The Beguiled (1971, titolo italiano, La notte brava del soldato Jonathan) è uno dei film più potenti, coesi, visionari e controversi diretti da Don Siegel, sceneggiato magnificamente con una sottile connotazione psicologica, pennellate antropologiche di magistrale riuscita, composto e sfrenato nel medesimo gesto registico.
La trama è semplice, lineare, scarnificata fino all’estremo dell’essenziale, e tutto si svolge all’interno del collegio femminile sudista. Ma il modo peculiare con cui Don Siegel dà estro all’affresco dei personaggi, la cura nelle inquadrature, il dinamismo delle immagini e le suggestioni pressoché pittoriche degli interni, degli sguardi, dei volti, sono qualcosa che difficilmente si lascia dimenticare.
Clint Eastwood (alla sua prima prova attoriale di spessore, riconosciuta tale anche dalla critica del tempo) è il caporale John McBurney, la sola figura maschile all’interno del collegio; introdotta a dispetto delle ordinanze e dei codici che vedrebbero l’obbligo, in tempi di conflitto, di consegnarlo all’esercito sudista come prigioniero. Miss Martha Farnsworth, più che matura e arcigna direttrice della scuola, appare dibattuta proprio nel decidere le sorti del giovane soldato, ma prende la decisione di curarlo in attesa di vedere il da farsi, con l’alibi di salvarlo da una prigionia che nelle sue condizioni ne avrebbe decretato la morte, ma adombrando intenti occulti di ben altra natura.
In questa sorta di gineceo, il soldato si muove furbescamente e in modo maliardo, catturando le attenzioni, più o meno sessualmente esplicite, di tutte le educande, comprese quelle di Miss Martha, che, a dispetto dell’aria e della condotta irreprensibili, nasconde un passato torbido e incestuoso. Di particolare spessore (e stuzzicata, anche lei, dal fascino del caporale) è la figura della serva di colore: dipinta come forte, risoluta e di una certa fibra morale, nasconde qualcosa, nel proprio trascorso, di innominabile, ed ha subito un maltolto che non dimentica. È forse la figura più schietta e umana della lunga carrellata di personaggi femminili che offre il film.
Tutto appare lindo, rispettoso della migliore tradizione ed etichetta, corroborato per questa via dalla gestione severa e didascalica della direttrice e dai precetti della giovane insegnante Edwina. Ma in realtà tutto è inganno, e il limine tra quello imbastito dal caporale per aggraziarsi la simpatia dell’una e dell’altra delle giovani figlie di sudisti, e quello di queste, è assai impalpabile. McBurney mente sul proprio agito all’interno dell’esercito dell’Unione, si finge quacchero e del corpo di soccorso, quando il suo ruolo e la sua condotta erano stati ben altri; in particolare, mentre sciorina mellifluamente le circostanze del suo ferimento, si vedono scorrere impietosamente le immagini che dichiarano la sua arte menzognera.
Chi inganna chi? Chi per primo e chi colpevolmente o con una vena di innocenza dettata dalla eteroclita situazione in atto?
Il lavoro di uncinetto imbastito dal caporale con fatti e parole è in dubbio di onestà, ma egli resta pur sempre uno sprovveduto preso in un gioco perverso delle identità e dei ruoli che culmina in un teatro del terrore e ha per attrici delle donne fatte Furie. I piccoli siparietti, le contese più o meno gentili, i sottesi e l’understatement (che non arriva a celare le urgenti pulsioni libidiche dei personaggi), assieme a tutte le false suppellettili morali e religiose di quel Mississippi rurale, esornano soltanto, senza cancellarla, la reale crudezza dell’abietto che prende forma.
Il film è stato accusato di misoginia, ma una sana risposta a questo che sembra solo un vezzo moraleggiante, potrebbe essere che i miti antichi superano ogni più sfrenata immaginazione presso i paradigmi e i contesti messi al centro della pellicola. In fondo, è un film su sesso e vendetta, e cosa c’è di più topico nelle radici antiche di ogni cultura? Si potrebbe azzardare che sia quasi boccaccesco, e non per antonomasia, ma per temi, intrighi e modalità espressive.
