Rorty e l’ironia liberale: tra decostruzionismo e postmodernismo-riflessioni filosofiche

Per alcuni aspetti la filosofia della scrittura di Derrida presenta alcune assonanze con quella dell’ultimo Wittgenstein, con il quale concorda sul fatto che il significato delle parole dipende da come queste sono scritte e pronunciate, crede che il modo di capire noi stessi e il nostro linguaggio cambino con il passare del tempo. Una delle parole di Derrida è différance, differanza, ogni cosa è diversa da ogni altra e nessuna parola usata due volte mantiene lo stesso significato. Derrida decostruisce le teorie classiche e fondazionali della filosofia, da Platone ad Heidegger, sino allo strutturalismo. È il decostruzionismo.
Anche Derrida non confida in un linguaggio unico e con Rorty considera la filosofia un genere di scrittura come altri, ma la pratica decostruttiva di Derrida è radicale (tanto che un filosofo come Feyerabend lo definisce un ottenebratore).

Derrida può richiamare alla memoria l’ultimo Wittgenstein, quello dei giochi di parole, ma è egli stesso a prendere le distanze da quest’ultimo paradigma possibile. Derrida definisce i suoi esercizi di scrittura non giochi di parole ma fuochi di parole, per bruciare i segni sino ad incenerirli, in modo che possano essere usati una sola volta. Si tratta di allontanarsi dalla filosofia intesa come logocentrismo, dal primato della logica.
Ne La pharmacie de Platon è ripreso il mito proposto da Platone nel Fedro, ove attraverso il mito di Thamus e Theuth (il dio Theuth offre il dono della scrittura al faraone Thamus che rifiuta, preferendogli la parola), si attua il rifiuto della scrittura per inaugurare quello che sarà un motivo dominante della filosofia occidentale: il logocentrismo, o metafisica della presenza.
Per Derrida la parola come presenza, come suono, ha dominato la filosofia e la cultura occidentale in contrapposizione alla scrittura, che invece produce negazione della presenza, assenza. Mentre la parola si connette direttamente all’anima, la scrittura è sconnessa e indiretta, risulta poco riconoscibile persino a colui che l’ha prodotta. Derrida si riferisce a un parricidio da parte del testo nei confronti del suo autore.
La parola come voce, fonema è la coscienza stessa e la scrittura gli si contrappone.

L’écriture non lascia nulla oltre i propri margini, non vi sono significati primi da raggiungere attraverso di essa, perché essa è l’unica realtà e ciò che può fare è compiere un’opera di disseminazione dei significati. C’è la distinzione tra libri, espressione della voce dell’autore, e testi, irriconoscibili e neutrali.
Dati questi sviluppi del percorso derridiano viene spontaneo riconoscere una presa di distanza dalla concezione heideggeriana dei fonemi come parole magiche epocali, ma ciò non significa che la proposta di Derrida non sia per Rorty ancora fondazionalista, portandoci dalla parola come presenza alla scrittura dell’assenza. E anche Derrida dissemina il suo cammino intellettuale di parole pesanti come differanza, decostruzione, disseminazione, traccia.

Nel caso del neologismo différance (non différence) avviene in maniera apparentemente casuale e attraverso una ricerca sui termini originali in latino (differre) e greco (diapherein). Sicché différance indica la differenza comunemente intesa, ma anche (dal latino) il differire temporalmente, il rinviare. Dunque un termine spazio-temporale e non precisamente un concetto. Questa differanza indica l’assenza della presenza, il fatto che si usi un segno che sta a indicare la disconnessione spazio-temporale tra esso e la cosa indicata, una presenza rimandata, differita. Così Derrida intende i segni come distanti sia dall’idea scientifica di “segno corrispondente a”, sia dal profondismo heideggeriano del fonema magico. Dunque l’origine è sempre elusa, sta da un’altra parte, non ricongiungibile al segno. Ciò che rimane è la traccia dell’origine perduta, non l’origine stessa.
A sfavore delle argomentazioni non metodiche di Derrida, Rorty sostiene l’impossibilità di un superamento della metafisica continuando a discuterne. Difficile confrontarsi con la metafisica senza prenderne in considerazione i temi, legittimandoli una volta in più.
Oltre a questo Rorty non comprende in che modo termini come différance o trace potrebbero riuscire laddove dasein o aletheia hanno fallito e fa notare come questi termini non assomiglino ai giochi di parole di Wittgenstein e siano diventati termini normali anche nei dipartimenti accademici di filosofia.

Allo stesso tempo i testi derridiani rischiano di porsi nei confronti del lettore come dei codici indecifrabili, entità vagamente minacciose e indomabili. E vi è persino la proposta derridiana, mutuata da Antonin Artaud, di concepire le parole scritte alla maniera dei geroglifici egizi. Il geroglifico come origine che rifiuta qualsiasi altro segno, nel consueto rapporto tra segno e significato e che difende la fisicità del linguaggio.
In generale, per Derrida, si fa strada l’esigenza di non imporre una teoria interpretativa per dominare il testo, meglio lasciare che sia questo a dominare noi e a suggerire come avvicinarci ad esso. Su questo, da propugnatore del linguaggio d’uso, Rorty propone un paragone provocatorio e abbastanza efficace, sostenendo che sarebbe come se l’uso che facciamo del cacciavite, avvitare le viti, fosse imposto dal cacciavite stesso.
Inoltre, per Rorty decostruire la metafisica è compito sostanzialmente inutile.

La proposta rortiana è quella di non affannarsi a epurare la cultura da termini come metafisica, anima, mente, linguaggio, realismo, idealismo ma di continuare a farne uso, senza per questo drammatizzarli e farne delle ipostasi. Al massimo possiamo dimenticare, pensare ad altro.
Rorty segue l’evoluzione degli scritti di Derrida e nota come questi talvolta sia vicino alla realizzazione del superamento, laddove i suoi testi assumono come toni dominanti l’enigmaticità e lo scherzo e, dunque, l’alleggerimento, come ad esempio nella Carte Postale (Envois).

Habermas, nel suo Discorso filosofico della modernità, pone Derrida tra i neonietzschiani e postmoderni assieme a Rorty, Lyotard e Foucault.
A lato, la questione del postmodernismo in filosofia è posta con la Condizione postmoderna di J. F. Lyotard; in quest’opera si osserva come i diversi saperi non trovino più un collante comune in una qualche metanarrazione condivisa universalmente.
Del moderno non si accettano: visione globale del mondo, legittimazioni filosofiche, fiducia nel corso progressivo della storia in vista dell’attuazione di idee, metalinguaggi, saperi fondazionali; vi sono invece la consapevolezza dell’esistenza di una società complessa e plurale, l’amore per il citazionismo e una concezione ristagnante del tempo.

Molti postmoderni paiono confidare in una dimensione laterale, un’essenza decorativa e perifericache lascia tracce della propria evanescenza. Un’esistenza rimandata a un momento che non verrà, come per la différance derridiana.
Rorty da parte sua usa poco il termine postmodernismo, considerandolo oramai abusato e poco utilizzabile. In particolare i suoi dubbi non possono che derivargli da quel proposito di andare oltre la storia, che deve sembrargli un altro trucco per evocare criteri astorici per la risoluzione di problemi filosofici.

