Frammenti di un monologo amoroso ai tempi dei social, quando l’amore è solo un travolgente fuoco d’artificio

L’amore è il tutto e il niente nella stessa esplosione fragorosa. Tra i battenti digitali del Ventunesimo secolo, ancor di più. Anno 1977, Roland Barthes regala all’emisfero super accelerato Frammenti di un discorso amoroso, cartina semantica per l’analisi dell’amore novecentesco, con il linguaggio del Soggetto e il contro-linguaggio dell’Altro a fustigare dolcemente lo scenario. Anno 2018, invece di attualizzare il discorso amoroso, potremmo comprendere come lo scambio tra il Soggetto e l’Altro si sia trasformato in un vero e proprio monologo. Ecco a voi, cari lettori, amanti, amati e non corrisposti, i frammenti di un monologo amoroso.

Bussiamo alle porte della Prima Fase del soliloquio:

L’abbordaggio (o rimorchio)

Il soggetto è un uomo, immerso nell’epidemie del sabato sera. Varca le soglie del locale più esclusivo della sua città e dopo un long island, un gin tonic e qualche cicchetto alla goccia, ha l’immanente apparizione: Lei. Bella, ruggente, dallo sguardo cinico. Ci si innamora sempre dell’Immagine, accusando inconsapevolmente una sindrome di Stendhal fiorentina. Il soggetto pensa tra fegato e cuore: Lei è La libertà che guida il mio popolo interiore e io sono il suo Delacroix. Non è verosimile? Perfetto. Lei è la mia Belen o la mia Diletta Leotta e io sono un Cavaliere rispettato dall’Italia tutta. La pensano tutti così, anche se lo nascondano bene.

Il Soggetto si avvicina nella zona dell’altro e cerca un contatto criptico con lo sguardo. Ella risponde, non si sa se per sdegno o complicità. Non resta che affondare il colpo: «Ciao, cosa prendi da bere?» e lei, con superbia mongolina «ciao, io e le mie amiche beviamo vodka lemon, ci spostiamo al bancone». Si inaugura una chiacchierata improbabile, vuoi per il frastuono o vuoi per la banalità degli argomenti. «Andiamo a ballare?», dice l’Altro. «Subito!», sentenzia il Soggetto (già cotto a puntino). A questo punto si staglia davanti gli orizzonti dell’uomo e della donna un bivio: se lui sarà stato convincente, scapperanno via dalle luci cloroformizzate della serata, amandosi in macchina o a casa del Soggetto. Uno scenario che disintegrerebbe l’Immaginario dell’innamorato, poiché avendo tutto subito, non cercherebbe mai più niente in quell’Immagine desiderata.

Perciò l’Altro, astuto come il ventre del cavallo di troia, sparisce dalla pista, sfruttando un momento di distrazione e piantonando con stile il Soggetto. Il finale della serata per l’innamorato diventa arduo: aveva in mano il proprio Desiderio, ma se lo è fatto sfuggire. Il crepuscolo fa riemergere i dettagli appassionanti di Lei: rossetto rosso anima, profumo intonato, abito da sera che risaltava poeticamente le forme. Il giorno dopo il Soggetto si trasforma in Sherlock Holmes e durante l’assorbimento della sbornia progetta l’assalto virtuale. Fa il diavolo a quattro per scoprire il vero nome e cognome di Lei, spulciando la pagina Facebook del locale dell’incontro e mettendo sotto torchio eventuali conoscenti in comune.
«Bingo! Trovata». L’aggiunge subito su Facebook e Instangram e attende l’accettazione dell’amicizia e del segui. «Toh, ha accettato». Il soggetto parte con il like tattico e piazza un messaggio su ambedue i social, presentandosi con garbo. «Ciao, sono il ragazzo con cui hai ballato ieri, non so se ti ricordi…». L’Altro risponde con acuto sadismo: «Hey, ciao. Dimmi…». Il Soggetto assalta la Bastiglia: «Ti ho trovata molto interessante, sei davvero carina. Mi piacerebbe che ci sentissimo, giusto così per scambiare quattro chiacchiere. Mi daresti il tuo numero di cellulare?». Ora l’Altro effettua un’analisi dei social del Soggetto, con un ritmo forsennato, a tempo di record. Se l’aspetto virtuale del disturbatore ha superato l’esame, la conversazione continuerà, sfociando poi su WhatsApp. Altrimenti, saranno solo lunghe risate tra lei e le sue amiche, che canzoneranno il Soggettino.

