“A Singer Must Die”: in ricordo di Leonard Cohen

Citando il titolo di una canzone contenuta nell’album New Skin for the Old Ceremony del 1974, A Singer Must Die, in cui dice “a singer must die for the lie in his voice”, Leonard Cohen se n’è andato lo scorso 7 novembre. Nell’anno in cui la canzone d’autore ha ottenuto il massimo riconoscimento, grazie al Premio Nobel per la letteratura conferito a Bob Dylan, si paga al contempo un prezzo altissimo, forse il più alto. A poche ore dalla scomparsa, la sua assenza pesa come un macigno.

Ma a chi manca Leonard Cohen? A tutti coloro che amano la musica, la poesia, la letteratura e hanno ritrovato nei sui versi un briciolo di se stessi. Ma cosa manca di Leonard Cohen? Mancano i suoi silenzi, la sua voce roca e baritonale, le sue malinconie, il suo erotismo, la sua religiosità, il suo disagio, le sue imperfezioni, il suo mal d’amore e le sue grandi canzoni. Se proprio si vuole tracciare un paragone (ingeneroso) con Dylan si può dire che mentre “Mr Tambourine Man” cercava di cambiare il mondo con le sue canzoni attraverso un impegno sociale molto spiccato (basta ricordare Blowing In The Wind, Hurricane, A Hard Rain Is Gonna Fall, The Times They Are A Changin’ solo per citarne alcune), “Mr Suzanne” cercava solo di analizzare l’animo umano con uno sguardo critico sulle mille sfaccettature che lo compongono cercando di fare chiarezza sulle tensioni interne e sulle pulsioni che tutti noi abbiamo, sperando di renderci migliori.

“C’è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce” (Leonard Cohen)

In questa citazione è contenuto tutto l’universo poetico del maestro canadese: l’imperfezione come simbolo di rinascita, miglioramento e speranza. Anche lui era imperfetto e lo sapeva benissimo. Dotato di una voce non proprio cristallina e di una conoscenza musicale limitata, afflitto da depressioni e dubbi, ha avuto durante la sua quarantennale carriera numerosi detrattori che lo accusavano di essere poco commerciale, pesante, pessimista, depressivo, eppure non si poteva fare a meno di ascoltarlo. Il perché è semplice: era umano dannatamente umano. Parlava un linguaggio universale attraverso le sue emozioni e la sua influenza  tocca musicisti di ogni età e latitudini diverse. Da Lou Reed a Jeff Buckley (la cui splendida versione dell’Hallelujah è scolpita nella mente di tutti noi), da Nick Cave a Willie Nelson, dagli U2 ai REM, tutti ne hanno riconosciuto la grandezza proponendo sentite cover dei suoi brani più famosi. Perfino in Italia, solitamente ostica nei confronti della musica transoceanica, Leonard Cohen ha trovato illustri estimatori che lo hanno eletto come fonte d’ispirazione per lo stile poetico e tematico. De Andrè (che ha splendidamente tradotto e ricantato Suzanne, Jeanne D’Arc e Seems So Long Ago, Nancy), De Gregori (sua la cover di Tonight Will Be Fine resa come Un Letto Come Un Altro), Ornella Vanoni (The Famous Blue Raincoat divenuta La Famosa Volpe Azzurra), Mimmo Locasciulli (The Future trasformata in Il Futuro), hanno reso famoso il canzoniere coheniano anche  tra le nostre mura al pari solo di Dylan e Brassens. Ora che è scomparso, con lui se ne va un poeta oltre che un grande autore, capace di giocare con le parole come pochi altri al mondo, capace di tratteggiare in poche strofe concetti difficili da rendere come la malinconia, il dolore, la felicità e l’amore. Un poeta/cantante il cui ascolto è obbligato se si vuole capire qualcosa in più di se stessi (suggerisco il Gretaest Hits che raccoglie tutti i periodi attraversati dal musicista, da quello cantautoriale a quello rock a quello più sperimentale) o se comunque si vuole conoscere il percorso artistico e umano di un gigante della cultura occidentale, che è stato capace di andarsene con la classe che lo ha sempre contraddistinto, lasciando che siano le sue parole a ricordarlo in eterno.