Rendere più labili le frontiere tra la scienza e l’arte non ha lo scopo di porre fine a entrambe a vantaggio di un brodo primordiale indifferenziato. Rorty non intende scrivere da una dimensione parallela a questa, di questo preciso momento storico. Il desiderio è quello di mettere in relazione le diverse discipline e poter vivere in un mondo in cui ogni persona sia libera di ricrearsi attraverso il proprio linguaggio.

 

https://www.riflessioni.it/angolo_filosofico/rorty-06-decostruzionismo-postmodernismo.htm

C’est la vie, caro Sarkozy!

«Siamo fatti così, Sarko-no, Sarkozy!». Recita tali parole una canzone demenziale di Simone Cristicchi, apparsa al Festival di Sanremo di nonna Pina (Antonella Clerici) nel 2010. Non trasmette sommariamente una beata ceppa, eppure ci fotografa nettamente la vicenda che nelle ultime ore squassa la Francia: l’ex presidente della Repubblica Libertè, Égalitè et Fraternitè, Nicolas Sarkozy, è in stato di fermo nell’intestino della caserma della Polizia Giudiziaria di Nanterre, mite sobborgo di Parigi. La notizia fa eiaculare i cronisti francesi di «Le Monde», che erano un po’ annoiati negli ultimi tempi a causa della tregua dell’Isis sul territorio bleu. Che cosa vuoi che ne sappiano di scandali politici i cugini francesi? L’Italia rimane il Paese dominante in questo settore, “Mani pulite”, “Cosa Nostra”, e tutte le inchieste con suffisso “opoli”, ci fanno sempre battere il cuore.

Attenzione, Sarkozy è sottoposto alla vivisezione legale di un interrogatorio, non è condannato. Però è già solo: basta un nulla per essere macchiati di inchiostro talmente tetro da non andare più via. Jean-Paul Sartre asserisce che, «se sei triste quando sei da solo, probabilmente sei in cattiva compagnia». I sentimenti non mentono mai: chissà come di sente il repubblicano Nicolas in questi minuti magmatici. Egli è stato convocato nelle scorse ore per fare lumi sull’inchiesta che ha evidenziato possibili finanziamenti da parte della Libia alla campagna elettorale presidenziale che nel 2007 lo portò a pavoneggiare dentro i marmi dell’Eliseo. L’inchiesta parigina, partita nel 2013, vede solo ora il presidente emerito appropinquarsi a una confessione confessabile. Lo stato di fermo può avere durata di quarantotto ore, prima del rischio dell’incriminazione. Fosse vivo l’imperante Napoleone Bonaparte, in merito alla vicenda si esprimerebbe così: «Bisogna sempre lasciar trascorrere la notte sulle ingiurie del giorno innanzi». Mica male.

Un uomo fedelissimo di Sarkozy, Brice Hortefeux, già ministro del suo discutibilissimo governo, è stato interrogato celermente: egli è già libero, ma ha lasciato trapelare possibili debolezze nel castello difensivo dell’accusato. Ma non tergiversiamo, entriamo nello specifico: nel 2012 il sito Mediapart aveva pubblicato una serie documenti segreti che evidenziavano finanziamenti cospicui del leader libico Muammar Gheddafi per la corsa al trono di Sarkozy. Le bustarelle, o meglio tangenti, termine per noi italiani molto affettuoso, ammonterebbero a cinque milioni di euro, distribuiti in denaro contante. L’ex capo dello Stato transalpino – ritiratosi saggiamente dalla vita politica dopo la sconfitta alle primarie repubblicane del novembre 2016 – era stato già rinviato a giudizio per non aver rispettato le regole dei finanziamenti di un’altra sua campagna elettorale, quella del 2012, nella quale aveva speso venti milioni di euro in più rispetto al tetto massimo di ventidue milioni e mezzo consentiti dalla legge francese. Perseverare è davvero diabolico.

A gennaio il maremoto è avanzato su Sarkozy: viene arrestato all’aeroporto londinese di Heathrow, il 58enne uomo d’affari francese Alexandre Djouhri, con un grasso mandato di cattura internazionale. Sarebbe lui il volano, il tramite integerrimo del denaro versato da Gheddafi nella vincente campagna elettorale del 2007. L’udienza per l’estradizione in Francia di Djouhri si avrà il 17 aprile. Si preannunciano scenari tempestosi. Sarkozy sarebbe accusato di soffrire anche del complesso di Caino, visto che nel 2011 fu proprio il suo governo a spingere perentoriamente verso l’attacco della Libia, che avrebbe poi accelerato il rovesciamento del regime di Gheddafi.

Intanto l’agnello roboante è accusato, ma rimane in silenzio. Ci si aspetta una decisa risposta, da chi ha ricoperto la carica di ventitreesimo presidente della Repubblica francese, servendo già la sua nazione – e i suoi probi ideali di destra – con una carica di ministro delle finanze prima e di doppio ministro dell’interno dopo, dentro i fasti marcianti del governo Jacques Chirac.
Sarkozy è anche uno dei due co-principi di Andorra, oltre ad essere stato insignito dei titoli di gran maestro della Legion d’onore e protocanonico d’onore della Basilica di San Giovanni in Laterano. Quelle bordate di luce che fanno effetto, per intenderci, come l’aver sposato Carla Bruni, una donna “donata da Silvio Berlusconi”. Ma intanto regna affusolato il silenzio: «Non c’è uno, ma più tipi di silenzio, ed essi fanno parte integrante delle strategie che sottendono ed attraversano i discorsi». Lo sosteneva Michel Foucault, un intellettuale vero, mica un portatore di platinate medaglie.

 

Annibale Gagliani-L’intellettuale dissidente

L’amore è dialogo, preludio di una relazione stabile che cresce mentre si consuma, come ci suggerisce il dipinto di Friant ‘Les Amoureux’

Forse, da sempre, abbiamo dell’amore un’immagine incompleta e unilaterale. Confermata da secoli di letteratura e di storia dell’arte. È l’amore come passione incontenibile, come desiderio che non sa trattenersi e che si libera andando ad abbracciare e a baciare la persona amata. Tutta la storia dell’arte, in fondo, è costellata da raffigurazioni di questo tipo. E se l’amore fosse anche altro? È quanto ci suggerisce uno splendido quadro di Émile Friant (Dieuze, 16 aprile 1863 – Parigi, 9 giugno 1932), intitolato “Les Amoureux” (1888), “Coloro che si amano”. Sullo sfondo, un suggestivo paesaggio fluviale, con dolci colline verdi immortalate, verosimilmente, quando l’autunno inizia a sopraggiungere. In primo piano, i due innamorati: raffigurati – questo l’aspetto più interessante – in maniera diversa e non convenzionale rispetto a secoli di tradizione artistica. Non si baciano, né si abbracciano: non è l’elemento della passione amorosa a prevalere. Parlano tra loro, in dialogo. Che siano innamorati e non semplici interlocutori è rivelato, oltre che dal titolo, dallo sguardo con cui ciascuno contempla l’altro.

