‘Anime ribelli e ricordi sbiaditi – Dalla maschera alla realtà’. Maria Iannotta pubblica la sua seconda raccolta di racconti brevi

Maria Iannotta, classe ‘88  originaria di Sant’Agata de’ Goti, un paesino di 10.0000 abitanti in provincia di Benevento, nella vita si occupa di consulenza legale in uno studio associato ma soprattutto delle pubbliche amministrazioni. Dirige insieme al fratello Carmine, un ufficio in ambito gare d’appalto, con una brillante percentuale del 73% di aggiudicazioni all’attivo. È un’attivista politica e vede la stessa come una missione, e nel contempo come un metodo di vita. Si ispira all’autorevole ed indimenticabile figura di Aldo Moro. Dopo aver debuttato con al prima raccolta di racconti editata da Ivvi Editore “Il Mio Zibaldone”, solo in versione digitale, in ebook, una raccolta che ruota intorno a come i “mezzi di trasporto” possano essere talvolta il vero teatro di storie vere o inventate, a cavallo del 2023, alla fine del 2022, il 29 dicembre, esce su Amazon, la sua seconda raccolta di racconti brevi Anime ribelli e ricordi sbiaditi – Dalla maschera alla realtà”.

La raccolta ripercorre fasi vere ed inventate della vita di alcuni e personaggi che la Iannotta inventa, ma che in parte hanno davvero fatto parte della sua vita. I protagonisti sono “anime ribelli” che compiono un percorso, i cui rapporti umano vengono messo sotto la lente d’ingrandimento dell’autrice; rapporti umani che talvolta o molto spesso, non sono reali, ma piuttosto colmi di finzione ed apparenza.

L’ultimo racconto, quello che chiude la raccolta dal titolo “L’eredità di mio padre”, diversamente dagli altri, è reale al 100%.

L’autrice racconta per sommi capi, cosa succede quando improvvisamente non “sei più utile” ai secondi fini delle persone, ripercorrendo qualche anno della sua vita, raccontandone qualche aneddoto, che sottolinea la crudeltà dell’essere umano.

“Alla fine di questo racconto, che nasce con l’intento di insegnare alle persone a stare al mondo, non c’è un lieto fine, c’è solo una lezione.”

Si legge nella parte finale del racconto che chiude la breve raccolta.

La raccolta di Maria Iannotta è un viaggio tra le persone buone, e quelle meno, un viaggio tra i vicoli di Sant’Agata de’ Goti, che nascondono talvolta la pochezza delle persone che si nascondono dietro ad un’auto costosa e una faccia pulita, ma che in fondo sono davvero povere. Un diario e un’eredità che l’autrice dedica alla famiglia, a suo padre, al suo compagno e all’amore che nonostante tutto, muove il mondo.

‘Ladro di poesia’, la raccolta di Michele Piramide in cima alle classifiche Amazon

Michele Piramide con la raccolta Ladro di poesia è in cima alle classifiche Amazon. Il giovane autore sannita, dopo aver scritto a quattro mani un thriller, ora ha esordito poeticamente, rivelandosi molto promettente. Mentre la comunità poetica, sempre più caratterizzata
dall’autoreferenzialità collettiva, cerca invano di tracciare una linea di demarcazione tra poesia e non poesia, come faceva Croce, questo giovane, avvezzo ai salotti romani, dimostra tutta la sua intraprendenza e il suo piglio.
Quattro sono le caratteristiche che hanno decretato il suo successo: 1) uno stile tutto suo chiaro e nitido. 2) una grande umiltà. Infatti si definisce un ladro di poesia, non perché plagia, fa richiami intertestuali o cita a sproposito ma piuttosto perché riesce a cogliere gli istanti più opportuni per fare poesia. La poesia viene quindi considerata qualcosa di quotidiano, alla portata di tutti; l’importante è saper attivare il fanciullino pascoliano.
L’autore si definisce ladro di poesia anche perché presuppone che non sia lui a scegliere le parole, ma siano quest’ultime a scegliere lui. 3) la differenza tra realizzare il proprio sogno e il non realizzarlo talvolta consiste proprio nel credere nei propri mezzi. L’autore crede in quello che fa ed è il primo prerequisito fondamentale per presentarsi al pubblico. 4) una certa genuinità che contrassegna ogni verso. Appare subito al primo colpo d’occhio che i versi sempre brevi ma significativi sono dettati veramente dal proprio profondo. Non si percepisce alcuna posa.
Tuttavia si potrebbe affermare che un’altra qualità di questo lavoro, come scrive Flavio Calabrese nell’attenta prefazione, è il fatto che “il lettore si specchia senza fatica” nei sentimenti e nelle emozioni di Piramide.
Piramide sicuramente è stato in ascolto, si è raccolto nel suo mondo interiore, ha contemplato la natura. Probabilmente il riscontro così positivo nel pubblico  è dovuto all’empatia del poeta, che ha saputo sintonizzarsi sulle stesse frequenze della gente suscitando delle risonanze interiori. Piramide inoltre non si pone come genio che declama grandi verità, ma come un ragazzo della porta accanto che riesce saggiamente a mantenere un profilo basso, una sorta di understatement. Così facendo si è guadagnato la fiducia e la stima del lettore.
Un’altra dote che contraddistingue il poeta campano è la freschezza stilistica: Piramide non annoia con elucubrazioni cervellotiche, sofismi e parole ostiche.
La sua è una poesia che si gioca tutta sull‘hic et nunc, non si impicca ai ricordi, pur apprezzando la proustiana memoria involontaria. L’aspetto più originale della raccolta è il saper miscelare sapientemente contemporaneità e passato, recuperando la tradizione e adoperando archetipi greci, della letteratura classica e anche dei nostri giorni.
D’altronde il giovane poeta non poteva fare altrimenti per descrivere il mondo odierno, quello che con un ossimoro già sentito definisce “moderno medioevo”, periodo storico che purtroppo ancora oggi viene utilizzato in senso totalmente negativo e dispregiativo, ignorando la sua ricchezza culturale e scientifica.
In tutta la raccolta Piramide non fa altro che aggiornare continuamente i miti di ogni epoca. L’autore porta avanti una critica velata ai mali di questo tempo, denunciando il senso di inadeguatezza e di estraneità come condizioni esistenziali comuni. Nelle sue poesie vengono espresse le contraddizioni dell’amore e dell’esistenza stessa.
La poesia di Piramide tocca i momenti più alti con queste due espressioni verbali: “vivo: vuoto involucro” e “noi, ardenti sputi;/ stretti/ in terreni desideri”. A volte per cercare una forma espressiva congeniale alcuni autori impiegano anni. C’è chi spazia da un genere all’altro in una sperimentazione infinita. In questo caso sembra che l’autore abbia saputo dosare le forze e che sappia quello che fa e ciò che vuole.
Piramide cerca sé stesso piuttosto che un facile consenso, non vuole snaturarsi. Il poeta ha saputo estrarre dal cilindro parole adeguate, cogliendo quelle che Montale chiamava occasioni, dimostrando di saper evitare le trappole e gli inganni insiti nell’intellettualismo e nella pretenziosità, riuscendo a presentare un lavoro smilzo, mai corposo. Questo non è poco, ricordandoci che per lo stesso Calvino leggerezza non significava faciloneria.
In tal senso Piramide sa librarsi in volo leggero senza albagie né voli pindarici, anzi volando in modo saggio a mezz’aria.

