‘Una storia nell’arte. I Marchini, tra impegno e passione’. Fino al 21 agosto 2022 a Foligno

I maestri moderni della storia dell’arte: Balla, de Chirico, De Pisis, Magritte, Picasso, Morandi insieme ai contemporanei De Dominicis, Castellani, Di Stasio, Kounellis. Sono soltanto alcuni degli oltre 50 artisti che dal Novecento fino ai giorni nostri hanno accompagnato la vicenda storica e umana di Alvaro Marchini, della sua famiglia e della galleria La Nuova Pesa di Roma. Una selezione di oltre settanta opere si potrà ammirare al CIAC di Foligno fino al 21 agosto.

La Fondazione Cassa di Risparmio di Foligno presenta dal 21 maggio al 21 agosto 2022 la mostra “Una storia nell’arte. I Marchini, tra impegno e passione. Dopo l’esposizione di successo all’Accademia Nazionale di San Luca a Roma, da cui promana l’operazione culturale conclusasi lo scorso aprile, la mostra è ospitata al Centro Italiano Arte Contemporanea (CIAC). Un progetto unico e ambizioso, realizzato con la curatela di Fabio Benzi, Arnaldo Colasanti, Flavia Matitti, Italo Tomassoni e con il coordinamento di Gianni Dessì.

Grazie alla generosità di numerosi prestatori, saranno esposte a Foligno più di settanta opere selezionate fra quelle della collezione di Alvaro Marchini e della sua famiglia con una incisività specifica per l’aspetto più contemporaneo della Collezione.

Juan Gris Violin et livre 1924. olio su tela, collezione privata

La storia di Alvaro Marchini è stata scandita dall’impegno imprenditoriale e politico (comandante partigiano, medaglia d’argento della Resistenza, cofondatore della società che editò “l’Unità”, organo del Partito Comunista) e dalla passione per l’arte, che lo porta a collezionare e ad aprire nel 1959 a Roma la galleria La Nuova Pesa, con sede, prima in via Frattina e dall’autunno 1961, in via del Vantaggio. L’esperienza ricca e complessa nasce come tentativo cruciale di annodare e promuovere un’idea di possibile prassi estetica all’insegna della figurazione.

La prima stagione della galleria, tra il 1959 e il 1976, vede coinvolto un gruppo di artisti e intellettuali, da Antonello Trombadori a Renato Guttuso, da Corrado Cagli a Pier Paolo Pasolini, da Alberto Moravia a Carlo Levi, legati ad Alvaro Marchini da amicizia, oltre che da una familiarità culturale e ideologica. Anche Simona e Carla, le due giovani figlie di Alvaro, partecipano attivamente alla gestione della galleria. Chiusa La Nuova Pesa nel 1976, Alvaro Marchini continua l’attività imprenditoriale e collezionistica sino alla morte, avvenuta il 24 settembre 1985.

Un mese dopo la figlia Simona, quasi a lenirne la perdita, apre una nuova galleria nella stessa città e con lo stesso nome, ma nuovo indirizzo, via del Corso. In un’ideale continuità sentimentale, si avvia a farsi testimone del proprio tempo sino a giungere ai nostri giorni.

È sullo svolgimento della Collezione a cura della figlia Simona Marchini, spiega il curatore Italo Tomassoni, che sofferma l’attenzione della mostra di Foligno che si ricollega alla tradizione e alla vocazione del CIAC che, dalla sua istituzione (2009), è impegnato sulle figure del contemporaneo. L’area vasta sulla quale di affaccia il secondo tempo de La Nuova Pesa è frammentata e frammentaria. Fuori da ogni assiologia, le strategie si adeguano alla retorica di un individualismo sul quale pesa la tecnologia, il virtuale, la rete e tutto ciò che allontana il reale.