Il paesaggio, pur suggestivo, appare statico: il solo dinamismo del quadro è offerto dalla relazione dialogica tra i due innamorati, i cui sguardi, nonostante la bellezza del luogo, sono rivolti verso la persona amata, che per ciascuno è il centro del proprio mondo. Non ci è dato sapere che cosa, in concreto, i due innamorati si stiano dicendo e quale sia il contenuto o anche solo il tema generale del loro dialogo. Sappiamo solo che il loro rapporto amoroso è fondato sul dialogo, sulla parola, a tal punto che è nell’atto concreto del discorrere che Friant ha voluto eternarli. I due innamorati di Friant ci segnalano che, opposto al narcisismo, l’amore è un’esperienza duale di verità, che non annulla le differenze, ma le fa coesistere nell’unità amorosa, nella sintonia unitaria in cui l’amore stesso si risolve. In questo senso, l’amore apre un mondo, che è duale: fa vivere il nuovo nello stesso, poiché il medesimo mondo in cui eravamo come individui acquista ora, nella relazione amorosa, un nuovo significato. Che si dà nel dialogo, nella comunicazione tra i due soggetti ora esistenti come parti di un’esperienza duale di verità. La vita cessa di essere vissuta dal punto di vista dell’uno: è ora vissuta da una prospettiva duale, in cui le due parti non spariscono, ma aspirano all’unità. E quest’ultima – ci suggerisce Friant – è anzitutto dialogo, parola, esperienza vissuta e verbalizzata in forma duale.

Pensare che l’amore possa risolversi nella passione incandescente e nel desiderio incontenibile significa far valere una visione immatura, peraltro coerente con il nostro tempo dell’instabilità generalizzata e della precarietà che si fa precariato sentimentale. Significa fare dell’amore un’esperienza necessariamente a tempo determinato, destinata a “scadere” non appena la relazione assuma nuove figure e nuove forme che, lungi dal farlo eclissare, lo fanno esistere e lo stabilizzano. Il vero amore si stabilizza solo se v’è dialogo: e cresce mentre si consuma. Diceva Fromm che l’amore immaturo è quello che dice “ti amo perché non posso stare senza di te”, là dove quello maturo e consapevole afferma “non posso stare senza di te perché ti amo”. La sua formula magica – ce l’ha insegnato Lacan – è quell’encore in cui si condensa la fedeltà al medesimo. Che è, poi, anche fedeltà all’inizio, all’evento imprevedibile che ha portato all’incontro da cui l’amore ha tratto la sua esistenza. La persona amata diventa insostituibile, oggetto di un dialogo infinito con cui la propria esperienza del mondo è sempre di nuovo posta in forma duale. Se è così, diventa possibile sostenere che l’amore può dirsi finito, disseccato ed esaurito quando viene meno il dialogo, la capacità di condividere l’esperienza duale del mondo: quando ciascuno dei due – o almeno uno dei due – rientra in se stesso, abbandonando il dialogo e il progetto di vita duale e tornando a esistere in sé e per sé.

 

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Frammenti di un monologo amoroso ai tempi dei social, quando l’amore è solo un travolgente fuoco d’artificio

L’amore è il tutto e il niente nella stessa esplosione fragorosa. Tra i battenti digitali del Ventunesimo secolo, ancor di più. Anno 1977, Roland Barthes regala all’emisfero super accelerato Frammenti di un discorso amoroso, cartina semantica per l’analisi dell’amore novecentesco, con il linguaggio del Soggetto e il contro-linguaggio dell’Altro a fustigare dolcemente lo scenario. Anno 2018, invece di attualizzare il discorso amoroso, potremmo comprendere come lo scambio tra il Soggetto e l’Altro si sia trasformato in un vero e proprio monologo. Ecco a voi, cari lettori, amanti, amati e non corrisposti, i frammenti di un monologo amoroso.

Bussiamo alle porte della Prima Fase del soliloquio:

L’abbordaggio (o rimorchio)

Il soggetto è un uomo, immerso nell’epidemie del sabato sera. Varca le soglie del locale più esclusivo della sua città e dopo un long island, un gin tonic e qualche cicchetto alla goccia, ha l’immanente apparizione: Lei. Bella, ruggente, dallo sguardo cinico. Ci si innamora sempre dell’Immagine, accusando inconsapevolmente una sindrome di Stendhal fiorentina. Il soggetto pensa tra fegato e cuore: Lei è La libertà che guida il mio popolo interiore e io sono il suo Delacroix. Non è verosimile? Perfetto. Lei è la mia Belen o la mia Diletta Leotta e io sono un Cavaliere rispettato dall’Italia tutta. La pensano tutti così, anche se lo nascondano bene.

Il Soggetto si avvicina nella zona dell’altro e cerca un contatto criptico con lo sguardo. Ella risponde, non si sa se per sdegno o complicità. Non resta che affondare il colpo: «Ciao, cosa prendi da bere?» e lei, con superbia mongolina «ciao, io e le mie amiche beviamo vodka lemon, ci spostiamo al bancone». Si inaugura una chiacchierata improbabile, vuoi per il frastuono o vuoi per la banalità degli argomenti. «Andiamo a ballare?», dice l’Altro. «Subito!», sentenzia il Soggetto (già cotto a puntino). A questo punto si staglia davanti gli orizzonti dell’uomo e della donna un bivio: se lui sarà stato convincente, scapperanno via dalle luci cloroformizzate della serata, amandosi in macchina o a casa del Soggetto. Uno scenario che disintegrerebbe l’Immaginario dell’innamorato, poiché avendo tutto subito, non cercherebbe mai più niente in quell’Immagine desiderata.

Perciò l’Altro, astuto come il ventre del cavallo di troia, sparisce dalla pista, sfruttando un momento di distrazione e piantonando con stile il Soggetto. Il finale della serata per l’innamorato diventa arduo: aveva in mano il proprio Desiderio, ma se lo è fatto sfuggire. Il crepuscolo fa riemergere i dettagli appassionanti di Lei: rossetto rosso anima, profumo intonato, abito da sera che risaltava poeticamente le forme. Il giorno dopo il Soggetto si trasforma in Sherlock Holmes e durante l’assorbimento della sbornia progetta l’assalto virtuale. Fa il diavolo a quattro per scoprire il vero nome e cognome di Lei, spulciando la pagina Facebook del locale dell’incontro e mettendo sotto torchio eventuali conoscenti in comune.
«Bingo! Trovata». L’aggiunge subito su Facebook e Instangram e attende l’accettazione dell’amicizia e del segui. «Toh, ha accettato». Il soggetto parte con il like tattico e piazza un messaggio su ambedue i social, presentandosi con garbo. «Ciao, sono il ragazzo con cui hai ballato ieri, non so se ti ricordi…». L’Altro risponde con acuto sadismo: «Hey, ciao. Dimmi…». Il Soggetto assalta la Bastiglia: «Ti ho trovata molto interessante, sei davvero carina. Mi piacerebbe che ci sentissimo, giusto così per scambiare quattro chiacchiere. Mi daresti il tuo numero di cellulare?». Ora l’Altro effettua un’analisi dei social del Soggetto, con un ritmo forsennato, a tempo di record. Se l’aspetto virtuale del disturbatore ha superato l’esame, la conversazione continuerà, sfociando poi su WhatsApp. Altrimenti, saranno solo lunghe risate tra lei e le sue amiche, che canzoneranno il Soggettino.