L’Altro miracolosamente accetta: si passa alla Seconda Fase:

Frequentazione (o “ci stiamo sentendo”)

La prima volta è «bellissima, meravigliosa, indimenticabile». Per il Soggetto sempre, qualche volta anche per l’Altro. Adesso potenzialmente si dovrebbe volare, ma il sentiero dei due attori diviene di nuovo complicato. Se l’altro si sente sicuro, partecipe e «mentalmente preso», è fatta. Altrimenti, amici come prima, ovvero amici come mai. In realtà esiste una terza e una quarta chance: diventare come Mila Kunis e Justin Timberlake in Amici di letto (specialisticamente trombamici), oppure continuare la frequentazione fisica ed emozionale, appurando infine che al Soggetto l’Altro gli vuole «molto bene e gliene vorrà sempre», perché «lui è come un amico, se non il migliore». Chiamasi, tecnicamente, friendzonamento.
Ma non è questo il caso. L’Altro è convinto del bagaglio fisico e sentimentale del Soggetto, ormai sono entrati nella Terza Fase:

Il fidanzamento

Come comportarsi in questo capitolo culminante di una relazione già dogmatica? «Cosa mettiamo su Facebook?», «vabbè, mettere solo “impegnato” è riduttivo dai», «no, macché, fare il profilo di coppia è proprio da sfigati». La storia diventa ufficiale, d’ora in poi entreranno pian piano nello scenario amici, familiari e nemici dell’amore, che guasteranno l’Immaginario di lui e faranno perdere le staffe a Lei. E poi c’è da scommettere tutto il proprio Io: regali, sorprese, sacrifici, viaggi, paranoie e litanie. Ma il Soggetto si sente trasportato, privo di freni razionali, un po’ come Dawson con Joy in Dawson’s creek, con la piccola differenza che lui l’Altro l’ha conquistato senza servirsi di una scala (e senza piagnucolare). Ora Lui e Lei prendono totalmente confidenza con i rispettivi corpi, fanno l’amore spesso e con progressiva intesa e intensità. È un momento spettacolare e irripetibile, è la Festa della relazione. Ma nel preciso istante in cui tutto funziona, il Soggetto classifica la sua musa come a-topos, cioè inclassificabile, e ha un assaggio positivo di de-realtà sentendosi avulso dal mondo.
Tutto cambia intorno, ma a lui non importa, sta amando davvero. Rino Gaetano spiega magistralmente questa sensazione cristallizzata di volo sul tempo in Sfiorivano le viole. Ecco, si palesa inesorabile il primo atto egoistico del Soggetto: «Io ti amo». Io, ti amo! E adesso esigo la stessa risposta da te. L’Altro è sempre mentalmente preso, come mai finora, e non può che rispondere così: «Anch’io ti amo, da morire». Nel tam-tam della Festa l’esagerazione è l’ospite d’onore. D’ora in poi un sostantivo accompagnerà i due Attori: gelosia. «Chi è questo che ti ha mandato l’amicizia su Facebook?», «chi ti scrive a quest’ora?», «chi è questo che ti segue su Instangram?», «ci scambiamo le password dei social?», «ti vedo assente stasera, chissà a chi starai pensando…», «perché hai messo il like alla foto di quello?», «dove stai e con chi stai?».

Incredibilmente il rapporto disperde molte energie in discussioni efferate, che spesso si chiudono con una potente pace sotto le lenzuola. La paura di perdersi lascia spazio alla conferma di aversi – fisicamente e mentalmente – e di conseguenza torna lo smalto sui sorrisi del sodalizio. Si passa da urlarsi contro di tutto a ripercorrere le tappe di 50 sfumature di grigio. Si passa dal non parlarsi per un giorno intero a sfogliare il kamasutra con le canzoni di Maluma di sottofondo. Un amore strano, psicopatico, ma vincente. Eppure, è un monologo. Il preludio d’ensemble inganna un po’ tutti, Attori compresi.
Arriva puntuale come un bombardamento della Luftwaffe su Londra la Fase Quattro:

La complicazione

Le Nubi sull’Immaginario del Soggetto e complessivamente sullo scenario costruito con l’Altro, possono arrivare da più direzioni della rosa dei venti. Facciamo un po’ di ordine. Una Nube può arrivare dalla separazione per lunghi tratti di tempo. Soggetto e Altro si separano causa università al nord o all’estero, causa lavoro al nord o all’estero. La tecnologia riesce supportare le due parti di mela divise: foto, video, chiamate, note vocali, messaggi in ogni ora della giornata: peccato che Skype e WhatsApp non riusciranno mai a sostituire la ricchezza sensoriale dell’epidermide. A questo punto uno dei due dovrebbe mollare rispetto alle proprie ambizioni future e rispetto alla propria visione di vita. Chi lo fa? Nessuno dei due.
Il Soggetto a La Mecca, l’Altro a New York: così si rimane perché il lavoro o lo studio obbligano una scelta netta e perché «la mia carriera e la mia felicità sono più importanti, tanto, come dicono le mie amiche o i miei genitori, “di ragazzi ce ne sono a bizzeffe”». I viaggi per venirsi incontro non bastano più, nemici nuovi aumentano la nebbia intorno alla coppia. Dopo l’arrivo di Sex and the city nella serialità televisiva, ogni ragazza si sente in diritto di avere un domani aizzato da brividi sempre più forti, emulando fiaccamente Marylin Monroe. Idem per l’uomo. Lui è cacciatore, si sente il don Giovanni di Kierkegaard. Comincia a insinuarsi tra le sue sinapsi l’idea che fare il rattuso da fidanzato sia un valore aggiunto al proprio superomismo. Crolla scioccamente. La lontananza lo tormenta e alla ricerca del limonamento fatuo si alterna ai blitz su You Porn.