Miss Martha vede nel caporale l’omologo del fratello amato incestuosamente, la bimba che lo ha soccorso vagheggia di lui quasi fosse un padre e un amante, una scafata diciassettenne lo corteggia fino ad amarlo carnalmente, e la giovane insegnante Edwina, in questo carosello che rasenta il melodramma sessuale, lo ama sinceramente di un amore che sembra essere estraneo ai raggiri e alle capziose sottigliezze di tutte le altre. McBurney non è una vittima ideale, ma è pur sempre una vittima. E il collegio femminile, alcova di Dio, Patria e buone creanze, diventa un crogiolo di atrocità come non se ne vedono forse neanche in guerra: qui attuate tra merletti e guanti bianchi, ma non meno fatali.
Magistrale, prima del culmine drammatico del film, è il sogno orgiastico (di lì a poco non si distinguerà dalla realtà, anche perché filmato nella stessa impassibile, fedele maniera) di Miss Martha, che, entrata in maggiore intimità col soldato, lo ama (oniricamente) in un tourbillon di passione.
Tutto sembra concorrere a disegnare una repressione sessuale e di costumi dietro la cui sottile vernice sta la linfa pulsante del peccato e della peggiore depravazione.
Amore e morte si confondono. Così come colpa e innocenza, verità e menzogna. Apparenza e realtà. Parola veridica e inverecondo inganno.
Le immagini sono plurime, con giochi di figure riflesse e l’abilità di incorniciare pezzi di narrazione mettendoli in dialogo tra loro, anche con singole scene che raccontano storie quasi fossero immagini in successione e in evolversi.
Nemmeno la luce del giorno è garanzia di riparo dall’inganno e dalle tresche, anzi la maggior parte della pellicola gioca a mettere in scena il nascondimento e l’inganno proprio alla luce diurna. Mentre gli interni, per contrasto, risultano spesso crepuscolari, soffusi, pennellati tonalmente con rilievi in chiaroscuro, o espressi con parti in ombra e frammenti di luce come piccole feritoie esigue nel buio. Almeno in un paio di espedienti l’estinguersi della parte in luce è il passaggio alla scena successiva.
Raramente si è visto un film più perverso e crudo, e l’energica messa in scena, dinamica ed estrema, concorre a renderlo, seppure claustrofobico, di un respiro corale e minuto, elegante e terribile: proprio come l’educandato che racchiude il film tra quattro mura.
Se la sceneggiatura ha puntiglio psicologico, la messa in scena appare quasi quella di un testo teatrale dove tutto concorre a un intreccio di dialoghi e di ruoli preciso e puntuale; ma le immagini esondano perfino un semplice teatro di posa (fisico come allegorico), scorrono in maniera carsica sotto un velo labile di apparenze, di parole e atti vaghi, doppi se non plurimi, ingannevoli e esiziali, con una vena robustamente vitale e realistica che estenua non solo un possibile senso morale, ma anche la possibilità stessa di non fare dell’immoralità una condotta pratica.
In finale di pellicola torna nuovamente il color seppia, e il cancello del collegio vede uscire il caporale che aveva visto entrare soccorso, morto per un machiavello perfido di tutte le educande, con a capo la perfida Miss Martha, unite dal risentimento nella vendetta. V’è qualcosa di erinnico in questo film, e la castrazione è un fatto, non un’idea appena accennata o una sua sfumatura.
Sempre nel finale, le parole delle collegiali risultano una pantomima della verità a discapito della verità effettiva, come se fosse la voce di un’innocenza che non può che essere estranea alla colpa… Ma solo mentendo e rimuovendola… E i fatti rimangono occultati nel sacco che cuciono attorno al cadavere del caporale, assieme all’amore intatto di Edwina che depone un fazzoletto, per pudore e veridico sentimento, a velarne il volto esangue. Si è conclusa una battaglia senza strepito e cannoni, ma il risultato è lo stesso del conflitto sullo sfondo, dentro come fuori dai cancelli della timorata scuola.
