Andrea Arcarisi: “Lo spazio è come una grande avventura, simile al Far West di un tempo”

La robotica è un universo di pensieri e visioni intrecciati tra loro, una scienza le cui basi della conoscenza furono gettate dallo scrittore fantastico Isaac Asimov, il padre delle tre leggi della robotica e dei robot positronici.

Il giovane ingegnere robotico siciliano Andrea Arcarisi sembra un protagonista dei racconti di Asimov, che nell’arena industriale attuale, si distingue per essere stato selezionato tra i pochi studenti europei e undicesimo italiano per il programma di astronauta analogico presso l’Analog Astronaut Training Centre (AATC) in Polonia, in collaborazione con lo Space Technology Centre di Cracovia (EUSPA-ESA), dopo aver superato una selezione rigorosissima.

La missione ha riguardato nello specifico diverse simulazioni di vita nell’ambiente della Stazione Spaziale Internazionale e diversi esperimenti scientifici personali.

Tra le esperienze della missione l’ingegnere Arcarisi ha affrontato una simulazione di Habitat Lunare direttamente in Polonia, ricreando le condizioni di sopravvivenza di un astronauta. I test di sopravvivenza hanno incluso sfide come il test di forza G e simulazioni di attività extraveicolari (EVA) in immersione.

Spinto a studiare Ingegneria Meccatronica nella sua Sicilia e Robotica a Pisa dopo la visione del film Interstellar” di Nolan, Andrea Arcarisi, in futuro vorrebbe far parte dell’ESA, l’Agenzia spaziale europea.

Di questo giovane ingegnere colpiscono la cordialità, la passione per il proprio lavoro, la determinazione e la consapevolezza di aver scelto un obiettivo elitario unitamente ad un percorso faticoso, partecipando a simulazioni avanzate per testare sistemi robotici in ambienti simili a quello dello spazio. Un’eccellenza italiana, un ragazzo ambizioso disponibile a parlare sull’origine del mondo senza pregiudizi nei confronti della religione, che ci ricorda che l’uomo è fatto per cose grandi, e che ogni impresa umana cammina sotto l’egida dell’hybris, anche quella dell’uomo più umile.

 

1 Cosa significa far parte del programma di astronauta analogico presso l’Analog Astronaut Training Centre?

L’esperienza come astronauta analogico rappresenta un vero e proprio trampolino di lancio per chi aspira a diventare astronauta. Durante questo programma, ci si prepara non solo dal punto di vista scientifico, ma anche psicologico e fisico, vivendo in prima persona situazioni che simulano i viaggi spaziali, la vita a bordo delle stazioni spaziali e persino future colonizzazioni di altri pianeti. È un percorso che forma individui capaci di affrontare sfide complesse e situazioni ad alto rischio, mantenendo lucidità e competenza, qualità fondamentali per la comunità scientifica. Inoltre, questa esperienza permette di testare sé stessi in vista delle selezioni per astronauti, che, come nel caso dell’ESA, si tengono solo una volta ogni dieci anni.

2 Qual è l’esperienza di missione più importante cui hai preso parte?

L’esperienza più significativa è stata la “One Man Mission” di ottobre 2023, durante la quale ho trascorso due settimane in completo isolamento all’interno di una stazione spaziale simulata a terra. In questo contesto, ho affrontato numerosi compiti scientifici, resistendo all’isolamento tipico delle missioni spaziali e superando prove di emergenza. È stata una sfida tanto mentale quanto emotiva, ma grazie alla determinazione sono riuscito a completare ogni incarico, inclusa la realizzazione di due prototipi scientifici. Uno di questi, oggi, è diventato il nuovo prototipo sviluppato dallo Space Systems Laboratory dell’Università di Pisa, sotto la direzione del professor Salvo Marcuccio, e rappresenta il futuro sistema di controllo d’assetto per dispositivi nella stratosfera tramite palloni HAB (High Altitude Balloons).

3 Cos’è per te lo spazio? Qual è la tua visione?

Lo spazio, per me, è come una grande avventura, simile al Far West di un tempo: è un luogo sconfinato e misterioso, pieno di possibilità ma anche di sfide che non possiamo ancora immaginare. È qui che l’umanità può sognare in grande, creare nuove tecnologie e forse, un giorno, trovare una seconda casa su pianeti come Marte. Allo stesso tempo, lo spazio ci spinge a collaborare come mai prima d’ora. Già oggi, con progetti come la Stazione Spaziale Internazionale, vediamo cosa possiamo ottenere unendo le forze. Ma è anche un luogo di competizione: aziende private e nazioni si stanno sfidando per essere le prime a sfruttarne le risorse e a portare avanti nuove scoperte.

4 Cosa pensi dei progetti di Elon Musk?

Elon Musk è un innovatore che ha cambiato molti settori, come i pagamenti online con PayPal e le auto elettriche con Tesla. Con SpaceX, sta rendendo i viaggi spaziali più accessibili, puntando a farci arrivare su Marte. Anche se a volte dice cose provocatorie o discutibili, la sua visione del futuro è chiara e ambiziosa: vuole spingere l’umanità oltre i confini della Terra. Quello che lo rende speciale è il suo modo di pensare in grande. Non si accontenta di piccoli cambiamenti, ma vuole trasformare completamente il mondo. Se qualcuno riuscirà a portarci su Marte, Musk potrebbe essere uno dei protagonisti di questa impresa.

5 Un utilizzo illuminato e saggio dell’intelligenza artificiale applicata allo spazio, può senza dubbio aiutare gli stakeholder nei processi decisionali volti a conquistare una solida postura in un dominio sempre più strategico. In che ambiti l’AI può fare la differenza, come trasforma le attività spaziali?