‘Smile’: Il fantasma dei Beach Boys

Capita molto raramente di vedere dei fantasmi, ma in campo musicale qualche volta succede ed il “fantasma” più famoso del rock è senza dubbio SMiLE, il leggendario album dei Beach Boys, cancellato improvvisamente a pochi giorni dalla pubblicazione dall’autore Brian Wilson e rimasto inedito per più di quarant’anni. Negli anni la fama di “capolavoro perduto”, di “opera maledetta”, ne ha accresciuto enormemente il fascino facendogli assumere contorni mitici, alimentando, cosi, l’affannosa ricerca di collezionisti e la continua pubblicazione di bootleg contenenti stralci di quelle fantastiche sessions. Nel 2011 il mistero è stato svelato. Le SMiLE Session sono state pubblicate (lo stesso Wilson ne aveva riproposto una sua versione “solista” nel 2003 ma si stratta di tutta un’altra cosa), la scaletta originaria è stata ricostruita svelando l’incredibile bellezza e complessità di un album magnifico e geniale. Difficile anzi difficilissimo, un caleidoscopio di colori e note in cui nulla è casuale ma collocato nel punto esatto in cui era previsto che fosse, seguendo un preciso percorso sonoro ben stampato nella mente dell’autore. Vi si possono trovare suoni “insoliti”, pezzi di altri brani, armonie vocali, struggenti ballate, testi visionari e lisergici, surf e malinconiche ballate, in un mosaico apparentemente senza senso ma che dopo il primo ascolto assume un disegno ben preciso.

“Una sinfonia adolescenziale diretta a Dio”. (Brian Wilson-1966)

Il livello raggiunto in Pet Sounds, viene ampiamente superato attraverso l’ideazione e la composizione di un album in forma di una lunga suite, contenente brani scritti appositamente ed incisi con tecniche innovative, per poi venir legati tra loro con grande forza concettuale ed abilità musicale. Un lavoro monumentale che avrebbe dovuto essere la risposta americana a Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles e che avrebbe dovuto proiettare la musica pop in un’altra dimensione.

Our Prayer ed il doo-wop di Gee, per la loro breve durata e mancanza di testo, possono considerarsi l’introduzione ad Heroes And Villans, uno dei pezzi cardine del disco  caratterizzato da continui cambi di tempo e partiture impossibili. Do You Like Worms (Roll Plymouth Rock) riprende il refrain del brano precedente per poi fondersi senza soluzione di continuità con i raccordi di I’m In The Great Shape e Barnyard in cui vengono ospitati versi di animali. Una rivisitazione psichedelica e lisergica di You Are My Sunshine (classico della tradizione americana), intitolata My Only Sunshine (The Old Master Painter/My Only Sunshine), porta a Cabin Essence, altra canzone incredibile, dove alla strofa molto dolce e delicata si contrappone un ritornello martellante e “ondulatorio”.

SMiLE-Capitol Records

La meravigliosa Wonderful, con il suo tono sognante e l’inconfondibile suono del clavicembalo, la scherzosa Look (Song For The Children), la quasi strumentale Child Is The Father Of The Man, l’incredibile Surf’s Up (una delle migliori interpretazioni di Wilson), le divagazioni di I Wanna Be Around/Workshop (con tanto di suoni da falegnameria!), gli ortaggi sgranocchiati di Vega-Tables, il cui ritornello è una delle migliori composizioni dei Beach Boys, l’assurda Holidays, le rarefatte atmosfere di Wind Chimes, la delirante The Elements: Fire (Mrs. O’Leary’s Cow), le pause di Love To Say Dada, il capolavoro indiscusso Good Vibrations ed la deliziosa You’re Welcome, brano di chiusura dell’album, sono tutte parti di un arazzo musicale che prende forma ad ogni microsolco. Un album assurdo, irripetibile che mette in evidenza tutto il genio musicale di Wilson ma anche tutta la sua fragilità psichica che lo porta ad abbandonare il progetto (anche per l’ostilità degli altri membri del gruppo a pubblicare un disco cosi difficile) e lo costringerà ad anni di paranoia e depressione. Non capito, ripudiato, SMiLE viene smembrato ed i suoi pezzi vengono riciclati per dare sostanza a lavori francamente trascurabili (da Smiley Smile a 20/20) scempiandone le intenzioni artistiche e la qualità intrinseca. Ora la domanda è: chissà come sarebbe cambiato il mondo musicale se fosse stato pubblicato nel 1967…

“Bridge Over Troubled Water”: l’ultimo atto di Simon & Garfunkel

Nell’agosto del 1969 la premiata ditta Simon & Garfunkel stava chiudendo i battenti dopo dodici anni di sfolgorante carriera e clamorosi successi. Il duo più popolare del pop era sull’orlo dello scioglimento a causa di inconciliabili divergenze artistiche e spinte centrifughe verso progetti solisti. Art Garfunkel aveva, infatti, cominciato una discreta carriera cinematografica (con i film Conoscenza Carnale e Comma 22) trascurando le sedute d’incisione ed irritando progressivamente un Paul Simon costretto a lavorare da solo per la maggior parte del tempo. Prima di lasciarsi, tuttavia, erano decisi a dare alle stampe il loro “canto del cigno” proprio come avevano fatto i Beatles nello stesso periodo.