La XXI edizione del Festival della Mente di Sarzana, promosso dalla Fondazione Carispezia e dal Comune di Sarzana, e diretto da Benedetta Marietti, si terrà da venerdì30 agosto a domenica 1 settembre. Tra i molti ospiti che si confronteranno sul tema della gratitudine, anche la giornalista sudanese Zeinab Badawi con l’antropologo culturale Marco Aime e lo scrittore Gabriele Del Grande.
Zeinab Badawi – di cui a fine agosto uscirà il libro Storia africana dell’Africa edito da Rizzoli – e l’africanista Marco Aime rifletteranno sulla necessità di cambiare prospettiva e di ridare voce agli africani nell’incontro Africa, un continente da riscoprire, che si terrà sabato 31 agosto alle ore 12, al Teatro degli Impavidi.
L’Africa è il luogo di nascita dell’umanità, ha visto fiorire antiche civiltà, imperi, e vivaci luoghi di cultura e di commercio. Eppure, per molti, la sua storia comincia solo pochi secoli fa con l’arrivo degli europei, e per troppo tempo è stata dominata dalle narrazioni occidentali di schiavitù.
Zeinab Badawi è una presentatrice, giornalista e regista sudanese. Presidente della Royal African Society dal 2014 al 2021, è presidente della School of Oriental and African Studies (SOAS) dell’Università di Londra. Lavora nei media britannici e ha vinto numerosi premi e riconoscimenti.
Marco Aime insegna Antropologia culturale all’Università di Genova. Autore di studi sull’Africa, ha pubblicato numerosi saggi di studi antropologici, fra i quali L’incontro mancato. Turisti, nativi, immagini (2005), Timbuctu (2008), Cultura, per la collana «I sampietrini» (2013), L’isola del non arrivo. Voci da Lampedusa (2018), Il grande gioco del Sahel (con A. de Georgio, 2021), Di pietre, di sabbia, di erba, di carta (2024), usciti per Bollati Boringhieri.
Di popoli migranti si parlerà anche nell’incontro Il secolo è mobile dell’autore, e fondatore dell’Osservatorio Fortress Europe Gabriele Del Grande che si terrà sabato 31 agosto alle ore 16.15, al cinema Moderno. Del Grande rileggerà la storia delle migrazioni in Europa e della loro progressiva illegalizzazione: se fino all’inizio del Secolo breve non esistevano passaporti, e si viaggiava sui transatlantici senza documenti né lasciapassare, oggi sui fondali del Mediterraneo giacciono i corpi di migliaia di emigranti annegati lungo le rotte del contrabbando. Attraverso una selezione esclusiva di foto e video d’archivio, Del Grande presenta un excursus che rivela il presente sotto una nuova prospettiva e anticipa il futuro con una proposta visionaria.
Gabriele Del Grande racconta le migrazioni dal 2006, quando fondò l’osservatorio Fortress Europe. Da allora ha viaggiato in una trentina di paesi tra le due sponde del Mediterraneo, il nord Europa e il Sahel. È autore dei libri Mamadou va a morire (2007), Roma senza fissa dimora (2009) e Il mare di mezzo (2010) pubblicati da Infinito edizioni; Dawla (2018) e Il secolo mobile (2023) pubblicati da Mondadori. Nel 2014 ha ideato e co-diretto il film Io sto con la sposa.
La Palma d’oro 2024 va al Sean Baker di Anora, narratore indie dell’America diseredata con una speciale attenzione per gli hustlers, gli spiantati che campano di espedienti, e per i lavoratori del sesso in particolare. Li considera, uomini e donne, il nuovo proletariato. Il suo film-troppo lungo- sembra all’inizio una replica di Pretty Woman, con una Cenerentola lap dancer che lo svitato rampollo di un oligarca sposa per gioco. Ma poi diventa una scorribanda mozzafiato con bodyguards e genitori nababbi impegnati a ricacciare Cenerentola nel fango da cui è venuta. Solo i perdenti possono darsi, tra loro, comprensione e conforto, e questo avverrà. E’ il più bel film del concorso? Naturalmente no.
