‘Anja, la segretaria di Dostoevskij’, il romanzo pluripremiato di Giuseppe Manfridi in corsa per il Premio Strega

“Anja, la segretaria di Dostoevskij” è la straordinaria opera dello scrittore e autore teatrale Giuseppe Manfridi, vincitrice nella sezione Narrativa Edita della VII Edizione del Premio Letterario Città di Como e della I Edizione del Premio Dostoevskij.

Il romanzo è stato inoltre selezionato per il Premio Strega 2020, presentato dallo storico dell’arte Claudio Strinati, che l’ha così descritto:

«Mai banale, mai retorico, mai ostentato ma profondamente serio e convincente, un inno alla letteratura e all’amore, all’intelligenza e alla volontà».

La genesi del romanzo Il giocatore di Dostoevskij

Nell’opera si racconta la turbolenta nascita del romanzo “Il giocatore” (in russo “Igrok”) di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, e allo stesso tempo l’origine di una storia d’amore scandalosa e sofferta, che cambierà l’esistenza del grande scrittore russo.

Anna Grigor’evna Snitkina (chiamata affettuosamente Anja) e Fëdor Dostoevskij amano la letteratura più di qualunque altra cosa al mondo, e in essa trovano il compimento del loro destino; quando egli decide di avvalersi di una stenografa per accelerare il processo di composizione del suo nuovo romanzo, non intuisce ancora che quella ragazza appena diciottenne diventerà fondamentale per la sua scrittura, e presto anche per la sua anima.

I due protagonisti sono finemente caratterizzati, così come i numerosi personaggi secondari, donando loro una tale complessità emotiva da coinvolgere profondamente il lettore nelle loro vicende, e da emanciparli dal loro ruolo di finzione per renderli umani, vivi.

Stile e contenuti

Giuseppe Manfridi ci permette di osservare da vicino l’atto creativo di uno scrittore geniale in perenne lotta con i suoi demoni, provato da una vita di dolore, malattia e indigenza e che «porta la propria storia incisa ovunque nelle carni»; nel racconto della gestazione de “Il giocatore” l’autore esprime il tumulto e l’urgenza della scrittura dostoevskiana che, se da una parte erano insiti nella sua natura, dall’altra erano dettati dall’ingannevole contratto stipulato con il suo editore, il viscido F. T. Stellovskij, che aveva anticipato a Dostoevskij la somma di tremila rubli in cambio dell’accordo che se non avesse consegnato la sua nuova opera in ventisei giorni, avrebbe perso i diritti dei suoi romanzi passati e futuri.

Sullo sfondo di una Pietroburgo magnificente e al contempo decadente e oscura, abitata da fantasmi che scorrazzano insieme ai vivi, e che accompagnano lo scrittore in ogni suo passo – «Sono i suoi morti e i suoi vivi, questi. I morti e i vivi di Fëdor Michajlovič. Nemmeno il diavolo glieli potrà sottrarre» – si mette in scena una raffinata biografia romanzata, caratterizzata da una scrittura visionaria che evoca magistralmente lo spirito di quei tempi; una storia intima e poetica che entra nelle vene e si mischia con il sangue, arriva al cuore e lì permane, testardamente attaccata alle sue pareti.

Sinossi del romanzo

Pietroburgo 1866. Lo scrittore, quasi cinquantenne, Fëdor Michajlovich Dostoevskij è afflitto dall’epilessia e reduce dall’aver firmato un contratto capestro col suo mefistofelico editore: si è impegnato a consegnare un nuovo romanzo nell’arco di un mese.

In caso contrario perderà i diritti su tutte le sue opere passate e future. Consigliato dagli amici, si rivolge a una scuola di stenografia che gli mette a disposizione la migliore delle sue allieve: Anja Grigor’evna, una graziosa adolescente curiosa del mondo, che ha ereditato dal padre la passione per la letteratura. Fra i due, in ventisei giorni, nascerà un amore estremo a dispetto dello scandaloso divario di età.

Anja rimarrà la fedele custode dell’opera di Dostoevskij fino alla propria morte, avvenuta trentasette anni dopo quella del marito.

Vera Macchina del Tempo, questo romanzo sonda il mistero del legame profondo che si stabilì tra Dostoevskij e Anja nel breve tempo della stesura del “Il giocatore”, restituendoci, con una scrittura straordinariamente evocativa, atmosfere, clima, e persino odori e rumori della Pietroburgo del XIX secolo.

Biografia dell’autore

Giuseppe Manfridi è uno scrittore e autore teatrale rappresentato in Italia e all’estero.

Tra le sue commedie di maggior successo si ricordano: “Giacomo il prepotente” (1989), “Ti amo Maria!” (1990), “Zozòs” (1994), “La cena” (in scena dal 1990).