“Quando l’album ed il singolo uscirono eravamo nel pieno di una separazione. Durante l’incisione di quel disco passammo un brutto periodo, tuttavia riuscimmo a farlo funzionare” (Art Garfunkel)

Nonostante litigi, discussioni e ripicche reciproche Bridge Over Troubled Water vede la luce nel gennaio del 1970 ed è subito capolavoro. Sebbene fosse obiettivamente difficile superare la qualità del disco precedente, Bookends, il duo dimostra di avere ancora, nonostante tutto, un grande affiatamento. Simon, dal canto suo, da prova di essere in splendida forma, a dispetto della crescente frustrazione, scrivendo, arrangiando e producendo brani di incredibile bellezza e qualità, carichi di malinconia, rabbia, gioia e poesia. La tormentata dichiarazione d’amore contenuta nella title track, cantata superbamente da Garfunkel, diventa immediatamente un best seller finendo nelle scalette di grandissimi artisti da Elvis Presley ad Aretha Frankiln. Un pezzo altamente evocativo e spettacolare capace di commuovere e far sognare. I sapori andini de El Condor Pasa, la gioia incontenibile di Cecilia, il rock di Keep The Customer Satisfied, le atmosfere rarefatte di So Long, Frank Lloyd Wright evidenziano la maturità raggiunta dai due artisti proprio nella fase finale del loro percorso comune.

Bridge Over Trouble Waters-Columbia Records-1970

La dylaniana The Boxer (altro meraviglioso evergreen), con un testo altamente evocativo incentrato sull’emarginazione, la tambureggiante Baby Driver, la sognante The Only Living Boy In New York, la piacevole Why Don’t You Write Me, il ritorno alle origini rappresentato dalla cover di Bye Bye Love, cavallo di battaglia degli Everly Brothers (duo molto popolare negli anni ’50 e veri ispiratori di Simon & Garfunkel) e la tenera Song For The Asking, chiudono una track list fantastica. Le incisioni sono tecnicamente ineccepibili grazie a musicisti di altissimo livello ed una produzione quasi maniacale. Gli arrangiamenti sono ricchi e complessi, orchestrali, pieni di suoni ricercati ma mai eccessivi o fuori posto. Su tutto, ovviamente, spiccano le due voci che si incastrano a meraviglia dando vita ad armonizzazioni raffinatissime e di gran fascino. Grazie a queste caratteristiche l’album vola in vetta alle classifiche (otto milioni di copie solo negli USA e primo posto nella classifica di Billboard), facendo incetta di premi e critiche entusiastiche. Ma il solo sfoggio di numeri non basta a giustificare l’inclusione di questo disco in quasi tutte le classifiche dei migliori album del XX secolo; si tratta di un’opera di gran classe, piena di poesia e melodie immortali, lontana se vogliamo dagli standard crepuscolari e malinconici tipici del duo e più vicina al rock ed al pop di caratura internazionale. Brani perfetti per l’airplay radiofonico in cui però è chiaramente riconoscibile l’inconfondibile tocco di Simon & Garfunkel, due “vecchi amici” che hanno deciso di lasciare la storia in grande stile per entrare nella leggenda.

https://www.youtube.com/watch?v=1CYtGgKiGj0&itct=CBEQpDAYACITCPCRzYuDrs8CFQuXFgodfe4O0TIHcmVsYXRlZEin0N73krbM6ZEB&app=desktop

Il theremin torna in auge – La magia eterea della musica

Torna in auge l’antico strumento che si suona senza alcun contatto: il theremin. Prima l’industria di Hollywood, poi i Led Zeppelin e i Pink Floyd. Recentemente, ne hanno fatto uso, tra gli altri, il piccolo Milhouse de I Simpson e Sheldon Cooper in The Big Bang Theory. L’era dell’informazione rende giustizia ad uno strumento che era quasi stato dimenticato.