L’Altro miracolosamente accetta: si passa alla Seconda Fase:

Frequentazione (o “ci stiamo sentendo”)

La prima volta è «bellissima, meravigliosa, indimenticabile». Per il Soggetto sempre, qualche volta anche per l’Altro. Adesso potenzialmente si dovrebbe volare, ma il sentiero dei due attori diviene di nuovo complicato. Se l’altro si sente sicuro, partecipe e «mentalmente preso», è fatta. Altrimenti, amici come prima, ovvero amici come mai. In realtà esiste una terza e una quarta chance: diventare come Mila Kunis e Justin Timberlake in Amici di letto (specialisticamente trombamici), oppure continuare la frequentazione fisica ed emozionale, appurando infine che al Soggetto l’Altro gli vuole «molto bene e gliene vorrà sempre», perché «lui è come un amico, se non il migliore». Chiamasi, tecnicamente, friendzonamento.
Ma non è questo il caso. L’Altro è convinto del bagaglio fisico e sentimentale del Soggetto, ormai sono entrati nella Terza Fase:

Il fidanzamento

Come comportarsi in questo capitolo culminante di una relazione già dogmatica? «Cosa mettiamo su Facebook?», «vabbè, mettere solo “impegnato” è riduttivo dai», «no, macché, fare il profilo di coppia è proprio da sfigati». La storia diventa ufficiale, d’ora in poi entreranno pian piano nello scenario amici, familiari e nemici dell’amore, che guasteranno l’Immaginario di lui e faranno perdere le staffe a Lei. E poi c’è da scommettere tutto il proprio Io: regali, sorprese, sacrifici, viaggi, paranoie e litanie. Ma il Soggetto si sente trasportato, privo di freni razionali, un po’ come Dawson con Joy in Dawson’s creek, con la piccola differenza che lui l’Altro l’ha conquistato senza servirsi di una scala (e senza piagnucolare). Ora Lui e Lei prendono totalmente confidenza con i rispettivi corpi, fanno l’amore spesso e con progressiva intesa e intensità. È un momento spettacolare e irripetibile, è la Festa della relazione. Ma nel preciso istante in cui tutto funziona, il Soggetto classifica la sua musa come a-topos, cioè inclassificabile, e ha un assaggio positivo di de-realtà sentendosi avulso dal mondo.
Tutto cambia intorno, ma a lui non importa, sta amando davvero. Rino Gaetano spiega magistralmente questa sensazione cristallizzata di volo sul tempo in Sfiorivano le viole. Ecco, si palesa inesorabile il primo atto egoistico del Soggetto: «Io ti amo». Io, ti amo! E adesso esigo la stessa risposta da te. L’Altro è sempre mentalmente preso, come mai finora, e non può che rispondere così: «Anch’io ti amo, da morire». Nel tam-tam della Festa l’esagerazione è l’ospite d’onore. D’ora in poi un sostantivo accompagnerà i due Attori: gelosia. «Chi è questo che ti ha mandato l’amicizia su Facebook?», «chi ti scrive a quest’ora?», «chi è questo che ti segue su Instangram?», «ci scambiamo le password dei social?», «ti vedo assente stasera, chissà a chi starai pensando…», «perché hai messo il like alla foto di quello?», «dove stai e con chi stai?».

Incredibilmente il rapporto disperde molte energie in discussioni efferate, che spesso si chiudono con una potente pace sotto le lenzuola. La paura di perdersi lascia spazio alla conferma di aversi – fisicamente e mentalmente – e di conseguenza torna lo smalto sui sorrisi del sodalizio. Si passa da urlarsi contro di tutto a ripercorrere le tappe di 50 sfumature di grigio. Si passa dal non parlarsi per un giorno intero a sfogliare il kamasutra con le canzoni di Maluma di sottofondo. Un amore strano, psicopatico, ma vincente. Eppure, è un monologo. Il preludio d’ensemble inganna un po’ tutti, Attori compresi.
Arriva puntuale come un bombardamento della Luftwaffe su Londra la Fase Quattro:

La complicazione

Le Nubi sull’Immaginario del Soggetto e complessivamente sullo scenario costruito con l’Altro, possono arrivare da più direzioni della rosa dei venti. Facciamo un po’ di ordine. Una Nube può arrivare dalla separazione per lunghi tratti di tempo. Soggetto e Altro si separano causa università al nord o all’estero, causa lavoro al nord o all’estero. La tecnologia riesce supportare le due parti di mela divise: foto, video, chiamate, note vocali, messaggi in ogni ora della giornata: peccato che Skype e WhatsApp non riusciranno mai a sostituire la ricchezza sensoriale dell’epidermide. A questo punto uno dei due dovrebbe mollare rispetto alle proprie ambizioni future e rispetto alla propria visione di vita. Chi lo fa? Nessuno dei due.
Il Soggetto a La Mecca, l’Altro a New York: così si rimane perché il lavoro o lo studio obbligano una scelta netta e perché «la mia carriera e la mia felicità sono più importanti, tanto, come dicono le mie amiche o i miei genitori, “di ragazzi ce ne sono a bizzeffe”». I viaggi per venirsi incontro non bastano più, nemici nuovi aumentano la nebbia intorno alla coppia. Dopo l’arrivo di Sex and the city nella serialità televisiva, ogni ragazza si sente in diritto di avere un domani aizzato da brividi sempre più forti, emulando fiaccamente Marylin Monroe. Idem per l’uomo. Lui è cacciatore, si sente il don Giovanni di Kierkegaard. Comincia a insinuarsi tra le sue sinapsi l’idea che fare il rattuso da fidanzato sia un valore aggiunto al proprio superomismo. Crolla scioccamente. La lontananza lo tormenta e alla ricerca del limonamento fatuo si alterna ai blitz su You Porn.

Nubi devastanti possono arrivare da un tradimento di uno dei due Attori o peggio ancora dalla dipartita improvvisa di uno dei due. Casi estremi, sia chiaro, ma abbastanza diffusi. Torniamo al linguaggio. Nubi fitte possono provenire sovente dalle distrazioni. Quando il Soggetto dà priorità all’asta del fantacalcio, al torneo alla Playstation, alla partita della Longobarda o a qualsivoglia suggestione personale, trascurando l’Altro, lì perde totalmente la bussola del rapporto. L’Altro è insoddisfatto, si sente preso in giro, e ne prende consapevolezza grazie alle amiche. I nervi non resistono più, Lei sbotta: scrive al soggetto su WhatsApp tirando la corda della ghigliottina: «stasera ti devo parlare…». In un attimo tutti i nomignoli scambiati tra i due Attori evaporano (amò, cucciolo, patato, orsetto, cicci, ecc…), il clima è freddo, l’atmosfera minimal, le emoticon inesistenti.
La Fine è vicina, planiamo mestamente nella Quinta Fase:

Tra noi è finita

Le scenate, i pianti, i lapsus freudiani in pubblico e tanti aneddoti menati in questo frangente diventano acuminati e portano il Soggetto ad essere Scorticato. Adesso Lui è estremamente sensibile, qualsiasi cosa potrebbe ricordargli l’Altro, perché sa bene che sta per essere abbandonato. Che fare? Suicidarsi? Come il protagonista di Spirits dei The Strumbellars? Oppure, resistere. Ma a che prezzo? Egli vive in un desolato e impassibile spleen. Il Soggetto incontra per l’ultima volta l’Altro, ignorando che l’Immaginario della prima ora è purissima utopia (un ultimo harakiri). Nel tragitto che fa dalla sua dimora al luogo del confronto finale, focalizza bene i propri errori, rendendosi conto di aver fatto l’opposto di quello che Gaber professava in Quando sarò capace di amare. Le parole di Lei sono fin da subito al miele, ma taglienti, mortifere all’ennesima potenza. L’idea dell’Altro è la stessa di Fabrizio De André in La canzone dell’amore perduto: lasciarlo, riservandogli un bene sincero.
Ma il Soggetto non comprende e al ritorno a casa fa razzia sui social: cancella le foto di loro insieme, bloccandole addirittura i profili. Se mi lasci ti cancello, in pratica. Nel film di Michel Gondry – Premio Oscar nel 2005 –, Kate Winslet, mollata da Jim Carrey, decide di andare in una clinica per cancellare dalla propria mente di tutti i ricordi di Lui. Ci riesce. Ecco l’intento del Soggetto, che pleonasticamente ignora un dettaglio: proprio i ricordi dell’Altro saranno un bene preziosissimo da salvaguardare nel suo tortuoso percorso amoroso. Alla fine il Soggetto si dimostra testardo come un mulo e ricomincia da capo: vaga alla ricerca di un nuovo amore come l’olandese volante in Il vascello fantasma di Richard Wagner: miete le stesse pene da molo in molo e incamera un gelido senso di fervore nelle vene.