L’intelligenza artificiale sta rivoluzionando le attività spaziali in molti modi. Immagina una missione spaziale in cui ogni decisione, dalla traiettoria al consumo energetico, è ottimizzata in tempo reale, riducendo costi e rischi. L’AI permette di analizzare enormi quantità di dati raccolti da satelliti e sensori, fornendo agli scienziati informazioni essenziali in tempi record. Inoltre, veicoli spaziali e rover possono operare autonomamente, affrontando imprevisti senza dover attendere istruzioni dalla Terra. Questo non solo rende le missioni più sicure, ma apre nuove possibilità per esplorare ambienti estremi o lontani

6 Come sono messe le università italiane in materia di robotica?

Dal punto di vista strettamente accademico le università italiane presentano delle lacune nonostante la presenza di diversi corsi in ingegneria robotica, cybernetica e meccatronica: pochi laboratori, poche strutture, in compenso però abbiamo centri di eccellenza: tre importanti centri di eccellenza in robotica sono a Genova, Pisa e Napoli. Siamo molto competitivi da questo punto di vista.

7 Secondo i cosmologi Barrow e Tipler lo spazio e il tempo sono entrati nell’esistenza, letteralmente nulla esisteva prima della singolarità, quindi, se l’universo ha origine in tale singolarità, avremo veramente una creazione ex nihilo, cosa ne pensi, qual è la tua visione dell’origine del mondo?

Speculare sull’origine dell’universo senza prove concrete è affascinante proprio perché ci permette di immaginare e ipotizzare liberamente. Un po’ come con la teoria dei frattali, ci ritroviamo a contemplare la perfezione dell’universo, che sembra seguire un ordine che non può essere casuale. Da esseri umani, è naturale voler trovare un senso e vedere un disegno in tutto questo. Personalmente, credo che nulla nasca davvero dal nulla; tutto ha una fonte, anche se è qualcosa di così complesso e indefinibile che la nostra mente, limitata, fatica a comprenderlo. Pensiamo di capire tanto, eppure non riusciamo nemmeno a immaginare la quarta dimensione. Tutto questo non può essere solo una coincidenza, ma qualcosa di molto più profondo.
O almeno spero diciamo, mi fa sorridere l’idea che un entità al di sopra di ogni cosa giochi con noi attraverso le leggi della fisica.

“Segreto a più voci” di Fernando Bermúdez tradotto per la prima volta in Italia da Edizioni Spartaco

Fernando Bermúdez, Premio Cortázar 1994 e Premio Juan Rulfo 1997, è per la prima volta in Italia, ospite di “Un borgo di Libri 2024. Intelligenza naturale…” a Casertavecchia (borgo antico di Caserta), festival diretto da Luigi Ferraiuolo, per la presentazione del suo nuovo atteso romanzo “Segreto a più voci”.

Domenica 15 settembre nella cattedrale di Casertavecchia, Bermúdez è stato presentato il romanzo “Segreto a più voci”, tradotto dallo spagnolo da Giovanni Barone e pubblicato in prima edizione assoluta in Italia dalla casa editrice indipendente Edizioni Spartaco, libro atteso da lettori e critica da trent’anni, dopo la fortunata raccolta di racconti “La metà del doppio”, che è valsa allo scrittore prestigiosi riconoscimenti.

Nato a Buenos Aires nel 1962, Bermúdez vive a Stoccolma dove ha riunito un circolo di autori latinoamericani lì residenti, il Grupo Estocolmo, e vi coordina laboratori di scrittura. È docente di Linguistica moderna all’Università di Uppsala e membro della Writers Society Sweden.

In segreto a più voci, protagonista è un ragazzino la cui voce si alterna con quella di María Carmen, una donna stravagante che ogni giorno depone fiori sulla tomba di Perón e che finisce per essere testimone di un fatto di cronaca che colpì molto la società argentina del tempo: la profanazione della cappella funebre e il furto delle mani del corpo imbalsamato del presidente.

Le due storie si alternano ed entrano in contatto, costruendo un contrappunto che acquista sempre maggiore intensità fino a sovrapporsi in un finale sorprendente.

Bermúdez utilizza e decostruisce diversi generi letterari, dal poliziesco al romanzo di formazione, dai racconti del terrore al romanzo storico, giocando sulla tensione tra realtà e finzione.

Segreto a più voci : trama

Un ragazzino ascolta le ultime parole del padre ormai in fin di vita. Durante l’agonia, l’uomo svela all’adolescente “una teoria cospirativa secondo la quale l’allora presidente argentino Juan Domingo Perón è già deceduto e che un gruppo di congiurati sta cercando di occultare la sua morte per mantenere il potere”. Da qui prendono vita le storie di Paulino, il Paraguaiano, Maria Carmen.

Addirittura, questa donna stravagante, mentre va a portare i fiori sulla tomba del presidente defunto, assiste alla “profanazione della cappella funebre e al furto delle mani del corpo imbalsamato del presidente”. Un fatto che la fa apparire come la Maria Maddalena che sarà testimone della Resurrezione di Gesù; e proprio tale similitudine, lascia pensare che ogni lettore possa dare vita al proprio romanzo.

Segreto a più voci. Contenuti e stile

Segreto a più voci è una pregevole opera di letteratura che richiama Finzioni di Borges, come il grande scrittore argentino, anche il suo connazionale Bermudez Borges, in realtà, non si preoccupa tanto della scrittura ma piuttosto della lettura, e soprattutto del lettore, in quanto l’atto dello scrivere nasce proprio da un fine didattico: è il narratore a spiegarci come va il mondo in cui viviamo e che arreca in noi tanta confusione. Ma colui al quale si rivolge chi scrive, il destinatario comprende davvero il linguaggio di quel testo?