Nubi devastanti possono arrivare da un tradimento di uno dei due Attori o peggio ancora dalla dipartita improvvisa di uno dei due. Casi estremi, sia chiaro, ma abbastanza diffusi. Torniamo al linguaggio. Nubi fitte possono provenire sovente dalle distrazioni. Quando il Soggetto dà priorità all’asta del fantacalcio, al torneo alla Playstation, alla partita della Longobarda o a qualsivoglia suggestione personale, trascurando l’Altro, lì perde totalmente la bussola del rapporto. L’Altro è insoddisfatto, si sente preso in giro, e ne prende consapevolezza grazie alle amiche. I nervi non resistono più, Lei sbotta: scrive al soggetto su WhatsApp tirando la corda della ghigliottina: «stasera ti devo parlare…». In un attimo tutti i nomignoli scambiati tra i due Attori evaporano (amò, cucciolo, patato, orsetto, cicci, ecc…), il clima è freddo, l’atmosfera minimal, le emoticon inesistenti.
La Fine è vicina, planiamo mestamente nella Quinta Fase:

Tra noi è finita

Le scenate, i pianti, i lapsus freudiani in pubblico e tanti aneddoti menati in questo frangente diventano acuminati e portano il Soggetto ad essere Scorticato. Adesso Lui è estremamente sensibile, qualsiasi cosa potrebbe ricordargli l’Altro, perché sa bene che sta per essere abbandonato. Che fare? Suicidarsi? Come il protagonista di Spirits dei The Strumbellars? Oppure, resistere. Ma a che prezzo? Egli vive in un desolato e impassibile spleen. Il Soggetto incontra per l’ultima volta l’Altro, ignorando che l’Immaginario della prima ora è purissima utopia (un ultimo harakiri). Nel tragitto che fa dalla sua dimora al luogo del confronto finale, focalizza bene i propri errori, rendendosi conto di aver fatto l’opposto di quello che Gaber professava in Quando sarò capace di amare. Le parole di Lei sono fin da subito al miele, ma taglienti, mortifere all’ennesima potenza. L’idea dell’Altro è la stessa di Fabrizio De André in La canzone dell’amore perduto: lasciarlo, riservandogli un bene sincero.
Ma il Soggetto non comprende e al ritorno a casa fa razzia sui social: cancella le foto di loro insieme, bloccandole addirittura i profili. Se mi lasci ti cancello, in pratica. Nel film di Michel Gondry – Premio Oscar nel 2005 –, Kate Winslet, mollata da Jim Carrey, decide di andare in una clinica per cancellare dalla propria mente di tutti i ricordi di Lui. Ci riesce. Ecco l’intento del Soggetto, che pleonasticamente ignora un dettaglio: proprio i ricordi dell’Altro saranno un bene preziosissimo da salvaguardare nel suo tortuoso percorso amoroso. Alla fine il Soggetto si dimostra testardo come un mulo e ricomincia da capo: vaga alla ricerca di un nuovo amore come l’olandese volante in Il vascello fantasma di Richard Wagner: miete le stesse pene da molo in molo e incamera un gelido senso di fervore nelle vene.

Perché frammenti di un monologo amoroso? Lo racconta bene Paolo Sorrentino in La grande bellezza, lo dimostrano gli amanti del Ventunesimo secolo toujours. L’amore è diventato un travolgente fuoco d’artificio: lo si accende con maestria, abbaglia con la sua luce originale, impaurisce con il suo rombo. Tutto meraviglioso, tutto svanisce. Rimane solo un caldo ricordo nell’inconscio. L’individuo odierno vuole conoscere a malapena il passato, gli interessa vivere al massimo delle proprie emozioni il presente, perché lo deve dimostrare al suo vicino di sventure. Ebbene sì, il futuro diventa un optional: le responsabilità di valore vengono dribblate alla Garrincha. Il mantra è sempre lo stesso: divertirsi, mostrarlo. Stare bene, godere. Dirlo a tutti. Un figlio? Lungi da me, al massimo prendo un cane o un gatto. Matrimonio? È sempre troppo presto, ognuno ha i suoi spazi e una corrispettiva libertà.