Invenzione e funzionamento del theremin

C’era una volta un uomo che aveva la voce nelle mani. Comincia così questo racconto che si fa strada nella storia a suon di bellezza, tra fisica, arte e spionaggio. Era il 1919, e il fisico e violoncellista sovietico Lev Termen (nome occidentalizzato in Leon Theremin) conduceva esperimenti per l’esercito utilizzando amplificatori a valvole. Per puro caso (tutta la scienza deve molto al caso) si rese conto che alcuni circuiti emettevano un suono che variava in altezza quando lo scienziato vi si avvicinava. E il genio si illuminò di intuizione, concependo lo strumento che battezzò eterofono, e che oggi è conosciuto con il nome del suo inventore. Il theremin è uno dei primissimi strumenti elettronici, ed è considerato il padre dei moderni sintetizzatori. E’ l’unico strumento che si suona, ma che non si tocca. E’ composto di un contenitore per l’elettronica, essenzialmente costituita da due oscillatori in isofrequenza che producono suono mediante battimento. Si può controllare tale suono immergendosi nel campo elettromagnetico prodotto da due antenne esterne, e variando l’effetto capacitivo tra queste ultime e le mani del musicista, che si muovono libere nell’aria. In particolare, avvicinando una mano all’antenna orizzontale (del volume), il suono diventa più intenso, mentre avvicinando l’altra all’antenna verticale (antenna del pitch), si aumenta la frequenza, e la nota si fa più acuta. In questo modo, si possono controllare intonazione, dinamica (forte, pianissimo…) e tempo, e creare dunque una melodia.

Il successo, tra stupore e virtuosismo, del theremin

Lo strumento è monofonico, cioè a singola voce: suonarlo è come essere un cantante che controlla con le mani una voce esterna al proprio corpo. Si immagini la meraviglia che poté suscitare, all’epoca, nei circoli musicali e nei teatri. Il successo fu planetario: si parlava di un effetto miracoloso, innovativo, e toccante. Perché il timbro extraterrestre, talvolta angelico, di un theremin, sembra provenire dalle profondità del cosmo, e si può collocare a metà strada tra quello di un violino e quello di un flauto, o di una voce umana. Per questo, lo strumento può trovare molti utilizzi: per musica da camera, orchestrale (da ricordare il bellissimo concerto per theremin e orchestra di Anis Fuleihan, eseguito per la prima volta nel 1945 dalla Filarmonica di New York), ma anche jazz, rock, musica lirica e sacra, ambient, musica elettronica d’avanguardia. E ovviamente, per l’effettistica (tutti conoscono il buffo suono degli alieni da tipica sci-fiction degli anni ’50).

La prima virtuosa dello strumento è stata Clara Rockmore (eccezionale, per intonazione ed espressività, la sua interpretazione dell’ormai classico “Vocalise” di Rachmaninov), una talentuosa promessa del violino, costretta ad abbandonare gli studi in giovane età a causa di malformazioni alle mani dovute alla malnutrizione. Questa disgrazia è stata, se così si può dire, la fortuna dei posteri. Clara fu infatti la prima a comprendere, e ad amare, i limiti e le potenzialità di quello che, diceva, non è un giocattolo che emette strani suoni, ma uno strumento musicale con una propria dignità… Nelle mani giuste, si intende. A buon ragione, infatti, il theremin è considerato terribilmente difficile da domare, a causa della totale mancanza di riferimenti spaziali (niente tasti, niente corde). Inoltre, esso richiede un estremo controllo del movimento ed una grande consapevolezza di ogni parte del proprio corpo, dal sussulto al respiro: uno strumento mentale, quasi zen. Citando la pronipote di Termen, Lydia Kavina (maestra della fenomenale Carolina Eyck, altra giovane virtuosa del nostro tempo):

“Si concentra sulla mia voce interiore. E’ la mia voce interiore. Reagisce ad ogni mio respiro, pensiero e movimento. Ed io devo rispondere e reagire continuamente, perché è molto delicato, ed è sensibile anche alle mie condizioni emotive. Bisogna trovare le note giuste usando l’intuito ed un fine orecchio musicale. Tutto ciò rende la concezione dell’esecuzione al theremin molto instabile, lirica, intima, spontanea. È come stringere la musica nelle proprie mani”.