L’universo variegato proposto da Bermudez, in cui le vite degli uomini comuni sono mischiate a quelle dei grandi nomi della storia, e in particolare a quello di Peron che aleggia su l’intero romanzo, può essere una finzione che diventerà ipotesi e poi realtà? Bermudez mostra come la letteratura possa penetrare la vita, modificarla, elevarla, sublimarla, attraverso l’immobilizzazione del tempo, richiamando alla mente una frase del racconto I Teologi di Borges: “Il tempo che fuggì resta nella memoria; sarò di certo capace di ricostruire quel che allora accadde”.

Bermudez imbastisce una storia complessa e affascinante il cui fine è quello di risultare credibile per il lettore: ogni personaggio, ogni scenario, ogni interpretazione sembrano suggerire il pensiero: ma io cosa c’entra con questa storia? Mi può riguardare?

L’autore si avvale di uno stile asciutto e diretto, primo di retorica, ma ricco di ricordi che fluiscono in un flusso narrativo che a volte sembra un fiume in piena, altre volte si arresta, quasi in stallo, pervaso da un senso di morte. Peron è un archetipo; una sorte di Ade che tira i fili dei personaggi terrestri anche dall’oltretomba, rappresenta il trauma storico con cui l’Argentina ancora oggi deve convivere, la storia che l’Occidente ancora non conosce a fondo.

Alcuni personaggi nel romanzo si percepiscono anche se non vengono citati, come il dittatore Jorge Rafael Videla, perché ogni romanzo è figlio della Storia collettiva e personale, agitata dalle nevrosi, dalle paure e dai conti non fatti con essa, di ognuno di noi.

 

La casa editrice

Edizioni Spartaco è nata nel 1995 a Santa Maria Capua Vetere: l’avventura è cominciata con quella che per decenni è stata l’unica guida della città, nonostante il formato sia diventato tascabile e il prezzo più economico. Dal 2003 ha solcato il mare della distribuzione nazionale, un oceano irto di insidie, infestato dai mostri sacri dell’editoria, bastimenti più forti economicamente e più potenti per tradizione e autorevolezza presso i media, capaci di pubblicare opere immortali oppure di scivolare sull’acqua con leggeri bestseller dalla vita intensa ma breve.

Una piccola casa editrice, una casa editrice del Sud, una casa editrice di Terra di Lavoro (e nemmeno di Caserta centro) deve avere più coraggio: come il capitano MacWhirr di Conrad, deve affrontare il tifone che le fa sfiorare il baratro ogni volta, deve tenere duro e andare avanti. Anzi, non deve, il bello sta nella sfida, nello scegliere di ritagliarsi uno spazio di libertà, complici gli autori che meglio e con più efficacia riescono a raccontare, a dire, a comunicare. E non ti va di fallire un progetto così bello, perché “incominciando col gustare un po’ di libertà, si finisce per volerla tutta”. Lo ha detto Errico Malatesta, anche lui nato a Santa Maria Capua Vetere. Edizioni Spartaco, di Malatesta, ha pubblicato l’Autobiografia mai scritta. Ricordi (1853-1932), a cura di Piero Brunello e Pietro Di Paola, edito anche in Germania dalla casa editrice Nautilus Frug Schrift, alla quale sono stati venduti i diritti.

 

 

 

L’ultima cena woke, l’ignoranza social e la violenza simbolica alla fede

Il web è straordinario: dopo la cerimonia olimpica di Parigi, l’indignazione di molti esponenti del mondo cattolico per la parodia dell’Ultima cena in salsa queer/woke, e le dichiarazioni degli organizzatori sulla loro non volontà di deridere il capolavoro di Leonardo, molti sui social si sono improvvisati esperti di arte e iconografia, facendo circolare decine di opere che in qualche modo richiamano al banchetto dionisiaco dello show olimpico che purtroppo per loro non sono nemmeno mai state nella mente e nelle intenzioni di chi ha messo in piedi lo spettacolo. Quasi sicuramente il direttore artistico, che si è limitato ad eseguire delle direttive politiche, non sa nemmeno dell’esistenza di queste opere. Il suo compito è stato quello di provocare.

Nei Baccanali tuttavia non esiste un’iconografia con Bacco cinto di aureola sopra la testa, di un Gesù donna al centro della scena, impersonato dal Barbara Butch.

E peccato che, nonostante il tentativo di metterci una pezza, onde evitare problemi con sponsor e istituzioni cattoliche davanti al mondo, la stessa drag queen Piche su BFMRMC Sport, ha ammesso che si è trattato proprio di una rappresentazione dell’Ultima Cena.

Inoltre prima delle polemiche post cerimonia Liberation, aveva descritto la rappresentazione per quello che è stata: “Barbara Butch nel Gesù Cristo queer accompagnata dai suoi apostolo LGBTQ”.

Butch che su IG ha confermato che si trattava di Ultima cena postando il messaggio: “Oh sì! Oh sì! Il Nuovo Testamento gay!”. Un boomerang, devono averle fatto notare, tant’è che la rapper ha prontamente cancellato tutto.

Si è espressa anche la direttrice della comunicazione Anne Descamps: “La nostra intenzione non era quella di mancare di rispetto ad alcun gruppo religioso. Al contrario, era quella di mostrare tolleranza e comunione. Se le persone si sono sentite offese, ci scusiamo”.

Comunione dove non sono pervenuti etero, bensì una bambina il cui ruolo sfugge.

Il messaggio dello show è stato chiaro e in linea con i dettami woke e progressisti: della storia cristiana della Francia non ce ne facciamo nulla, la nuova religione è queer e green, il dio della natura Dioniso ha sconfitto il Dio cristiano attraverso la Rivoluzione francese. Non certo quello di una inclusione che prevede rispetto reciproco.

La Francia è stata coerente con l’unica storia che essa vuole riconoscere: l’illuminismo con il quale le nascenti élites finanziarie hanno scalzato le aristocrazie cattoliche europee e l’economia terriera.