Simona Marchini, che incarna un tempo necessariamente altro, rispetto a quello del padre, dal 1985 al 2020 realizza quasi 250 esposizioni, uno spaccato del vero, del vissuto e di ciò che sopravvive, soprattutto a Roma, di valori artistici dispersi e difficili. Scopre realtà creative portandosi fuori tiro dal coinvolgimento ideologico che aveva caratterizzato l’attività del padre Alvaro. Evita le correnti, privilegia liberamente il soggettivo, intercetta i lacerti di un’arte divenuta labile, volatile, mutevole e che, tuttavia, rappresenta ciò che ‘passa’ l’esperimentazione estetica del suo tempo. Tutto resta dentro il panorama fluttuante di opere prese nel gioco rituale dell’autoritratto. È come se ogni lavoro si riflettesse su uno specchio che rimanda l’autore”.

Il suggestivo percorso espositivo realizzato al CIAC ricopre tutto l’arco del Novecento fino ai giorni nostri. L’esposizione segue in linea generale il criterio cronologico: insieme a una selezione dei “classici” relativi alla fase storica della Collezione, documenta la nuova ricerca artistica che rivela inedite soluzioni di figurabilità.

Il visitatore potrà ammirare, tra le altre, opere di Giacomo Balla, Georges Braque, Carlo Carrà, Giorgio de Chirico, Filippo De Pisis, René Magritte, Pablo Picasso, Giorgio Morandi, Renato Guttuso continuando poi con i lavori contemporanei di Carla Accardi, Luca Maria Patella, Cesare Tacchi, Mimmo Jodice, Enrico Castellani, Stefano Di Stasio, Felice Levini, Vettor Pisani, Maurizio Mochetti e Salvo.

Tra gli importanti nuclei in mostra, si segnala una significativa raccolta dei disegni magistrali di George Grosz, Otto Dix e Scipione, che si potranno ammirare in dialogo con le opere pittoriche dei grandi maestri del Novecento. Particolarmente rara è inoltre l’esposizione dell’opera su tavola di Gino De DominicisSenza titolo”, facente parte della mostra che lo stesso artista realizzò nel 1996 nella galleria La Nuova Pesa, quando, oltre ad altre opere, espose l’installazione “L’Appeso”. Altrettanto rara in una mostra è l’opera “Senza titolo” di Jannis Kounellis, un olio su tela, metallo e coltello del 2013.

La mostra “Una storia nell’arte. I Marchini, tra impegno e passione” intende rendere omaggio a chi ha dato testimonianza attiva della cura, della conservazione e della promozione dell’arte. Allo stesso tempo offre l’occasione per riflettere sul Novecento, un periodo cruciale della nostra cultura.

In occasione della mostra è stato pubblicato un catalogo edito dall’Accademia Nazionale di San Luca, con i testi introduttivi di Claudio Strinati, Segretario Generale dell’Accademia, Umberto Nazzareno Tonti, Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Foligno, e Gianni Dessì, in qualità di coordinatore, nonché i saggi dei curatori Italo Tomassoni, Fabio Benzi, Flavia Matitti, Arnaldo Colasanti, una conversazione con Lucio Villari e le testimonianze di Carla e Simona Marchini.

I servizi di mostra, le visite guidate e gli approfondimenti sono a cura di Maggioli Cultura.

 

‘L’ombra del passato’ di Stefano Sciacca: un suggestivo lavoro di rievocazioni del cinema nero hollywoodiano

L’ombra del Passato, edito da Mimesis è l’ultimo romanzo di Stefano Sciacca.

Lo scrittore nasce a Torino nel 1982. Si laurea in giurisprudenza e specializza nelle professioni legali presso l’Università degli Studi di Torino, ha studiato all’Università di Oxford e collaborato con l’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale.