Lo Zan, Fedez e il tiro all’opinione

Tra Fedez e Pillon, tutti a grugnire intorno alla proposta di legge del deputato PD. In democrazia, più si rispetta la diversità, meglio è. Nella finta democrazia liberale, invece, funziona come nella Fattoria degli animali di Orwell: c’è sempre qualcuno che vuol essere più uguale degli altri.

Il diritto liberale funziona così: ogni minoranza deve poter chiedere e, prontamente, da parte della maggioranza esserle dato. Norme, soldi (4 milioni di euro per centri di assistenza a vittime delle violenze di genere), visibilità, riconoscimento sociale. Si sviluppa ad abundantiam, per proliferazione.

Non è una critica, è una constatazione. Tutto quel saltare di nervi, poi, per gli incontri nelle scuole abbinate a una futura Giornata nazionale contro le varie fobie, pare, suvvia, un tantinello sfasato: con tutta l’orgia di materiali di varia natura di cui un ragazzino può ingozzarsi quando gli pare e piace, guardando una qualunque serie su Netflix, o navigando solitario in cameretta sul telefonino (che certi disastrati genitori gli danno in mano quando ancora non sa la differenza fra il coso e la cosina), il terrore che imparino dalla maestra la legittima esistenza degli omosessuali o dei trans suona, diciamo, leggerissimamente fuori dal mondo.

Secondo i seguaci di Fedez, la proposta (già passata alla Camera, bloccata in commissione al Senato dalla Lega) non mette affatto a rischio la libertà di manifestare un’opinione diversa o critica su matrimonio gay o utero in affitto, anche perché è stata munita di un’aggiunta, la cosiddetta “clausola salva-idee”, che salvaguarda la libera espressione di punti di vista purché non vengano “a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”.

L’ambiguità, in effetti, c’è. Ma come in tutte le pandette, del resto, specie in Italia. Sarà ulteriore lavoro per i giudici nonché per i giornalisti, ghiotti di casi dell’offeso di turno che schizza in tribunale non appena sente un prurito alla propria personale fobia.

Ora, posto che non è in discussione punire chi discrimina un qualsivoglia cittadino a prescindere dalla categoria o dall’appartenenza (se dimostro, per esempio, che pur avendo i titoli mi scarti al lavoro perché non gradisci con chi mi accompagno, vai sanzionato per violazione della basilare uguaglianza, non per altro), specificare, settorializzare, parcellizzare reati di comportamento che dovrebbero valere per tutti è una battaglia che non dovrebbe sfiorare nemmeno un’aula di giustizia, perché è culturale e politica.

Tramite il Dl Zan i promotori intendono far avanzare la loro linea, e ci sta. Ma qua il problema non è il singolo comma del dettato legislativo, è che non dovrebbero proprio esistere i reati di opinione. Chiunque dovrebbe poter sostenere la propria, fosse anche la più indecente, a patto che non agisca per imporla a nessuno.

Si poteva benissimo pensare a giornate celebrative o centri anti-violenza o a inasprire le aggravanti, senza alimentare la dinamica opinionicida dell’iper-regolamentazione fobica.

La legge Zan non proteggerà nessuno, con buona pace di Fedez che non sa nemmeno di cosa parla. Al meglio, non cambierà niente; al peggio, rafforzerà le parti politiche che li discriminano. La legge introduce aggravanti, cioè pene appesantite per reati che già esistono. L’idea che inasprire le pene faccia diminuire il crimine è una delle numerose credenze intuitive ma false, ormai ampiamente smentite dagli studi. Per amor di brevità, citiamo solo la posizione del National Institute of Justice, l’agenzia di ricerca del Dipartimento di Giustizia americano:

“Le leggi pensate per ridurre il crimine concentrandosi principalmente sull’inasprimento della pena sono inefficaci, in parte perché i criminali non conoscono le sanzioni specifiche per i crimini. Pene più severe non correggono i condannati, e il carcere può aumentare la recidiva”.

Inoltre, tralasciando l’ipocrisia e la pochezza intellettuale di alcuni politici che dicono di “stare” con il rapper (fatto che ci dice che la politica ormai è quasi deceduta), il paladino dei trans e dei lavoratori Fedez, “dimentica” quelli di Amazon, multinazionale di cui è sponsor, come dimentica quella canzone in cui ironizzava sull’outing di Tiziano Ferro (uno che sa cantare), o le sue bordate sui carabinieri. L’impressione è che al cantante munito di autotune non interessino davvero i diritti civili, ma consolidare la sua immagine pubblica di influencer, magari sollecitato dalla moglie che ha brandizzato la propria famiglia, facendosi ulteriore pubblicità e “dimostrando” di non essere solo un artista (?) ma un artista impegnato, come si conviene oggi.

 

Fonte  Alessio Mannino

‘Modern love’ di Amazon Prime Video: amore “moderno” o amore senza tempo?

L’amore declinato nelle sue mille sfaccettature è il protagonista di Modern Love, la nuova miniserie statunitense distribuita da Amazon Prime Video a partire dallo scorso 18 ottobre e che richiama subito alla mente Love Actually. Il tv show diretto da John Carney, consta di 8 episodi ognuno incentrato su una storia d’amore, reale o romanzata tratta dall’omonima raccolta in uscita sul New York Times.

Il primo episodio, che fa da pilota, presenta un tipo d’amore particolare, quasi atipico: l’amicizia tra la protagonista e il portiere del palazzo dove abita. Maggie (Cristin Milioti) è una giovane adulta, che si è trasferita da poco più di un anno in una nuova città. Come è noto, ambientarsi in un contesto diverso dal proprio non è mai semplice, ma la nostra signorina Mitchell non è davvero sola, il suo “migliore amico” è proprio lì con lei. Guzmin (Laurentiu Possa), infatti, si dimostrerà premuroso, paterno, attento e protettivo, e colmerà le mancanze affettive della giovane con la sua presenza in più occasioni. Emerge qui a chiare linee che anche l’amicizia è una forma d’amore, forse la più sincera.