Nel frenetico e confuso festival delle contraddizioni, ricco di luci ed effetti speciali ma poverissimo di contenuti e lampi di genio, si è inserita la parodia woke dell’Ultima Cena di Leonardo, con alcune variazioni grottesche, frutto di un pensiero debole che per sembrare potente deve insistere, (urge intervento della psicologia se non della psichiatria), fino a provocare reazioni per poi fare le vittime dei cattivi omofobi che seminano odio.

Un tentativo poco originale di inserire anche la tradizione cristiana nelle diversità da accogliere sulla base di un neo-illuminismo improbabile e confuso? Una rilettura delle dinamiche relazionali degli apostoli secondo una banalizzazione delle logiche queer? Si è chiesto qualcuno. No, probabilmente è più semplice: come già accennato: la nuova religione è woke e queer, di quella vecchia ci si fa beffe e la si assoggetta alle proprie ideologie. Persino il comunista Melènchon si è espresso in questi termini:

Non mi è piaciuta la presa in giro dell’Ultima Cena cristiana, perché pur evitando di parlare di “blasfemia, [perché] questo non riguarda tutti” Mélenchon si chiede anche “perché rischiare di ferire i credenti” anche se lo stato di fatto è “anticlericale. Quella sera stavamo parlando al mondo [e] tra i miliardi di cristiani – si chiede – quante persone coraggiose e oneste [ci sono] che a cui la fede aiuta a vivere e sanno partecipare alla vita di tutti, senza dare fastidio a nessuno.

Ma tornando alla cerimonia di apertura, urge ragionare sul rapporto tra arte e fede: se è vero che il dipinto di Leonardo non rappresenta effettivamente la cena di Gesù con i suoi apostoli, motivo per cui i i fedeli che si sono sentiti offesi, non sarebbero dei veri cristiani, o comunque dei cristiani ignoranti, secondo alcuni intellettualoidi, è altrettanto vero che la creazione artistica è la via per raggiungere l’infinito e la trascendenza.

Credere e creare sono due atti fondamentali che l’uomo adotta per raggiungere la trascendenza, come affermava il poeta Paul Valéry, quando scriveva nei Cattivi pensieri che «il pittore non deve dipingere quello che vede, ma quello che si vedrà». A questo futuro perfetto, all’assoluto cercato dall’uomo la fede dà il nome di Dio che talora è esplicitamente riconosciuto come propria meta anche dallo stesso artista. Bach, sommo musicista e grande credente, non aveva dubbi quando poneva in capo alle sue partiture la sigla SDG, Soli Deo gloria, e dichiarava: «Il finis e la causa finale della musica non dovrebbero mai essere altro che la gloria di Dio e la ricreazione della mente». Lapidario Hermann Hesse nel suo saggio su Klein e Wagner: «Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio».

Significative anche le parole di Kafka nei suoi Preparativi di nozze in campagna: «L’arte vola attorno alla verità… e il suo talento consiste nel trovare un luogo in cui se ne possano potentemente intercettare i raggi luminosi».

La polemica contemporanea, secondo la quale l’arte dev’essere libera da ogni messaggio per non essere asservita a nessuna ideologia, spesso merita il giudizio sferzante di Borges che, in Altre inquisizioni, ironizzava: «Chi dice che l’arte non deve propagandare dottrine si riferisce di solito a dottrine contrarie alle sue».

Insomma L’Ultima cena per molti cristiani è un richiamo alla fede, a Dio, alla spiritualità, sebbene non si tratti strettamente di arte sacra e non racconti esattamente una verità teologica. Si tratta di fede dei semplici, preziosa risorsa per la Chiesa, che i Professoroni farebbe bene a tenere in considerazione. C’è stata una vera violenza simbolica: la parodia woke francese ha affermato la propria libertà di espressione “a prescindere’, cosa che sempre produce violenza. Per di più, nel clima contemporaneo che si presenta segnato da conflitti sempre più drammatici, dissacrare l’iconografia si pone come un atto particolarmente irresponsabile.

 

 

‘L’Altra Russia di Eduard Limonov’, di Luca Bagatin. L’eredità di Limonov

“L’Altra Russia di Eduard Limonov”, partito dissidente russo rifondato nel settembre 2020, raccoglie l’eredità del Partito NazionalBolscevico (PNB), fondato negli Anni ’90, dallo scrittore Eduard Limonov, dal filosofo Aleksandr Dugin e dal chitarrista punk Egor Letov. Vero e proprio incontro di spiriti eclettici, contro-culturali, artistici e soprattutto di giovani, il PNB – messo fuorilegge, in Russia, nel 2007, con l’accusa di “estremismo” – fu il principale partito di opposizione di piazza al totalitarismo liberal-capitalista di Boris Eltsin prima e di Vladimir Putin poi.

E così “L’Altra Russia di Eduard Limonov”, che ne raccoglie il testimone. Unico partito al quale, ancora oggi, in Russia, è impedito di presentarsi alle elezioni e i cui attivisti vengono perseguitati. Il saggio di Luca Bagatin racconta tutto questo e molto altro ancora, anche attraverso la voce di molti dei protagonisti.

Il saggio, con prefazione dell’editore italiano di Eduard Limonov, Sandro Teti, è impreziosito – per gentile concessione dell’autore dell’opera – da una copertina raffigurante Eduard Limonov, realizzata dal giovane artista russo Stepan Biryukov, specializzato in ritratti di scrittori e poeti russi, attraverso un’innovativa tecnica iperrealista.