Emilia Pèrez, il mélo in musical di Jacques Audiard che ha avuto comunque due premi, il Prix di Jury e la Palma collettiva per l’interpretazione femminile al quartetto protagonista: l’attrice transgender Karla Sofìa Gascon, Zoe Saldana, Adriana Paz e Selena Gomez, avrebbe meritato il premio più ambito.
E’ troppo facile premiare le donne perché fa tanto “femminista impegnato”. Il Gran Premio della giuria, secondo in ordine di importanza, è andato a All we imagine as light della documentarista indiana Payal Kapadia, debuttante nella finzione, con le storie intrecciate di tre donne emarginate da una Mumbai caotica e ostile. Altra regista donna, Coralie Fargeat, premiata per la sceneggiatura di The Substance, un body-horror per palati robusti che denuncia l’asservimento delle donne all’imperativo maschile che le vuole belle, giovani e sode e le cestina sopra i 50. Con una impavida Demi Moore.
E’ discutibile anche il premio per la regia a Grand Tour del portoghese Miguel Gòmez: è il film meno originale della sua carriera, mentre il Jesse Plemons miglior attore per Kinds of Kindness di Yorgos Lanthimos risarcisce un film di sottile humour noir massacrato dalla critica. Restano fuori in tanti, a torto o a ragione: il più vicino a noi è Paolo Sorrentino, che racconta una storia di donna ma con sguardo maschile, il più glorioso è Francis Ford Coppola, col suo pirotecnico sogno di una vita, Megalopolis.
Insomma la giuria presieduta da Greta Gerwig ha assegnato il premio per la miglior attrice a ben quattro interpreti a pari merito: Adriana Paz, Zoe Saldana, Karla Sofia Gascon e Selena Gomez, Karla Sofìa Gascòn, che ha iniziato la sua transizione di genere all’età di 46 anni, è la prima attrice transgender a vincere questo premio. Tutto nella norma.
Il film vincitore racconta tuttavia racconta di una ragazza che sogna di diventare una principessa, una prostituta di Brooklyn, che ha la possibilità di vivere una storia da Cenerentola quando incontra e sposa il figlio di un oligarca russo. Pellicola curiosa e divertente che consente di fare qualche annotazione in relazione:
Una ragazza di oggi sogna la favola, l’agiatezza, la bella vita, e nel frattempo pratica la propria libertà ed emancipazione facendo la sex worker (come direbbero quelli che parlando bene e che non discriminano!);
per fare ciò la ragazza ha bisogno degli uomini;
sempre la ragazza viene dipinta come l’eroina della vicenda, in quanto donna libera che si “autodetermina” e che smaschera le ipocrisie dell’alta società di cui vorrebbe far parte;
I genitori del ragazzo russo non vogliono avere a che fare con una nuora americana ex spogliarellista e prostituta;
il regista americano prende in giro l’oligarca russo e rappresenta la protagonista, un russa americana, come una sex worker in nero (che originalità).
Una rivisitazione senza troppe ambizioni dunque, di Pretty Woman, Anora, film che secondo alcuni rappresenterebbe il nuovo cinema statunitense, lontano da quello dei grandi maestri, un cinema di piccole storie e nella fattispecie una storia con un protagonista maschile ricchissimo ed idiota e una ragazza sveglia, che “deve” muovere il sedere in faccia alla gente per dimostrare di avere potere sugli uomini.
Anora sembra raccontare solo di una generazione che dà per scontato di doversi vendere. Il regista stira allo stremo ogni idea e questo forse indebolisce Anora anziché rafforzarlo, a maggior ragione considerando il fatto che l’intera trama è completamente prevedibile e non presenta nessuno scostamento da quanto uno spettatore minimamente avveduto possa dedurre dal primo quarto d’ora, per quanto riguarda la prima metà, e poi dall’ingresso in scena degli sgherri e soprattutto dell’attento e gentile Igor per quanto riguarda lo sviluppo che porterà alla risoluzione.
