Poesie inedite dell’autore emergente Fabio Strinati

BREVI ACCENNI

I

Gli alberi sembrano virgole le foglie
attaccate ai rami una mandria
di pensieri l’autunno
dai colori i tessuti
le rime e i baci attaccati
sulle brine. Noi, siamo
in un abbraccio la carezza,
forme come in un campo
l’erba spunta al cielo
un letto largo
di colore: per te un verso
d’acqua delineato
scende sulla penna
il sipario spettacolo
teatrale.

II

Montagne fuse in cielo le alte
sembianze invase le nuvole
dai pianti acerbi, figure
del creato eterno. Per me sei anche tu
lampo smuovermi dentro
vene di bosco l’anima libera
di espandersi;

gli occhi, angolo di posto
isolato uniti in fuga su di te,
vicina isola rifugio
incubazione l’inverno.

III

Forza centripeta ci assorbe integri
due alberi di remi i nostri abbracci
al porticciolo una panchina
stabile immortale;
due mani scivolano sui particolari
schiena indossa vibrazione
a fianco in burrasca è il mare…
col suo flauto traverso
melodia invernale
infuria e raro sguardo ai volti
l’amore in volo una rondine
e un gabbiano.

IV

Pensiamo ai nostri ormoni, strani, strani
impazziti prospera natura c’invade e
piomba come in una stanza planano
spartiti autoctoni.

Pensiamo ai nostri sentimenti raffinati
le baionette i baci sulla lingua sulla punta,
arruolati alla vita fremiti e fusi i cuori
armati dei loro resti rigogliosa rendita
l’amore, somma di battaglie
due corpi astratti mossi dalla voglia.

V

Brevi accenni di te che al mio sguardo sospiri,
che inclini movenza sul mio corpo
superstite come naufrago al pensiero
della terraferma. Sei per me, letteratura,
forma d’arte al sangue evoluta;
proiezione in me del tuo sussurro, geometria
distillato di frantoio l’insieme fondersi
in un liquido perché vitale…

Fabio Strinati

Castrazione nazionale! Le molestie (presunte e reali) nostrane e d’oltreoceano

Agli italiani, popolo giocoso e provolone, erano rimasti due ambiti in cui esercitare la virilità e simulare un po’ di potenza: il calcio e il sesso. Estromessi dai mondiali ed evirati a mezzo stampa nel nome delle molestie sessuali, gli italiani hanno perso gli ultimi rifugi per la propria autostima.
Siamo in piena castrazione nazionale.

Non vi parlerò della disfatta ai mondiali che costerà ascolti, introiti pubblicitari e recherà tristezza e noia nella vita giocosa degli italiani. Ma mi soffermerò su quel filone che scorre ormai da settimane tra cinema e media, sesso e molestie.

Proviamo a dare una veduta d’insieme di questo gioco al massacro e al gossip che dura ormai da settimane. In principio, come sempre, fu l’America e la Casa madre del cinema, Hollywood, dove un mondo di femministe e umanitari, progressisti e antirazzisti, si scoprì un immondo porcaio dove tutti sapevano, anche le suddette anime belle, ma tacevano per viltà e convenienza, o peggio per aver partecipato anch’esse al traffico di sesso e film.
C’è chi si è aggrappato al politically correct adducendo come alibi della sua pedofilia il fatto di aver avuto un padre nazista, cercando la redenzione nel suo outing-promessa: d’ora in poi vivrò da gay. Evviva, si è riscattato, santo subito.
Poi a rimorchio vennero i nostri. Tra l’America e l’Italia il ponte fu l’Asia, e non nel senso di un continente ma di un’attrice incontinente che dopo anni di silenzio decise di vuotare il sacco sulle violenze subite nei due mondi.
E per dimostrare che non siamo da meno dei nostri superiori e liberatori, gli yankees liberal & radical, è cominciata la caccia al porco nostrano, made in Italy.

È iniziato il filone SPQR, Sono Porci Questi Registi. È partita una carrellata di nomi, anche insospettabili o innocenti, coinvolti nel giro.
È venuta fuori la peggior Italia perché a farla da protagonisti sono soprattutto tre categorie: registi allupati che esercitavano il loro potere, proponendo un infame cambio merce, sesso in cambio di parti nei film; poi il mondo di mezzo dei ruffiani, papponi e guardoni; e infine lo squallido mondo di aspiranti attricette in cui è difficile distinguere tra vere vittime, complici della compravendita, un tempo consenzienti, accusatrici a fini di ricatto, malate di protagonismo, maddalene pentite a scoppio ritardato, squinzie coi loro siti intimi più visitati di un blog; tutto pur di entrare nel meraviglioso mondo delle star.

Che si auto-assolvevano con la scusa: era l’unico modo per lavorare. Ora, diventare attrici non è una necessità ma una scelta, a volte una vanità, comunque un’ambizione.
Se ti chiedono di prostituirti (e questo vale in altre forme anche per i maschi), puoi cambiare porta o cambiar mestiere o puntare solo sul tuo talento. O puoi denunciare, appena succede il misfatto.
Ma farlo dopo anni, in mucchio, random, crea sospetti e confusione. Perché si perdono i confini tra violentate (rare), costrette in senso psicologico (meno rare), molestate (numerose), un po’ forzate e un po’ consenzienti (tantissime), più false vittime, a loro volta seduttive e invoglianti, di presunti ingrifati, che a volte erano semplici, innocui benché fastidiosi provoloni.