Suonare il theremin è come danzare su un filo sospeso che affaccia sul caos. E’ importante fluire con esso, più che fermarsi a colpire. Del resto il thereminista, che non vuole di certo impazzire inseguendo chimere, non è alla ricerca della perfezione formale, ben raggiunta da altri strumenti. Qui conta il nuovo approccio con la musica, il gesto, l’emozione che si prova e trasmette. Lo stupore che suscita la fisica, di fronte al mistero della musica. Quando si dice che la bellezza è eterea…

Abbey Road: il canto del cigno dei Beatles

Il 26 settembre del 1969, giorno dell’uscita di Abbey Road, i Beatles già non esistono più. La separazione ufficiale avverrà di fatto pochi mesi dopo, nell’aprile del 1970, ma inconciliabili divergenze artistiche, economiche e personali ne avevano già minato irreversibilmente la coesione interna. Le tensioni accumulate durante le session per il White Album, il naufragio dell’ambiziosissimo progetto Get Back, l’eroina, le donne avevano lentamente portato il più grande gruppo del mondo sull’orlo dello scioglimento. Tuttavia i Fab Four avevano deciso di chiudere il loro percorso artistico comune in grande stile, ossia con un album che rimanesse nella storia.

“Fu un disco estremamente felice probabilmente perché tutti pensavano che sarebbe stato l’ultimo”. (George Martin)

Nonostante le assenze per motivi personali di Lennon e la scarsa convinzione di Harrison il livello di Abbey Road è altissimo e rappresenta un “unicum” nella discografia beatlesiana. Il lato A infatti è composto da canzoni nel senso classico del termine, mentre il lato B è un lungo medley di brani uniti tra loro da grande forza concettuale e maestria musicale. Non tutto il materiale è eccelso ma per qualche oscuro miracolo tutti i pezzi scelti stanno bene nell’album legandosi tra loro con assoluta armonia. Il fulminante incipit di Come Together (col celeberrimo verso “Shoot Me” che col senno di poi ha assunto toni sinistramente profetici) composta da Lennon, le meravigliose Something e Here Comes The Sun (forse i pezzi migliori del disco) che attestano la raggiunta maturità compositiva di Harrison, il pop sofisticato di McCartney che fornisce la giocosa Maxwell’s Silver Hammer e la disperata Oh Darling!, la spiritosa Octopus’s Garden di Starr e l’allucinata I Want You (She’s So Heavy) di Lennon (in cui viene introdotto il sintetizzatore Moog) compongono la prima facciata. Brani di una bellezza disarmante (tranne un paio forse) e molto eterogenei tra loro che dimostrano come i quattro avevano preso ormai strade diverse sia dal punto di vista musicale che personale.

The Beatles-1969

Ma la seconda facciata di Abbey Road è tutta un’altra storia. Le complesse armonie a tre voci di Because (ispirata da Al Chiaro Di Luna di Beethoven), il dolore della separazione in You Never Give Me Your Money, le atmosfere notturne ed il non sense di Sun King, i divertissement di Mean Mr Mustard e Polythene Pam, il rock di She Came In Through The Bathroom Window, per arrivare al gran finale composto dal trio di brani Golden Slumber, Carry That Weight e The End, nella quale i Beatles salutano per sempre i fan con il meraviglioso verso “e alla fine l’amore che prendi è uguale all’amore che fai”, rappresentano un momento di puro genio. Non contenti inseriscono una ghost track Her Majesty che rappresentava una novità assoluta per l’epoca. L’8 agosto del 1969 i quattro sfilano sulle strisce pedonali antistanti lo studio dando vita ad una delle copertine più famose, citate e discusse del rock. I Beatles da quel momento non esistono più (una delle interpretazioni più famose della foto la considera il funerale del gruppo), lasciando ai posteri un album praticamente perfetto, in cui tutto fila liscio come l’olio, in cui le note si incastrano a meraviglia ed il feeling tra i musicisti è notevole nonostante il periodo. Un testamento artistico/spirituale unico e irripetibile. Un’opera in cui i Fab Four trascendono schematizzazioni di ogni genere facendo semplicemente musica; una musica immortale, bellissima, capace di ricordare al mondo che un tempo quattro ragazzi di Liverpool sono riusciti a cambiare il mondo con la sola forza delle idee.