L’episodio successivo viaggia su due binari amorosi: un amore perduto e un amore ritrovato. Durante l’intervista con Julie (Catherine Keener), giornalista del Sunday Magazine, Joshua (Dev Patel), giovane sviluppatore di un’applicazione di dating, racconta di essersi buttato a capofitto nel lavoro dopo una fortissima delusione d’amore. La reporter, comprendendo perfettamente i sentimenti del ragazzo, non può fare a meno di aiutarlo. Lei stessa in passato, ha “perso” il suo primo amore Michael (Andy Garcia). La narrazione procede attraverso una serie di flashback e flashforward in cui le storie dei due protagonisti si intrecciano continuamente lasciandoci fino alla fine con una grande curiosità. La vicenda amorosa di Julie risulta la più emozionante grazie anche al finale che lascia un po’ d’amaro in bocca.

Il terzo tipo d’amore, è l’amore verso se stessi. Lexi (Anne Hathaway), ad uno sguardo superficiale, sembrerebbe una ragazza comune, vivace, che conduce la propria vita in maniera semplice. Una sera di ritorno dal lavoro decide di iscriversi ad un sito di incontri. La descrizione che proporrà di sé ci lascerà stupiti perché farà emergere la difficile storia di questa protagonista. La ragazza, come lei stessa afferma, ha un problema, che non le permette di instaurare legami affettivi duraturi. “Riuscirà a trovare qualcuno che la amerà davvero per come è realmente?” La nota attrice riesce a esprimere sia la gioia che la sofferenza provata dal suo personaggio, ricoprendo con la giusta emotività un ruolo abbastanza ostico da interpretare.

Personaggi principali della quarta puntata sono Sarah (Tina Fey) e Dennis (John Slattery), una coppia sposata da tanti anni, ormai in crisi, che per trovare una soluzione ai numerosi problemi si rivolge ad una terapeuta. La donna lamenta di sentirsi fortemente trascurata ed esclusa dalla vita del marito accusandolo di pensare solo al lavoro. I due cominciano a seguire la terapia di coppia ma con scarsi risultati. Dopo l’ennesima litigata però si verifica un risvolto inaspettato. Riusciranno a riunirsi oppure no? Questo episodio rappresenta uno spaccato familiare abbastanza comune, due persone che mettono al primo posto i propri figli e cercano di superare le difficoltà.

Il quinto episodio propone una coppia di protagonisti che di primo acchito sembrerebbero non avere alcun punto in comune. Yasmine (Sofia Boutella), popolarissima e bellissima influencer, e Rob (John Gallagher Jr.), il classico ragazzo della porta accanto. I due escono per il secondo appuntamento che si svolge per la maggior parte del tempo in ospedale. Nonostante lo scenario non sia dei migliori, la sincerità, l’onestà e il cuore puro di Rob, permettono di svelare una Jasmine del tutto inattesa, senza filtri, senza maschere. L’amore al tempo dei social, dietro i quali la ragazza nasconde la sua reale essenza, assume qui una connotazione quasi “positiva”. Con le persone giuste, quelle che non ti giudicano dalla “copertina” è facile mettersi a nudo e mostrarsi per ciò che si è davvero nel profondo.

L’episodio seguente riguarda Tami (Myha’la Herrold) e Maddy (Julia Garner), due amiche che si ritrovano per festeggiare il compleanno della prima. Maddy resta molto colpita dalle parole d’orgoglio pronunciate dal padre di Tami in quella occasione di festa. La ragazza, difatti è orfana di padre da quando aveva undici anni e questa mancanza dell’immagine paterna le provoca forte sofferenza. Ciò la spinge ad intrecciare un rapporto ambiguo con un socio senior dello studio dove lavora che la porterà a maturare nuove consapevolezze. La puntata provoca indubbiamente un effetto straniante all’inizio, chiarito poi solo nella scena finale.

Il penultimo episodio tratta l’amore tra persone dello stesso sesso. Tobin (Andrew Scott) e Andy (Brandon Kyle Goodman) legati da un amore profondo decidono di allargare la famiglia. Si rivolgono dunque ad una agenzia di adozioni per valutare le diverse procedure. Dopo l’ennesimo rifiuto conoscono Carla, una homeless, che fa proprio al caso loro. Sembrerebbe andare tutto bene fin quando la ragazza non si trasferisce stabilmente per terminare la gravidanza. Ecco che cominciano le prime discussioni, Tobin in particolar modo la accusa di essere irresponsabile e immatura. Sarà proprio lui però che alla fine le starà accanto, affrontando con lei uno dei momenti più importanti nella vita di una donna. L’episodio mette in luce una realtà molto diffusa ai giorni nostri, quella della famiglia “allargata”che, seppur con notevoli difficoltà, riesce a superarle grazie all’amore.

L’ultimo episodio ci lascia indubbiamente tristi e felici allo stesso tempo, perché chiude il bellissimo cerchio dei sentimenti. L’amore tra Margot (Jane Alexander) e Kenji (James Saito) è un amore adulto, maturo. Entrambi vedovi, si incontrano alle olimpiadi geriatriche e si innamorano perdutamente. L’amore è eterno, l’uomo no. Margot si ritrova nuovamente sola con i suoi pensieri, ma nulla la distoglie da un’ultima corsa. Mentre corre, la donna ritrova se stessa, la voglia di vivere, la serenità tanto agognata. Lei non lo sa ma indirettamente incontra anche i suoi “compagni di viaggio”: Carla, Maggie e Guzmin, Joshua e Julie, Rob e Yasmin, Lexi, Sarah e Dennis, Maddy. Ed è sempre emozionante come la prima volta, quando si guarda il primo episodio. Vedere questi personaggi e riconoscerli, quasi come fossero persone realmente incontrate.

In poco più di mezz’ora gli episodi racchiudono messaggi emozionanti che toccano le corde del cuore in ogni scena. Sono storie di vita quotidiana, in cui ognuno può riconoscersi. La serie non solo ci mostra che l’amore può avere numerosi volti, ma ci spinge anche a riflettere su temi delicati quali il bipolarismo, la maternità. Rapporti di coppia in frantumi, storie di amori persi, di amori ritrovati, di amicizie intense. La grande attenzione sulla scelta dei titoli, che racchiudono perfettamente l’essenza del racconto, la delicatezza con cui sono affrontate le tematiche, la presenza di un cast d’eccezione (tra cui Andy Garcia, Dev Patel, Ed Sheeran, etc.), capace di emozionare anche solo con uno sguardo, sono gli ingredienti perfetti per la ricetta di Modern Love. Lo show dell’amore e dei sentimenti, rivolto a tutti, dai ragazzi agli adulti. Del resto l’amore è la forma di espressione più bella in assoluto.