La pellicola intrattiene e porta al pubblico anche qualche spunto di riflessione (senza però spremere troppo le meningi, sia chiaro), ma non è così inventivo o creativo da motivare la propria durata. Basti pensare al dialogo pre-fnale tra Igor e Anora, in cui si ribadiscono otto volte due concetti: sebbene l’attrice protagonista abbia lavorato con Tarantino e in ogni frase dica – volutamente – “fuck” o “fucking” in ogni possibile declinazione, Sean Baker non ha la genialità del collega e il suo film non ha forse la brillantezza per reggere ogni singolo minuto di pellicola (è girato in 35mm).
Anora resta una rom-com spassosa che mantiene comunque quel che promette. Non che prometta più di tanto.
Quando pensiamo alla tecnologia, in genere ci vengono in mente immagini di gadget all’avanguardia e città futuristiche, senza contare le tante novità a cui stiamo assistendo in questi anni in ambito digitale, tra servizi web sempre più efficienti, intelligenze artificiali in grado di risolvere problemi di varia natura e sistemi di realtà virtuale che ci immergono in ambientazioni tridimensionali. Ma oggi, la tecnologia è chiamata a risolvere un’altra sfida molto più importante: rendere il nostro pianeta un posto più sostenibile. Questo è il motivo per cui l’innovazione tecnologica sta giocando un ruolo chiave nel promuovere la sostenibilità. Ma quanto possiamo davvero contare sulla tecnologia per guidarci verso un futuro più verde?
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La rivoluzione delle energie rinnovabili
Lo sviluppo tecnologico viene considerato da molti come una delle cause del peggioramento delle condizioni del pianeta. In parte ciò è anche vero, se consideriamo le conseguenze negative di molte novità introdotte nel corso dei secoli, tuttavia la stessa tecnologia, se correttamente utilizzata, può svolgere un ruolo determinante per riportare l’ambiente in condizioni di vivibilità migliori.
Un esempio lampante di come la tecnologia stia aiutando la sostenibilità è il settore delle energie rinnovabili. Pannelli solari, turbine eoliche e altri metodi innovativi stanno infatti diventando sempre più accessibili ed efficienti ed è facile, oggi, vedere impianti fotovoltaici sui tetti delle case e persino lungo le autostrade al servizio di edifici privati e pubblici. Tuttavia, per rendere le energie rinnovabili una soluzione davvero sostenibile, abbiamo bisogno di tecnologie migliori per immagazzinare l’energia e per collegarla alle reti elettriche e soltanto attraverso ulteriori sviluppi sarà possibile raggiungere risultati davvero significativi.
La mobilità sostenibile prende piede
Un altro segnale positivo arriva dal mondo dei trasporti. I veicoli elettrici stanno diventando sempre più popolari e non è raro vedere auto elettriche sfrecciare per le strade. Sebbene vi siano ancora forti dibattiti tra favorevoli e contrari, sicuramente passi in avanti sono stati fatti da questo punto di vista: grazie a batterie più durature e stazioni di ricarica sempre più diffuse, l’idea di una mobilità sostenibile sta infatti diventando realtà. Affinché questa tendenza diventi la norma, occorrono però più investimenti in infrastrutture e incentivi governativi, volti a favorire una maggiore diffusione dei veicoli green sia nel trasporto privato che in quello pubblico.
Intelligenza artificiale per un mondo migliore
L’intelligenza artificiale (IA) sta dimostrando tutto il suo potenziale per promuovere la sostenibilità ambientale. Questa tecnologia, infatti, non è protagonista solo nel campo del marketing o dell’intrattenimento, dove per esempio permette alle società che gestiscono casino online di governare in maniera più efficace, equa e imparziale le meccaniche di svaghi come le roulette e le slot machine, migliorando l’esperienza complessiva degli utenti, ma anche nell’efficientamento di attività legate all’inquinamento, alla gestione dei rifiuti e all’ambiente in genere.
Le aziende possono oggi utilizzare l’IA per ridurre gli sprechi, ottimizzare i processi produttivi e persino prevedere disastri naturali, dando vita a un circolo virtuoso che migliora la vita di tutti i cittadini.