In questa storia chi ci rimette? A parte le vere vittime di violenza e prevaricazione, ci rimettono le ragazze brave, cioè capaci e meritevoli, che non si sono concesse o che non erano appetibili agli orchi in questione; poi ci rimettono i registi bravi che si sono limitati a oneste avances come sempre accade dacché esiste il mondo, ma che non hanno forzato nessuno e nemmeno abusato del loro ruolo, anche se hanno cercato di trarre fascino e richiamo dalla loro posizione preminente (deprecabile, ma entro certi limiti, comprensibile e non penalmente rilevante).
E ci ha rimesso la credibilità del cinema italiano.

Infine, l’aspetto più becero e stomachevole in questa vicenda è il moralismo mediatico.
Dopo aver deriso e scacciato la morale, ridicolizzato la famiglia e il pudore, viene riattivato un moralismo cinico, che funge solo da giogo mediatico per penalizzare i concorrenti o metterli fuori gioco. Sesso senza limiti, permissivismo assoluto e porci comodi forever; ma tolleranza zero per chi sgarra dalla precettistica gay-trans-femminista.

Fonte:

Castrazione nazionale

I mostri a due Teste dell’Istruzione Americana: i Dottorati di Scrittura Creativa

Dottorati in inglese e scrittura creativa. Sembra assurdo, all’occhio dell’italiano sepolto tra i tomi di letteratura e critica letteraria. Un’analisi femminista dell’opera di Molière. Letterature comparate come se piovesse. La schiena dello studente che s’incurva sempre di più, le gocce di sudore che cadono inesorabilmente sulle righe fitte fitte scritte da uno studioso estone dal nome impronunciabile. Questo significa fare un dottorato in materie umanistiche. Nient’altro.
D’accordo, sto esagerando. E’ vero anche che, secondo una qualche convinzione comune, studiare scrittura creativa in Italia va bene come hobby della domenica alla scuola privata o al club del libro di paese.

Non fraintendetemi: sono tutte esperienze che arricchiscono sempre, nel bene e nel male. I libri dell’aspirante scrittore, soprattutto se ha l’obiettivo di vendere parecchio, saranno letti non solo dagli intellettuali e dai critici, ma soprattutto dalla gente “comune”. Quindi il parere del circolo del libro è importante tanto quanto quello del professorone di letteratura. D’altro canto, per noi italiani, pensare di specializzarsi a livello di dottorato in una materia come Creative Writing sembra quantomeno bizzarro. Eppure il PhD in Creative Writing, o meglio, il “PhD in English, with Emphasis on Creative Writing” (Inglese con focus sulla Scrittura Creativa), esiste. E, a seconda della specializzazione dello studente, può vertere su fiction, poetry, non-fiction e altri generi (playwriting, screen writing, etc.). Insomma, quando hai finito i quattro anni di corso non dovresti (teoricamente) essere soltanto un cervellone, ma anche uno scrittore. Come se essere una sola delle due non fosse abbastanza complicato.

Il PhD in Inglese e Scrittura Creativa non è una passeggiata. Non è tutto readings (così sono chiamate le letture pubbliche) e discussioni su racconti al chiaro di luna accompagnati da birre e sigarette. O meglio, a volte lo è, ma ne è solo la parte più piacevole. Per essere un buon dottorando è opportuno imparare a insegnare inglese, scrivere secondo i canoni accademici e, ovviamente, fare ricerca. Ma non solo. Perché ovviamente, tra una conferenza, un meeting e un corso, lo studente dovrebbe anche cercare di scrivere i suoi sofferti romanzi. O racconti. O poesie. O memoir. Le cosiddette giornate di venticinque ore non sono mai abbastanza per il dottorando.

Ma alla fine – che poi è questo il punto focale – alla fine, questi studenti, questi ipotetici cervelloni, un contratto a una casa editrice lo strapperanno prima o poi o no? E se anche la risposta fosse sì, è davvero necessario prendere un dottorato per essere pubblicati? Assolutamente no. Per quello ci vogliono solo fortuna e talento.
Per quanto comprenda a pieno le controversie riguardo l’effettiva utilità di un corso di scrittura creativa, non solo a livello di workshop presso una scuola privata ma anche a livello accademico, riconosco che la scelta di conseguire un master (qui si chiamano MA o MFA, Master of Arts o Master of Fine Arts) o un dottorato in Creative Writing sia più intelligente di ciò che possa sembrare. Questo vale sia per lo scrittore in erba che per quello già pubblicato.

Diciamoci la verità: per quanto il sistema editoriale statunitense sia molto più fluido e prospero di quello italiano, pochissimi scrittori possono permettersi di vivere esclusivamente delle vendite dei propri romanzi o raccolte. Stephen King riceve anticipi da capogiro, e per questo può tranquillamente starsene a casa a fare foto alla sua canina Molly “The Thing of Evil” per postarle su Facebook (se non lo avete ancora fatto, a proposito, seguitelo. Non ve ne pentirete). Ma la maggior parte degli scrittori non può certo vantarsi di ricevere cifre simili per i propri lavori. Per questo motivo, però, grazie all’altissimo numero di programmi di Creative Writing in tutti gli USA, gli autori possono comunque vivere della propria scrittura, insegnando ciò che hanno imparato a una nuova generazione di aspiranti scrittori. In altre parole, gli scrittori pubblicati hanno bisogno di “finanziarsi” per permettersi di svolgere il mestiere che vorrebbero fare i loro stessi studenti, ovvero coloro che un giorno avranno lo stesso identico problema economico, a meno che tra le loro fila non si nasconda una nuova J.K. Rowling o James Patterson.