 

 

La penosa situazione del Libro in Italia

Madame Bovary si può dire muoia letteralmente di buone letture. Oggi non c’è pericolo, non perché l’eccesso di zelo in amore non continui a mietere vittime, ma perché di buone letture in giro se ne vedono ben poche. Molto si è parlato – anche troppo – di crisi del libro e crisi della lettura. Stracciarsi costante di vesti e capelli: bisogna incentivare alla lettura, si organizzano le giornate del libro, i festival e le fiere e le campagne pubblicitarie e io leggo perché e tu perché non leggi e quanto è bello leggere e come fanno bene i libri… Diciamoci la verità, una volta tanto: si legge poco perché i libri nuovi fanno perlopiù schifo e i libri vecchi quasi nessuno li vuole toccare, poiché la scuola instilla il terrore verso i classici. Altre spiegazioni sono importanti ma secondarie. Tutti se la prendono con chi non legge ma pochi con gli scrittori che scrivono coi piedi e con gli editori che pubblicano immondizia.

Una situazione del genere è ancor più paradossale, a ben guardare, se si considera che il libro non ha mai goduto di buona fama come oggi. Tutti vogliono pubblicare tanto che in molti pagano per farsi stampare, c’è chi si fa scrivere il libro dal ghost-writer e chi si inventa di tutto pur di riempire un tomerello di pagine. 70mila novità editoriali l’anno solo in Italia: settantamila, un numero che fa paura. Togliendo domeniche e festivi, fa più di duecento nuovi libri al giorno. Lì dove i lettori sono pochi (solo il 40% degli italiani legge almeno un libro l’anno) e chi legge frequentemente è solo un pugno di persone, si pubblicano duecento titoli al giorno.

E chi li leggerà mai? Infatti la stragrande maggioranza finisce al macero senza neppure una copia venduta. Ginevra Bompiani ha già lasciato detto che “letteratura oggi è solo narcisismo”, e non altrimenti si spiega come si possano scrivere tali e tanti libri, ben sapendo che non saranno letti. L’intero mondo del libro è una contraddizione così grande da doverla studiare seriamente, per capire che senso ha oggi in Italia quell’oggetto che per secoli è stato l’unico mezzo di trasmissione e conservazione del sapere. Sette punti per constatare lo stato pietoso del libro in Italia.

Il rapporto di una società con il libro andrebbe studiato dagli psicanalisti. Sarebbero gli unici a poterci forse spiegare come il libro si sia potuto trasformare in feticcio, tanto odiato e tanto adorato. Il libro più venduto su Amazon nelle ultime settimane è un volume di Giulia De Lellis (influencer e volto di Uomini e Donne, una che ha dichiarato di non aver mai letto un libro in vita sua) che uscirà a settembre per Mondadori: in cima alle classifiche ancor prima di essere pubblicato.

Tutti scrivono libri, anche chi non legge e in molti casi chi non ha nulla da dire. Pubblicano i cantanti, i giornalisti, i politici, i calciatori, gli attori, e le case editrici fanno a gara per accaparrarseli. Ma se i lettori in Italia sono specie protetta, perché tutti si affannano a scrivere? Si narra che Vittorio Emanuele II disse che “un mezzo sigaro e una croce da cavaliere non si negano a nessuno”; oggi non si negano un selfie e la pubblicazione di un libro. Come il titolo di Cav. e la spilla al bavero conferivano tono e status, oggi il libro assolve alla frustrante funzione sociale. Frustrante sì, perché non c’è da esultare molto nel sapere di aver scritto un libro inutile che presto sparirà dalle librerie, letto da persone che non avevano di meglio da fare e che se ne dimenticheranno subito. Tanto più che, se questi non leggono, ma chi è il pazzo che li fa scrivere?

Non vogliamo giungere fino all’estremismo di Carmelo Bene che, a proposito dell’Ulisse di Joyce, disse:

Mi auguravo nel mio candore, giovanissimo, che dopo questo libro – dico: finalmente nessuno più scriverà; finalmente si ripubblicheranno i classici, come si deve; finalmente la gente in Italia rileggerà i classici. Invece no, c’è stata un’inflazione editoriale.

Però ci sarebbe da darsi una regolata, in un paese dove l’ignoranza della tradizione culturale, dell’origine linguistica e delle radici storiche è così radicale. Roberto Cotroneo recentemente notava come nel film JFK a un certo punto si chieda a un avvocato se abbia letto Shakespeare e questo risponda piccato, quasi indignato. Ovvio che ha letto Shakespeare: è un avvocato americano. Come sarebbe ovvio per un francese aver letto qualcosa di Flaubert, Stendhal o Zola; per un tedesco Goethe, Hӧlderlin o Mann; mentre per un italiano, chissà perché, aver letto Dante, Galileo, Leopardi o Manzoni è casualità più unica che rara. In questo la sedicente industria culturale non aiuta per niente. La scuola poi, se può fare qualcosa per dissuadere dalla lettura, lo fa benissimo.

Altra faccenda è quella strettamente intellettuale: il deperimento dell’interesse culturale e l’atrofizzazione del cervello collettivo che possiamo genericamente imputare a omogeneizzazione sub-culturale, digitalizzazione e disintermediazione. Un mondo in cui il virtuale era raccolto unicamente tra le pagine di carta dava per forza consuetudine con i libri e col linguaggio scritto; oggi che il virtuale alberga tra i tocchi di uno schermo, la parola perde centralità a tutto vantaggio dell’immagine. Mutuando l’opera One and Three Chairs di Kosuth, dalla sedia materiale siamo passati alla sua definizione scritta e oggi alla sua fotografia: nulla più che l’immagine del mondo, la sua raffigurazione mimetica nell’incapacità di definirlo o di ricrearlo con la fantasia.

Nessun piagnisteo sulla tecnologia, però: nulla vieta di usare lo smartphone per cercare informazioni di alta cultura; se lo si usa per giocare a giochini dementi e traccheggiare su Facebook lo smartphone ha poche colpe. Stupido è chi lo stupido fa. Siano invece lodati YouTube e Google che mi hanno permesso di ascoltare interviste e conferenze e di cercare autori, libri e articoli che qualcuno non avrebbe mai conosciuto altrimenti.

Certo però c’è un problema di attenzione nelle ultimissime generazioni, diversi studi ne denunciano la capacità di concentrazione drammaticamente bassa. Ma è pur vero che è oggettivamente difficile oggi leggere certi cari vecchi libri.

Si riporta di alcuni bambini che, avendo tra le mani libri illustrati, fanno per allargare le immagini con le dita. Non sanno che la carta non si zooma, che non viene verso di te ma devi tuffartici dentro, che non la puoi scorrere ma solo assorbire lentamente, che non è interattiva ma statica e monodimensionale. In una parola, è eterna. Quei bambini difficilmente leggeranno libri, perché questi parleranno loro di un mondo che non conoscono, alieno e noioso. Tutte le rivoluzioni comportano vittime: la rivoluzione digitale uccide il libro. Non è colpa di nessuno in particolare, è un intero mondo a cambiare.