Perché frammenti di un monologo amoroso? Lo racconta bene Paolo Sorrentino in La grande bellezza, lo dimostrano gli amanti del Ventunesimo secolo toujours. L’amore è diventato un travolgente fuoco d’artificio: lo si accende con maestria, abbaglia con la sua luce originale, impaurisce con il suo rombo. Tutto meraviglioso, tutto svanisce. Rimane solo un caldo ricordo nell’inconscio. L’individuo odierno vuole conoscere a malapena il passato, gli interessa vivere al massimo delle proprie emozioni il presente, perché lo deve dimostrare al suo vicino di sventure. Ebbene sì, il futuro diventa un optional: le responsabilità di valore vengono dribblate alla Garrincha. Il mantra è sempre lo stesso: divertirsi, mostrarlo. Stare bene, godere. Dirlo a tutti. Un figlio? Lungi da me, al massimo prendo un cane o un gatto. Matrimonio? È sempre troppo presto, ognuno ha i suoi spazi e una corrispettiva libertà.

La Filumena Marturano di Eduardo De Filippo sarebbe agghiacciata da questo Immaginario fragilissimo. Certo, l’influenza della madre è rimasta la stessa, il complesso di Edipo è sempre presente. I ragionamenti lacaniani sulla capacità di ricercare le caratteristiche del precedente amore in quello futuro sono le medesime. Le paranoie e le schizofrenie triviale sono addirittura amplificate a causa dell’era digitale. E cosa è cambiato allora? Si ama solo se stessi, vero Altro del Soggetto dell’avvenire impersonale. Questa conclusione determina un orizzonte apocalittico: le poesie d’amore di Verlaine, Shakespeare o Rimbaud non verrebbero mai comprese. Nemmeno quelle di immacolata sofferenza di Baudelaire: la sensibilità è fagocitata dall’Io. L’amore platonico de Le notti bianche di Dostoevskij sembrerebbe una barzelletta oggi, poiché la tangibilità fisica e fallica è il tutto. «Io devo essere soddisfatto, ma senza fatica, o tutto subito o niente». Amore veniale da condividere in mainstream: anche un genio come Giacomo Leopardi si sarebbe rifiutato di sognarlo.

La giusta chiosa a questo monologo la devono dare due prodotti artistici dell’epoca amorosa in questione:

Siamo morti a vent’anni, Il Chile.
Ma tu cammina, cammina, accumula strada lasciando che tutto si muova, Maldestro.

 

Annibale Gagliani-L’intellettuale dissidente

Riflessioni sull’utilità dell’invenzione storica: contemplare il passato per riflettere sul futuro tra ucronia e utopia

Cosa sarebbe successo se i Patti Lateranensi non fossero stati sottoscritti? E se la morte prematura di Benito Mussolini avesse portato alla guida del governo un Dino Grandi? E se invece fosse toccato a Galeazzo Ciano, ambizioso genero del Duce? E se quest’ultimo avesse dato avvio a una politica filo-americana, magari sposando una Rockefeller, pilotando il Paese verso un’economica liberal-capitalista? E se Filippo Tommaso Marinetti avesse scritto un fantasioso romanzo storico, consegnato direttamente al Duce, influenzando la sua politica?
Nell’epoca in cui la nostra attenzione è incatenata all’attimo presente, osserviamo incoscienti le inebrianti fluttuazioni cui sono soggette le storie e gli eventi, a volte in modo del tutto fittizio ed irreale, nel tentativo – quasi sempre riuscito – di confondere lo spettatore ed impedirgli di maturare una propria, salda convinzione. E se iniziassimo ad inventare le narrazioni che più desideriamo, a scapito dei fatti genuini, stanchi del circo mediatico – facendoci beffe di giornali, TV e del sistema scolastico? Contemplare il passato porta inevitabilmente a riflettere sul futuro – un tempo che contiene le nostre speranze e le paure di ciò che potrebbe accadere; infatti, mentre non abbiamo alcun controllo sugli eventi trascorsi, il futuro sembra terreno fertile per congetture di ogni tipo. Le speculazioni sull’avvenire ci consentono di correggere le storture e di esaminare i disastri che non riusciamo a superare nel presente: la finzione funge da rifugio finale e ideale. Il filosofo Charles Renouvier scelse la parola ucronia come titolo del suo romanzo del 1876, dalla radice greca, avente come significato senza tempo; stava seguendo il modello stabilito qualche secolo prima da sir Thomas More, la cui Utopia, termine di uguale derivazione, significa non-luogo. Se l’utopia, dunque, è un luogo che non esiste in questo mondo, l’ucronia è un tempo – inteso come concatenazione di eventi – mai accaduto; se l’utopia è posta nell’oltre-mondo, l’ucronia sviluppa una trama alternativa, considerando cosa sarebbe successo al mutare di determinati eventi-chiave. Tale speculazione, tuttavia, non deve ridursi a pura frivolezza, poiché il contrasto con ciò che realmente è accaduto può approfondire la nostra comprensione del momento attuale. Non si tratta di esercizi per intellettuali perditempo, è da rilevarne il notevole contenuto filosofico e pedagogico: nell’utopia, da Platone al Rinascimento, si disegna una città ideale come modello per la condotta virtuosa del cittadino nella sua vita concreta; nell’ucronia, si ricorda che la storia è il teatro del sempre possibile, a scapito di ogni “storicismo” paralizzante.

La storia alternativa è un campo estremamente vasto. Alcuni tra giornalisti, studiosi e romanzieri, hanno provato a raccontare, in un volume intitolato Fantafascismi, curato da Gianfranco de Turris, appena pubblicato per Bietti, le differenti svolte che la storia d’Italia, fra il 1921 e il 1945, avrebbe potuto intraprendere se alcuni episodi (non) si fossero verificati ovvero se gli accadimenti avessero seguito un indirizzo diverso. Giacinto Reale, ad esempio, prova a rimescolare le carte in quel fatidico 28 ottobre 1922: mentre le colonne fasciste muovono alla volta della Capitale, per dare inizio alla storica “marcia”, Benito Mussolini attende a distanza, negli uffici del Popolo d’Italia a Milano, assieme al fratello Arnaldo, pronto a partire non appena la situazione volgerà in favore del movimento.
Ad un certo punto, si vede costretto a scendere in strada per sedare un dissidio tra i suoi uomini e le guardie reali; ed è qui che la cronaca imbocca un’altra via: egli rimane coinvolto in una sparatoria, ferito gravemente; si decide, in segreto, dopo aver riportato il corpo all’interno dell’edificio, di trasportarlo in Svizzera, per operare la rimozione del proiettile; ma proprio mentre costeggia il lago di Como, nei pressi di Dongo, l’ambulanza si ribalta e Mussolini viene scaraventato fuori, morendo sul colpo. Allora, diffusasi la notizia, il re decide di firmare lo stato d’assedio e incaricare l’anziano Giovanni Giolitti per la formazione di un nuovo governo cui faranno parte anche esponenti fascisti, mentre – per ironia della sorte – la celebrazione del funerale di colui che sarebbe dovuto diventare il Duce del Fascismo avrà luogo in Milano a Piazzale Loreto.