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L’agricoltura diventa high-tech
La tecnologia sta rivoluzionando anche il modo in cui coltiviamo il cibo. L’agritech, che include droni e sensori intelligenti, sta aiutando gli agricoltori a ridurre l’uso di acqua e pesticidi migliorando la qualità dei raccolti, un passaggio che può contribuire a rendere l’agricoltura più sostenibile, ma che al contempo richiede investimenti significativi e una formazione adeguata per gli agricoltori.
Non c’è dubbio, insomma, che la tecnologia stia guidando il cambiamento verso la sostenibilità. Tuttavia, siamo solo all’inizio di un cammino lungo e complesso. Per rendere il nostro pianeta più verde, dobbiamo infatti continuare a investire in innovazione, ma anche cambiare i nostri comportamenti e modelli di consumo, rendendoci in prima persona protagonisti di questo passaggio. La sostenibilità non riguarda d’altronde solo la tecnologia, ma è un impegno collettivo che richiede la collaborazione di tutti.
L’innovazione tecnologica può certamente essere uno strumento potente per promuovere la sostenibilità, ma siamo tutti chiamati ad affrontare questa sfida con un approccio equilibrato, combinando la tecnologia con un profondo rispetto per l’ambiente e una forte consapevolezza delle nostre responsabilità. Se lo faremo, potremo costruire un futuro più sostenibile per noi e per le generazioni future.
Solitamente i premi cinematografici sono vincenti perché in un modo o nell’altro fanno presa anche su coloro che del cinema non sono appassionati. Tuttavia la premessa per l’edizione 2024 dei David di Donatello (come è stato per gli Oscar del resto) è che la familiarità degli spettatori più o meno consapevoli con determinati film sia aumentata e si riscontra una diffusa familiarità con molti film grazie alla pubblicità dei media.
“Socialhenge” è il titolo del nuovo pezzo di video arte dell’artista emergente veneto Enrico Dedin che trasforma virtualmente l’iconico complesso megalitico di Stonehenge in un cerchio di schermi sociali. Dedin ci conduce attraverso un’indagine antropologica che mescola epoche, dalla Preistoria alla Post-Storia, dall’Età del Bronzo all’Età del Silicio.
Il sito archeologico di Stonehenge nel sud dell’Inghilterra attira ogni anno migliaia di persone per celebrare il solstizio d’estate: il giorno più lungo dell’anno. Il mistero della sua origine e il modo in cui il sorgere del sole si adatta alle costruzioni hanno
reso Stonehenge un luogo di pellegrinaggio mondiale. Migliaia di persone di diverse nazionalità affollano il monumento megalitico per
assistere al tramonto del 20 giugno e all’alba del giorno successivo, in un evento unico che mescola festa e spiritualità.
«Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e, al pari di ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per mezzo de’ nostri giudizi, con le nostre idee; le quali bene spesso vanno come possono». Il monito di Alessandro Manzoni ne I Promessi Sposi, è inequivocabile: il bene bisogna conoscerlo, non deve mai essere in coincidenza con i singoli propositi; nello specifico, Donna Prassede con il suo ‘far il bene’ si propone di raggiungere altri scopi.
Infatti, la sua nobile missione sarebbe quella di raddrizzare il cervello e mettere sulla buona strada Lucia. Di Lucia la nobildonna pensa: «Non che in fondo non le paresse una buona giovine; ma c’era molto da ridire:Quella testina bassa, col mento inchiodato sulla fontanella della gola, quel non rispondere, o rispondere secco secco, come per forza, potevano indicar verecondia; ma denotavano sicuramente caparbietà: non ci voleva molto a indovinare che quella testina aveva le sue idee». Nel suo proposito di far il bene, Donna Prassede parte da un’idea negativa di Lucia che le comporta una distorsione della realtà dei fatti, con conseguenziale agire non verso il bene ma verso il male. Difatti, è convinta che Lucia si sia messa su una brutta storia e non perde occasione per cercare di far dimenticare alla donna quel ‘partito sconveniente’ di Renzo.