La Filumena Marturano di Eduardo De Filippo sarebbe agghiacciata da questo Immaginario fragilissimo. Certo, l’influenza della madre è rimasta la stessa, il complesso di Edipo è sempre presente. I ragionamenti lacaniani sulla capacità di ricercare le caratteristiche del precedente amore in quello futuro sono le medesime. Le paranoie e le schizofrenie triviale sono addirittura amplificate a causa dell’era digitale. E cosa è cambiato allora? Si ama solo se stessi, vero Altro del Soggetto dell’avvenire impersonale. Questa conclusione determina un orizzonte apocalittico: le poesie d’amore di Verlaine, Shakespeare o Rimbaud non verrebbero mai comprese. Nemmeno quelle di immacolata sofferenza di Baudelaire: la sensibilità è fagocitata dall’Io. L’amore platonico de Le notti bianche di Dostoevskij sembrerebbe una barzelletta oggi, poiché la tangibilità fisica e fallica è il tutto. «Io devo essere soddisfatto, ma senza fatica, o tutto subito o niente». Amore veniale da condividere in mainstream: anche un genio come Giacomo Leopardi si sarebbe rifiutato di sognarlo.

La giusta chiosa a questo monologo la devono dare due prodotti artistici dell’epoca amorosa in questione:

Siamo morti a vent’anni, Il Chile.
Ma tu cammina, cammina, accumula strada lasciando che tutto si muova, Maldestro.

 

Annibale Gagliani-L’intellettuale dissidente

Il silenzio come prima parola e come arresto atemporale nel saggio di Massimo Baldini ‘Elogio del silenzio e della parola’

Non sono particolarmente felici gli appellativi che la società del ventunesimo secolo raccoglie tra sociologi, filosofi e antropologi. C’è chi la chiama società della stanchezza, chi liquida, qualcun altro società del consumo; una necrologica lista della spesa. Uno sviluppo sempre maggiore della tecnologia e della tecnica, direbbe un Alexandre Koyré che sarebbe alquanto anacronistico citare, nato per sfoltire i problemi dell’essere umano pare averli moltiplicati, aver creato un morbo che si è espanso tra parti dell’essere umano di cui si è trascurata l’importanza: la soggettività, la vitalità, la felicità.

Singolare come il mondo filosofico condivida la definizione di un’era post-moderna, piuttosto che contemporanea. Siamo fermi ancora lì, alla crisi dei valori focalizzata da Hobbes, che sanciva l’inizio della modernità e la considerazione dell’uomo nella sua nucleareità, per arrivare a Nietzsche, alla caduta abissale nella non verità del tutto, nell’artificialità della ragione e dei valori che ne derivano. Premessa la situazione alquanto tragica davanti alla quale si trova l’essere umano, un dato di fatto incontrovertibile è che la nostra società è saldata fortemente alla comunicazione, o almeno pare esserlo. Negli ultimi 15 anni le possibilità di comunicare si sono moltiplicate in modo burrascoso e la prima grande conseguenza è stato un radicale cambiamento della prassi comunicativa. Ne hanno risentito il lavoro e il mondo della produzione, la politica, la scuola e i rapporti tra le persone.

La rapidità con cui si risponde a un messaggio, ad una email o ad una videochiamata è l’efficienza che ognuno di noi ha all’interno dei rapporti comunicativi, destabilizza e non poco l’idea che gli altri si fanno di noi e del nostro interesse. La possibilità di parlare con chiunque e dovunque, di studiare e lavorare telematicamente sono opportunità di cui si può usufruire e difficilmente si trova giusto, con tutte le possibili e pericolose sfaccettature che ne derivino, ritenerle essenzialmente negative. Più che puntare il dito rabbiosamente verso la tecnologia e proporre un improbabile ritorno al passato, dello stesso peso di un ritorno alla vita nei campi, un importante passo avanti consisterebbe in una presa di coscienza individuale, unita e costante. Prendere consapevolezza che questa nuova e inarrestabile possibilità di comunicare arreca con sé dei pericolosi effetti collaterali. Proseguendo le linee guida tracciate da Umberto Eco, secondo cui internet ha dato diritto di parola agli imbecilli, si potrebbe radicalizzare dicendo che internet ha imbecillizzato la parola.