Conseguire un dottorato o un master significa quindi incontrare i criteri per poter insegnare all’università, dedicando una buona fetta di tempo alla didattica, ma garantendosi la tranquillità che basta per sedersi alla scrivania e scrivere senza doversi svegliare nel bel mezzo della notte col pensiero delle bollette che incombono.
Non sto dicendo che il motivo per cui i programmi in scrittura creativa a livello accademico abbiano avuto un enorme successo sia solo quello di sostenere gli scrittori pubblicati alla canna del gas. Alcuni docenti e scrittori credono profondamente nella didattica della scrittura creativa e provano un’enorme soddisfazione nel vedere i propri studenti crescere e sviluppare quella che chiamiamo “voce”. Non tutti hanno il talento né la costanza di continuare a scrivere a prescindere da ciò che viene richiesto dal professore, ma quello che conta è che in un dottorato di inglese e scrittura creativa non siano solo i corsi di poesia e narrativa ad arricchire l’esperienza dello studente. Il dottorando seguirà corsi di letteratura, di composizione, di linguistica. Non tutti strapperanno un contratto alla casa editrice, ma magari, tra le fila di chi vorrebbe diventare un grande scrittore, si nasconde anche chi diventerà un importante critico letterario, uno spietato agente, un talentuoso editore, un magnifico insegnante di letteratura o un brillante giornalista.

Studiare scrittura, leggere i grandi autori, analizzare le loro storie, vite e opere non può mai fare male, anche se non dovesse risultare in un anticipo da due milioni di dollari alla Penguin per il romanzo del secolo. Ecco perché, forse, dovremmo imparare dalla fiducia che gli Americani hanno nell’idea che ognuno prima o poi troverà la propria strada, dall’orgoglio di aver fatto parte di una comunità specifica (quella del campus) e di aver studiato una materia così interessante. Fidiamoci di noi stessi, senza mai darci importanza. Crediamoci. Negli Stati Uniti purtroppo l’istruzione è molto costosa, ma con una buona dose d’impegno è possibile lavorare all’università, e solitamente gli studenti del dottorato sono pagati profumatamente per studiare. Pagati per studiare ciò che vogliono, che sia letteratura, scrittura, linguistica. Solo questo dovrebbe convincerci che, dopotutto, fare un dottorato in Scrittura Creativa poi così male non è.

 

Lo sgombero di Roma in Piazza Indipendenza: un’operazione giusta con buona pace della becera indignazione dei perbenisti e radical chic

Lo scorso 24 agosto a Roma, in Piazza Indipendenza, la polizia ha eseguito la sentenza di sgombero di uno stabile di proprietà privata, che era stato occupato da anni da centinaia di immigrati, quasi tutti regolari. Come al solito il Paese, sia i suoi rappresentanti ai diversi livelli istituzionali e non, sia l’opinione pubblica, si sono divisi, divisione accentuata dalla modalità di tale sgombero.
E’ il caso non solo di partire dai fatti, ma anche di finirci, e solo allora maturare un giudizio.

I fatti sono i seguenti: in Italia vige il diritto italiano. Questo vuol dire che tale diritto, al contrario di quanto pensano alcuni, sia di estrema destra che di estrema sinistra, ma soprattutto di estrema stupidità, è italiano non perché riguarda gli italiani, ma perché riguarda tutti coloro che si trovano sul territorio italiano. Dunque anche gli immigrati regolari. Questi ultimi sono pertanto persone con dei diritti e dei doveri, entrambi, non solo diritti, né solo doveri.
Immigrato regolare, nel caso in questione rifugiato, cioè immigrato riconosciuto come proveniente da un Paese (nel caso Eritrea) in cui la sua vita era in pericolo, ha diritto giuridico, cioè riconosciuto dalla legge (differente dal diritto umano in generale), di avere ospitalità, residenza e alloggio. Ovviamente ha anche i doveri connessi alla sua permanenza nel nostro territorio. Nel caso in questione tali migranti regolari non hanno ricevuto un alloggio, pur essendogli riconosciuto.

Nel nostro territorio, sia per gli italiani che per gli stranieri (regolari o meno che siano), l’occupazione di una qualsiasi proprietà privata è un reato. Occupazione di proprietà privata vuol dire che a casa mia o vostra qualcuno entra con la forza (qualsiasi violazione di domicilio in quanto tale è forzosa, anche se la porta è lasciata aperta per incuria dal proprietario) e ci vive. Non conta che tipo di difficoltà spingano l’occupante ad agire così, resta il fatto che qualcosa di mio, che la legge riconosce come mio, viene rubato da un estraneo, che si giustifica con le proprie difficoltà. Cioè viola il mio domicilio e ruba il mio spazio: è un furto, così si chiama. Al danno come al solito si unisce la beffa, perché il privato in questo caso ha continuato a pagare le bollette di coloro che illegalmente e ingiustamente occupavano la sua proprietà, e ha perso sia i soldi dell’investimento lavorativo che lì voleva attuare, che i posti di lavoro che ne sarebbe conseguiti.

