Letteratura e religione: Dio nella letteratura di Steinbeck e Benson

Robert Hugh Benson e John Steinbeck: due personalità opposte da mettere a confronto, due visioni completamente contrastanti riguardo il pensiero religioso e Dio. John Steinbeck è ancora oggi uno dei più apprezzati e letti scrittori vissuti nel Novecento, mentre Benson è stata una figura curiosa, scrittore e pastore anglicano, figlio dell’arcivescovo di Canterbury.

Il pastore Benson abbraccia inizialmente la fede anglicana, ma un viaggio in Oriente gli permetterà di rendersi conto della vera natura della sua religione: comprende che la Chiesa anglicana, legata a interessi nazionalistici, non aveva nulla di universale. Al contrario capisce che la Chiesa di Roma si erge al di sopra di tutte le altre, predicando la civiltà a tutti i popoli. Andando avanti nei suoi studi, in Benson affioravano sempre più contrasti intimi: da un lato (come egli stesso scriverà nelle sue omelie e lettere) sentiva richiamarsi dalla Chiesa Anglicana per “accenti patetici e affettuosi”, lo avvinceva “con tutti i legami della parentela e dell’amicizia”, ma dall’altro affermava ormai che non poteva “più dubitare fosse la vera sposa di Cristo, imperiosa e dominante, avvolta in un raggio di luce abbagliante”.

In The Lord of The World , pubblicato nel 1907, lo scrittore  presbitero inglese si preoccupa di tirare le fila delle sue teorie, di renderle fruibili presso un pubblico più vasto. È il romanzo con cui Benson si propone di mettere in guardia tutti gli uomini: la la religione cattolica sta iniziando ad essere scalfita con una altra religione: la religione del benessere, molto più rassicurante delle parole di Dio, ma che non è nutrimento per l’anima, bensì per il corpo, per l’effimero. Un romanzo ucronico su di un mondo dominato dal Partito Comunista (salito al potere sempre nel 1927) in cui l’estremo progresso del pensiero (oltre che della tecnologia) vuole assicurare la nuova ideologia della felicità tramite la completa soddisfazione dei sensi, dell’Uomo. Benson traccia le linee quindi di un cristianesimo relegato ai margini, che non conta quasi più. Nel corso della narrazione il punto di svolta sarà affidato alla comparsa di Giuliano Felsemburg, trentatré anni (ovviamente non una coincidenza) che scioglierà la difficile tensione nata tra Occidente e Oriente, prossimi alla guerra.

Abilissimo nella diplomazia, Felsemburgh salva l’umanità dalla prossima e definitiva “guerra delle guerre”: grazie a lui non ci saranno più violenze, niente più guerre. Felsenburg quindi viene eletto Presidente d’Europa: a tutti gli effetti appare come il nuovo Gesù. Il nuovo “salvatore” del mondo propugna una “grande fratellanza universale”, attraverso il nuovo culto dellospirito del mondo”. Ora il mondo crede a un Dio che non resta nascosto, che non è morto, ma bensì vivo, che ha salvato le genti e vuole per tutti gli uomini felicità e fratellanza. Il soprannaturale quindi muore, l’umanità tutta deve affidarsi al suo nuovo profeta in carne e ossa. Viene poi il momento dello scontro finale, con la comparsa di padre Franklin, che, una volta diventato Papa di un cattolicesimo vittima di dolorose persecuzioni, affronterà l’anti Cristo Felsemburg nella vera battaglia finale.

Secondo gran parte della critica The Lord of the World è stato scritto da Benson per glorificare la Chiesa di Roma, per ammonire sui tempi moderni e sullo smarrimento della coscienza a cui l’uomo moderno va in contro. L’anti Cristo di Benson trionfa in terra, ma verrà sconfitto e sarà condannato per l’eternità: il suo regno infatti era tutto quello che si contava nel mondo terreno. Padre Franklin, l’ultimo papa, è l’ultimo avamposto del cattolicesimo, che alla fine vince proprio perché non crede nella religione del benessere di Felsemburg, per cui, in fin dei conti, si muore con il corpo: il cattolicesimo superstite di Franklin invece assicura l’immortalità dell’anima.

L’uomo al centro di tutto: nel mondo immaginato da Benson la carità non ha più valore, l’umanità vive abbacinata da un materialismo e un socialismo estremo. Si deve essere tutti felici e tutti fratelli, senza più guerre, l’uomo deve preoccuparsi del qui e ora. Per contrasto, quindi, in The Lord of the World, Benson vuole ribadire che al centro di tutto non c’è l’uomo, ma Dio, e che solo grazie al suo amore l’uomo potrà elevarsi dalla misera condizione terrena, potrà distogliere lo sguardo da se stesso e puntarlo verso il cielo, verso la salvezza dell’anima.