La condizione di poter dire la nostra si è trasformata in un obbligo di dover dire necessariamente qualcosa. La necessità di parlare anticipa la finalità stessa di ciò che si dice, anticipa il concetto, anticipa il pensiero stesso riducendolo a oggetto e mero succube. Il parlare è diventato per l’uomo del ventesimo secolo una schiavitù come l’alcool dice Susan Sontag in “Io, eccetera”, un parlare monologico, rabbioso e soprattutto nichilista. La terza guerra mondiale che si combatte giornalmente sotto i commenti di Facebook è diventata insostenibile, ciò che stupisce è la dedizione, il tempo e la tenacia che si dedica a tale milizia. E poi cos’è? Impegno politico? Ribellione? Rivoluzione? Espressione proporzionata dei nostri diritti democratici? L’attenzione che si dedica alla lettura dei commenti è ormai uguale o maggiore a quella che si dedica alla lettura del post, e dell’articolo in questione. Cambiando il modo di parlare, cambia anche il modo di leggere, di ascoltare. Figure come quella del giornalista e del filosofo si stanno via via sbiadendo (anche) perché si è ormai diffusa nell’aria un’innata convinzione da parte del commentatore seriale di poter rivestire lui stesso tale vesti, uno scambio di parti tra pensatori e opinionisti, la cui differenza è sempre più mascherata. Man mano che diminuisce il prestigio del linguaggio, citando ancora la perspicace Sontag, aumenta quella del silenzio. Dopo una premessa quanto mai pindarica e necessaria, siamo giunti al soggetto della nostra discussione. Più che tentare un improbabile percorso di riabilitazione della parola, cercando di disintossicarla dalla politica, dagli slogan e dalle falsificazioni, probabilmente conviene chiedere soccorso all’altro grande protagonista del nostro complesso e stratificato linguaggio, il silenzio. Massimo Baldini in Elogio del silenzio e della parola afferma che la causa principale del nostro malessere e della confusione sociale e linguistica di cui siamo preda è l’aver disimparato il silenzio. Inquinamento ambientale, inquinamento acustico, ma anche e soprattutto inquinamento linguistico.
Baldini designa magistralmente un secondo millennio fatto di uomini che vivono con la paura del silenzio e, nel contempo, con la nostalgia del silenzio, hanno nostalgia del silenzio perché vivono immersi nel rumore, perché il loro e l’altrui parlare è sovente un parlare degradato, vanamente loquace, perennemente distratto. Chiacchiere, semplici chiacchiere, parole improduttive e inconsistenti, che hanno nostalgia delle parole nate dal silenzio, cioè di parole parlanti che non scivolino sull’uomo affaccendato, un linguaggio che non sia un parlare puramente palatale.

Secondo Baldini in realtà il problema della parola è molto più grave di quanto detto in precedenza, la parola si è interamente sostituita con la chiacchiera, la chiacchera del teologo non è diversa da quella del politico o del barbiere, tutto è livellato, tutto è ridotto a turpiloquio. In questo contesto catastrofico si delinea l’importanza potenziale del silenzio. Una condizione, una posizione, non una fase di passaggio ma forse un punto di arrivo, necessario per la purificazione delle relazioni umane, e delle interazioni con il nostro Io. Bisogna necessariamente premettere che è di fondamentale importanza porre una netta distinzione tra silenzio e mutismo. Chiariamo fin da subito che il silenzio è; è comunicazione, è parte integrante del linguaggio, è significante direbbe Lacan, il che è testimoniato dal fatto che il silenzio viene sempre interpretato in un determinato modo. Il silenzio è silenziare noi stessi, ma non annullarsi. Da qui nascono le numerose accezioni del silenzio e le sue diversificazioni: il silenzio del medico non è quello del paziente, il silenzio del musicista non è quello dello spettatore. Per produrre silenzio non bisogna semplicemente non parlarlo, non dirlo, bisogna viverlo, interamente.

Ma perché scegliere il silenzio? Per odio verso la parola? Baldini stesso risponde a questo quesito: non si deve scegliere il silenzio per rabbia verso la parola, ma per disprezzo per la parola anonima, irresponsabile, impersonale, inautentica e per amore per la parola originaria, per quella parola che è rimasta fedele al silenzio che la sorregge. Ma tendere verso il silenzio non è cosa facile, soprattutto oggi giorno. Siamo portati a considerare il silenzio come assenza, come mancanza di rumore, come nulla, soprattutto siamo spaventati dal silenzio. L’uomo moderno, dice Panikkar nel “Il silenzio di Dio”, non sa più stare solo, né sopporta il silenzio. Nell’immensa solitudine a cui la vita frenetica, il progresso e anche l’architettura contemporanea lo costringono, egli cerca nervosamente la folla e tenta di affogare il proprio sgomento immergendosi in rumori di ogni sorta. Più che chiaro: il silenzio ci fa paura, lo rendiamo sinonimo e risultato della nostra solitudine, per colmarlo accendiamo la televisione quando siamo a casa e la radio quando siamo in macchina, abbiamo il terrore di consapevolizzarci di star trascorrendo anche solo un minuto in silenzio, il ché è assurdo.