L’autore

Luca Bagatin, nato a Roma nel 1979, è blogger dal 2004 (www.amoreeliberta.blogspot.it). Già collaboratore di riviste di cultura esoterica e risorgimentale, attualmente collabora con “Olnews”, “Electomagazine” e “Liberalcafé”, oltre che con la rivista online “L’Ideologia Socialista”. Suoi articoli sono stati tradotti e pubblicati in Francia, Serbia, Brasile e in lingua fiamminga. E’ autore di saggi sulla storia della Massoneria, sul mondo femminile, sull’erotismo e sul socialismo.

‘Le braci’, il senso della vita secondo Sándor Márai

Le braci, romanzo dell’ungherese Sándor Márai edito per la prima volta nel 1942, racconta la storia dell’amicizia tra due uomini, Henrik detto “il Generale” e Konrad, e di come essa abbia avuto fine in seguito al tradimento del secondo. Il punto di partenza è l’incontro tra i due, che, a distanza di quarantun anni, ha lo scopo di far finalmente luce sugli avvenimenti che li hanno separati.

La prima parte, che coincide con l’attesa di Konrad da parte di Henrik, è occupata dal racconto degli anni della loro amicizia; la seconda, invece, quella dell’incontro, da un lungo dialogo (a dire il vero, più un monologo del Generale) sulle circostanze in cui si è interrotta.

Le braci è uno dei cinque testi Adelphi più venduti di sempre. Un romanzo che è teatro, un dialogo lungo per i canoni del realismo, un alternarsi di due voci tese mentre i sigari dei colonnelli ungheresi scorrono davanti alle immagini di tradimenti impossibili, di tradimenti scampati.

Prosa delicata, linguaggio ricco ed elegante senza mai sembrare nel ridondante. Un lungo monologo del generale Henrik che rivanga le sue memorie e torna indietro di quarant’anni per avere una risposta definitiva a quello che lo tormenta da allora. In mezzo sono infilate lì tante perle sul significato di amicizia, amore, passione, destino che rendono questo libro di sole 180 pagine ricco di riflessioni profonde:

“Non credi anche tu che il significato della vita sia semplicemente la passione che ogni giorno invade il nostro cuore, la nostra anima e il nostro corpo e che, qualunque cosa accada, continua a bruciare in eterno, e non credi che non saremo vissuti invano, poiché abbiamo provato questa passione?”

Marai fa rivivere in ogni attimo gli eventi descritti, creando atmosfere e descrivendo perfettamente i sentimenti di ognuno dei tre protagonisti (Henrik, Konrad e La moglie di Henrik). Ognuno ama e continuerà ad amare gli altri fino al giorno della sua morte, con sfumature e trasporto differenti.

L’autore nomina ripetutamente tutti i personaggi presenti in “Le braci”: Konrad, Kristina, Nini; tutti, a parte il suo protagonista Henrik, che nomina giusto un paio di volte, ma chiamandolo “generale” in tutte le altre occasioni.

Come se Marài volesse mettere in risalto la differenza tra quest’ultimo e gli altri: uomo a cui è stata affibbiata un’etichetta, una posizione sociale fin dalla nascita; status che pare anche gratificarlo abbastanza. Tuttavia, pare che questo lo ponga a un livello inferiore rispetto agli altri, indegno anche di essere chiamato per nome; incarnazione di una figura incolore che quasi non possa essere considerato un essere umano, in cui non arde il fuoco dell’anima come arde nella figura dell’artista, di quel suo amico che, tuttavia, coi suoi modi di fare mostra alcuni dei lati peggiori dell’essere umano.

Chi è più umano, dunque?

A questa e ad altre domande attende la risposta il lettore, così come i protagonisti  attendono la risposta a quella che reputano la domanda essenziale della propria esistenza. Ma una volta che arriva il momento decisivo, nessuna di queste pare essere esaustiva; perché l’esistenza appare davvero come un caso irrisolto.

“Il senso dell’amore e dell’amicizia è tutto qui. La loro amicizia era seria e silenziosa come tutti i sentimenti destinati a durare una vita intera. E come tutti i grandi sentimenti anche questo conteneva una certa dose di pudore e di senso di colpa. Non ci si può appropriare impunemente di una persona, sottraendola a tutti gli altri.”

Le braci si configura come un thriller filosofico che però ad un certo punto vira in un’altra direzione: dopo che al termine di una lunghissima requisitoria, disincantata e priva di animosità ma ugualmente implacabile, in cui, rievocando i fatti principali, Heinrich si accinge finalmente, a formulare la domanda decisiva che – a detta sua – è stata l’unica ragione che gli ha permesso di sopravvivere, e dopo che ha perfino deciso di distruggere le testimonianze esistenti (il diario di Krisztina gettato nel fuoco del camino) per affidarsi esclusivamente alla confessione di Konrad, questi sceglie di non rispondere e, alle prime luci dell’alba, si congeda dall’amico, presumibilmente per l’ultima volta, senza svelare il segreto.

Il lettore ne resta sconcertato: alle soglie di una verità a lungo fatta intravedere dall’autore, quasi afferrata con l’apparizione di un diario in cui la moglie defunta aveva affidato ogni pensiero più intimo, quando infine si tratta di ascoltare la voce stessa di chi ha vissuto gli eventi narrati in prima persona, di chi ha visto un’Europa sconvolta dalla seconda guerra mondiale, tutto  svanisce, lasciando un comprensibile senso di amaro in bocca.

L’enigmatico finale de “Le braci” è di natura scettica e pessimistica. Se una possibilità esiste che l’uomo riesca ad afferrare la verità nel corso della sua vita, essa si situa proprio nel suo momento estremo e conclusivo, vale a dire la morte (“L’uomo comprende il mondo un po’ alla volta e poi muore”). La morte è la sola risposta definitiva che l’uomo può dare di fronte al tribunale del mondo.