Per quanto riguarda Steinbeck invece, la vita non è stata per niente caratterizzata dalla religione né dal rapporto con Dio: cronista di guerra durante la seconda guerra mondiale, ha sempre, nelle sue importanti opere, privilegiato il realismo, la cronaca e i contorni nitidi della realtà del tempo in cui è vissuto. Nel 1962 gli viene assegnato il Nobel per la letteratura proprio per “Per le sue scritture realistiche ed immaginative, unendo l’umore sensibile e la percezione sociale acuta”; lo scrittore americano è ritenuto uno degli esponenti di quella “generazione perduta” indicata da Hemingway e Stein, quella generazione di giovani scrittori che ha prestato servizio nella guerra. Steinbeck rivolge la sua attenzione soprattutto verso l’America delle contraddizioni, delle lotte per la sopravvivenza quotidiana, ovvero quei temi che meglio sono supportati dalla sua scrittura realista e quasi da giornalista.

To a God Unknown, pubblicato nel 1933 e tradotto da Montale, è una delle sue opere meno conosciute, forse la sua opera più misticheggiante: è la storia di, Joseph Wayne, che lascia la vecchia fattoria del Vermont per traversare l’America e stabilirsi insieme ai fratelli in una fertile vallata della California. Le vicende della famiglia, anche dolorose, fanno da costante sfondo all’idea panteistica della natura, dell’appartenenza alla madre terra. Una terra che può essere la fonte di gioie o di sofferenze, che può dare la vita o la morte, che può essere crudele o compassionevole. Una forza impalpabile, ineffabile, diafana, inafferrabile, che si attualizza nei frutti della terra: è la forza di un Dio sconosciuto che rende tutto questo possibile? Che rende la terra capace di provvedere all’uomo? Steinbeck se lo domanda, anzi ci induce a questa domanda, ci trasporta in questo strano e ineffabile pensiero durante tutta la narrazione, grazie ai suoi personaggi. Joseph poserà il suo agognato figlio appena nato tra i rami più bassi della sua quercia, per devozione alla forza misteriosa che domina quei luoghi e che ne permette la vita: l’albero verrà poi ucciso da Burton, fervido credente in Dio, nel tentativo di distruggere tutto ciò che il suo Dio, invece, condanna. Dopo ciò sulla fattoria di Joseph si abbatterà una pesante siccità, portatrice di morte: la giusta punizione del Dio sconosciuto per averlo oltraggiato? Ma esiste un Dio? Un Dio nascosto tra le pieghe della natura?

 

 

“Figlio di Dio”, l’essenzialità di Cormac McCarthy che rabbrividisce il lettore

Comarc McCarthy

“Nient’altro che un figlio di Dio come voi, forse” si legge nella prima pagina del romanzo “Figlio di Dio” (1974) del grande scrittore americano Cormac McCarthy. Una presentazione essenziale, scolpita nella pietra quella di Lester Ballard, uno dei tanti poveri bianchi  che popolano le catapecchie del Sud rurale e precisamente della contea di Sevier, nel Tennessee osteggiata dalla natura. Tuttavia gli abitanti sono abituati alla sua violenza, alle alluvioni, alle tempeste, agli animali da preda, cosi come lo sono alla miseria, all’incesto, alle pubbliche impiccagioni, alla breve comparsa di uno sceriffo o di una stanza d’ospedale, che sembrano essere la normalità, anzi quasi la regola.

Anche Lester Ballard è un “animale” che si aggira tra i boschi, un povero disadattato che diventa serial killer, violentatore, feticista, necrofilo; un uomo solo nei grandi spazi naturali che sembrano assecondare la sua bestialità. Ma il mondo che lo circonda non è meglio di lui, gli uomini con cui ha a che fare non sono meglio di lui, ma allora cosa ha di diverso rispetto a chi abusa delle proprie figlie, o degli sciacalli che approfittano delle alluvioni per fare razzie? Paradossalmente nulla, perché è un figlio di Dio anche Lester Ballard come afferma una delle tanti voci narranti che osservano commentano questo museo degli orrori con distacco.