Bisognerebbe rieducare al silenzio, che non vuol dire sottomissione e mancanza dialogo, e neppure accettazione incondizionata di ciò che ci accade. Bisogna rieducare al silenzio poiché, dice anche Sertillanges, la parola ha peso solo quando si sente in essa il silenzio. Il silenzio come misura, come un’autocensura felice, come maestro di vita. Il silenzio rappresenta l’unica isola linguistica a cui attraccare nei momenti del bisogno, quando si è giunti al confine del dicibile, quando non c’è davvero nient’altro da dire, quando comprendiamo che non si tratta semplicemente di “limiti del linguaggio” ma di linguaggio come limite. Un limite che è assiomaticamente delineato dal celebre aforisma numero 7 del “Tractatus logico-philosophicus” di Ludwig Wittgenstein: su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere. Pensare è pensare in parole, ciò che non può essere pensato a parole non può essere detto. Il linguaggio tenta di esprimere se stesso ed è qui che trova un muro insormontabile, il linguaggio non può dirsi. Il limite del linguaggio è l’impotenza di descrivere un qualcosa se non avvalendosi della sua proposizione (la sua traduzione).

Come posso dire una mela se non chiamandola mela? Se dicessi che è un frutto talvolta verde e talvolta rosso ci si potrebbe, prima o poi, arrivare, ma non esistono strade sicure con cui si possa definire la mela nella sua totalità, nella sua essenza. Per Wittgenstein, scrive Hadot in “Wittgenstein e i limiti del linguaggio”, il mondo coincide con il linguaggio, e ciò è una struttura insormontabile […] il linguaggio è in qualche modo limite di se stesso e la conclusione del Tractatus è senza dubbio un appello al silenzio. La posizione del primo Wittgenstein viene chiamata non a caso da Hadot “la strategia del silenzio”, nelle “Ricerche filosofiche” il filosofo tedesco chiarisce che “tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera, io nel mio libro l’ho messo saldamento al suo posto, semplicemente col tacerne”. Quello descritto da Wittgenstein è un silenzio marmoreo, invalicabile. In una lettera a Ludwig von Ficker, Wittgenstein, scrivendo riguardo la complessità del “Tractatus” (che egli stesso riteneva un’opera difficile e a tratti incomprensibile) dice che il lavoro per la sua realizzazione consistette in due parti: il lavoro di quello che ho scritto e il lavoro di tutto quello che non ho scritto. Risuona stupendamente la Lettera VII di Platone:

non ho mai scritto nulla sull’oggetto a cui mi dedico.

Il silenzio può facilmente apparire come una forma di impotenza, di inazione, allo stesso tempo vi sono scrittori e poeti che tendono ad esso. Il silenzio dal punto di vista artistico e umano rappresenta sorprendentemente una finalità, non una sosta ma un arresto atemporale. Il suicidio linguistico fu per certi versi intrapreso da Verlaine, che nella raccolta poetica “Sagesse” chiede disperatamente “Datemi il silenzio!”, e del tutto ottenuto dal suo celebre compagno Rimbaud, che terminò di scrivere ai soli 18 anni. Cercando di scalfire il più possibile l’idea di un blocco da scrittore, bisogna comprendere che quest’ultimo è a contatto con il silenzio quanto un pediatra con i bambini, lotta quotidianamente con il silenzio e talvolta, come nel caso del genio di Rimbaud e Hölderlin, ci si casca dentro, irrimediabilmente, volontariamente. Nel silenzio vive il personaggio/autore del romanzo Otto-Novecentesco. Alfonso Nitti, Moscarda, il turbato giovane Törless e il principe Myskin sono personaggi che, succubi del moderno, vivono all’interno di se stessi, del proprio silenzio, vi ci trovano riparo e opportunità di ascoltarsi, dando vita a romanzi che altro non sono che la dettatura di tali silenzi. Per lo scrittore il silenzio è una mela che si è sempre invaghiti di azzuffare, una strada sbagliata che si è sempre voluta percorrere. La poesia, dice Picard, nasce dal silenzio e ha nostalgia del silenzio.

Se c’è una cosa che continuamente mi infastidisce, rispetto alla scrittura, è che davvero non mi sembra di raccapezzarmi dentro il linguaggio: non mi sembra mai di raggiungere la chiarezza e la concisione che desidero
(I’intervista estesa a David Foster Wallace, di Larry McCaffery nel 1993)

Risuona tra il niente e la parola Lo steddazzu di Cesare Pavese, le descrizione del sentimento che si prova guardando il mare, la richiesta di senso, di sussistenza, di risposte, di garanzie e come unica risposta ricevere un silenzioso, quanto pacatamente ciclico, scontrarsi delle onde. Non si va oltre la consapevolezza, la coscienza che

non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno in cui nulla / accadrà, non c’è cosa più amara / che l’inutilità […] La lentezza dell’ora / è spietata, per chi non aspetta più nulla. / Val la pena che il sole si levi dal mare / e la lunga giornata cominci? Domani / tornerà l’alba tiepida con la diafana luce / e sarà come ieri e mai nulla accadrà. / L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.