Il 2014 è l’anno della sua opera prima Il Diavolo ha scelto Torino di Robin edizioni. Dello stesso anno La Vendetta di McKoy, Europa edizioni 2014. Gli anni a seguire, dal 2015 al 2018, sono un tripudio di saggi, pubblicazioni e articoli: Fritz Lang, Alfred Hitchcock: vite parallele, Falsopiano 2015; Prima e dopo il Noir, Falsopiano 2016; Tracce di Realismo a Noli: dall’impressionismo di Emilio Praga all’espressionismo di Maria Vincenti, Fondazione culturale Noli 2016; Seneca e Dante, insegnanti sulla via per le stelle; Sir William Shakespeare, buffone e profeta, Mimesis 2018. Numerosi sono gli approfondimenti, videoconversazioni e appendici dedicati al tema del cinema, della storia dell’arte e della letteratura: Edward Hopper, Nighthawks e il cinema noir & Mario Sironi, un’esistenza noir; Cinema e Psiche: Il manipolatore, Valiant 2018; Pillole di GUM, Valiant 2018. Tutti i contributi sono caricati sulla piattaforma Youtube. Al 2018 risale anche la sceneggiatura, scritta con Claudio Artusio, Suicidio allo specchio, selezionata tra i finalisti del TOHorror Film Fest 2018. Proprio oggi, 4 giugno, sarà presentata il suo lavoro L’ombra del passato.

 

L’Ombra del passato: Sinossi

Torino. La seconda guerra mondiale è finita da poco, restituendo un mondo tutt’altro che normale, un mondo senz’anima. E chi invece, un’anima, ancora la possiede, non può fare a meno di sentirsi a pezzi. Proprio come la città, alla quale si ritrova suo malgrado incatenato.

Michele Artusio è un investigatore privato squattrinato, avido, cinico e miscredente. Eppure conserva, da qualche parte, quanto resta della sua etica professionale. E certe notti questo può rappresentare un bel problema!

 

Il buio mi avvolgeva come un mare infinito, che ti inghiotte per non restituirti più alla vita.

Era solo un’impressione; lo so. Ma mi sentivo assediato. Troppi pensieri appesantivano il mio passo solitamente di felino predatore. Non ora. Ora sapevo d’essere io la preda. Ogni tanto sfilavo sotto una doccia luminosa; tagliava la notte come una gelida lama di coltello. Conficcata tra le

scapole di un uomo. Lampione dopo lampione; mi dirigevo al Jazz Club. Se solo mai fossi riuscito ad arrivarci sulle mie gambe. A distanza di un braccio dal cono di luce, era nuovamente l’oscurità; e si intravedevano a malapena le cicatrici della guerra. Ormai sul punto di rimarginarsi del tutto. Una

tragedia lontana; il passato è passato. È questo che vorrebbero farci credere. Che madornale fesseria! Il passato non smette mai di seguirti. È un’ombra che ti ossessiona; ti perseguita; esige il prezzo delle tue colpe. E non c’è uomo che non ne abbia. Già, un’ombra. Anche io ne avvertivo una addosso. Ostinata come una zecca, che si aggrappa al pelo di un cane morente. Solo che personalmente non avevo alcuna intenzione di morire. Almeno non per quella notte. Perché quella notte qualcosa ancora non tornava. E lo confermava proprio la sinistra presenza che sentivo sul collo. Troppo imprudente perché non me ne accorgessi. Mentre risuonava nella mia

mente. Inopportuna quanto una banda di ottoni che, senza tanti riguardi, si fosse accodata al seguito d’un feretro.

 

Artusio si trova nel giro di pochi giorni a lavorare su due casi paralleli.

Franco Cairo è un reduce di guerra sentimentale: non ha più notizie della moglie Teresa e perciò lo incarica di ripescarla, anche se a giudicare dalla fotografia della donna non sembrerebbe proprio valerne la pena. A proposito di donne! Eva Valente è la cliente con le gambe più lunghe che Artusio abbia mai avuto: la poveretta ha perso il sonno a furia di rimpiangere il prezioso diadema appartenuto alla nonna e da questa impegnato pur di far fronte a un debito. Sarebbe quindi il caso di recuperarlo. Artusio è avido: entrambi lo pagano profumatamente e lui, gli occhi che brillano, accetta senza troppe domande. Ben presto, però, intuisce che qualcosa non quadra. Lo pagano ancora. Questa volta per starne fuori. Ma Artusio è anche molto testardo e maledettamente orgoglioso. Ora vuole saperne di più: e, così, eccolo invischiato in un’accusa di duplice omicidio. Il commissario Lombardi gli sta addosso, tra i due non corre buon sangue. Artusio non rispetta le regole – talvolta, forse, neppure la legge – sfotte la polizia e si atteggia a duro. Questa è un’occasione come un’altra per dargli la regolata che merita. Si crede un dritto il nostro Artusio, mentre affronta con disinvoltura menzogne e raggiri, agguati e sparatorie. E intanto quei due casi finiscono per intrecciarsi. Eppure questo non lo turba troppo. Magari, l’aveva persino previsto. Del resto, conosce bene l’animo umano il nostro Artusio e ormai non vi ripone più alcuna fiducia. Adesso, però, è destinato a scoprire quanto ancora il male possa sorprenderlo e l’essere umano deluderlo.