Ballard pian piano scivola della pazzia ma proprio in questa pazzia lo scrittore vede qualcosa di straordinario, perfino di sublime: la capacità di resistere e poi di sfidare la natura e le sue avversità, e quindi sfidando anche Dio, prendendosi gioco di lui. Non potendo eliminare la natura malvagia intorno a sé, se ne nutre, come si nutre di cattivo whisky  di contrabbando e di improperi; la potenza della natura diventa un tutt’uno con la sua anima nera.

Sembra  essere  proprio  questa, l’unica via d’uscita  secondo Ballard  per sopravvivere  in una realtà sconfinata dove la legge è pressoché assente, dove vigono regole primitive, dove la gente deve già pensare a come difendersi dalle ostilità della natura, perde progressivamente ciò che ci rende uomini.

“Figlio di Dio” è un inno alla morte, dove non c’è né speranza né redenzione: il protagonista è un “Essere per la morte” per dirla alla Heidegger ma essendo consapevole, in un certo senso, di appartenere alla natura, lottando contro di essa e contro Chi la determina. Ed ecco che attraversa un torrente impetuoso senza saper nuotare con il suo immancabile fucile, curvo sotto il peso del materasso zuppo, ma riesce comunque a cavarsela. Passa un gelido inverno in una caverna, striscia nel fango, soffre la fame e la sete, dopo che la sua baracca ha preso fuoco. Emerge dal buio e sopravvive. Alle orecchie delle donne uccise sussurra tutto quello che non è mai riuscito a dire a nessuna, perché tutte lo hanno sempre respinto. Ballard si aggirerà per i boschi e per le montagne, vestito degli sgargianti abiti femminili delle sue vittime, con il volto dipinto, abominevole e disgustoso; e finalmente gli abitanti della contea realizzano che è il momento di agire.

“Figlio di Dio” è un “Silenzio degli Innocenti” ante litteram che rabbrividisce il lettore, con il suo stile crudo, solenne, secco, fatto di capitoli brevi,con descrizione dei luoghi dettagliata; una marcia funebre, una storia atavica e solitaria il cui senso di morte trafigge come un pugnale ogni singolo elemento naturale, senza autocompiacimenti e retorica.

Dopo “Il buio fuori”, “Meridiano di sangue”, “Cavalli selvaggi”, “Non è un paese per vecchi” (portato sugli schermi dai fratelli Cohen) e “La strada” che ha vinto il Premio Pulitzer nel 2007, Cormac McCarthy sorprende con Figlio di Dio, un altro capolavoro, il quale, nonostante la violenza, la sua crudezza, la mancanza di speranza, è capace di insospettate delicatezze; la storia è un pretesto per dire altro, come ha sempre fatto lo scrittore, mettendoci di fronte al male, alla perdita dei valori che rendono tale un essere umano, quasi volesse avvertirci, con un’opera cosi disturbante, di quello che rischiamo di diventare. E per capirlo bisogna leggere romanzi come questo che lasciano senza scampo, come la fine riservata a Ballard, giusta e logica.

La grandezza del romanzo sta, oltre che nel tipo di scrittura adottato, nel raccontare una storia tragica con un criminale che tutti avremmo giustamente disprezzato nella società in cui viviamo, ma conducendoci fino all’ultima pagina e quindi fino alla fine della vita del protagonista, rabbuiendoci, ma senza indignarci, perché Mc Carthy lo presenta già come uno sconfitto, un fallito ribelle, incapace di essere Uomo, all’interno di quella  macchina perfetta chiamata natura. Probabilmente, ciò rappresenterebbe, secondo l’autore americano, anche un fallimento sia dell’essere umano, che di Dio stesso. L’attore e regista James Franco ha tratto da “Figlio di Dio” l’omonimo film, in concorso a Venezia 2013.

 

Cos’è un best seller?

Erroneamente si pensa che il termine “best seller” (si prenda no in considerazione i vari King, Grisham, Roth, Miller, ecc..) indichi i libri più venduti; in realtà sta a significare “libri meglio venduti”. Ma cosa stabilisce il successo di un libro, e quindi fa di esso un best seller? Senza dubbio un fattore importante è costituito dalle strategie di marketing e dal controllo, o meglio, manipolazione del mercato per la promozione del libro ma, in realtà, non è propriamente cosi.

Sono le storie stesse a decretare o meno il successo di un libro che  oggi è da intendersi non più come opera letteraria ma come testo, mezzo di comunicazione in cui sono presenti vincoli di semantica, affinché sia chiaro al lettore. Quanto più la storia è aperta, ovvero universale, in cui tutti possono riconoscersi allora maggiore sarà il successo, un testo stereotipato quindi, con un linguaggio chiaro e che trasmette forti emozioni, che ha poco a che vedere con il letterario o il poetico ; una sorte di specchio in cui il lettore può riflettersi e compiere un viaggio mentale ed emotivo insieme ai suoi protagonisti.