L’autore

Sándor Károly Henrik Grosschmid, questo è il vero nome di Sàndor Màrai. Nato nell’Aprile del 1900 nella città di Kassa (odierna Kosiche) nell’Ungheria settentrionale, il suo è un tipico caso di scrittore del post decadentismo che vive l’afflizione del distacco dalla sua terra unitamente alla delusione politica dei  totalitarismi del XX secolo.

A soli vent’anni, in piena rivoluzione (erano gli anni delle rivolte organizzate da Béla Kun e della fondazione della Repubblica Sovietica Ungherese), Màrai collaborava come giornalista ed opinionista per una  rivista studentesca ma già qualche anno prima, 1917, aveva dato prova di talento con la raccolta di poesie “Il libro dei ricordi”. Su decisione dei genitori fu mandato ad approfondire i suoi studi di giornalismo in Germania spostandosi tra Lipsia, Monaco e Berlino e diventando una delle firme delle pagine culturali del Frankfurter Zeitung su cui pubblicò tra una recensione teatrale o un articolo di cronaca, approfondimenti critici di opere di Kafka.

 

Le braci – Sandor Marai – Recensioni di QLibri

‘Chi dice e chi tace’ di Chiara Valerio o della non qualità dei libri del Premio Strega

Chiara Valerio ha sempre avuto tutte le carte in regola per poter arrivare nella sestina del Premio Strega: è nota per essere fra le intellettuali più amate dalla sinistra, storica amica di Michela Murgia, così come del segretario del PD Elly Schlein, editor di Marsilio, in prima linea per i diritti della comunità LGBTQ+, sceneggiatrice del film Mia madre (2015) di Nanni Moretti, autrice di 14 libri, così come di un divertentissimo articoletto (tanto per tenere alta la fama di scrittrice impegnata antifascista) su Repubblica dello scorso anno dal titolo Il fascismo nel sangue” dove fra le altre cose scriveva: “Non mi viene in mente niente di più fascista del sangue. Il sangue che stabilisce parentele, gerarchie, eredità, tradizioni. Il sangue che consente di mantenere i privilegi…” Che delirio.

A leggere Chi dice e chi tace sembra davvero inspiegabile, dal punto di vista strettamente stilistico e contenutistico, che sia stato anche solo preso in considerazione nella dozzina del premio letterario più importante d’Italia. Ma tant’è, Chi dice e chi tace è arrivato addirittura terzo.

Chi dice e chi tace, è un tripudio di strafalcioni, frasi fatte e sperimentazioni linguistiche del tutti velleitari. Una prosa ed espressioni dimenticabili (“Mi salivano domande che non mi sono mai fatta”, “la madre non è certissima nel cattolicesimo”, “Di Gesù per esempio è più certo il padre”), per una trama confusa che ruota intorno alla figura di Valeria, una donna carismatica che arriva all’improvviso nella località marina di Scauri, con una giovane amica al seguito. Valeria lavora in una farmacia, ma sa di medicina più di parecchi medici, ama la natura, i fiori del suo giardino, ama le partite a carte al dopolavoro ferroviario e le lunghe nuotate solitarie. Dovrà misurarsi con un mistero che riguarda la morte di una donna in una vasca da bagno.

Il romanzo vorrebbe essere un noir esistenziale che racconta di una comunità del sud Italia a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, fatta di silenzi ma a in realtà sembra un memoriale ambizioso che non ce la fa a spiccare il volo verso il genere giallo o thriller e a fissare modelli e visioni universali. La confusione è data soprattutto dall’impossibilità di distinguere il tempo della narrazione da quello della scrittura che rende insofferente il lettore, complice una paratassi troppo insistita che non crea tensioni narrative, anzi le dilegua in un malessere esistenziale al femminile ripetitivo e fastidioso:

<<Ma mò che è questa ossessione? C’è qualcosa che non capisco, Lea, amore mio, Vittoria è morta.

E se invece fosse piaciuta lei a me?

Ti piaceva Vittoria? Non lo so.

E non puoi più saperlo, Lea, amore mio, Vittoria è morta. Ma io devo saperlo, Luigi, sono viva>>

 

Con Chi dice e chi tace, ci si trova ancora una volta di fronte a prevedibili meta-narrazioni, viaggi nell’io più profondo che escludono il gusto dell’invenzione letteraria.

Chiara Valerio veste i panni di una nipotina smarrita di Italo Svevo, passando dal narrato al dialogo per addentrarsi “dentro le cose” con morbosità, risparmiando al lettore colpi di scena, arrivando, come aveva auspicato il Direttore della Fondazione Bellonci, all’inclusività! La quale si manifesta tra Lea e Vittoria in una relazione ideale e platonica. Infatti Lea indaga per sapere semplicemente se è stata davvero attratta da Vittoria, lesbica dichiarata. Dal noir che si pensava inizialmente di dover leggere si passa al romanzo sentimentale più puerile che si potesse immaginare.

Nel trionfo del politicamente corretto il marito di Vittoria, un ricco avvocato, risulta, in quanto uomo, un pervertito (una bella bordata al patriarcato non la diamo?), e un’amica insospettabile di nome Filomena, appare anche lei prossima all’omosessualità., salvo poi dichiarare che le piace “il pesce”.

Insomma anche quest’anno il Premio Strega conferma la sua vocazione al gioco remunerativo e al familismo e non lo si può considerare un metro con cui misurare la reale qualità letteraria italiana.

 

Avv. Mauro Trogu, autore insieme a Zuncheddu del libro ‘Io sono innocente’: “Giustizia e legge non sono concetti tra loro ponderabili”

Una storia vera e sconvolgente, scritta come un romanzo a due voci, quella della vittima Beniamino Zuncheddu e del suo coraggioso avvocato, Mauro Trogu:Io sono innocente”, edito da De Agostini è un dramma-thriller che adotta una narrazione ricca di colpi di scena, di aneddoti, ma soprattutto di umanità e di empatia, con il difficile tentativo di far comprendere l’incomprensibile.