È arcinoto che i grandi editori un tempo pubblicavano robette per fare soldi e autori di spessore per prestigio e mecenatismo: Mondadori pubblicava romanzi popolari per foraggiare i Meridiani e Lo Specchio, Livio Garzanti una buona dose di ciofeche ma anche Gadda, Arbasino, Parise.

Uno scafato lettore oggi si trova in grande difficoltà di fronte agli editori: “chi ha tradito, tradirà” dicevano certi fascisti. Come avere fiducia in Rizzoli dopo che ha pubblicato gli imprescindibili libri del Signor Distruggere, del Terrone Fuori Sede e di Ibrahimovic? Come affidarsi a Mondadori se pubblica i libri di Luì e Sofì, che scopro essere degli youtuber, e della già citata De Lellis? Passino i libri popolari, ma qui sembra proprio che si stia raschiando il fondo del barile. Lo facessero per mettere al sicuro il bilancio e poter pubblicare scrittori da novanta lo capirei benissimo. Il problema è che mancano gli scrittori da novanta, e quando ci sono è quasi impossibile accorgersene, visto che appaiono per un attimo soltanto, come il fotogramma di un film, nel flusso editoriale che ci sommerge di volumi e spedisce tutti al macero.

Generalizzare è un male, ci sono editori che non sbagliano un colpo come Adelphi, il Saggiatore, Laterza, Raffaello Cortina e altri. La grande editoria però, quella che riempie i banchi all’ingresso delle librerie, è in quelle condizioni lì. Per qualcuno è normale che sia così, dal momento che la letteratura evidentemente non interessa più nessuno.

Solamente non è vero: basta pensare a quanto hanno inciso l’immaginario collettivo scrittori contemporanei come Roth, Houellebecq o Camilleri, o ai milioni di ragazzini stregati da Harry Potter. La letteratura sortisce sempre un effetto conturbante: bisogna avere però qualcosa da dire e bisogna dirlo bene.

La critica non sappiamo più cosa sia e non ci aiuta per niente, anche perché scrittori di dubbia qualità recensiscono amici che hanno pubblicato con l’editor amico in comune per l’editore che stampa i libri di entrambi. Più che esercizio di critica è uno scambio di favori dominato dal do ut des preventivo: ti elogio, così ti sentirai obbligato a elogiarmi anche tu.

Le riviste culturali sono stramorte, le terze pagine dei quotidiani sono la gazzetta ufficiale dell’editoria, programmi in tv e radio sono rarissimi e di siti in grado di reggere il compito ce n’è pochi. In buona sostanza oggi si fa letteratura senza critica, cioè senza qualcuno che concepisce e interpreta i canoni attuali e spiega ai lettori su quali vie si inerpica la letteratura e cosa hanno da dire i nuovi artisti. E non può essere altrimenti, essendo tutti amici e amici degli amici: come si può fare critica onesta a queste condizioni?

Basta osservare il Rotary Club delle lettere, quel circolo magico fatto di Feltrinelli, Einaudi, Repubblica e Rai Tre. Ecco allora Alberto Asor Rosa (Einaudi) che recensisce sulla Repubblica il libercolo di poesie dell’amico Scalfari (Einaudi) e Corrado Augias (Einaudi e Repubblica) che invita a Quante storie su Rai Tre quasi solo collaboratori del suo stesso giornale. Elogi sperticati nel massimo cortocircuito di un mondo chiuso e impermeabile. Nel paese in cui le lettere sono un Fort Apache da difendere coi cannoni, guai a dire che il re è nudo. Attendiamo il ragionier Fantozzi che possa urlare “questa editoria è una cagata pazzesca”.

Alla fine nessuno controlla. Tanto, come ancora notava il buon Cotroneo, le case editrici devono pubblicare così tanti libri che non hanno neppure il tempo di leggerli tutti, si affidano alla fama degli autori e alla bontà di eventuali recensori, che non hanno nemmeno loro il tempo di leggerli e seppure dovessero stroncarli nessuno li ascolterebbe. Quando non riciclano autori rodati, gli editori cercano senza sosta esordienti da confezionare con abile marketing per garantirsi un pacchetto di copie da piazzare. In libreria è tutto un “caso editoriale” e una “rivelazione dell’anno” e un “esordio folgorante”, quando in realtà si tratta di fetecchie ineguagliabili.

Il risultato è presto detto. Un lettore entra in libreria, è sopraffatto dai nuovi titoli, da nomi mai visti prima e non ha mappa e bussola per orientarsi. Alla fine si perde tra i tomi presentati come le chincaglie di Tiger, trattati alla stregua delle magliette di H&M, e, spaesato, se ne va.

Le nuove uscite sono per la maggiore maschiofobiche. Come fossimo nel ‘700 – i trattati all’uomo e i romanzi alle donne – gli scaffali delle librerie traboccano di libri con donne protagoniste scritti da donne per un pubblico di donne. Quelle montagne di libri dai colori pastello, in copertina la foto di una donna in un paesaggio desolato, con titoli che paiono presi a caso dai Baci Perugina… Per entrare in certe librerie un uomo deve lasciare il testosterone all’ingresso, insieme al cane e all’ombrello. Le rare novità meno femminee spesso consistono nel mistero in monastero o nel noir, che ormai allappa più di un salame.

 

Alessio Trabucco

Gli schiavi delle feste del Natale

Essere sfruttati lavorando durante le Festività, nella volgarità dei centri commerciali, sintetizza al meglio tutte le contraddizioni di un modello di sviluppo condannato all’esplosione. Siamo nel pieno delle festività del Natale e negli ultimi giorni è riemersa la proposta di legge – presentata dal Movimento Cinque Stelle con in testa Michele Dell’Orco primo firmatario- che prevede la chiusura degli esercizi commerciali almeno sei dei dodici giorni festivi previsti durante l’anno. Il ddl, approvato nel 2014 alla Camera, risulta ormai fermo da tre anni al Senato. Tuttavia essendo agli sgoccioli dello scioglimento delle Camere, la legge potrebbe essere approvata in brevissimo tempo. Manca però la volontà politica di Pd e Forza Italia.

Il lavoratore italiano, dal 1997 – anno dell’entrata in vigore della legge Treu, la quale ha di fatto legalizzato il lavoro interinale – ha visto ridotti progressivamente tutele e diritti conquistati in anni ed anni di lotte politiche e sindacali, in nome di una presunta flessibilità voluta dai mercati. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: aumento della disoccupazione giovanile e della precarietà, chiusura di aziende ed attività economiche, suicidi e disperazione generale. Nonostante ciò, gli sciacalli del politicamente corretto parlano di ripresa e di aumento dei posti di lavoro. Secondo costoro lasciare aperti i negozi anche nei giorni festivi e alla domenica significherebbe incentivare il commercio e l’occupazione.