 

L’Ombra del passato: la poetica del dissenso e della disillusione tipica del cinema noir hollywoodiano

L’ombra del passato è un racconto investigativo ispirato al cinema noir hollywoodiano. Dunque il Noir è un cinema realista, incentrato sulla modernità. L’epoca moderna è l’epoca della promiscuità e dell’uguaglianza formale. La caduta dell’antico regime è stata seguita dalla definitiva affermazione delle istituzioni, pubbliche e private, della borghesia. Nella società moderna non esistono più padroni e servi e gli antichi privilegi d’origine feudale sono stati cancellati. Ma nessuna trasformazione giuridica può stravolgere la natura umana.

Il cinema noir, oltre a essere sociale è anche psicologico: esso indaga l’animo umano, con le debolezze, i molti vizi, le poche virtù. Il cinema noir porta sullo schermo il concetto homo homini lupus e si risolve spesso in un racconto sulla sopraffazione dei più deboli ad opera dei più forti. Esso non risparmia le accuse alle istituzioni del potere, incapaci, indifferenti, corrotte. Allo stesso tempo il noir è spesso il racconto dell’insofferenza dell’individuo nei confronti della società in cui è costretto a vivere e del tentativo, vano e autodistruttivo, di evaderne, riscattandosi da un’esistenza carica di frustrazione, risentimento, dolore. In questa denuncia, ancora fortemente attuale, risiede il maggior fascino della poetica del dissenso che, infatti, è sopravvissuta anche dopo la conclusione del periodo d’oro del cinema noir propriamente detto.

Ma il noir è anche disillusione: non esiste lieto fine e, quando per qualche motivo, non si verifica la morte fisica del protagonista, costui subisce sempre un trauma interiore: a morire è una parte di lui, a morire sono speranze e illusioni riposte nella società e nel prossimo. Quante analogie si potrebbero trovare con il clima di paura e sconcerto che stiamo vivendo mentre fronteggiamo il covid-19 e ci scopriamo inermi, vulnerabili, fragili, come mai avremmo neppure immaginato di essere, circondati d’ogni confort e ritrovato tecnologico di ultima generazione. Eppure attraversiamo l’ennesima crisi della modernità – epoca di promiscuità per eccellenza – che, ancora una volta, esaspera disuguaglianze sociali, alimenta l’odio di classe, fomenta il dissenso e accresce la disillusione. Esiste però una speranza: se la giustizia umana è fredda e distaccata, tutta numeri e logica, talvolta il caso – solo un altro modo di scrivere la parola caos – può però correggerne gli errori, manifestandosi sotto forma di quella che gli anglosassoni definiscono poetic justice. E, sì, operando anche per mano di individui come il nostro Artusio: ribelli e sfrontati, eppure dotati di un codice morale che li costringe a solidarizzare con la sofferenza dei vinti e a smascherare l’ipocrisia benpensante dei vincitori. È il tipo irresistibile e tenebroso del romantico avventuriero e, in fondo, non cambia granché la circostanza che egli si aggiri nella buia jungla d’asfalto, anziché nell’assolato deserto del far west!

 

 La città e l’ispirazione figurativa

 

“Mentre scrivevo L’ombra del passato, la mia immaginazione si nutriva di riferimenti cinematografici, pittorici e letterari” dice Stefano Sciacca

Quelli cinematografici sono evidenti sin dal titolo del libro: L’ombra del passato, infatti, è anche il titolo italiano di Murder, my Sweet (1944), piccola perla nera hollywoodiana, diretta da Edward Dmytryk, interpretata da Dick Powell e tratta dal romanzo di Raymond Chandler Farewell, my lovely (1940).