Il privato ricorre alla giustizia dei tribunali, che gli dà ragione: la proprietà è un diritto inalienabile, va ripristinata la proprietà del privato. Tradotto, il palazzo va sgombrato dai migranti.
Siamo in Italia, questo a quanto pare significa che una sentenza venga applicato dopo qualche anno. Cioè qualche giorno fa, nel 2017!

Lo sgombero, a detta di alcuni commenti, è stato eccessivamente violento. Qui si devono sottolineare alcuni impliciti. La violenza di base sta nell’occupazione illegale (cioè, come si diceva su, avvenuta con la forza) del palazzo. Altra violenza ancora sta nell’ammissione del comune di Roma che gli abusivi impedivano anche l’accesso ai funzionari del comune stesso per un censimento e un rapporto sulla situazione. In un tale contesto lo sgombero si attua di fatto con la forza, proprio perché è una risposta a persone che si sono imposte con la forza e che quindi presumibilmente non vogliono andarsene di propria spontanea volontà. E’ plausibile ritenere che se gli abusivi avessero obbedito immediatamente allo sgombero (perché sì, assurdamente, alla legge si obbedisce) le forze dell’ordine non avrebbero dovuto agire coattamente. Gli idranti, i manganelli e i gas lacrimogeni sono usati per spostare persone che la magistratura e la legge avevano stabilito che se ne dovessero andare e che invece facevano resistenza con sassi e bottiglie. A questo punto si inseriscono una mancanza e due episodi in particolare, che hanno suscitato scalpore nei differenti schieramenti.

La mancanza è la più grave di tutte: pare che tale sgombero fosse stato programmato senza che la politica trovasse immediatamente alloggi alternativi, rendendo più comprensibile lo spaesamento dei rifugiati e quindi la loro, pur illegale, modalità di resistenza. Alcune soluzioni stanno emergendo, due delle quali sembrano essere la disponibilità di alcune villette in provincia di Rieti, a 80 km circa da Roma, e le abitazioni sequestrate alla mafia (quindi presumibilmente dislocate soprattutto nel sud Italia). A queste possibili soluzioni i rifugiati pare abbiano risposto inizialmente, almeno stando alla interviste, con un rifiuto. Ora, lo stato dovrebbe garantire al rifugiato un alloggio, non anche la località che lui preferisce. Rieti non piace, peggio per loro: l’ospitalità, per quanto garantita dalla legge, non può permettere di diventare lo sfruttamento dei fessi. Si accampano scuse del tipo che da Rieti è difficile raggiungere Roma, o che le scuole ormai erano vicine a dove loro vivevano illegalmente. Certo, ma le scuole esistono anche a Rieti e nel sud Italia, mentre i posti di lavoro eventualmente ormai presenti a Roma, vanno, qui si deve dire purtroppo, messi in discussione, cercando di mantenere l’immigrato nel suo posto di lavoro, ma se esso confligge con la disponibilità di un alloggio, purtroppo, si ripete, l’immigrato dovrà spostarsi e cercare altro lavoro. La repubblica italiana deve garantire dunque i diritti spirituali della persona e quelli materiali, ma tra quelli materiali non esiste il diritto di vivere per forza a Roma, né il diritto di lavorare lì, invece che in altro posto, o il diritto di andare a scuola lì, piuttosto che altrove. Questi non sono diritti, ma desideri, sta alla politica decidere se soddisfarli, ma non ha il dovere di farlo, poiché non sono diritti, ma possibilità.

Il primo episodio grave invece è stato quello del funzionario di polizia che pronuncia queste parole (che chissà quante volta avrà pronunciato parole simili ad un suo connazionale): “Se non obbediscono spezzagli un braccio”. La giustificazione dello stesso è stata poi che era un frase in libertà, che non avrebbe dovuto pronunciare, mentre chi lo difende in generale afferma che in quelle situazioni come in altre lavorative, seppur differenti, escono molte frasi che esprimono più la tensione, che l’intenzione. Comprensibilissimo, ma non sufficiente. Perché? Si confrontino le due situazioni: un cittadino normale arrabbiato per il traffico, dunque in tensione, urla un romanesco “mo (adesso) t’ammazzo” ad un altro autista; seconda situazione, quella in questione: un funzionario che comanda alcuni poliziotti ordina di dover spezzare il braccio ai resistenti. La differenza è evidente: il primo non ha per legge il monopolio della forza, non ha armi con sé, non ha nessuno a cui può dare ordini, la sua è dunque una frase, terribile certo, ma priva dei mezzi, a meno che non sia un assassino, per divenire reale, la seconda frase, quella del funzionario di polizia, non è più una frase, ma un ordine nel momento stesso in cui i suoi uomini lo ascoltano, nel momento in cui la pronuncia in servizio, durante un’operazione, nel momento in cui il suo lavoro prevede, a differenza del cittadino, un addestramento alla tensione, che dovrebbe evitare che il monopolio della forza diventi un abuso della forza. Dunque l’immigrato se avesse sentito tale frase, avrebbe avuto ragione di temerne la possibile traduzione nella realtà. Tale funzionario va sanzionato, perché per lui la violazione del diritto è addirittura più grave che la violenza del privato cittadino. Inoltre ci si sta fossilizzando su questa frase e non si è rivolta l’attenzione, ad esempio, al poliziotto che invece va a confortare una donna.