La figura di Pavese è facilmente accostabile a quella dell’esistenzialismo, non a caso nel ’60 Diego Fabbri pubblicò un’opera dedicata a Pavese, “Il vizio assurdo”, il vizio assurdo che è quello del suicidio, pensiero costantemente presente nella mente di Pavese, costantemente rimandato e tenuto in un cassetto come un pacco di sigarette, un vizio a cui Pavese non riuscirà a dire di no. Da notare l’aggettivo assurdo, in onore di Camus e del lavoro filosofico affrontato dall’algerino riguardo il tema del suicidio. Il suicidio metafisico, come quello fisico, è una causa del silenzio, di un silenzio che diventa insostenibilmente leggero, di un silenzio che risulta essere l’unica risposta alle domande, o meglio, alla domanda. L’assurdo nasce dal confronto fra la necessità e il silenzio del mondo nel leggendario “Mito di Sisifo, ma non diversa è la strada tracciata da Sartre in “Essere e nulla”, l’uomo si trova solo, girovagando per questo silenzio mostruoso […] condannato per sempre a essere libero.
Il silenzio per l’esistenzialista è un momento fondamentale per il procedimento filosofico, forse il più importante. I due momenti cardini sono la consapevolezza dell’inutilità del tutto e l’accettazione di questa, potremmo dire quasi incondizionata, ma non sarebbe del tutto opportuno. Nonostante tale movimento sarà lapidato da critica e analitici, l’esistenzialismo, e lo spiega molto bene Sartre in “L’esistenzialismo è un umanismo”, non è vero che non usufruisce a pieno della ragione, è semplicemente consapevole dei forti limiti che la ragione umana ha di cogliere le cose, c’è un punto, il muro, davanti al quale poco si può fare, anzi nulla si può fare, se non accettare la sua imponenza, la sua enorme grandezza inconfrontabile con la nostra nullità. Tale è il momento del silenzio, il momento dell’accettazione, il momento in cui Sisifo diventa Sisifo.

Il silenzio come accettazione, come patto, come compromesso tra sé e sé, tra sé e l’inesistente. Spogliato degli attributi di passività e di mollezza con cui la società dell’utile lo ha travestito in questi anni, riscopriamone l’abisso, addentriamoci dentro, perché non c’è più alta forma di ribellione che la rassegnazione, spesso non c’è modo migliore per cambiare le cose se non cambiando se stesso, rivendicando un principio tipicamente stoico.

Non dico di ridare importanza alla Parola, ma almeno alle parole!

direbbe Carmelo Bene, ricominciare a dosarle, a limare questa propensione che ci è stata iniettata di abusarne, di drogarla. Una restaurazione del silenzio, e poi il silenzio potrà essere interrotto.

 

http://www.lintellettualedissidente.it/filosofia/silenzio-come-prima-parola/

La realtà è una fake news

I social network e il web sono ufficialmente luoghi insicuri. La crociata dell’establishment contro il sistema delle cosiddette “fake news” è stata lanciata dal palco della Leopolda 8. Il frontman è Matteo Renzi ma la regia è di un certo Andrea Stroppa, ragazzetto di 23 anni che ha lavorato come capo del reparto ricerca e sviluppo di una società di consulenza, la Cys4, di cui Marco Carrai, fedelissimo del segretario del PD, era socio, supportato dalla piattaforma Buzzfeed. Peccato però che l’inchiesta – firmata a quattro mani da Alberto Nardelli e Craig Silverman – che presumeva svelare l’intreccio tra movimenti nazionalisti e populisti con una rete di siti internet rei di fabbricare e diffondere “fake news” abbia ricondotto – come ha ammesso lo stesso New York Times qualche giorno dopo – a Davide e Giancarlo Colono, proprietari attraverso le loro società con scopo di lucro ma senza alcun collegamento partitico di DirettaNews e iNews24 (con annesse pagine Facebook con milioni di “mi piace” chiuse senza preavviso dallo staff di Zuckerberg!), due quotidiani online che non pretendevano fare libera informazione ma raccogliere clic riportando (e non fabbricando!) notizie e fatti, il più delle volte, con titoli incendiari e strillati. Se ci si pensa bene non c’è nulla di sensazionalistico in tutta questa storia dato che ilclickbaiting – una tecnica per attirare il maggior numero possibile d’internauti per generare rendite pubblicitarie – viene sfruttata da tutti, persino dalle testate “autorevoli”, da Repubblica al Corriere della Sera, da Il Giornale a Libero, dal Fatto Quotidiano a La Stampa. Insomma se la legge fosse uguale per tutti oggi non potremmo più informarci in rete. Ma andiamo avanti.