Suggestivo e visionario il racconto di Dalmazio Frau, con protagonista Armando Brasini, immaginato come architetto ufficiale del regime in luogo di Marcello Piacentini; la nuova Roma da lui disegnata, invece del freddo e monumentale stile del Piacentini, appare così fascinosa da far esclamare ad un giornalista venuto dall’America:

Intuisco in un solo istante che ogni edificio, ogni piazza, ogni chiesa, ogni monumento, obelisco voluto da Armando Brasini altro non è se non uno dei magici punti sulla terra che servono a convogliare le influenze sottili che permeano il cosmo. Un’immensa, grandiosa magia che fa di Roma il Centro dell’Universo.

E ancora: quale svolta avrebbe avuto la politica italiana se il 9 giugno 1936, al posto di Galeazzo Ciano, ambizioso genero del Duce, fosse divenuto ministro degli affari esteri il conte Giovanni Capasso Torre di Caprara?

Realizzato da Vito Tripi come favolosa raccolta di appunti tratti dal diario dello stesso ministro, di note provenienti dal Ministero della Cultura Popolare e di articoli pubblicati su giornali italiani ed esteri, il racconto delinea l’azione della nuova politica italiana la quale, dopo aver sostenuto lo sforzo dei franchisti nella guerra civile spagnola, riesce a portare un governo amico in Francia, poiché il presidente della Repubblica Albert Lebrun, nel timore che si potesse verificare una crisi come quella spagnola, scioglie le camere senza indire nuove elezioni, nominando un Comitato di Salute Pubblica con a capo l’eroe di Verdun, il maresciallo Philippe Petain. Assieme a queste due nazioni, e con il Portogallo, il Principato di Monaco, la Repubblica di San Marino, la Romania e la Bulgaria, la Grecia e l’Ungheria, il Duce si porrà a capo di una “Lega Latina” (poi “Lega Europea”) – alleanza sia difensiva che offensiva – la quale, con l’appoggio del Regno Unito di Gran Bretagna, affronterà la Germania nazionalsocialista, l’Unione Sovietica e la Jugoslavia, uscendo vincitrice dalla seconda guerra mondiale, con il regime fascista in trionfo per i decenni a venire.

Scrivere storie alternative è come camminare sopra un filo sottile, mentre si è bendati, attraversando un uragano. Si tende a credere, a questo punto, che gran parte della storia sia contingente, che gli eventi e le narrazioni siano inclini a divergere, ma che – in ogni caso – un destino non manifesto farà da raccordo alla molteplicità delle ipotesi; perché ciò che rende buona la fantasia storica è quel senso di autenticità, la percezione che gli avvenimenti, dopotutto, siano radicati nella realtà e dunque, se le cose fossero andate diversamente in un punto critico, ciò che ne sarebbe conseguito avrebbe assunto il carattere di inevitabilità. Certo, la storia ha i suoi aspetti deterministici; ma le possibilità insite in molti frangenti screditano l’enfasi sul meccanicismo e sottolineano l’elemento del caso e la rivendicazione della libertà individuale, compromessa dai sistemi sia idealistici che positivistici.

 

Gabriele Sabetta- L’intellettuale dissidente

I sessisti moderati.l’affaire Weinstein e ‘Vice’

L’affaire Weinstein è stata delirante se pensiamo come ha riportato sulle prime pagine personalità dello show-bizslittate col tempo nel dimenticatoio della storia. Quei maledetti “15 minuti di celebrità” li vogliono tutti e allora perché non cavalcare lo scandalo delle molestie sessuali per risorgere dall’oltretomba. Nel girone dell’inferno statunitense, dove regna la doppia morale puritana, gli uomini sembrano incapaci di controllare una libidine gonfiata da una società delle immagini frustrante e auto-contemplativa che ti fa vedere ovunque culi, cosce e tette, con il divieto sacrosanto di toccare. Il linciaggio mediatico non perdona. I lib-lib, monopolisti della democrazia, sono lì che ti aspettano per farti la festa, anche se nel gioco delle parti, a volte, le parti si invertono.

La redazione statunitense di Vice, sì sì stiamo parlando di quella rivista patinata per i millennials seduta dalla parte della Ragione, colosso valutato quasi 6 miliardi di dollari, che in tutti questi anni ha demonizzato chiunque diffondesse un’opinione diversa dalla loro moralizzando la società occidentale con i suoi nuovi valori progressivi, è stata accusata in un’inchiesta del New York Times di palpeggiamenti, richieste di sesso, commenti osceni, baci non richiesti e persino di aggressioni. Si registrerebbero ben quattro episodi di abusi, risolti con accordi finanziari, a cui si aggiungono altre 20 denunce, tra cui quello di Martina Veltroni, figlia dell’ex ministro e segretario del Pd, riguardo una relazione avuta con Jason Mojica, ex direttore nonché responsabile del settore documentari. Insomma, se il produttore cinematografico Weinstein aveva messo in imbarazzo i democratici statunitensi (e loro affini di tutto il mondo) con le sue donazioni stratosferiche, ora il caso Vice sta aprendo una voragine nell’universo liberal, cool e cosmopolitan che faceva della lotta alla cultura sessista e maschilista del Vecchio Mondo un destino manifesto.

Il grande cortocircuito ideologico colpisce il nuovo maschio occidentale che aveva rinunciato – a parole – alla sua virilità pensando che il fattore biologico (dunque fallico) fosse una sovrastruttura creata dall’uomo per sottomettere la donna, quanto la femmina, vittima della sua stessa professione di fede libertaria. Gli elementi per farne uno scandalo planetario non mancavano eppure tutto questo accade durante le feste natalizie, quando giornali e televisioni sono in ferie, per cui quando i nuovi reazionari vi aggrediranno con la loro morale pol-corr ricordategli che il passato è molto più galantuomo del loro futuro imbottito di ipocrisia.

 

Sebastiano Caputo-L’intellettuale dissidente

Gli schiavi delle feste del Natale

Essere sfruttati lavorando durante le Festività, nella volgarità dei centri commerciali, sintetizza al meglio tutte le contraddizioni di un modello di sviluppo condannato all’esplosione. Siamo nel pieno delle festività del Natale e negli ultimi giorni è riemersa la proposta di legge – presentata dal Movimento Cinque Stelle con in testa Michele Dell’Orco primo firmatario- che prevede la chiusura degli esercizi commerciali almeno sei dei dodici giorni festivi previsti durante l’anno. Il ddl, approvato nel 2014 alla Camera, risulta ormai fermo da tre anni al Senato. Tuttavia essendo agli sgoccioli dello scioglimento delle Camere, la legge potrebbe essere approvata in brevissimo tempo. Manca però la volontà politica di Pd e Forza Italia.