Per il cinema ha firmato la sceneggiatura di “Ultrà” che, con la regia di Ricky Tognazzi, vince l’Orso d’argento al Festival di Berlino nel 1991.

Debutta nella narrativa con “Cronache dal paesaggio” (Gremese, 2006), tra i dodici finalisti al Premio Strega nel 2006, come avverrà di nuovo nel 2008 con “La cuspide di ghiaccio” (Gremese, 2008).

Di recente ha pubblicato “Filastrocche della nera luce. Cronache dalla Shoah” (La Mongolfiera, 2018). Ha pubblicato per La Lepre Edizioni nel 2016 “Anatomia della gaffe”, nel 2017 “Anatomia del colpo di scena” e nel 2019 “Anja, la segretaria di Dostoevskij”.

‘Uccidiamo lo zio’ della canadese Rohan O’Grady approda in Italia

Uccidiamo lo zio, dell’autrice canadese Rohan O’Grady, edito dalla WoM Edizioni è il romanzo per ragazzi che uscirà nelle librerie italiane il 17 Giugno.

Rohan O’Grady, pseudonimo di June Margaret O’Grady Skinner, nacque a Vancouver (Canada) nel 1922. Dopo essersi diplomata alla Lord Byng High School nel ‘40, conobbe quello che sarebbe divenuto suo marito e padre dei suoi tre figli, il giornalista Frederick Snowden Skinner.

Cominciò a scrivere solamente all’età di quarant’anni e tra il 1961 e il 1970 decise di far pubblicare i romanzi che aveva fino ad allora tenuto in un cassetto. I romanzi O’Houlihan’s Jest (1961), Pippin’s Journal, Or, Rosemary Is for Remembrance (1962) e Uccidiamo lo zio (1963) apparvero con lo pseudonimo di probabili origini irlandesi “Rohan”.

Il successo arriverà col suo terzo romanzo, tanto che Uccidiamo lo zio verrà trasposto poco dopo al cinema – nel 1966 e col titolo originale Let’s kill uncle(Gioco mortale in italiano) dal noto regista del terrore William Castle e produttore di Rosemary’s Baby di Roman Polański.

Uccidiamo lo zio: sinossi

Uccidiamo lo zio, pubblicato inizialmente nel 1963,  è rimasto celato per decenni a causa dell’ostracismo d’una critica moralizzatrice per sua essenza priva di ironia – che accusava il libro di essere amorale, se non addirittura immorale. Riscoperto nell’ultimo decennio, quale precursore di universi romanzeschi dalle tinte gotiche come quelli di Lemony Snicket (Una serie di sfortunati eventi) e di Douglas Lindsay (La bottega degli errori), è stato ripubblicato prima negli Stati Uniti e in Inghilterra, poi successo di libreria anche in Spagna e Francia, ed ora per la prima volta in Italia!

Trama e contenuti

È estate e trascorrete le vacanze su un’isola paradisiaca, siete orfano ed erede di un’ingente fortuna. Uno zio diabolico, vostro tutore, vuole uccidervi per mettere le mani sopra il bottino. Ma voi siete furbo e, grazie all’aiuto di un’amica smaliziata e di un puma in pensione, troverete la soluzione per sfuggire alle sue grinfie mortali: ucciderlo prima che sia lui ad uccidere voi…

Due bambini per protagonisti, Barnaby Gaunt e Christie MacNab, che ribalteranno tutte le presunte certezze e i pregiudizi sulla psicologia infantile, così come le verità, i catechismi e le tetragone convinzioni del mondo adulto, rappresentato qui da una corale, colorita e pittoresca piccola comunità di isolani, che non tarderà a ricordare quella dai tratti comici, tetri e ambigui della Twin Peaks di David Lynch.

Stile

Un’avvincente e macabra storia d’avventura, di astuzia, di sopravvivenza e di morte con protagonisti due turbolenti bambini di dieci anni. Un racconto dalle tinte gotiche, comiche, a volte un po’ buffe e strane, che ricorda i protagonisti dei film di Wes Anderson e i bambini illustrati da Edward Gorey.  Lo stile ironico – a tratti esilarante – ed al contempo elegante, è la forza quest’autrice, purtroppo poco conosciuta.