Tutto vero se non fosse per il fatto che all’interno dei negozi esista quel contenuto umano che si vorrebbe sostituire con macchine – prive di qualunque diritto e tutela giuridica – sempre operative ventiquattro ore su ventiquattro. Inoltre, con l’avanzare della New Economy (vedi Amazon, Google, Yahoo) le piccole e medie imprese – da sempre motore dell’economia italiana – rischiano nell’imminente di venire sconquassate a causa della loro impossibilità di reggere la concorrenza al ribasso. Quest’ultima leggasi come totale cancellazione dei diritti dei lavoratori italiani i quali, per rendersi competitivi con i lavoratori di altre nazioni in cui i diritti ed i salari sono decisamente più risicati che nel Bel Paese, saranno costretti a rinunciarvi pur di poter mantenere il proprio posto di lavoro.

Il lavoratore, senza più tutele e diritti, è a tutti gli effetti un individuo atomizzato privo della gioia di poter godere degli affetti della famiglia. Quest’ultima risulta nemica della stessa società materialista e consumista che da tempo le ha dichiarato una guerra senza tregua. Dunque, aldilà della bontà di una proposta di legge – idealmente condivisibile – bisognerebbe tuttavia convergere verso una nuova sintesi di carattere politico che avesse come fondamento la rinascita della potenza del lavoro produttivo. Ripensare il Lavoro dal punto di vista umano e sociale – e non più in termini mercantilistici e schiavistici – significherà lanciare la sfida verso un futuro in cui le nuove tecnologie potranno alleviare le fatiche quotidiane dell’Uomo o renderlo, paradossalmente, ancora più sfruttato e alienato: ancora una volta, la partecipazione dei lavoratori alla gestione e alla proprietà dei mezzi di produzione appare il nodo cruciale della questione.

 

Di www.lintellettualedissidente.it/cartucce/gli-schiavi-delle-feste/ Francesco Marrara

I peccati dell’innovazione tecnologica, la New Economy con il suoi web e robot

La nostra epoca è caratterizzata da una crescente innovazione tecnologica presente in tutti gli ambiti della nostra vita. Accanto a questa spinta allo sviluppo, s’instaura una nuova struttura economica: la cosiddetta New Economy, che si contraddistingue dalle forme economiche del passato per il fatto di essere caratterizzata da elementi inediti: opera in un mercato globale; riesce ad abbattere egregiamente i costi di lavoro ed è localizzata in uno spazio indefinito: la rete. Nel libro Al posto tuo: così web e robot ci stanno rubando il lavoro, Riccardo Staglianò spiega bene il modo in cui le nuove tecnologie incarnano lo spirito della New Economy. La crescita esponenziale dello sviluppo tecnologico è diretta verso l’automazione dei metodi di produzione e la digitalizzazione dei servizi.

Si possono citare tre esempi plastici in grado di riassumere al meglio la portata di queste innovazioni: il primo è l’invenzione di Baxter e Sawyer, due robot in grado di svolgere rispettivamente compiti industriali semplici e operazioni più precise solo attraverso una semplice programmazione eseguita da un lavoratore privo di competenze tecniche; il secondo è il software NarrativeScience, capace persino di scrivere, attraverso un sistema algoritmico, articoli giornalistici impostati secondo un determinato stile o taglio editoriale; il terzo è Amazon, negozio globale online divoratore della concorrenza locale, che sfrutta i propri dipendenti e i negozi che vendono attraverso la sua piattaforma per poter essere iper-funzionale e iper-competitivo.

Sono due i fenomeni problematici determinati dalle tendenze innovatrici rappresentati in questi esempi. Il primo fenomeno è relativo alla sostituzione dei lavoratori con le macchine: uno studio di Frey e Osborne, ricercatori all’Università di Oxford, sostiene che il 47% dei mestieri ricade nella categoria ad alto rischio di sostituzione nel prossimo futuro. Da una parte, la minaccia fa riferimento alla sostituzione dei lavori manuali attraverso l’automazione dei metodi di produzione; dall’altra invece, l’invasione di sistemi algoritmici e informatici comporta la sostituzione dei lavoratori negli ambiti lavorativi di natura intellettuale. Sono due gli ordini di problemi determinati da questo rimpiazzo di manodopera per mezzo di queste metodologie. Il primo è strettamente economico e occorre affrontarlo partendo da un presupposto relativo al funzionamento del capitalismo: la teoria del plus-valore di Marx. Il modello marxiano descrive il modo in cui il datore di lavoro si approprierebbe della differenza economica tra il costo della manodopera del lavoratore e il prezzo finale della merce.

Questa teoria spiega anche il motivo per cui il sistema capitalistico selvaggio ha una tendenza verso cicli di crisi economiche: il datore di lavoro subisce le spinte al ribasso dei prezzi delle merci dalla concorrenza presente sul mercato, che conseguentemente lo condiziona all’abbassamento del costo della manodopera. Per aggirare questa tendenza, il datore di lavoro ricorre all’utilizzo di macchine per rendere più produttivi i lavoratori. Ma l’aumento di produttività non è un bene: la maggior produttività per mezzo delle macchine non solo comporta un minor numero di lavoratori, ma porta a produrre un surplus di beni, a cui consegue la distruzione del valore della merce e, a sua volta, al crollo del mercato.

Negli anni Settanta, questa tendenza alla crisi viene affrontata attraverso la pratica della delocalizzazione in Paesi emergenti come l’India o la Cina, luoghi in cui il costo della manodopera era bassissimo. Oggi invece, sembra che l’ideale da perseguire per affrontare questa tendenza sia il lavoratore robot: una manodopera automatizzata i cui costi di manutenzione sono infinitamente più bassi rispetto agli stipendi dei lavoratori da impiegare per lo stesso livello di produttività. Risulta ovvio però che se la soluzione del capitalismo rimane “maggior produttività al minor costo possibile” il continuo abbassamento dei costi della manodopera comporterà la distruzione della classe media, nonché l’annullamento della sua forza d’acquisto: sacrificio richiesto per il piacere di poter produrre a poco, e non più al prezzo giusto. Il secondo ordine di problemi relativo alla sostituzione dei lavoratori è prettamente etico, e fa riferimento al tema della deresponsabilizzazione. L’effetto più eclatante del progresso tecnologico è l’emancipazione progressiva delle nostre azioni dai vincoli morali. Gli strumenti tecnologici non vengono più creati per raggiungere un particolare fine, bensì sono loro a stabilire, grazie alle possibilità che offrono, ciò che si può o si deve fare: a vincolare le nostre azioni c’è solamente il limite tecnologico che non siamo riusciti ancora ad oltrepassare.