Molti personaggi contemporanei, vip e influencers somigliano a Donna Prassede. Sono accomunati dall’esibizionismo e dalla presunzione:
«Le accadeva, quindi, o di proporsi per bene far più di quel che avrebbe diritto».
L’ultimo ironico sigillo al giudizio di Manzoni sulla mediocrità di donna Prassede è il seguente: «Di donna Prassede, quando si dice ch’era morta, è detto tutto‘.
Manzoni è molto abile a dare un ritratto impietoso di Donna Prassede, prototipo della falsità, dell’ipocrisia e dell’immoralità che non sarà mai inattuale. La caratterizza la vanità aristocratica, l’assenza di moderazione e un formalismo esteriore in aderenza ad una religione di facciata, non conosce la carità sincera. Ella si sente calata nei panni dei giusti e assume un atteggiamento ben lontano dal cuore. Il suo errore umano è di pensare di essere nel giusto, ma così non è, i suoi pregiudizi alterano la realtà e si discosta enormemente dalla Morale.
Tuttavia è bene sottolineare che carità, filantropia e beneficenza non sono sinonimi, anche se parlano ambedue del medesimo oggetto, e cioè l’uomo e la donna nel bisogno, tenendo presente la vasta tipologia di bisogni e di povertà nelle diverse condizioni di vita. Conoscendo la forza dell’egoismo, per il quale è l’io che si pone al centro dell’attenzione ignorando l’altro, avvertiamo quanto sia difficile uscire da noi per correre in aiuto dell’altro.
Immaginiamo se poi chi dice di praticare la beneficenza, possa addirittura truffare e mettere in piedi un sistema di comunicazione nebulosa atto a far capire e al contempo a non far capire che chi compra quel prodotto griffato, spendendo il triplo, aiuta chi ne ha più bisogno, come i bambini. Poca chiarezza (deliberata) come modus operandi per pararsi il didietro e guadagnare sempre di più, consolidare il proprio status economico-sociale e ostentando ricchezza e volgarità. Si chiama marketing ma viene spacciato per beneficenza da chi si pone come modello per i giovani di oggi.
Perlopiù è la compassione che ci fa accorgere dell’altro e ci fa sensibili alle sue esigenze e ai suoi bisogni; nasce allora dal cuore quella filantropia (= amore per l’uomo), che ci porta a fare anche belle cose in aiuto di chi è nel bisogno. Tale filantropia è già da sola un grande contrassegno dell’umanità dell’uomo, e merita di essere in ogni caso incoraggiata e sviluppata. Il cristiano fa altrettanto e ancora di più, perché sa di trovarsi non solo dinanzi ad un suo fratello per fede e per destinazione, ma dinanzi ad una presenza “mascherata” del suo Dio. .
Per questo una delle caratteristiche della comunità cristiana delle origini era la perseveranza nella carità e nella comunione dei beni (At 2,44-45).
Concetto sicuramente estraneo a chi, dopo essere stato beccato, pensa di poter riacquistare credibilità. parlando di errore di comunicazione, quando si è le regine dei social, e donando un milione di euro ad un ospedale. Guardiamo allo “star basso” di Lucia, non alla superbia, all’ignoranza e all’altezzosità di chi non si “accontenta” di fare milioni grazie al disagio e alla superficialità giovanile (e non solo), ma che entra a gamba tesa anche su questioni politiche avventurandosi in pistolotti moralistici indigesti e slogan mo’ di maestro di vita.
Il dibattito sulla dialettica tra l’opera d’arte fisica e la sua versione digitale coniata come NFT da numeri sempre crescenti di musei negli ultimi mesi, sono perlopiù informate dall’idea del gemello digitale. È molto meno di una versione digitale identica che ha la stessa aura dell’originale con cui condivide un’esistenza. Potrebbe benissimo essere il caso che l’idea di un gemello digitale di per sé possa ispirare un nuovo modo di pensare per le NFT, sebbene questo possa essere informato anche dal phygital.