Il secondo episodio è il famoso lancio della bombola vuota di gas da parte di un rifugiato dal balcone del palazzo, mentre in piazza c’era la polizia. E’ stato accertato che non è stato lanciato addosso alla polizia, dunque per ferire od uccidere, ma come monito a non avvicinarsi, dunque una minaccia di violenza, più che una violenza. Questo non toglie che sia grave ugualmente. Gravissimo. Chiunque di noi usasse oggetti più o meno pesanti per esprimere una minaccia ad un poliziotto che sta agendo in nome della legge, commetterebbe un reato, le intenzioni non lo giustificano: l’atto, pur fermo al gesto simbolico e non pericoloso, rimane un atto ostile alle forze di polizia. Un reato.
Dunque, come ad ogni manifestazione, va tristemente constatato che se un reato, come lancio di oggetti contro un poliziotto, o insulti a pubblico ufficiale etc… lo si commette singolarmente, è reato, se lo commettono in tanti si chiama manifestazione, resistenza, diritto alla casa, disobbedienza civile, etc… La massa però non crea diritti, né all’occupazione abusiva, né alla violenza.

Nel ’68 Pasolini difendeva i poliziotti, veri proletari, dagli studenti che facevano le barricate, per la maggior parte figli di papà che giocavano a fare i rivoluzionari per noia. Purtroppo a distanza di cinquant’anni non è cambiato nulla. E Pasolini aveva ragione da vendere. Fra di loro c’è Mario Capanna, rivoluzionario di quegli anni che oggi difende a spada tratta i vitalizi. Oppure pensiamo al sovversivo Francesco Caruso, che è passato dalla barricate alla cattedra universitaria a Catanzaro. Il che è tutto dire. E guardacaso è abbastanza palese una certa contiguità tra alcune ONG, associazioni, convegni, premi giornalistici, finanziamenti… Solitamente chi difende a prescindere i migranti ed è per l’accoglienza senza se e senza ma, non vive i problemi quotidiani dei cittadini che sono a contatto con i migranti ed è per l’abolizione della proprietà privata e delle frontiere, idee criminogene.

Si può allora dire che c’è un colpevole solo e più vittime. Il colpevole è la politica, lo stato, che avrebbe dovuto impedire il crearsi di una tale situazione e non l’ha fatto, costringendo il diritto della legge a scontrarsi con il diritto alla casa dei rifugiati. Eschilo diceva che il diritto lotta contro il diritto, se si riferiva alla politica, si sbagliava. In una democrazia il diritto evita i conflitti, non entra in conflitto, la democrazia è (dovrebbe essere) armonia di interessi, interessi che esprimono dei diritti. Se la democrazia smette di tessere l’ordito, di essere sarta di tutti i fili, come direbbe Platone nel Politico, allora fa emergere l’anarchia, e tra democrazia e anarchia c’è e ci sarà sempre contraddizione.

Infine, se è vero che non ci può essere accoglienza vera senza sufficienti risorse – perché sì, l’accoglienza è una scelta morale, ma una scelta morale senza mezzi per farla come si deve diventa scelta immorale, cecità sulle conseguenze – è però altrettanto vero che in uno stato in cui il diritto lotta contro il diritto, la solidarietà non sarà mai possibile, perché costringe alla lotta, invece che al compromesso, costringe il vinto ad una sopravvivenza illegale e il vincitore ad un abuso, seppur legale. Se gli italiani vogliono rimanere persone morali, devono costruire insieme una democrazia dove non esista questa contraddizione, che non vuol dire accogliere tutti o nessuno, ma accogliere umanamente. Come sempre, la sfida di diventare veramente esseri umani ci ritorna addosso.

Leggi del “giorno dopo”: oltre il danno anche la beffa nel Paese dei ritardi

Tutto scorre fino a quando accade qualcosa che, ci costringe a ricorrere a leggi adeguate. Questo è praticamente il mode dei giorni nostri. Gli eventi, le catastrofi o i fatti di cronaca risultano i campanelli d’allarme dai quali scattano promulgazioni di norme e di misure.

Recentemente, ad esempio, è stata approvata in via definitiva la legge contro il cyberbullismo: si profilano rigidi controlli sul web, sportelli anti-bullismo, punizioni esemplari per tutti i contravventori. Ma, quanti casi di bambini bullizzati si sono susseguiti nel corso del tempo? Quanti, hanno riportato traumi e danni psicologici irreversibili prima che qualcosa cambiasse?

La medesima storia si è ripetuta dopo i 1500 feriti in Piazza San Carlo a Torino, in occasione della finale di Champions League. In pochi giorni sono arrivate, puntuali, nuove norme da tenere in considerazione per ogni evento e manifestazione come: la capienza della piazza, le vie di fuga, il divieto di introdurre bibite in vetro, la presenza obbligatoria di postazioni sanitarie e controlli ferrati all’ingresso delle piazze.