Nel momento in cui il principio che determina le scelte politiche, economiche e sociali non tiene più conto delle conseguenze etiche di una determinata innovazione, si giunge al punto in cui non vi è più possibilità di applicazione della responsabilità morale agli effetti delle azioni umane. Gli effetti collaterali dannosi o indesiderati devono essere considerati alla luce dell’azione che li produce. Oggi invece, questo discorso sugli effettivi rischi delle tecnologie sembra essere sostituito dall’idea di “danno collaterale”; idea che suggerisce come effetti positivi e negativi non concorrano sullo stesso piano, anzi: le conseguenze negative prodotte dalla tecnica ma ignote fino a quel momento, sembrano accadere fatalmente e casualmente, senza consequenzialità tra l’applicazione e i suoi effetti. Occorre invece calcolare i rischi dell’innovazione tecnologica; chiedersi che cosa possa pesare maggiormente per la società; e una volta trovata la risposta, scegliere se proseguire con quel tipo d’innovazione oppure arrestarla. Ad esempio, in termini di responsabilità morale, è meglio un uomo o un sistema tecnologico alla guida di un’automobile?

Il secondo fenomeno problematico di questa spinta innovatrice della New Economy è la precarizzazione del lavoro; tendenza particolarmente riscontrabile in due punti. In primo luogo, la New Economy produce sistemi di monetizzazione alternativi come il crowdsourcing (modello di business incentrato sulla collaborazione esterna di persone a progetti aziendali) e la sharing economy (“economia della condivisione”): concezioni economiche che all’apparenza possono risultare positive, rivoluzionarie e richiamanti modalità di condivisione eco-sostenibili; ma se contestualizzate e analizzate, rivelano tutta la loro portata precarizzante. Il 2007 è l’anno in cui scoppia la peggior crisi economica dalla Grande Depressione, la quale non fa altro che impoverire la classe media. È in questo momento che subentra la soluzione: “la sharing economy vi tende una mano d’aiuto! La sharing economy può aiutarvi ad arrotondare lo stipendio o a permettere di pagare l’affitto!”. Ma la verità la si può trovare provando a rispondere ad una domanda molto semplice: perché abbiamo bisogno di guadagnare più di prima? La sharing economy rappresenta veramente un’evoluzione dell’economia? Risulta evidente che la sua nascita è collegata alla crisi economica e alle sue drammatiche conseguenze.

La precondizione di questa sharing economy infatti è stato un mercato del lavoro depresso che, a partire dal 2008, si è caratterizzato per un abbassamento dei posti di lavoro fissi e parallelamente da una crescita impetuosa dei lavori part-time: chi ha perso un lavoro vero è costretto a ricorrere a numerosi microlavoretti, attraverso i quali si sperimenta nuovamente il lavoro a cottimo in versione 2.0. Mechanical Turk, il servizio internet di crowsourcing di Amazon Web Service, è solo uno degli esempi di sistemi a cottimo in cui la paga per ogni singolo lavoro non solo è bassissima (si parla di qualche centesimo di retribuzione a prestazione); ma dai guadagni ottenuti bisogna togliere un sacco di cose, come le cure mediche e le spese per la manutenzione della propria strumentazione; ma soprattutto non è previsto nessun contributo da versare per l’ottenimento della pensione. Si tratta quindi di sistemi economici del tutto insufficienti a risolvere le problematiche causate dallo sviluppo tecnologico: non contribuiscono minimamente a limitare le disuguaglianze economiche prodotte dalla concezione di sviluppo a loro affine, perché non pagano neanche le tasse utili al welfare.

In secondo luogo, Internet introduce varianti strutturali nella società e nell’economia rispetto al passato. Una delle idee più eversive del web 2.0 è stata quella della gratuità: un certo numero di merci si può trovare online gratuitamente. I contenuti vengono offerti gratis perché i professionisti remunerati (come i programmatori, i musicisti o i giornalisti) vengono sostituiti con gli utenti, che condividono in maniera totalmente volontaria e gratuità i contenuti da loro creati. L’utente produce e l’utente consuma: nasce una nuova figura: il prosumer. L’unico a guadagnarci in questo schema però non è questa nuova figura, bensì chi gestisce la piattaforma.

Ma il motivo della gratuità delle merci online non è relativa solo alla sostituzione del professionista con l’utente. Google, Facebook e Instagram sono servizi completamente gratuiti soprattutto perché cediamo loro volontariamente una quantità di informazioni digitali incredibili: informazioni raccolte nei database aziendali con lo scopo di classificare categorie di consumatori diverse e di individuare così le tendenze di consumo, per mezzo delle quali si può determinare a quali fasce di persone e in quale momento un dato prodotto può essere venduto più facilmente. In questo modo, il prosumer non produce solamente contenuti, ma anche i dati utili a scoprire le tendenze: la necessità di creare domanda per un certo tipo di bene viene annullata addossando questo ruolo al consumatore, che diventa autonomamente il sorvegliante di se stesso.

La sostituzione dei lavoratori e la precarizzazione del lavoro sono i due fenomeni della New Economy che comportano un’evidente crescita di disuguaglianza e disparità economico-sociale tra due “classi”: da una parte, l’élite proprietaria di robot o piattaforme informatiche; dall’altra la massa di lavoratori precari, utenti peraltro di quelle stesse piattaforme. Come affrontare queste disuguaglianze crescenti, frutto della New Economy e di un’innovazione tecnologica sempre in crescita e sempre più imprevedibile? Quali sono i modi per affrontare quest’epoca? In Tesi sulla filosofia della storia, Walter Benjamin delinea sostanzialmente due possibilità. La prima è negare che l’innovazione tecnologica sia progresso, rifiutandola come fecero i luddisti nel 1813, le cui battaglie certamente non comportarono l’arresto dello sviluppo, ma non furono in ogni caso vane: grazie alle loro lotte, il tema dei problemi derivati dall’automazione venne sdoganato e l’avvio di contrattazioni nei mercati di lavoro consentirono di migliorare le condizioni in fabbrica.