Le fonti di ispirazione pittoriche vanno da Edward Hopper e Giorgio de Chirico da una parte; George Grosz ed Ernst Ludwig Kirchner dall’altra. In Particolare di Hopper: i “solitari falchi della notte”, sono un omaggio al capolavoro Nighthawks. L’ufficio di Artusio, la sua “tana” riecheggiano l’atmosfera del quadro Office at night; Ancora di Edward Hopper, Night windows se si pensa al male che, dalla strada, risale e, attraverso una finestra socchiusa, penetra nelle case, persino nel sonno sotto forma di incubo espressionista .

In altri passaggi del romanzo la città de L’ombra del passato risulta frenetica, abbagliante, conturbante. La frenesia urbana che trascina e travolge l’individuo è certamente apparentata con l’atmosfera che seduce e corrompe il provinciale Lucien, nella Parigi moderna delle Illusioni perdute (1837-1843) di Balzac, o con il clima viziato e soffocante che costringe al delitto i protagonisti di Dostoevskij e di Döblin, rispettivamente in Delitto e Castigo (1866) e Berlin Alexanderplatz (1929). Ci sono lo spleen e l’alienazione individuate da Baudelaire quale cifra della moderna esistenza metropolitana e l’indifferenza, la disumanizzazione, la meccanizzazione denunciate da Pirandello nei Quaderni di Serafino Gubbio, operatore (1916).

E, così, eccoci anche al rapporto, spesso coatto e controverso, intrattenuto dai b-movies neri americani e New York, che ormai si era sostituita a Parigi quale instancabile e inarrestabile epicentro della modernità. Costretti a scendere in mezzo al traffico stradale, a farsi largo attraverso i marciapiedi affollati, i cineasti noir hanno imposto all’immaginario collettivo la figura della jungla d’asfalto, della città-pandemonio. Ma, in realtà, l’Europa aveva già manifestato la propria versione dell’inferno urbano, non solo per opera del cinema espressionista tedesco, ma anche attraverso l’arte figurativa di Kirchner (una delle cui numerose vedute urbane è riprodotta sulla copertina del romanzo) e di Grosz, il cui celebre dipinto, Metropolis (1917), rappresenta sì il modello americano, ma ne attesta, al contempo, le inquietanti similitudini con la realtà tedesca, perfettamente documentata nel celebre capolavoro di Walter Ruttmann, Berlin – Die Sinfonie der Großstadt (1927).

 

L’ombra del passato: il jazz e il linguaggio dell’interiorità

L’ombra del passato possiede una sua spiccata musicalità. Innanzi tutto, in omaggio alla tradizione che lega tra loro letteratura hard-boiled, cinema noir e musica jazz, sono inseriti numerosi richiami a questo genere musicale, da Louis Armstrong a George Gershwin, sino al nostro Buscaglione. Ma c’è di più. Perché, mediante un esperimento linguistico certamente spericolato e, probabilmente, non esente da potenziali censure, ho adottato una sintassi volutamente franta che richiama il ritmo della musica jazz, fatta di improvvisazioni, esitazioni, svolte impreviste, scoppi.

“In particolare, ho fatto un ricorso estremo al “punto e virgola” allo scopo di spezzare lo sviluppo del pensiero del protagonista che narra la vicenda in prima persona, finendo così per suggerire un’associazione tra il modo di operare della mente umana e l’andamento tutt’altro che lineare e armonico, ma travolgente, della musica jazz” racconta l’autore. “Si tratta dell’esito del processo di maturazione letteraria che ho attraversato durante il lavoro su Sir William Shakespeare, buffone e profeta: studiando il linguaggio dell’interiorità elaborato da Seneca e Shakespeare, da Dostoevskij e Pirandello, ho provato a dare la mia interpretazione della forma espressiva che si può attribuire allo sviluppo logico del pensiero e del discorso, giungendo a una conclusione, per così dire, opposta a quella di Joyce”

L’approfondimento psicologico dei caratteri, l’accurata descrizione dell’ambiente sociale e urbano, la riflessione sul senso dell’esistenza umana e sul funzionamento del destino assicurano a L’ombra del passato una forte personalità, che non potrà lasciare indifferente neppure il lettore meno esperto del genere.