La produzione di “fake news” è una questione ben più seria che va oltre il flusso statistico e diventa pericolosa quando viene inserita in un’agenda giornalistica in funzione di un’agenda politica (ad esempio l’invenzione delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein per giustificare l’intervento miltiare statunitense in Iraq oppure l’enfatizzazione dell’incremento dello spread per far cadere il governo Berlusconi nel 2011 e far insediare quello tecnico di Mario Monti). In questo caso specifico, a pochi mesi dalle elezioni politiche in Italia e, vista la vittoria di Donald Trump contro il sistema dell’informazione mainstream negli Usa, serviva una capro espiatorio – due siti apartitici con milioni e milioni di utenze – da gettare nella spirale della liquidazione coatta (di “censura” non è corretto parlarne per quanto non ci sia stata la possibilità di replica sui social) per spianare la strada ad una vera e propria strategia che mira ad arginare il dissenso mediatico camuffandola come campagna “angelica” – con il supporto di Facebook – contro le bufale. In Senato sarebbe già pronto un disegno di legge presentato dal Partito Democratico a firma del capogruppo Luigi Zanda e di Rosanna Filippin, per contrastare il fenomeno “della diffusione su internet sui social network di contenuti illeciti e delle fake news”.

Un ddl che sarebbe condivisibile oltre che legittimo se non fosse in realtà un meccanismo sofisticato di auto-celebrazione e di auto-difesa funzionale alla strategia scritta sopra oltre che a scaricare la produzione di notizie false sul web ed evitare furbescamente il mea culpa. Perché diciamocelo questi presunti “nemici della disinformazione” hanno inquinato il dibattito politico-culturale per tutti questi anni con notizie orientate, faziose, manipolate, commissionate, silenziate, copiate e incollate senza nessuna verifica della fonte. Di esempi se ne potrebbero fare all’infinito ma il fact-checking ferisce a targhe alterne, quando fa più comodo, a colpi di algoritmi studiati da nerd rinchiusi nelle università che sul campo non ci sono mai andati perché la realtà, impietosa, cruda, con tutta la sua violenza simbolica, non esiste.

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

“La strada verso casa”, “l’attesissimo” romanzo del mediocre Fabio Volo

Nonostante il nome d’arte (all’anagrafe Bonetti), il nostro “NON SCRITTORE” Fabio Volo, come ama lui stesso definirsi, ha i piedi ben piantati per terra e non tre metri sopra il cielo. Ma a ben pensare in realtà, qualche caratteristica “mocciana” l’ha ereditata: sfornare un gran numero di romanzi in un tempo ristretto, romanzi che a detta sua descrivono la società, ottenendo un successo tale da battere anche Dan Brown… un vero fenomeno!

Inspiegabile, addirittura invidiato, Fabio Volo, il trentasettenne bergamasco ex panettiere, ex barista ed ex Iena partner di Simona Ventura, riesce ancora una volta a stupirci pubblicando un nuovo romanzo dal titolo “La strada verso casa” (Mondadori).

Si racconta la storia di un amore tormentato e  di due fratelli,  Andrea e Marco, caratterialmente diversi e lontani, ma che gli eventi costringono ad avvicinarsi, a capirsi di nuovo e a confrontarsi con un inconfessabile segreto di famiglia che li segue come un fantasma, per una narrazione che procede tra la retorica sentimentale e abbondanza di luoghi comuni e con l’intento di emozionare e commuovere il lettore, spingendo l’acceleratore sul ‘fattore nostalgia’.

Il tour promozionale di questa ultima fatica letteraria che porterà Fabio Volo in giro per l’Italia è già partito ed è possibile non solo prenotarlo in tutte le librerie, ma anche  in formato e-book. Grande fervore dunque per i suoi numerosissimi fansche alla notizia, in meno di dieci minuti sono riusciti a fargli raggiungere cinquemila “mi piace”(la nuova frontiera) al suo post di Facebook.

Nonostante la consapevolezza di essere distante anni luce dall’ Olimpo della letteratura, Volo riesce comunque a vendere milioni di copie, un continuo successo che può essere spiegato solo su base empirica.

Il giornalista e critico televisivo Aldo Grasso ha detto di lui che qualsiasi cosa faccia, “sente la vanga, la provincia che avanza”. Ma a Fabio Volo, dall’alto della sua torre d’avorio, quella definizione è piaciuta tantissimo, al punto da appenderla al muro in un quadretto. “L’ironia è fondamentale” ha sempre sostenuto  il non-scrittore , “la vita è stata fatta per essere semplice…” e ancora  “…da ragazzino non ho concluso mai nulla, anche se la lettura mi ha sempre aperto la mente, ma la mia metamorfosi può dirsi compiuta solo grazie ad una persona: Silvano Agosti… i suoi romanzi mi hanno cambiato la vita”.

Con semplicità e creatività Volo è andato avanti, col volto, lo stile e il talento di uno qualunque, e come spesso ha ripetuto “Chi va in mare, naviga. Chi sta a terra, giudica. Io navigo!” e volendo utilizzare termini leopardiani potremmo dire che “il naufragar gli è dolce in questo mare!”.

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