Anche la legge per la legittima difesa è stata emanata dopo che alcuni cittadini sono stati costretti a difendersi all’interno delle proprie mura domestiche o dei proprio esercizi commerciali. In una duplice veste, carnefici e poi vittime, si sono ritrovati ad essere il capro espiatorio di questo sistema legislativo che, da lontano sembra quasi beffarli.

Le città crollano per il terremoto e le valanghe travolgono i resort. La preoccupazione imminente è sempre quella di scaricare il barile, tanto domani ci si preoccuperà di prendere misure e promulgare leggi in merito. Questi sono solo alcuni dei fatti di cronaca che sfortunatamente, hanno presagito quelle che potremmo definire, le leggi del giorno dopo.

“E’ giusto cautelarsi per evitare che eventi simili si ripetano”. Questa frase risuona come un mantra ogni volta che si verificano questi accadimenti. Tutte queste norme, leggi e contromisure risultano essere post-hoc e non ad-hoc come dovrebbero essere: sarebbe opportuno che si lavori con zelo per tutelare i cittadini e non per offrire un riparo in caso di pericolo e di necessità.

Si dovrebbe prediligere il principio “prevenire anziché curare” invece che “meglio tardi che mai” che, risulta essere irrispettoso, infruttuoso e dispendioso di energia e di denaro pubblico.

 

 

 

 

 

 

Totò Riina e il diritto di morire con dignità

Giorni fa la Cassazione ha chiesto che sia valutata attentamente la legittima richiesta di esser scarcerato avanzata dall’86enne boss mafioso Salvatore Riina, in carcere dal 1994 e condannato a vari ergastoli. Riina è malato e vuole morire a casa sua. Inevitabili e giuste le polemiche.

Partiamo da un semplice concetto: uno Stato civile non può fare a meno della giustizia e la giustizia si applica anche con pene detentive che prevedono anche l’ergastolo, ovvero il cosiddetto “fine pena mai”. Uno Stato civile può, per motivi di clemenza giustificati da pentimento, ravvedimento, manifestazioni di perdono ai familiari delle vittime, collaborazioni e buona condotta, ridurre o alleviare la pena inflitta. Uno Stato civile altrimenti applica la sentenza definitiva e, assicurando le cure e l’assistenza dovute oltre che all’assenza di maltrattamenti, tiene detenuto l’ergastolano fino alla sua dipartita da questo mondo come prescritto dal codice di procedura penale. Uno Stato civile e laico non deve dimostrare nient’altro.

Se il criminale stragista Riina avesse mostrato pentimento, per spirito di carità umana, probabilmente tale diritto gli andava concesso. Ma nel suo caso, non merita questo tipo di trattamento. I lunghi anni di solitudine passati in carcere, sono riusciti a cambiare la sua anima. Riina è la dimostrazione che il male è insito nell’uomo. Offrire un fine vita dignitoso a chi non ha mai condotto una vita dignitosa? Ma cosa intendiamo davvero per “morte dignitosa”? Solo se un condannato (e Riina non è un detenuto qualsiasi, altrimenti non lo avrebbero punito con il 41bis), muore a casa propria è rispettato? Immaginiamo se Riina tornasse davvero a casa, la sua dimora diventerebbe un “santuario” con tante processioni con baciamani e genuflessioni. Che segnale si darebbe ai mafiosi che vivono di simboli? Provenzano è morto in ospedale piantonato, ridotto ad un vegetale, perché a Riina dovrebbe essere riservato un trattamento speciale?

Se a casa Riina potrebbe essere ancora pericoloso, avendo modo attraverso pizzini inviati tramite terze persone di dare disposizioni alla cupola. Lo ha già fatto disponendo la morte del magistrato Di Matteo e di don Ciotti. C’è una guerra in corso che lo Stato non sta vincendo, la mafia non è ancora stata sconfitta. Ai domiciliari il capo dei capi sarebbe l’ennesimo segnale di debolezza. Riina va curato in carcere o in ospedale. Cosa c’è di non dignitoso in questo? Proprio perché lo Stato tutela i diritti di un popolo attraverso le sue leggi, garantisce un processo equo a chi è sospettato di un reato e la certezza della pena alle vittime. Il resto è beneficienza o la grazia esplicitamente chiesta e concessa straordinariamente dal presidente della Repubblica. In Italia non esiste la pena di morte, ma Riina ha decretato la morte ai difensori della Legge dello Stato e di tante altre persone, perbene e non.

La civiltà non si dimostra scarcerando Riina, ammesso che stia davvero male, ma facendolo morire dignitosamente in carcere, curato in maniera appropriata e negli ultimi momenti di vita con i propri familiari accanto. L’impressione è quella che siamo di fronte ad un’incivile discriminazione basata sul reddito: se posso permettermi un team di avvocati che segua la pratica per la scarcerazione vengo scarcerato; altrimenti muoio in carcere.

Parte dell’opinione pubblica che invoca civiltà e umanità a proposito del caso Riina dovrebbe fare affidamento alle parole del Procuratore Antimafia Roberti che si è espresso contro la Cassazione: “Riina è ancora il capo di “Cosa Nostra”, abbiamo le prove per dirlo. Il suo stato di salute può essere adeguatamente trattato in carcere o con ricoveri mirati. Provenzano era in condizioni addirittura peggiori”.