 

Silvia Idili, artista che coniuga Rinascimento e Metafisica: “i miei lavori alla ricerca del proprio io”

Artista neo-metafisica, visionaria, gotica, realista magica di tradizione rinascimentale: si rispecchia in tutti questi termini l’artista sarda, milanese d’adozione, Silvia Idili, estimatrice al contempo di Leonardo da Vinci e di Giorgio de Chirico, ma certamente rappresenta un’arte che sa di nuovo, un’arte ipnotica, magnetica, che ha a che fare con il nostro inconscio e con il nostro modo di rapportarsi con l’assoluto e la realtà.

Le tele dell’artista sarda spiccano per un originale simbolismo e ricerca cromatica che rendono i suoi lavori fortemente scenografici. I suoi dipinti evocano geometrie, armonia delle forme e composizioni del passato per esprimere con maggiore intensità e credibilità la tensione spirituale, emotiva e psicologica dell’uomo contemporaneo, molto spesso spiazzato dalla complessità della realtà in cui si trova e che non sa decifrare, anche quando si confronta con il trascendente.

L’arte di Silvia Idili è un invito a comprendere il senso della vita, soprattutto attraverso il rito, categoria fondamentale delle civiltà secondo il grande antropologo e filosofo Mircea Eliade, nonché, come sostiene anche la Idili, una garanzia per il mantenimento della propria identità e per quanto riguarda questo aspetto l’artista è pienamente se stessa, un’esistenzialista visionaria che racconta l’assurdità della vita andando oltre il visibile, attingendo alla dimensione onirica e metafisica e all’atavismo della sua terra natale.

Silvia Idili ha esposto, tra gli altri, presso il Museo di Arte Contemporanea di Lissone, la Galleria Moitre di Torino, e al MEA Museo Dell’emigrazione Asuni di Milano.

Visionario 8, olio su tavola 40-x-44-cm 2018

Le sue opere fondono classicità e metafisica. Come nasce questo sincretismo e qual è, secondo lei, il filo rosso che unisce questi due importanti contributi dell’arte europea?

É nato per caso e non di certo da una mia volontà programmata, forse l’incontro è avvenuto poiché prediligo la pittura classica e stimo Giorgio De Chirico, protagonista e inventore della metafisica. Il filo rosso che li unisce credo sia il pensiero stesso di questa corrente che utilizza elementi di pittura classica per distorcere la realtà che apparentemente assomiglia a quella che conosciamo dalla nostra esperienza. Si supera la realtà, per andare in qualche modo oltre.

L’essere definita una pittrice visionaria geometrica è un’espressione che le sta stretta?

In generale non amo le definizioni, anche se spesso le persone hanno bisogno di descrivere a parole ciò che non conoscono. Tuttavia essere definita una pittrice visionaria non mi dispiace. Per me ha motivo di essere un assoluto complimento.

Che tipo di ispirazione le offre la sua terra, la Sardegna?

Tutto. Dai santuari alle montagne, dai miti alle leggende, dai riti arcaici ai costumi, dalle maschere ai colori, dalla saggezza più profonda e autentica al modo di vivere e di pensare di certe persone, prive di cultura accademica ma ricche di una cultura quotidiana che non è ignoranza ma un dono profondo atavico di pensiero e di contemplazione superiore della vita.

Quanto conta nella sua produzione la lezione rinascimentale?