Il lavoratore italiano, dal 1997 – anno dell’entrata in vigore della legge Treu, la quale ha di fatto legalizzato il lavoro interinale – ha visto ridotti progressivamente tutele e diritti conquistati in anni ed anni di lotte politiche e sindacali, in nome di una presunta flessibilità voluta dai mercati. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: aumento della disoccupazione giovanile e della precarietà, chiusura di aziende ed attività economiche, suicidi e disperazione generale. Nonostante ciò, gli sciacalli del politicamente corretto parlano di ripresa e di aumento dei posti di lavoro. Secondo costoro lasciare aperti i negozi anche nei giorni festivi e alla domenica significherebbe incentivare il commercio e l’occupazione.

Tutto vero se non fosse per il fatto che all’interno dei negozi esista quel contenuto umano che si vorrebbe sostituire con macchine – prive di qualunque diritto e tutela giuridica – sempre operative ventiquattro ore su ventiquattro. Inoltre, con l’avanzare della New Economy (vedi Amazon, Google, Yahoo) le piccole e medie imprese – da sempre motore dell’economia italiana – rischiano nell’imminente di venire sconquassate a causa della loro impossibilità di reggere la concorrenza al ribasso. Quest’ultima leggasi come totale cancellazione dei diritti dei lavoratori italiani i quali, per rendersi competitivi con i lavoratori di altre nazioni in cui i diritti ed i salari sono decisamente più risicati che nel Bel Paese, saranno costretti a rinunciarvi pur di poter mantenere il proprio posto di lavoro.

Il lavoratore, senza più tutele e diritti, è a tutti gli effetti un individuo atomizzato privo della gioia di poter godere degli affetti della famiglia. Quest’ultima risulta nemica della stessa società materialista e consumista che da tempo le ha dichiarato una guerra senza tregua. Dunque, aldilà della bontà di una proposta di legge – idealmente condivisibile – bisognerebbe tuttavia convergere verso una nuova sintesi di carattere politico che avesse come fondamento la rinascita della potenza del lavoro produttivo. Ripensare il Lavoro dal punto di vista umano e sociale – e non più in termini mercantilistici e schiavistici – significherà lanciare la sfida verso un futuro in cui le nuove tecnologie potranno alleviare le fatiche quotidiane dell’Uomo o renderlo, paradossalmente, ancora più sfruttato e alienato: ancora una volta, la partecipazione dei lavoratori alla gestione e alla proprietà dei mezzi di produzione appare il nodo cruciale della questione.

 

Di www.lintellettualedissidente.it/cartucce/gli-schiavi-delle-feste/ Francesco Marrara

Il vero Oscar Wilde: apologeta del dolore. Un’analisi del ‘De Profundis’

Siete sicuri di sapere davvero chi fosse Oscar Wilde? Dico a quelli che sventolano i suoi libri, agli uomini di marketing che abusano dei suoi aforismi, ostentano le sue frasi e civettano con il suo personaggio, adulandolo ed emulandolo. A ben vedere, la versione di Wilde che viene proposta e che va per la maggiore oggi delinea davvero il profilo di un profeta del nostro tempo: prima del Novecento stabilì l’evasione dell’arte dalla morale e consumò il divorzio tra Bello e Buono; frequentò i salotti prima che questi fossero proiettati in Tv, precorrendo la figura dell’intellettuale-divo, conversatore mordace e col gusto dello scandalo e del paradosso; infine, con il suo stile di scrittura, fatto di aforismi fulminanti e caustici, precorse l’epoca di Twitter e di Facebook. Ma se davvero la vita di Wilde fu un’opera d’arte, come recitava una frase in odore di estetismo, ripresa da Nietzsche nella Nascita della Tragedia e che stregò D’Annunzio, allora questa storia va raccontata fino alla fine, fino all’ultima riga dell’ultimo capitolo.

È scorretto dare una versione ammezzata o parziale, non è giusto stroncare il finale dell’opera adombrando significati fuorvianti; e infatti c’è un ultimo, grandioso capitolo della spettacolare vita di Oscar Wilde che viene sovente omesso o liquidato frettolosamente, ma che invece dice molto di quest’autore, dà compimento a tutta la sua esistenza precedente e ce la fa leggere in modo diverso.
Questa parte è la lunga clausura in prigione, a Reading, a cui Wilde fu costretto a seguito delle denunce sporte a suo danno dal padre di un suo amato, ovvero Lord Alfred Douglas, che l’aveva pubblicamente additato come corruttore del giovane figlio. L’eredità più grande di quel periodo, l’opera con cui Wilde fa i conti con i suoi anni in carcere, è una lunga lettera scritta quando era ancora in prigione, indirizzata proprio ad Alfred e pubblicata in seguito col titolo di De Profundis.

Questo libro è davvero il passaggio finale della vita di Wilde, la sua ultima opera, in un certo senso il suo testamento spirituale, affidato al giovane Alfred. Ma il De Profundis fa anche chiarezza su questo rapporto, che in molti hanno voluto idealizzare o mistificare. Non è vero, infatti, che quella tra i due fosse una storia d’amore idilliaca, spezzata dal clima sessuofobo ed intollerante dell’Inghilterra vittoriana: è vero, al contrario, che Wilde fosse totalmente soffocato dal giovane Alfred, ragazzo dissoluto, superficiale ed opportunista, di cui però il grande scrittore irlandese era divenuto letteralmente succube.

Nella lettera Wilde descrive, con una tensione emotiva veramente drammatica, la volgarità di Alfred, il modo in cui il ragazzo si serviva di lui solo per ottenere soldi, vino e feste; il suo penoso narcisismo e la sua rabbiosa rivendicazione di ogni capriccio; il modo in cui Alfred sfruttasse la sua protezione per farsi scudo del padre, nei confronti del quale provava un odio profondo. Perfino la colpa della sua condanna alla prigione, per Wilde non è da attribuire alla società, al padre del ragazzo o a chicchessia, ma allo stesso Alfred, che aveva costretto Wilde a denunciare suo padre per una bagatella famigliare e la cui accusa s’era presto ritorta contro lo scrittore, su cui il padre di Alfred aveva vomitato addosso le peggiori calunnie.

Dallo scritto si capisce che non fu Wilde a plagiare un efebo ingenuo ed imberbe, ma che in realtà fu proprio il giovane e spregiudicato Alfred a sottomettere, gettandolo in uno stato di soffocante sudditanza, il più grande scrittore dell’Inghilterra vittoriana. Wilde quando parla di lui non mostra né rancore né acrimonia, ma solo una delusione amara e sconfortante, perfino pietà per quel ragazzo che, già così giovane, aveva gettato via la vita per votarla alla lussuria, all’eccesso stomachevole di cibo e di vino, all’ozio parassitario e sterile ed alla depravazione più spregiudicata.