Purtroppo è inquietante apprendere che chi fa le indagini, e rappresenta lo Stato in questo, le pieghi al suo volere a noi inconcepibile. La Giustizia, quando inciampa in tali aberrazioni, diventa matrigna e genera profonda sfiducia nel cittadino verso sé stessa.

Nel caso in questione la domanda che tutti si chiedono è: ci potrà essere mai ricompensa, di quale tipo poi, per un uomo a cui sono stati sottratti 33 anni di vita?

 

Qual è stato l’elemento principale che le ha fatto credere nell’innocenza di Zuncheddu? 

 

La convinzione è nata piano piano. In un primo momento la semplice lettura delle sentenze di condanna mi ha fatto capire che Beniamino era stato giudicato sulla base di prove inconsistenti. Poi i sopralluoghi fatti con il gruppo di consulenti coordinato dal dott. Simone Montaldo mi hanno fatto convincere che alla base della condanna ci fosse una prova falsa. Nel mentre approfondivo la conoscenza di Beniamino, la sua ferma e mite professione di innocenza era straordinaria. La sua personalità era totalmente lontana da quella che avrebbe dovuto avere il killer. Alla fine è arrivata l’intercettazione della confessione nella quale il testimone oculare svelava la falsa testimonianza e la frode innescata dagli inquirenti a danno di Beniamino.

 

 

Cosa vorreste che rappresentasse questo libro? A chi è rivolto principalmente? 

 

È rivolto a tutti. Vorrei che tutti i cittadini potessero leggere e prendere spunto da questa tragica vicenda umana per riflettere su come viene amministrata la giustizia nel nostro paese. Ma vorrei anche che si conoscesse l’enorme forza e capacità di resistenza civile di Beniamino, pochi uomini sarebbero stati capaci di fare quel che ha fatto lui. Infine piacerà sicuramente a coloro ai quali piacciono i torbidi misteri italiani.

Cosa l’ha colpita particolarmente del suo assistito? 

La sua calma fermezza nel ribadire la sua innocenza ed essere pronto a sostenerla a tutti i costi, anche a costo di perdere la libertà. Non è da tutti dare così tanto valore alla verità. Beniamino a tratti è quasi mistico.

Può raccontarci l’evoluzione emotiva di Beniamino Zuncheddu, dalla prima volta che ha parlato con lui fino all’assoluzione? 

Inizialmente appariva più rassegnato che speranzoso, anche se la speranza non l’ha mai abbandonato del tutto. Forse inizialmente non credeva tanto in me. Poi, quando ha visto che il lavoro che avevo deciso di fare iniziava a dare frutti, ha cominciato a diventare più impaziente, non vedeva l’ora che la sua innocenza fosse riconosciuta in una sentenza, e fremeva. Una volta che il processo di revisione è iniziato, era convinto che sarebbe stato scarcerato subito e invece questo non è accaduto. Lo hanno tenuto in esecuzione di pena per altri tre anni, e questo lo ha gettato nello sconforto. Sembra un paradosso, ma il peggio per lui è arrivato proprio quando sono state definitivamente acquisite le prove della sua innocenza. Ha avuto un crollo psicofisico che ci ha fatto spaventare tutti. Quando è stato finalmente scarcerato, è uscito dal carcere in condizioni pietose. Ha trascorso i primi sette mesi di libertà cercando di curare le malattie che in carcere non curavano, e ancora adesso si sta preoccupando della sua salute.

 

Cosa risponde a chi sostiene che si tratta semplicemente di una incriminazione dovuta ad una testimonianza illecita da parte di un poliziotto e non di errore giudiziario? 

 

Direi loro due cose. La prima, che si leggessero il codice di procedura penale: è il codice che definisce questo genere di condanne “errore giudiziario”. La seconda, che si leggessero le carte dei processi a carico di Beniamino, provassero a mettersi un attimo nei suoi panni, e poi si domandassero che cosa si sarebbero aspettati dai giudici. Sono sicuro che nessuna persona accetterebbe di essere condannata sulla base di quelle prove, anche quando la loro falsità non era palese ma solo sospetta. I giudici avevano in mano tutti gli elementi quantomeno per sospettare che quel che era accaduto non fosse regolare.

Qual è la differenza primaria tra giustizia e legge? Come si potrebbe arrivare alla loro equivalenza? 

Non sono concetti tra loro ponderabili. Giustizia è un concetto filosofico prima ancora che giuridico. Ognuno può intenderlo come preferisce, a seconda dei propri valori etici, politici e religioso. Legge invece è un concetto prettamente giuridico (anche se può essere declinato anche in altri ambiti extra-statali), indica la forma delle regole che ci siamo dati nel nostro Stato. Possiamo dire che nel mondo del diritto non ci può essere giustizia formale se non si rispetta la legge. Ma alle volte anche il rispetto della legge può generare decisioni che appaiono ingiuste.

 

Qual è stato il momento più difficile che ha dovuto affrontare e che l’ha scoraggiata? 

 

Tutte le volte che è stata negata la scarcerazione a Beniamino, quando ritenevo sussistenti i presupposti per la sua liberazione.

Il positivismo giuridico sostiene che la giustizia ha una validità esclusivamente storica e non è un valore giustificabile con la ragione. La giustizia è un ideale irrazionale? 

È vero, a seconda del concetto di giustizia che si abbraccia, si può sostenere che essa abbia una validità storica. Ma al positivismo si contrappongono anche altre teorie del diritto che la vedono diversamente, in primis il giusnaturalismo. Ad ogni modo io non credo che la giustizia sia un ideale irrazionale, perché è pur sempre un concetto generato dalla ragione umana. Forse è un ideale irraggiungibile, ma pur sempre razionale.