“Slowhand”: la nona vita di Eric Clapton

Dopo una disordinata ma straordinaria carriera spezzettata in brevi ma fondamentali esperienze, Yardbirds, Bluesbrakers, Cream, Blind Faith, Derek And The Dominoes, Delaney & Bonnie e collaborazioni di lusso (The Beatles, Plastic Ono Band, George Harrison), Eric Clapton, forse uno dei più significativi chitarristi del rock, decide di prendere in mano il suo avvenire. Dotato di un talento ed una passione per il blues fuori dal comune, ma anche di un carattere difficile che lo porta ad una continua ma vana ricerca di un assetto stabile, Manolenta nel 1970 pubblica l’omonimo album solista che pur contenendo ottimi spunti non stupisce ed entusiasma più di tanto. Dopo altri tre album (461 Ocean Boulevard, There’s One in Every Crowd, No Reason to Cry) in un crescendo quasi rossiniano, arriva la consacrazione nel 1977 con la pubblicazione di Slowhand. Abilmente sospeso tra brani originali e cover di grande prestigio, quest’album presenta un miscela esplosiva di blues, rock e pop che ottiene il consenso del pubblico e nel contempo dimostra la sua grande maestria a confrontarsi con generi diversi.

“L’unica pianificazione che faccio è circa un minuto prima di suonare. Cerco disperatamente di pensare a qualcosa che potrebbe essere efficace, ma non mi siedo mai a lavorare nota per nota”.

Da sottolineare il grande istinto di Clapton a scegliere brani adatti alle sue corde che lui, grazie ad un talento musicale mostruoso, lancia nelle classifiche e nell’immaginario collettivo. Ne è un esempio lampante Cocaine, in apertura di album, che composta ed incisa in origine da J.J.Cale, nelle sue mani diventa più famosa dell’originale, come accaduto anni addietro per I Shoot The Sheriff di Marley.

Eric Clapton e Pattie Boyd

La buona vena compositiva si conferma nel gioiello pop Wonderful Tonight, sognante ballatona dedicata alla moglie Pattie Boyd, il cui riff è tutt’ora un esercizio fondamentale per ogni aspirante chitarrista e nello pseudo-country di Lay Down Sally, perfetta canzone da viaggio, dominata da un poderoso arpeggio “in staccato”. Il reaggae (di moda in quel periodo) ed il blues si fondono come per miracolo in Next Time You See Her, che pur avendo un tono calmo e rilassato, nel testo risulta carica di minacce per un avversario in amore. Il riverbero e le voci soffiate caratterizzano We’re All The Way, dolente canzone d’amore cantata in duetto con Yvonne Hellman, come pure l’energica The Core, disegnata da un potente distorsore e dall’alternanza tra timbro maschile e femminile. Il country rock alla Eagles, di stampo tipicamente californiano, emerge in May You Never  a cui mancano solo i cori di Don Felder e Glenn Frey per essere un singolo spacca classifiche. Per una i lancinanti assolo di Manolenta sono lasciati da parte per far posto alla morbidezza della chitarra acustica e alla dolcezza dell’organo. Le cose cambiano quando si passa al puro blues di Mean Old Frisco storico pezzo di Arthur Crudup in cui a farla da padrone è, ovviamente, la slide guitar. La strumentale Peaches And Diesel chiude l’album con garbo ed ironia dal momento che in esso è contenuta un autocitazione di Wonderful Tonight. Grazie a questa scaletta “mista” ed esaltante, Slowhand si arrampica in cima alle classifiche e riceve ottime recensioni da parte dei critici di mezzo mondo. E’ un album di gran classe, perfettamente arrangiato ed inciso, il cui unico difetto, se proprio se ne vuole trovare uno, è l’eccessiva “commercialità”. E’ talmente perfetto da sembrare studiato apposta per vendere copie e far soldi. In ogni caso Clapton dimostra di aver trovato un suo equilibrio e di essere un musicista a tutto tondo, non solo un bluesman. Il suono della sua Strato è meraviglioso, in grado di passare con la stessa efficacia dal “pulito” più languido al “distorto” più rude. Anche la voce si adatta meravigliosamente alla qualità dei brani passando dai toni morbidi dell’amore ai graffianti registri del blues. Lo specchio dell’anima di Eric Clapton, del carattere erratico e apolide di Manolenta. Forse il suo miglior album, senza dubbio un album che bisogna avere ed amare per capire le mille sfaccettature di un artista unico.