Chi addita Wilde come libertino e come precursore dell’orgoglio gay si sorprenderebbe di leggere le righe in cui confessa il proprio amore per la moglie ed il rammarico per averla delusa, ed in cui rimpiange che il rapporto con Alfred non si sia mantenuto casto, solamente spirituale:

Mi biasimo di aver lasciato che un’amicizia non intellettuale, un’amicizia il cui primo scopo non era la creazione o la contemplazione di cose belle, dominasse interamente la mia esistenza

E sono perfino penosi gli episodi citati da Wilde per dimostrare all’amico la sua aridità, per esempio quando Alfred vide Wilde malato e scomparve da casa sua per vari giorni, senza neppure portargli il libro che lo scrittore gli aveva chiesto per alleviare la propria convalescenza, e quando finalmente si rifece vivo freddò Wilde con infami parole:

Quando non sei su un piedistallo, non sei più interessante

Il De Profundis di Wilde è importante proprio per questo: perché in quest’opera lo scrittore irlandese fa i conti con se stesso, con la sua vita, con la sua attività di letterato e di provocatore prima di entrare in carcere, rivendicando i propri meriti ma anche riconoscendo i propri sbagli. Wilde rivendica l’attività di letterato, il culto dell’estetismo, l’amore per il bello e per le arti; ma allo stesso tempo abiura le sue eccessive concessioni, che traspaiono anche da qualche aforisma poco felice, ad una concezione tutta edonista della vita, ad una sprezzante ironia nei confronti del popolo e delle persone semplici, ad una visione del mondo disincantata e cinica. Scrive Wilde:

Mi lasciai ammaliare in lunghi incanti di abbandoni sensuali e senza senso. Mi divertii a fare il flaneur, il dandy, l’uomo di mondo. Mi circondai di persone dalla natura più infima e dalla mente più meschina. […]. Ciò che era stato per me il paradosso nella sfera del pensiero, diventò la perversità nella sfera della passione. Il desiderio, alla fine, divenne una malattia, una follia, forse tutte e due. Non mi importò più della vita degli altri. Prendevo il piacere ovunque volevo e passavo oltre.

Ecco un vecchio cultore del piacere che sconta sulla sua pelle e denuncia con forza morale enorme lo scotto dell’edonismo morboso tanto in voga oggi: se il godimento viene liberato da ogni salutare limitazione, diventa ingordo ed insaziabile, inquina amicizie e rapporti, ci porta a dimenticare gli altri e la realtà e a piegarci al narcisismo, ci fa smarrire il senso profondo delle cose e delle relazioni, ci inaridisce e ci immiserisce.

La vera scoperta, accanto ai limiti e alle brutture del piacere smodato, che Wilde fa in prigione è invece il carattere necessario e fecondo che nella vita di ciascuno hanno il dolore, la privazione, la sofferenza. Oggi, nell’Europa opulenta dei due terzi di garantiti, questo è ancora un messaggio irricevibile, e anche noi facciamo fatica ad accoglierlo senza sentirci inadeguati, impreparati, non all’altezza. E però questa è una verità che ciascuno di noi ha provato sulla sua pelle, ha avvertito profondamente dentro di sé almeno una volta: quando proviamo una sofferenza, pur piccola che sia, una volta che l’abbiamo superata il mondo ci sembra più leggero, le nostre priorità sono riordinate, i nostri rapporti con chi ci ha visti inermi e vulnerabili diventano più sinceri e profondi. Ma ancora, l’ansia di dover sempre apparire o di essere sempre perfetti ed impeccabili svanisce, si diventa più maturi, si intuisce l’importanza davvero relativa delle nostre vicende, personali e individuali, rispetto alla vita nella sua vastità: spesso, ci si rende disponibili a mettere la nostra piccola esistenza al servizio di qualcosa di più grande, che ci trascende e ci sovrasta.

Qui Wilde tocca un tema che scandagliò con singolare profondità Nietzsche in “Al di là del Bene e del Male”, ma che è anche onnipresente in Dostoevskij: ovvero la necessità per ciascuno di portare la propria croce, di passare dalla sofferenza per arrivare ad una forma di amore più vero, che non si arresti alla superficie, alle apparenze, alle tendenze. Wilde, con una franchezza ed onestà morale che ce lo fa sentire vicino, ammette anche che, durante la sua vita prima dell’arrivo in carcere, aveva vissuto infantilmente come se il dolore e la sofferenza non esistessero, aveva voluto provare, secondo una mania molto in voga oggi, ad abolire la croce dalla sua vita, vivendo una vita in cui ci fosse solo il piacere:

Insuccessi, infamia, povertà, dolore, disperazione, sofferenza, le lacrime persino, le parole spezzate che mormorano le labbra di chi soffre, il rimorso che lastrica di spine ogni cammino, la coscienza che giudica e condanna, l’avvilimento che punisce, l’infelicità che si cosparge il capo di cenere, l’angoscia che si avvolge nell’abito di sacco e versa fiele nel suo bicchiere: tutto ciò mi spaventava.

Oggi la società dei consumi e dello spettacolo ci prospetta sempre più spesso la favola di un mondo depurato dal dolore, in cui ci siano solo il piacere, lo svago, la dissolutezza gaia, il divertimento: a volte anche noi ne siamo sedotti, ammaliati e tentati. Ma quello che c’insegna Wilde è che questo mondo, senza croci e sacrifici, è un mondo falso, che ci porta a non conoscere veramente nessuno a fondo, neppure noi stessi, e in cui finiamo solo per adeguarci alle maschere, alle pose ed ai comportamenti preconfezionati che la società ci propone. Scrive Wilde, in una frase che dà il senso più pieno della sua conversione letteraria ed esistenziale, di una bellezza ed una forza spaventose:

La sofferenza, al contrario del piacere, non porta la maschera

In tutto questo, è quasi naturale che Wilde additi Gesù come modello non solo per ogni vita ma anche per ogni arte. “Riconosco una più intima ed immediata connessione tra la vera vita di Cristo e la vera vita dell’artista […].” In questa meravigliosa accettazione del mondo “al di là del bene e del male”, in questo amor fati, Wilde arriva anche a formulare una sua personale teodicea: egli dice che Dio, pur essendo buono, permette il dolore perché è solo mediante al dolore che si può pervenire all’amore:

[…] se il mondo è stato, come ho già detto, costruito sul dolore, le mani dell’amore ne sono state l’artefice: l’anima dell’uomo, infatti, per cui il mondo è stato creato, non avrebbe potuto in nessun altro modo raggiungere le vette della sua perfezione. Piacere per il corpo bello, ma dolore per l’anima bella.

È un messaggio difficile da ricevere oggi: che ne sappiamo, noi figli del benessere, di che sia la vera sofferenza? Ma tentare di accettare ed affrontare la vita, anche nei suoi rischi e nelle sue privazioni; cercare di mostrarsi anche con le proprie fragilità e le proprie ferite è forse l’unico modo di vivere davvero, di essere davvero se stessi, di dare un senso ai propri giorni ed ai propri incontri, di non circondarci solo di persone che ci abbandonerebbero se non fossimo più “su un piedistallo”. È questa anche l’esortazione suprema e finale che fa Wilde a Lord Douglas, il ragazzo che pure l’aveva così vergognosamente amareggiato: di non eludere né scansare le preoccupazioni e le difficoltà, rinchiudendosi nella protezione della madre o nel suo delirio narcisistico, infantile ed isterico, ma affrontare queste difficoltà, attraversare “la polvere”, per scoprire la sua vera identità, per conoscere finalmente se stesso, oltre alle maschere e alle apparenze dietro cui si nascondeva. Forse così anche il loro rapporto, così misero ed infelice, avrebbe potuto assumere un senso nella comprensione di quest’eredità profonda.

Venisti da me per conoscere i piaceri della vita e i piaceri dell’arte. Forse io sono destinato a insegnarti una cosa assai più splendida: il significato del dolore, la sua bellezza.

 

Luca Gritti-L’intellettuale dissidente

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