 

Fonte

Intervista a Mauro Trogu, avvocato di Beniamino Zuncheddu: “Dare valore alla verità”

Strega 2024, tra età fragili, storielle ruffiane e figuracce

Non vogliamo girarci intorno e diciamo schiettamente che la vittoria annunciata (avrebbe meritato “Invernale” di Dario Voltolini) del romanzo della scrittrice abruzzese Donatella di Pietrantonio, L’età fragile, pubblicato da Einaudi e già vincitore dello Strega giovani, è in linea con la qualità libraria italiana degli ultimi decenni: abbastanza mediocre.

Anche quest’anno il Premio Strega è partito sotto l’egida dell’analfabetismo funzionale, esordendo con una dichiarazione quanto mai imbarazzante e irrispettosa del Presidente della Fondazione Bellonci Stefano Petrocchi, il quale a chi, ha fatto giustamente notare l’assurdità del regolamento del Premio Strega, con 81 libri proposti da leggere in 30 giorni, ha risposto citando nientemeno il film “American Fiction”, premiato agli Oscar 2024. American Fiction è un film satirico sull’assurdità del momento storico in cui viviamo; American Fiction di una cultura ancella dell’ideologia, dove non conta la qualità dell’opera ma il ruolo sociale dell’autore, dove la retorica dell’inclusività è diventata strategia di marketing, per cui nelle librerie ci sono le etichette sugli scaffali con la scritta “libri scritti da donne”.

E infatti il protagonista viene invitato – in quanto nero, – a far parte della giuria del premio in questione; dove ascolta boriosi intellettuali lanciarsi in lodi che sono concentrati di retorica, mentre i giurati si lamentano della grossa mole di libri che tocca loro leggere, arrivando ad un accordo per leggere solo le prime 100 pagine di ogni volume.

Eterogenesi dei fini. La medesima situazione del Premio Strega, ben illustrata dal Presidente della Fondazione Bellonci l quale dimostra, secondo lui, che tutti sanno che i giurati dei premi non leggono davvero i libri, e solo chi ha una concezione “stupida” della lettura può pensare il contrario.

il Direttore ha seguitato nel vantarsi di quanto il Premio Strega sia “inclusivo”, di quante donne siano candidate e non da oggi, dimostrando ancora che chi ha dato adito a quel modo di pensare è esattamente l’oggetto della satira di “American Fiction”,

Incredibile ma vero. Come è vero che ha vinto un libro la cui autrice, certamente ha un ruolo sociale importante nella comunicazione e nei salotti italiani che contano. Senza trascurare il fatto che è una donna.

L’età fragile è un romanzo modesto, dispersivo, contorto e involuto soprattutto a causa dell’insistenza dell’autrice di concentrarsi spesso su piccoli concetti cominciati e mai portati a termine.

Anche l’operazione di spostamento della narrazione dallo “sfondo” al “primo piano”, risulta poco convincente e inefficace giacché Di Pietrantonio usa sempre la prima persona singolare e il presente indicativo e il passato prossimo.

La tecnica narrativa adottata da Donatella Di Pietrantonio si rifà alle forme del new journalism americano che confida nell’io-narrante per la resa della storia per raccontare un dramma famigliare e il difficile rapporto dell’“io narrante” madre con l’inquieta figlia Amanda, che si trova nell’età fragile, appunto.

La vicenda famigliare si unisce alla lotta per la difesa del proprio territorio dalla speculazione edilizia. Anche in questo romanzo è presente l’Abruzzo dell’autrice, la novità, tuttavia, rispetto ai precedenti romanzi, è nello spostamento dello sfondo dall’asse città-paese a quello paese-bosco di montagna, luogo ideale dove si consumano fatti oscuri e dare in questo modo una pennellata noir alla storia.

Ma Di Pietrantonio mischia troppi generi (addirittura nella parte finale fa capolino il fantasy) perché ne possa prevalere uno in maniera risolutiva, come se l’autrice volesse dire che in fondo l’esito della storia non può avere un senso.

Senza dubbio ancora una volta l’autrice dimostra l’impossibilità di tagliare il cordone ombelicale con la propria terra, presentando personaggi bizzarri che appaiono e scompaiono, con i quali è difficile empatizzare.

L’età fragile è uno sfogo di mugugni, recriminazioni, incomprensioni. Un groviglio espositivo con diverse forzature. Perché una ragazza di venti anni che non studia, non lavora, dorme tutto il giorno per poi vagare per casali altrui è fragile? Se la causa della fragilità di sua madre Lucia è da trovare in un fatto di cronaca nera (avvenuto nel 1997 per mano di un pastore macedone che uccise due ragazze padovane), non si riesce a capire i motivi della “fragilità” di Amanda che sembra essere la classica ragazza svogliata che sublima il proprio malessere.

Inoltre l’esperienza personale del rapporto con la propria madre in un determinato momento storico fa testo solo per la persona che lo racconta. Le variabili sono molte: la geografia, la società, la cultura, l’economia, la politica. Il contesto dell’Età fragile è diverso da quello di oggi e di conseguenza la storia narrata non può configurarsi come un modello universale, come una memoria collettiva profonda.

Insomma anche quest’anno il Premio Strega conferma la sua vocazione al gioco remunerativo e al familismo e non lo si può considerare un metro con cui misurare la reale qualità letteraria italiana. Il non apprezzare molti libri di oggi, spacciati dai grandi giornali nazionali come capolavori, non è solo una questione di stile e di trame dispersive, ma di rifiuto delle mode nella scelta delle tematiche trattate con retorica e superficialità, al servizio di storie quotidiane ripiegate su se stesse, intrise quasi sempre di autobiografismo e ruffianeria.

 

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