Sin da quando ero piccola, mi sono sempre sentita attratta da Leonardo Da Vinci, l’emblema stesso dell’uomo rinascimentale: suppongo che questo importante periodo artistico mi abbia segnato, poiché nel rinascimento ci fu un forte interesse verso la geometria e i Solidi Platonici.
Cosa pensa dell’arte di oggi, e soprattutto di quegli artisti che rigettano totalmente la tradizione?
Sull’arte di oggi non penso, mi limito a osservare e raccogliere ciò che di buono mi può offrire. Ogni artista deve sentirsi libero di scegliere una direzione; anche se la conoscenza della tradizione è fondamentale, a prescindere da quale direzione si voglia prendere nel proprio iter artistico.

L’esposizione che la ha dato maggiori soddisfazioni?

Credo che ogni occasione per esporre i propri dipinti sia motivo di soddisfazione. Mi ritengo soddisfatta di tutte le mostre che ho fatto sino ad ora, senza prediligere o sminuire nessuna di loro; perché ognuna di esse ha contribuito alla crescita del mio percorso.

Dove e come è cresciuta Silvia Idili?

Sono nata e cresciuta in Sardegna, dove ho imparato a osservare il cielo, conoscere le stelle, i nomi dei venti, a capire i miei nonni quando parlavano tra di loro il sardo e scoprire che vivevo in un posto, dove si parlava un’altra lingua. Crescendo, ho capito che vivevo su un’isola e il mio essere isolana mi ha dato una concezione diversa della vita; ma soprattutto mi ha reso curiosa e mi ha spinto ad andare oltre ciò che i miei occhi vedevano e oltre ciò che i miei sensi mi permettevano di sentire.

Nell’arte contemporanea si crea un misunderstanding continuo: il curatore o il critico diventano dei filtri che legittimano l’artista, definendo cos’è arte e cosa non lo è. In questo “gioco” rientra ovviamente anche il visitatore. Cosa si sente di dire in merito a queste tre figure?

Di rapportarsi all’arte con la giusta sensibilità e soprattutto senza pregiudizi.

Cosa tenta di trasmettere al visitatore e al mondo dell’arte in generale?

I miei dipinti sono solo un invito, una finestra di pensiero che incita lo spettatore ad affacciarsi e riflettere sul senso dell’esistenza.

Nell’opera “Visionaria35” come in altre opere simili, lei sembra voler mostrare l’occhio che vede anche sé stesso, che va oltre ciò che vede, riflettendo sul rapporto tra visione e cecità, alla maniera di Derrida il quale si chiedeva cosa vediamo davvero quando vediamo?

Sì. I Visionari, ritratti femminili e maschili, sono volti con gli occhi spesso occultati da geometrie o teli; sono simbolo di infrastrutture create dalla mente per nascondere e mascherare la vera natura del proprio essere, che è allo stesso tempo, espressione di una tensione spirituale in rapporto con l’ansia della contemporaneità. I visionari invitano a una riflessione e a uno sguardo interiore.

La visione, lo sguardo sono metafore della conoscenza per eccellenza, che sconfina nella visione intellettuale, lei cosa crede di conoscere attraverso il suo lavoro artistico?

L’assurdità stessa del reale.

Cos’è per lei il rito? Tema che spesso ricorre nei suoi quadri.

La ricerca e la garanzia del mantenimento della propria identità.

La dimensione onirica per lei rappresenta una fuga da una realtà spesso deludente, o piuttosto contribuisce a comprenderla meglio?

La dimensione del sogno è quella in cui si manifesta la natura più profonda delle cose, è lo strato più intimo dell’esistenza stessa del mondo.

In che rapporto è la sua “metafisica” con il trascendente, ha un carattere di tensione verso l’assoluto? O crede impossibile una sintesi tra ragione e teologia?

Come ho risposto in precedenza, i miei lavori tendono alla ricerca del proprio io, che però lo si conosce solo alla fine del cerchio. La tensione verso l’assoluto è soggettiva, ognuno sente e trova il suo assoluto in base al proprio credo e non-credo. La sintesi tra ragione e teologia è relativa, tutto dipende da noi stessi e da quello che cerchiamo e troviamo nel silenzio della meditazione.

Prossimi impegni?
Continuare a dipingere.

 

Fonte

Silvia Idili: la pittura tra Rinascimento e Metafisica

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