figura dello straordinario Leonardo Di Caprio nelle vesti di Hugh Glass.

La trama

Alberta, Canada. Siamo nel diciannovesimo secolo. Il cacciatore Hugh Glass, insieme al suo gruppo affronta un percorso per ritornare all’accampamento a valle, ma gli uomini vengono assaliti da uno sciame di indigeni assetati di vendetta. Da lì inizia la fuga, prima lungo il fiume poi a risalire fino alle vette. Glass è considerato la guida dai compagni: conosce bene le montagne che ha esplorato da cima a fondo, si è unito ad una donna Pawnee dalla quale poi è nato un figlio, che porta la macchia di non essere bianco. Ad un certo punto della scalata Glass viene lasciato solo e aggredito da un grizzly, e lì la faccenda si fa complicata. Ferito quasi mortalmente, tradito dai compagni di viaggio, senza armi né cibo Hugh dovrà cavarsela sfidando le regole della foresta e la propria forza di volontà. Questa è la storia incredibile di un uomo che si rifrange, onda gigante, contro la massa imperscrutabile della natura, combattendo fino alla fine per non morire. Perché se esali un respiro, allora significa che sei ancora vivo.

La regia di Inarritu

Una regia, quella di Revenant, che si presenta accurata, dettagliata quasi allo sfinimento. Un film di tre ore che recupera una storia vera può giungere ad annoiare e in questo caso, se non è accaduto, è in gran parte per le doti interpretative di Leonardo Di Caprio. Togliete Leo e la potenza epica di questo lungometraggio si attenua, nonostante gli sforzi ammirevoli di Inarritu. Il film è davvero troppo prolisso ma recupera nella sua fame di panoramiche e particolari che emozionano; è chiaro l’intento didascalico di Inarritu quando sceglie di soffermarsi sui dettagli passando dai grandi campi lunghi innevati, incredibili ed emozionanti non c’è che dire, all’iride di un cavallo che sarà presto squartato. Ma poi risale verso le alture dell’immancabile di stupire lo spettatore, sconcertare, spiazzare, esagerare. Ma Revenant è un capolavoro? Dove perde, se perde? Nell’esigenza di un’estrema spettacolarità. Si trattava di una storia vera? Perché caricare sulle spalle di un cacciatore il peso di un eroe ottocentesco che dopo numerose cadute, nottate allo scoperto in una delle terre più fredde del pianeta, digiuno coatto e ripetuto, salti nel vuoto e tanto altro, riesce sempre a sopravvivere indenne? Cosa si cela dietro questa ansia da eroismo e onnipotenza? E’ che il cinema cerca di farsi realtà ma sfocia esageratamente nella finzione. Questo è un evidente esempio. La natura è la regina di questa pellicola, ma il regista sembra metterla in evidenza soltanto tramite le inquadrature, la luce del sole tenue batte sulla neve delle cime e il ghiaccio del Missouri, ma poi dove finisce la potenza della natura indenne e onnipresente? La sua anima pu trovarsi solo nello spirito umano che torna a visitare Glass nelle vesti dell’amata? No, la natura ha un’anima, ma Inarritu non le ha dato il giusto spazio nella pellicola. La donna suggerisce all’uomo di non abbattersi, perché il tronco sembra cadere quando la tempesta ulula, ma il tronco non cadrà, è forte la sua struttura, la sua corteccia robusta. I dialoghi sono pochi, e tranne qualche breve caso, un poco scontati, ricalcano il western senza troppa audacia. Il film si dipana tra una ricerca del realismo descrittivo e la smania dell’eccesso sanguinolento, alternato alle visioni del protagonista. Questo frammisto di realtà e visione rompe l’intento originario di realizzare un lungometraggio documentaristico o che ad esso tendesse.