“Senza Orario Senza Bandiera”: l’uomo secondo i New Trolls

Senza Orario Senza Bandiera-Fonit Cetra-1968

Il 1968 è stato un anno particolare in quasi tutto il mondo. La contestazione studentesca, le battaglie per i diritti civili, il Vietnam, la liberalizzazione dei costumi, le droghe, hanno reso quest’anno un punto di svolta cruciale per la storia del XX secolo. E’ stato altresì un anno di grande fermento intellettuale, culturale e musicale; è perfettamente inutile ricordare il numero di capolavori usciti in questo anno magico da una parte all’altra dell’Atlantico. In Italia, sebbene in maniera molto più blanda, alcune di queste istanze si sono fatte sentire ed uno dei dischi in cui sono maggiormente presenti è senza dubbio Senza Orario Senza Bandiera, storico debutto dei genovesi New Trolls, uno dei gruppi più importanti del progressive rock italiano. Già nota al grande pubblico per singoli di successo quali Una Miniera, Quella Musica, Visioni, la band capitanata da Vittorio De Scalzi e Nico Di Palo ha più volte fornito prova di grande perizia tecnico/compositiva unita ad un’abilità vocale fuori dal comune, ma per l’esordio discografico vero e proprio sceglie di avvalersi della collaborazione di due “pezzi da novanta”: i concittadini Fabrizio De Andrè e Riccardo Mannerini che forniscono testi di grande impatto emotivo e poetico. Per la parte musicale si rivolgono a Gian Piero Reverberi già arrangiatore e compositore di grande successo. Il risultato è un concept album composto da dieci memorabili brani uniti tra loro da intermezzi musicali di grande bellezza e forza concettuale che rendono quest’opera un viaggio dell’Uomo alla ricerca di se stesso, della propria realtà e della propria storia. Un tuffo nell’animo umano effettuato senza preconcetti o idee di fondo, “senza orario senza bandiera” appunto.

“Andrò ancora per le strade del mondo con occhi sinceri/Cercherò ovunque il dolore la gioia dell’uomo” (Andrò Ancora-New Trolls-1968)

Il percorso si apre con la semi-acustica Ho Veduto, in cui l’andare per il mondo si trasforma in un’esperienza catartica di grande valore culturale e si prosegue con Vorrei Comprare Una Strada in cui la dimensione del sogno si trasforma in un rifugio dalle bruttezze della realtà. Signore Io Sono Irish affronta il tema della Fede attraverso gli occhi puri e l’ingenuo ottimismo di un operaio profondamente religioso mentre la solitudine assume le sembianze di Susy Forrester, persa nel suo assurdo narcisismo e nella sua irragionevole altezzosità. Il lato A si chiude con la forza dell’amore in grado di far dimenticare perfino gli inganni e le perdite al gioco in Al Bar Dell’Angolo. Il contrasto tra il progresso inarrestabile della civiltà umana e i valori che sono alla base della vita emerge in Duemila in cui la figlia di un pescatore guarda a bocca aperta le sue scarpe mentre i razzi volano nel cielo alla ricerca delle stelle. L’orrore della guerra è rievocato nel drammatico dialogo tra due ex marine in Ti Ricordi Joe?, mentre il pacifismo si veste delle accorate parole di Padre O’Brian, che chiede di destinare una parte dei fondi destinati agli armamenti per aiutare i lebbrosari; la timidezza paralizzante rivive nella figura dell’innamorato Tom Flaherty, incapace di dichiararsi e il grido di speranza finale è affidato ad Andrò Ancora, che riprendendo il motivo di Ho Veduto, chiude il viaggio.

I New Trolls con Fabrizio De Andrè

New Trolls, De André, Mannerini per un album che unisce  rock viscerale e genuino cantautorato

Tematiche universali, difficili da trattare che il duo De Andrè-Mannerini ha saputo affrontare disegnando personaggi in cui è molto facile rispecchiarsi dal momento che rappresentano archetipi delle pulsioni umane nascoste in ognuno di noi. A dar forza alle parole interviene la musica composta dai New Trolls in grado di unire il rock più viscerale al cantautorato più genuino facendo di quest’album una sorta di unicum nel panorama musicale italiano. Una curiosa e riuscita commistione tra chitarre distorte e poesia che dimostra l’altissimo grado di ispirazione degli autori e la validità del progetto. La parte del leone è ovviamente riservata agli stessi New Trolls che grazie alla loro vocalità (su tutte il timbro roco di De Scalzi e gli inarrivabili vertici di Di Palo) fatta di complesse armonie, soffici cantati, strepitosi falsetti non fanno rimpiangere i più famosi gruppi anglosassoni del periodo. Sarebbe ingiusto, tuttavia, limitarne la grandezza alle sole parti vocali, dal momento che anche dal punto di vista strumentale meritano un encomio, su tutti la batteria di Gianni Belleno, il basso di Giorgio D’Adamo e l’organo di Mauro Chiarugi. Un album atipico ma sensazionale in grado di coniugare alti valori poetici e tematici con il pop ottenendo grande successo di pubblico e di critica, a dimostrazione che alle volte quelle che possono sembrare idee assurde possono trasformarsi in splendide e durature realtà.