A questo proposito trova pieno riscontro la “teoria” secondo la quale la letteratura sia polisemica e che vanta il maggior numero di sostenitori; tuttavia non sempre un libro di successo corrisponde necessariamente ad un libro di qualità, si veda l’esempio recente  di “Cinquanta sfumature di grigo”dell’inglese E.L. James (pseudonimo che nulla ha a che vedere con  Henry James), romanzo “erotico” , scontato, superficiale, con dialoghi ripetitivi, infantile, grottesco. Sarebbe troppo facile accusare la scrittrice di aver fatto leva sul sesso per guadagnare più facilmente, sebbene sia una tematica sicura, ma la verità è  che non c’è traccia di tecnica narrativa, di talento, di inventiva che sembra ricalcare il successo cinematografico di “Twilight” o di “Tre metri sopra al cielo”. Come spiegare un simile successo se non dal punto di vista sociologico? Si cerca soprattutto evasione, non riflessione ed originalità; l’abile strategia promozionale, soprattutto nel web, ha incuriosito  ed attirato moltissime persone. Ma la lista dei migliori/non migliori venduti è abbastanza lunga e sarebbe anche il caso di fare un mea culpa per la mancanza di volontà di leggere un romanzo più impegnativo ma avvincente e  soprattutto che possa essere legittimamente definito tale.

“La strada verso casa”, “l’attesissimo” romanzo del mediocre Fabio Volo

Nonostante il nome d’arte (all’anagrafe Bonetti), il nostro “NON SCRITTORE” Fabio Volo, come ama lui stesso definirsi, ha i piedi ben piantati per terra e non tre metri sopra il cielo. Ma a ben pensare in realtà, qualche caratteristica “mocciana” l’ha ereditata: sfornare un gran numero di romanzi in un tempo ristretto, romanzi che a detta sua descrivono la società, ottenendo un successo tale da battere anche Dan Brown… un vero fenomeno!

Inspiegabile, addirittura invidiato, Fabio Volo, il trentasettenne bergamasco ex panettiere, ex barista ed ex Iena partner di Simona Ventura, riesce ancora una volta a stupirci pubblicando un nuovo romanzo dal titolo “La strada verso casa” (Mondadori).

Si racconta la storia di un amore tormentato e  di due fratelli,  Andrea e Marco, caratterialmente diversi e lontani, ma che gli eventi costringono ad avvicinarsi, a capirsi di nuovo e a confrontarsi con un inconfessabile segreto di famiglia che li segue come un fantasma, per una narrazione che procede tra la retorica sentimentale e abbondanza di luoghi comuni e con l’intento di emozionare e commuovere il lettore, spingendo l’acceleratore sul ‘fattore nostalgia’.

Il tour promozionale di questa ultima fatica letteraria che porterà Fabio Volo in giro per l’Italia è già partito ed è possibile non solo prenotarlo in tutte le librerie, ma anche  in formato e-book. Grande fervore dunque per i suoi numerosissimi fansche alla notizia, in meno di dieci minuti sono riusciti a fargli raggiungere cinquemila “mi piace”(la nuova frontiera) al suo post di Facebook.

Nonostante la consapevolezza di essere distante anni luce dall’ Olimpo della letteratura, Volo riesce comunque a vendere milioni di copie, un continuo successo che può essere spiegato solo su base empirica.

Il giornalista e critico televisivo Aldo Grasso ha detto di lui che qualsiasi cosa faccia, “sente la vanga, la provincia che avanza”. Ma a Fabio Volo, dall’alto della sua torre d’avorio, quella definizione è piaciuta tantissimo, al punto da appenderla al muro in un quadretto. “L’ironia è fondamentale” ha sempre sostenuto  il non-scrittore , “la vita è stata fatta per essere semplice…” e ancora  “…da ragazzino non ho concluso mai nulla, anche se la lettura mi ha sempre aperto la mente, ma la mia metamorfosi può dirsi compiuta solo grazie ad una persona: Silvano Agosti… i suoi romanzi mi hanno cambiato la vita”.

Con semplicità e creatività Volo è andato avanti, col volto, lo stile e il talento di uno qualunque, e come spesso ha ripetuto “Chi va in mare, naviga. Chi sta a terra, giudica. Io navigo!” e volendo utilizzare termini leopardiani potremmo dire che “il naufragar gli è dolce in questo mare!”.

Exit mobile version