Le fatiche di Leonardo di Caprio

Leonardo Di Caprio, per l’ennesima volta in odore di Oscar, per interpretare Revenant, ha affrontato davvero varie peripezie: dal cospargersi di formichine importate a mangiare carne di bisonte (l’attore è vegano), a trascorrere ore ed ore al gelo per attendete l’attimo giusto e iniziare le riprese secondo la giusta luce naturale. E poi ovviamente la resistenza fisica, l’orso utilizzato nel film è riprodotto e non reale, ma ovviamente le cadute, i salti e tutte le ferite sono costate all’attore hollywoodiano non poca cura e pazienza. Per non parlare poi della sua barba, dalla quale Di Caprio non poteva separarsi mai, pena un aspetto a dir poco trasandato che pure gli ha donato ancora un punto in più agli occhi delle fan. Ma se il protagonista non fosse stato lui, Revenant avrebbe riscosso lo stesso successo? Risulta chiara la perfetta presenza scenica dell’attore, la sua intensa drammaticità del volto negli spasmi di dolore, e la vitrea coscienza dello sguardo del cacciatore indefesso. Infatti all’ennesima minaccia del traditore Fitzgerald: “Sbatti le palpebre, Glass”, immobilizzato dalle ferite dell’aggressione, in procinto di morire, Di Caprio accetta il patto e si sottomette per un momento, per porre fine alle sofferenza proprie e dei compagni. Ma quella commozione è virile, e Glass non può non resistere, respira, a tratti rischia di soffocare, cade ma si rialza. Il freddo è assassino ma non lo uccide. Forse solo l’infamia può farlo ma lui si rafforza ad ogni ferita, ad ogni sconfitta. Perché, come un anziano Pawnee gli fa notare che la “la vendetta è nelle mani di Dio”.

Apprezzabile il senso complessivo della grandiosa pellicola, che ci propone il rispetto per la natura e la ricerca del selvaggio, il senso del divino e la fede in se stessi, lo spirito di sopravvivenza che non abbandona mai l’uomo nei momenti di sconforto e disperazione; una “filosofia del tronco”: la tempesta sconquassa un albero anche massiccio, lo strattona e può spezzarne i rami ma questi resterà sempre dritto, in piedi. Per noi uno sciocco imprevisto può essere causa di una crisi di nervi, mentre l’uomo moderno aveva la capacità di adattarsi a più di una circostanza sfavorevole, quando non deprecabile e pericolosa. Ed è così che Revenant, nella sua estrinseca volontà di colpire lo spettatore, potrebbe insegnarci a recuperare il nostro spirito di sopravvivenza, e anche a esercitare il recupero del selvaggio che protetto e segreto vive nell’anima di ogni uomo.

Addio a Ettore Scola, ha raccontato l’Italia con rigore e delicatezza

Il cinema italiano è in lutto per la morte avvenuta il 19 gennaio scoros, a 84 anni, del regista e sceneggiatore Ettore Scola. Nato a Trevico, in provincia di Avellino nel 1931, Scola, dopo aver collaborato durante il periodo universitario con un giornale umoristico per il quale disegna, dalla metà degli anni Cinquanta, comincia a scrivere sceneggiature con Ruggero Maccari per alcuni dei più popolari registi italiani come Mattoli, Steno, Zampa, Loy, Bolognini, Bianchi, Salce, sino ad arrivare a firmare i copioni de Il sorpasso (1962) e de I mostri (1963) di Dino Risi, oltre a molti film di Antonio Pietrangeli, uno su tutti: Io la conoscevo bene (1965) con protagonista Stefania Sandrelli e che gli consente di vincere il Nastro d’Argento per la migliore sceneggiatura. Nel 1961 è assistente alla regia nella pellicola di Carlo Lizzani Il carabiniere a cavallo, per poi esordire nel 1964 con il film Se permettete parliamo di donne (1964) con Vittorio Gassman come protagonista tra varie figure femminili, seguito da La congiuntura (1965) e dall’episodio Il vittimista con Nino Manfredi del film Thrilling.