 

 

 

 

Lo studio della scrittura creativa e la sua utilità

Nel tempestoso clima dell’attuale mondo editoriale, sembra difficile pensare che sia possibile imparare a scrivere il grande romanzo italiano del ventunesimo secolo o un best-seller commerciale pronto a sbancare le classifiche. Eppure, i corsi e programmi di scrittura creativa prosperano, non soltanto per quanto riguarda le più prestigiose istituzioni statunitensi, ma anche per gli workshop locali e i club del libro, i cui docenti o mediatori sono più spesso abili imprenditori che scrittori di successo.
Alla luce di questo sorgerebbe spontanea l’ipotesi che, se in tutto il mondo il mercato editoriale sembrerebbe in declino, la fioritura di corsi di scrittura sia una di quelle che gli Americani chiamerebbero daylight robberies: rapine alla luce del sole. In altre parole: fregature. Pubblicare senza doversi prestare a case editrici fasulle o auto-pubblicazioni è semi-impossibile, ma imparare a scrivere un romanzo pubblicabile, se si è disposti a pagare, lo è: suona sospetto, è vero.

Sul The Atlantic, un giovane studente dell’Iowa Writers’ Workshop (il più prestigioso programma di scrittura creativa degli USA e del mondo) ha dichiarato che lui e la maggior parte dei suoi compagni girano per la biblioteca e le sontuose aule dell’Università ancora increduli di essere stati ammessi. Come se essere accettati in un programma così famoso garantisse la strada spianata verso la pubblicazione con un’ottima casa editrice, o come se le facoltà innate che permettono ad uno studente di essere ammesso al programma fossero doti eccezionali che condurranno – obbligatoriamente – ad una sfavillante carriera di scrittore. Chi lo sa. L’aura di mistero che circonda questi programmi non ha certo impedito la loro fioritura: sempre The Atlantic sostiene che, solo negli USA, i programmi di Creative Writing siano più di trecento, e il loro obiettivo sia quello di aiutare gli studenti a scrivere racconti, poesie e romanzi “di livello pubblicabile”, concetto che potremmo definire quantomeno controverso.

Pubblicabile secondo chi? Da chi? Vendibile? Adatto ai trend editoriali del momento? Sono molte le opere davvero buone scartate dalle agenzie letterarie e dalle case editrici perché proposte in un momento in cui, invece che un romanzo sociale, il mercato richiede un thriller psicologico sulla vita dei pendolari o un romanzo erotico per casalinghe, come è successo dopo il fenomeno di La Ragazza del Treno di Paula Hawkins o di Cinquanta Sfumature di Grigio di E.L. James.

L’idea di insegnare ad un gruppo di studenti più o meno talentuosi a scrivere un romanzo pubblicabile può sembrare strana, soprattutto agli Italiani. Insomma, l’Italia è una terra di grandi scrittori. Fare lo scrittore o il poeta, qui, è una cosa seria: lo scrittore è il vate, una figura circondata da un alone di rispetto e mistero. Il resto è solo spazzatura: libri di facile, troppo facile consumo, quelli considerati (spesso a ragione) la rovina del mondo editoriale, uno spreco di fondi che avrebbero potuto essere destinati ad una letteratura più seria e interessante.  Eppure, anche in Italia qualche corso di scrittura creativa esiste, basti pensare alla Scuola Holden, presieduta da Alessandro Baricco a Torino, alla Bottega Finzioni, a Bologna, dove insegna Carlo Lucarelli, star del noir e giallo italiano. Sempre a Bologna, lo scrittore Gianluca Morozzi organizza workshop da anni, mentre Antonella Cilento anima interessanti corsi di scrittura a Napoli. Questi sono solo pochi esempi nel mare di realtà locali su tutta la penisola.

La domanda, a prescindere dalla location e dal tipo di corso, rimane una sola: è possibile insegnare – o imparare – a scrivere? Qual è il modo “giusto”, se esiste, per imparare a scrivere una storia interessante, che trascini il lettore in un altro mondo e lì lo tenga per tutta la durata del racconto o del romanzo?
Roberto Cotroneo, scrittore e giornalista, ha scritto uno dei manuali più “classici” per lo studio della scrittura creativa in Italia. Nel libro, Manuale di Scrittura Creativa, si trovano anche consigli di quelli che sono considerati mostri sacri della letteratura italiana attuale come Andrea Camilleri, che, in un paio di pagine, descrive alcune tecniche da lui utilizzate nel processo di creazione dei suoi personaggi. Se uno scrittore così noto si presta a consigliare gli aspiranti autori su esperimenti da mettere in pratica per scrivere un buon pezzo significa che, forse, l’idea di dare lezioni o suggerimenti di scrittura creativa non sia una prerogativa di ciarlatani affamati di soldo facile fatto sulle speranze altrui.

La scrittrice americana Flannery O’Connor, che partecipò per anni a conferenze sulla scrittura creativa in molte università americane, disse di non avere teorie su come scrivere bene, ma di poter portare la propria esperienza e testimonianza di scrittrice. Ma il solo contatto con uno scrittore o una scrittrice eccezionale non può garantire un futuro da brillante stella nel firmamento della letteratura.

Ma allora – di nuovo -, cosa fa di un autore un futuro scrittore? Cosa lo contraddistingue da qualsiasi blogger, a parte l’idea di prendere in mano una penna o una tastiera e buttar giù qualche idea? Frequentare il programma di scrittura creativa più prestigioso del mondo? Seguire un corso di Baricco, leggere un a settimana, scrivere mille parole al giorno? Insomma, domanda da un milione di dollari: è davvero utile, un corso di scrittura creativa?

