Tra tutti gli spettri in giro per il mondo, ce n’è uno che affiora di tanto in tanto in superficie, per essere subito ricacciato sotto nel magma ribollente dove stanno assieme umanità considerate periferiche e fenomeni buoni per saltuarie indagini sociologiche; il fantasma è quello della cosiddetta America profonda, piantata lì dentro nella vastità degli Stati Uniti. Ne avrete sentito parlare: è quello scenario che emerge in certi film-documentari indipendenti; o dai capolavori letterari di Raymond Carver o nei romanzi di Kent Haruf e Chris Offutt.
È il grembo discontinuo e frastagliato che s’allunga distante dalle grandi metropoli sulle due coste, o dagli agglomerati urbani che punteggiano la mappa degli USA: sono quelle zone che tendono a essere utilizzate nel dibattito socio-politico per spiegare fenomeni come il senso religioso che caratterizza un preciso aspetto del sentire americano; oppure per provare a capire com’è possibile che un tetro figuro come Donald Trump sia da qualche tempo l’inquilino principale della Casa Bianca – ammesso che esista una spiegazione valida.
Ecco: forse uno dei modi migliori per provare a penetrare la superficie e addentrarsi in quelle terre e tra i sogni e le speranze e le disillusioni di quella gente, non potendo concedersi complicate indagini sul campo, è stare dentro le storie che arrivano da lì. Storie come quella che racconta Willy Vlautin nel romanzo Io sarò qualcuno, uscito da poco per Jimenez nella traduzione di Gianluca Testani. Con Vlautin – originario di Portland, nell’Oregon – non siamo certo dalle parti dello scrittore improvvisato, o peggio, di un parvenu; il suo The Motel Life, l’esordio pubblicato più o meno dieci anni fa (in Italia da Fazi come Motel Life), venne notato dalle pagine critiche di giornali come il New York Times o l’Independent. E nella vita parallela a quella da scrittore, Vlautin è stato il leader dei Richmond Fontaine, una band che merita di essere rivalutata da chi non ha fatto in tempo a notarla a tempo debito – siamo sempre in tempo; dare un ascolto a un pezzo come Casino Lights per credere, tra Tom Waits e Bill Callahan.
Io sarò qualcuno racconta di un aspirante pugile, un ragazzo di nome Horace Hopper, sangue metà irlandese e metà indiano, abbandonato dai genitori quando era un bambino. È cresciuto nel ranch della famiglia Reese, un uomo e una donna che gli hanno dato amore, affetto, e una roulotte-depandance dove coltivare la propria libertà, ma che non hanno potuto dargli l’identità di cui è a caccia; quella, puoi dartela soltanto da solo, tanto che Horace, per tentare la carriera agonistica, decide di cambiare nome e cognome, assumendo le fattezze messicane di Hector Hidalgo («Perché i pugili messicani sono i più forti. Lo sanno tutti. Affrontano chiunque. Sono dei veri guerrieri che non si tirano mai indietro, non mollano mai, non hanno mai paura», spiega Horace).
Per inseguire sé stesso, Horace/Hector lascia il Nevada per spostarsi in Arizona, nella bollente Tucson, dove trova un lavoro come gommista e prende lezioni di boxe da un ex pugile messicano, Alberto Ruiz. Nel romanzo di Vlautin sfilano personaggi e paesaggi – baracche desolate, supermercati dai cui scaffali traboccano tortillas, riso, salse piccanti; centri commerciali, sale piene di frastornanti slot machine – che riescono a comporre un racconto estremamente visivo; le azioni si svolgono rapide, sono i verbi a dettare il tempo della storia, in un’alternanza febbrile, quasi nervosa.
«Era il tramonto quando Horace fece ritorno al campo insieme a Little Roy. Pedro aveva acceso il fuoco ed era seduto per terra davanti al fornello Coleman intento a mescolare qualcosa dentro una padella. Horace si sedette di fronte a lui, mangiò l’interno dei due panini della signora Reese e buttò il pane in mezzo al fuoco. Pedro prese una casseruola dal fornello, versò dello stufato in una scodella e la diede a Horace. Non parlarono mentre mangiavano, e poi Horace srotolò il materassino e il sacco a pelo. Ci si sedette sopra e rimase ad osservare il fuoco. Pedro entrò nel suo letto e in breve cominciò a russare. Tiny e Wally dormivano vicino a lui e Little Roy si sistemò accanto a Horace. Alimentò il fuoco un’ultima volta e si infilò nel suo sacco a pelo».
Al centro, fino alla fine del romanzo, resta Horace, con le sue passioni – la musica furiosamente heavy di band come Pantera o Slayer, ad esempio – e le sue debolezze e fragilità, a cui si espone dando battaglia cavalcando i ring di Tucson, incassando colpi che lo scuotono nell’anima più che nel corpo, collezionando scatti in avanti e arresti improvvisi, come già gli preconizza Alberto Ruiz durante la primissima lezione di pugilato: «Attento, Hector: ho visto che ti sei bloccato almeno mezza dozzina di volte […] Ci proviamo, ma è difficile correggere qualcosa che è dentro di te. Faremo un tentativo, comunque. Quantomeno proveremo a migliorarlo».
«Sono cresciuto guardando i combattimenti, e ho sempre amato la tragedia che li contraddistingue», ha raccontato Vlautin in un’intervista al Guardian. E ancora: «Se da bambino non sei sicuro d’essere amato, penso che questa cosa possa deviarti». Io sarò qualcuno è un viaggio doloroso dentro questa mancanza, una lotta che va ben oltre i ring di un’America ai margini.
Fonte: MinimaetMoralia