La seconda possibilità è accettare lo sviluppo tecnologico e piegarlo a proprio vantaggio. Nel libro La nuova rivoluzione delle macchine, Andrew McAfee elabora delle misure politiche finalizzate a ridurre le disuguaglianze economiche: migliorare le prospettive dei lavoratori alla luce di una crescita economica e produttiva complessiva. Le più importanti sono: il miglioramento dei metodi d’istruzione e d’insegnamento per mezzo delle nuove tecnologie; incentivare l’imprenditoria ed in particolare le start-up, ritenute vettori fondamentali per creare posti di lavoro e inventarne di nuovi; investire sulla ricerca scientifica e sulle infrastrutture, mettendo in moto una politica keynesiana; mettendo in pratica modalità di tassazione pigouviana, ovvero mirata a scoraggiare determinate attività come l’inquinamento, o sulla rendita, come la proprietà di terreni, la quale non subirebbe la riduzione dell’offerta sul mercato. Queste proposte politiche sono accompagnate da raccomandazioni a lungo termine, come l’idea di un’imposta negativa, che consiste nell’ottenere una frazione di tassazione pagata dal governo nel momento in cui il reddito risulta essere al di sotto di una determinata soglia.

È evidente però che queste misure politiche non solo non tengono contro dei problemi ecologici conseguenti ad una continua crescita produttiva complessiva, ma non scalfiscono minimamente le fonti che producono la disuguaglianza: non esistono ancora proposte veramente efficaci che si fanno promotrici di una tassazione sui metodi di produzione automatizzati o sul web. Gli Stati infatti non sono in grado di agire fiscalmente perché le aziende e le imprese private non solo riescono ad aggirare la tassazione, ma sono anche in grado di minacciare i governi rispetto a determinate misure fiscali. Il potere dei grandi colossi economici riesce a soppiantare il potere politico attraverso il ricatto: possono legittimamente disattivare il funzionamento di servizi digitali, ormai diventati essenziali in questo sistema economico-sociale.

Nel 2014 ad esempio, Google riesce a ricattare il governo spagnolo di Rajoy: l’approvazione della legge che avrebbe obbligato l’azienda a pagare gli editori per l’utilizzo dei loro contenuti, evidentemente non piaceva. Così, il giorno prima dell’entrata in vigore, Google decide di disattivare il servizio News del suo motore di ricerca, con la perdita del 10-15% del traffico sulle pagine web delle testate giornalistiche. Ma d’altronde, s’incentiva questo sistema ogni volta che acquistiamo un prodotto a basso costo su Amazon. E lo si fa senza badare a tutte le ripercussioni che un atto semplice come questo produce: è la New Economy, bellezza! Ma la convenienza vale quanto ciò che si sta perdendo?

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

 

Self publishing: opportunità o antagonista per il mercato editoriale?

Il mondo dell’Editoria si trova oggi a dover affrontare un fenomeno controverso che minaccia di cambiare radicalmente il mercato del libro: il self publishing, espressione che letteralmente significa “autoedizione”, ovvero la pubblicazione in proprio di un libro da parte dell’autore, senza la figura della casa editrice come mediatore, un fenomeno frutto della semplificazione e della disintermediazione del mercato editoriale. Perlopiù il self publishing è circoscritto al mercato degli ebook e dunque a dispositivi e-reader come il Kindle o il Kobo, anche se molti autori self con l’aggiunta di un investimento economico ricorrono anche alla tradizionale distribuzione cartacea. I vantaggi del selfpublishingsono evidenti: l’accorciamento dei tempi di pubblicazione, di solito molto lunghi se ci si affida a una casa editrice, il massimo controllo su tutte le fasi di produzione e vendita, dato che l’autore diventa imprenditore di se stesso, e un maggiore rientro economico sulle vendite: infatti la percentuale che spetta allo scrittore sale dal solito 10% al 30%-80%.

Quale tipologia di autore sceglie il self publishing al posto dell’editoria tradizionale? Di solito o chi non ha trovato riscontro da parte di nessuna casa editrice, oppure chi possiede uno spirito imprenditoriale e una certa disponibilità finanziaria, visto che trasformare un manoscritto in libro è un processo che richiede tempo, esperienza e denaro, elementi che di solito vengono forniti dalle case editrici ma che se si agisce in proprio bisogna fornire in prima persona. Per prima cosa è necessario contattare un editor, per la correzione del testo, un grafico, per creare la copertina, e in seguito i canali di pubblicità, per sponsorizzare il libro. Il self publishing si è rivelato un fenomeno molto più complesso di quello che si crede, un percorso che, se intrapreso con consapevolezza e serietà da parte dell’autore, non si limita al mero caricamento gratuito di un file su Amazon.it e allo spam selvaggio sui canali social. Ma se da una parte il fenomeno dell’autoedizione appare come la diretta conseguenza della volontà di farsi conoscere da parte degli autori emergenti, spesso non presi in considerazione da parte delle grandi case editrici, diffidenti nei confronti di chi non possieda già una fetta di pubblico, dall’altra parte la mancanza di un marchio che autentica la qualità del prodotto-libro rischia di abbassare il livello delle opere pubblicate, spesso prive del benché minimo lavoro di editing e di correzione bozze.

Il self publishing si configura dunque come una grande opportunità, soprattutto se usato come vetrina per farsi conoscere dagli scout delle grandi case editrici (è il caso del romanzo Miradar di Ilaria Mavilla, pubblicato prima in self e in seguito da Feltrinelli), ma bisogna intraprendere questo percorso consci dell’impegno e della responsabilità di occuparsi personalmente di ogni aspetto della pubblicazione. Se l’autore self è interessato, oltre alla pubblicazione digitale, anche a quella cartacea, può prendere in considerazione i siti di print on demand. Il maggiore portale italiano per l’autoedizione è Ilmiolibro.it, nato a metà del 2008, con oltre trentacinquemila autori pubblicati ad oggi, che bandisce annualmente un progetto di scouting letterario, “Ilmioesordio”, che promette al vincitore la pubblicazione con Newton Compton. A differenza dell’editoriatradizionale, il self-publishing elimina il problema di dover cedere, anche se temporaneamente, i propri diritti sull’opera, spesso senza avere in cambio l’ adeguata pubblicità e la dovuta attenzione da parte dell’editore per vendere il libro sui maggiori canali distributivi, soprattutto nel caso degli editori che pubblicano a pagamento dato che il loro rientro economico è già assicurato dal numero di copie acquistate dall’autore per contratto.

Il self publishing divide spesso l’opinione dei lettori e degli addetti ai lavori, soprattutto sulla questione della concorrenza al mercato editoriale tradizionale. Bisogna comunque evidenziare che gli autori self non possiedono la stessa visibilità degli autori promossi dalle grandi case editrici, i cui libri sono in vetrina in qualsiasi libreria, e la loro notorietà spessosi limita al web. Quindi vedrei il self publishingpiù come un mercato alternativo e come un trampolino di lancio per chi ha talento e non riesce ad emergere altrimenti, che come una forma di concorrenza. Tutti gli altri autori, più che abbassare il livello dell’editoria nazionale, semmai verranno risucchiati dal mercato e scompariranno senza lasciare traccia. Dal fenomeno del self-publishing sono venuti fuori talenti come Amanda Hockinge e John Locke, casi ovviamente rari, ma interessanti.

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