Nelle sue pellicole Scola ha coniugato analisi e critica del costume nostrano e profonda riflessione sul ruolo e la crisi dell’intellettuale, basti pensare a capolavori come C’eravamo tanto amati (1974) con Gassman, Manfredi, Satta Flores e Sandrelli, dove, attraverso la storia di tre amici, due innamorati della stessa donna, il regista racconta trent’anni di storia italiana tra illusioni e disillusioni, con tenerezza, malinconia e antiretorica. Oppure al film La terrazza (1979), lucido e nostalgico affresco umano il cui sfondo è rappresentato da una terrazza dove si riuniscono intellettuali che discutono e litigano tra loro. Anche in questa pellicola Scola non si lascia andare a piagnucolosi rimpianti per il passato, ha piuttosto offerto un raro esempio di commedia autocritica degli autori della commedia stessa.

Una scena tratta dal film “La terrazza”

Senza dubbio di Scola ricordiamo con commozione il capolavoro storico con Sophia Loren e Marcello Mastroianni Una giornata particolare (1977) ambientato durante il fascismo e che ci comunica con la sua atmosfera ovattata, complice la meravigliosa fotografia di Pasqualino De Santis, una strana sensazione di attesa mostrandoci come una sola giornata può cambiarci la vita; e il lirismo grottesco di Brutti, sporchi e cattivi (1976) descrivendo senza pietà il degrado non solo materiale ma anche morale dei poveri che vivono ai margini delle grandi città, muovendosi tra dramma e commedia. Ma Scola è stato anche il regista capace di dare un’impronta drammatica prima di allora sconosciuta al comico Ugo Tognazzi con il film Il commissario Pepe (1969), di sperimentare, facendo un ottimo uso di brani musicali, indagando sul rapporto tra la vita personale di ognuno di noi con i cambiamenti storico-sociali  in Ballando ballando (1983), di valorizzare un attore come Massimo Troisi nel film-conversazione Che ora è? e nell’inno al cinema stesso Splendor (entrambi del 1989);  di utilizzare un linguaggio appartenente al fotoromanzo e alla cronaca per raccontare un divertente dramma della gelosia in Dramma della gelosia-Tutti i particolari in cronaca (1969) con Monica Vitti, Marcello Mastroianni e Giancarlo Giannini, cogliendo l’alienazione moderna individuale tipica del personaggio-uomo della letteratura del Novecento che di fronte alle proprie frustrazioni ed incertezze reagisce con una spinta vitalistica (auto)distruttiva.

 

Marcello Mastroianni, Monica Vitti e Giancarlo Giannini in una scena tratta dal film “Dramma della gelosia”

Scola ha riflettuto sull’istituzione della famiglia e sul tempo che passa ne La famiglia (1986) che ci consegna uno Scola rigoroso ma comprensivo che scava a fondo nei suoi personaggi, nei loro caratteri e sentimenti. Se il regista è risultato meno incisivo nei film Romanzo di un giovane povero (1995) per quanto riguarda l’analisi della società borghese, facendo risolvere i problemi dei protagonisti, uno anziano e uno giovane, entrambi emarginati, con un omicidio, ne La cena (1998) dimostra una falsa indulgenza verso i suoi personaggi che mostrano i loro vizi e le loro debolezze a tavola, durante una serata in una trattoria romana. Ne viene fuori un campionario umano non tanto diverso da quello di oggi: italiani individualisti e cinici ma che diventano comunitari quando si tratta di difendere gli affari di famiglia.

Negli anni duemila Scola è tornato a filmare un microcosmo sociale e culturale appartenente al passato con Concorrenza sleale e dei giorni nostri con Gente di Roma, dove però i personaggi restano solo dei bozzetti, al documentario ricostruendo degli episodi della vita del collega Federico Fellini in Che strano chiamarsi Federico- Scola racconta Fellini.

Con Ettore Scola se ne va l’ultimo maestro della commedia italiana, che durante la sua lunga carriera ha vinto numerosi premi, fra cui al Festival di Cannes, la Miglior Regia per Brutti, sporchi e cattivi oltre a vari David di Donatello, fra cui quello alla carriera del 2011 e ben quattro nominations agli Oscar per nella categoria miglior film straniero, per Una giornata particolare, I nuovi mostri, Ballando ballando e La famiglia. Nel 2012 ha ricevuto il premio alla carriera del Festival di Torino. Ci mancherà il suo sguardo lucido, rigoroso e delicato, estraneo alla retorica stucchevole.

 

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