La domanda, forse, è mal posta. Forse sarebbe meglio chiedersi a cosa serva, uno corso di scrittura creativa, e qui le risposte si moltiplicano.

Un corso di scrittura creativa serve a trovare il coraggio di mettersi alla prova e di esprimere i propri pensieri e idee. Serve a sperimentare nuovi stili e generi e a conoscere persone dalla voce ed esperienza diversa, che riescono ad arricchire i percorsi degli altri, ad influenzarli e a condividere nuove ispirazioni e opinioni. E gli esercizi proposti da tutor e professori sono sempre utili a cercare nuove vie attraverso cui esprimere la propria creatività.

Nel documentario Le Cinque Variazioni, il regista Lars Von Trier sfida il suo mentore e famoso direttore Jørgen Leth a girare una nuova versione del vecchio film L’Uomo Perfetto, mettendo però in pratica limitazioni molto precise. Il regista fallisce nel seguire tutte le indicazioni di von Trier, ma alla fine sviluppa un progetto che va ben oltre le iniziali aspettative e perplessità. Ecco: gli esercizi e giochi letterari possono sempre servire a questo. Ad incanalare le proprie idee in percorsi ben definiti, giungendo, forse, a nuovi, interessanti luoghi da esplorare.

I docenti di scrittura creativa invitano ad imparare a osservare, ascoltare e conoscere, e sostengono che l’ispirazione possa essere tratta da qualsiasi luogo, evento o banalità della vita quotidiana. Da una conversazione ascoltata sul bus, da un biglietto lasciato sul bancone di un bar, dalla lettura del giornaletto di cucina di un supermercato. La grande idea può venire a molti e la pazienza di metterla in pratica, la tenacia e la passione sono sempre d’aiuto. Un grande libro potrebbe essere scritto da tutti meno che dal povero e speranzoso aspirante autore che ha frequentato fior fior di corsi di scrittura creativa.

Quindi forse no, la laurea in scrittura creativa non è utile, se per utilità si intende la possibilità di divenire il nuovo Stephen King. Ed è innegabile che, invece, molti sedicenti scrittori o ciarlatani si ergano a insegnanti, vantando le proprie auto-pubblicazioni e approfittando di chi, invece, il gene dello scrittore di best-seller in attesa della pubblicazione pensa di averlo sul serio.

Molti grandi scrittori hanno frequentato e insegnato corsi di Scrittura Creativa. I primi programmi di scrittura nacquero alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento negli Stati Uniti, e lo studioso Mark McGurl, autore del classico The Program Era, sostiene che la nascita di questi corsi sia stato l’evento più importante nella storia della letteratura americana del dopoguerra, grazie al progressivo avvicinamento tra scrittori e mondo accademico.

Il valore di un corso di scrittura creativa e il modo in cui difendersi da ciarlatani e sedicenti autori sono argomenti ampiamente trattati da scrittori e esperti. Per informarvi al meglio, nel caso in cui siate curiosi, vi consiglio la lettura di questo articolo di Louis Menand sul New Yorker, che vi chiarirà dubbi e curiosità sulla storia dello studio della scrittura creativa.

1 Maggio: la festa dello schiavo precario

Esci di casa e ti accorgi che solo al parlamento viene onorata quest’occorrenza, quella del 1 maggio, eh si!
Negozi aperti, centri commerciali che addirittura posticipano la chiusura, ristoranti e bar perennemente accessibili, mercati, mercatini, ti soffermi e pensi, ma la festa di chi è?!
E’ paradossale l’ingegno moderno che si adopera a farci sentire  festeggiati, senza alcun minimo riscontro concreto, che forza!

Basta!

Siamo esausti di questa informazione politica propagandista che a tutti i costi vuole far passare come sfide europee, chiare e dolorose inculate (scusate il termine ma se me ne suggerite qualcuno che rende meglio l’idea provvedo subito a sostituirlo).
Jobs act, flessibilità, rinnovamento, adrenalinici cambiamenti e una chiara volontà di promuovere deportazioni di massa per sollevare sfruttamento e concorrenza al ribasso del costo del lavoro!
Ma non demordete che presto bandiranno una nuova festa per simboleggiare il nostro tacito assenso a questo processo esiziale,  la chiameranno, a mio avviso, la festa dello schiavo e aggiungeranno anche, precario!

Magari la ingloberanno alla festa della liberazione così eviteranno di assegnare altri giorni liberi e il 25 aprile si trasformerà nel giorno della liberazione e della schiavitù.
Queste celebrazioni si trasformano in una semplice visione televisiva di noiose parate o nauseanti discorsi di  ministri venduti al potere o semplicemente un valido motivo per andare tutti insieme, appassionatamente, ai grandi magazzini o da Ikea!
Ce lo chiede l’Europa, senza mai chiedere se noi avessimo qualcosa da reclamare, poiché sono ben coscienti che la nostra proposta sarebbe un “politics act” promosso e attuato da un attrezzato maschio di colore.

Fonte:

http://www.spaccanapoliblog.it/1-maggio-la-festa-dello-schiavo-precario/

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