“Grace”: un angelo di nome Jeff Buckley

Che Jeff Buckley fosse un predestinato era chiaro fin dall’inizio. Figlio d’arte, il padre Tim Buckley era uno dei cantautori più innovativi del rock e la mamma, Mary Guibert una discreta violoncellista. Cresciuto a pane e musica, riceve in eredità dal padre una voce incredibile, bellissima, angelica ed uno spiccato senso per la sperimentazione. Dopo diversi anni on the road in cui affina sia la sua tecnica chitarristica che compositiva, Jeff approda ai Bearsville Recording Studio dove, sotto al guida di Andy Wallace (già produttore dei Nirvana) registra il suo folgorante debutto per la Columbia Records. Con l’ausilio di un pugno di musicisti scelti personalmente dall’autore (Mick Grondahal al basso, Matt Johnson alla batteria e Gary Lucas alle chitarre) prendono forma tra quelle mura le dieci magnifiche canzoni che andranno a comporre la scaletta di Grace.

 “il mio disco preferito del decennio” (Jimmy Page)

Pieno di dissonanze, fusioni, commistioni, Grace è senza dubbio uno degli album più importanti di fine millennio. La jazzata Mojo Pin offre un lampante esempio di tale ecletticità con continui cambi di tempo e delicati fraseggi uniti a distorsioni lancinanti. Gli umori grunge della title track con il suo famosissimo riff in apertura di canzone, la tenerezza obliqua di Last Goodbye, lo splendente dolore di Lilac Wine, le magistrali esplosioni strumentali in So Real, l’incredibile performance per sola chitarra e voce di Hallelujah (composta da Leonard Cohen), una delle migliori cover di sempre, la splendida ballata Lover, You Should’ve Come Over, la dolcezza infinita di Corpus Christi Carol, il torrido rock di Eternal Life, la magia di Dream Borthers, ne fanno immediatamente un capolavoro ed un’opera che trascende le definizioni consuete di rock e pop.

Jeff Buckley

Jeff Buckley e la carica emotiva di Grace

Sicuramente lontano dalle mode musicali del periodo in cui è stato composto e pubblicato, è tuttora un album che stupisce per la freschezza, l’originalità e la carica emotiva che riesce a trasmettere. Passionale, implorante, rabbioso, nelle sue note possono essere rintracciate tutta una serie di emozioni capaci di travolgere chiunque si avvicini al disco, anche per un ascolto superficiale. Mai titolo fu più azzeccato Grace, grazia, a testimonianza di una ispirazione e una abilità rare a trovarsi in una opera prima. Stupisce la maturità di Buckley come compositore ed interprete, la bellezza degli arrangiamenti misurati e studiati per mettere in evidenza una voce a dir poco straordinaria. E’ proprio la voce a colpire l’ascoltatore, a scatenare sensazioni fortissime grazie alla capacità di trasformarsi da urlo di dolore in flauto angelico, di farsi roca e disperata per poi divenire un suono purissimo in grado di raggiungere vette inarrivabili; duttile, modulabile, fragile, potente, paragonabile per bellezza forse solo a quella di Demetrio Stratos  (ma Stratos era più “tecnico”), senza dubbio tra le migliori che si siano mai sentite in un album di musica leggera. Per queste caratteristiche “uniche”, Grace ottiene un consenso unanime di pubblico e di critica. Il successo porta l’autore a tenere una monumentale tourneè che lo terrà occupato per i successivi due anni, dal 1994 al 1996. Al rientro comincia a lavorare al disco che ne avrebbe dovuto decretare la definitiva consacrazione, Sketches for My Sweetheart the Drunk, ma un tragico destino pone drasticamente fine alla breve carriera di Buckley, quando il 29 maggio 1997 muore per affogamento nelle acque del Wolf River, trasformandosi definitivamente in “una goccia pura in un oceano di rumore” (Bono Vox).

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