Keith Maillard, genero della scrittrice, diceva di lei: «Lei stessa non si è mai vista come uno dei pionieri del romanzo canadese o come una letterata, ma è stata sicuramente entrambe le cose. Ha cominciato ad essere pubblicata quando i romanzi canadesi erano ai loro inizi e i suoi editori, d’altro canto, non erano di Toronto, ma di Londra e New York. Dal 1961 al 1981, ha scritto sola, vivendo la sua vita calma di sposa e di madre a Vancouver»

Un romanzo dalla morale disturbante che rimetterà in discussione ogni pretesa moralizzatrice sulla funzione della letteratura, insegnandoci che l’orrore può diventare fonte di scherzo, riso e gioco, che la morte è un soggetto divertente (a patto di saperlo maneggiare con la dovuta leggera maestria), e che lungi dall’essere un atteggiamento malsano l’humour nero è il rimedio assoluto ad ogni barbosa serietà
e, come in un albo di Edward Gorey, fonte inesauribile di solleticanti sorprese.

 

https://www.womedizioni.it/catalogo/rohan-ogrady-uccidiamo-lo-zio/

La casa editrice Pan di Lettere annuncia l’uscita di ‘Nell’Inferno’ di Arturo Onofri

Per la prima volta, grazie all’accurato lavoro della studiosa Magda Vigilante, sono stati editi i racconti raccolti nell’Archivio Arturo Onofri della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, i quali testimoniano una diversa attività di Arturo Onofri conosciuto come poeta la cui produzione risente, all’inizio, oltre che dei poeti francesi, di Pascoli e soprattutto di D’Annunzio, adottando modi d’un titanismo estetizzante, sfiorando anche il crepuscolarismo e le esperienze dei primi vociani.

Al tempo stesso Onofri recuperò le forme del linguaggio tradizionale per ricavarne significati religiosi, profondi e positivi, per affermare la forza della voce poetica, la sua capacità di entrare in contatto con i valori più autentici della natura e della storia.

Nell’Inferno di Onofri: un libro a tinte gotiche

Si tratta di tre racconti che risalgono a una fase molto giovanile dell’autore, nella quale è manifesta la sua adesione al Simbolismo e al Decadentismo. Nell’Inferno, dalle tinte gotiche, è il racconto più lungo, che dà il titolo alla raccolta.

“Un freddo intenso gli faceva battere i denti, insonne, si girava e rigirava nel letto, mentre ascoltava i lugubri rintocchi di un campanile vicino. In un attimo di tregua concesso da un breve sogno gli appariva un paesaggio idilliaco nel quale avrebbe voluto sostare per sempre. Era solo un’illusione, però, che svaniva nel risveglio angoscioso durante il quale s’udiva un rumore ossessivo, un misterioso respiro di cui non comprendeva la provenienza.”

La curatela di Magda Vigilante

Magda Vigilante è nata e vive a Roma. Laureata in Lettere alla Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, ha conseguito il dottorato in italianistica presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. È stata bibliotecaria presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma.

Da anni dedica le sue ricerche ad autori italiani del Novecento. Ha curato i volumi: Arturo Onofri, Poesie e prose inedite (1920-1923), Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, [1989]; Id., I quaderni di Positano, Pistoia, Via del Vento, 1999; Id., Arioso. Orchestrine, Lavis (Tn), La Finestra editrice, 2002. Ha pubblicato il volume: L’eremita di Roma. Vita e opere di Giorgio Vigolo, Roma, Fermenti, 2010. Di Giorgio Vigolo ha curato i volumi Lirismi. Scritti poetici giovanili (1912-1921), Roma, Edizioni della Cometa, 2003; Roma fantastica, Milano, Bompiani, 2013; Le notti romane Roma, Edilet, 2015.

Ha scritto la voce Giorgio Vigolo nell’antologia: Marco Albertazzi Marzio Pieri Gli invisibili. Antologia-Saggio del 900 Poetico, Lavis (Tn), La Finestra editrice, 2008. Ha curato di Gianna Manzini il volumetto Il merlo e altre prose, Pistoia, Via del Vento, 2005. Ha pubblicato il saggio La poesia di Onofri come immagine del Verbo in P. Gibellini, La Bibbia nella letteratura italiana, vol. II, L’età contemporanea, Brescia, Morcelliana, 2009. Suoi saggi critici sono stati pubblicati sulle riviste: «Studi novecenteschi», «Critica letteraria», Il 996, rivista del Centro Studi Belli, «Campi Immaginabili», Pagine, «Poeti e poesia» e sulla rivista on-line «Fili d’aquilone».

‘Tanta roba di me’, l’esordio poetico di Martin Palmadessa

 “Tanta roba di me”, editato dalla Aletti nella Collana “I Diamanti”, è l’esordio poetico di Martin Palmadessa, con l’introduzione di Sante Serra e prefazione del professore Hafez Haidar, intellettuale libanese candidato al Premio Nobel per la Pace, tra i maggiori traduttori di Gibran.

L’autore Martin Palmadessa

Tanta roba di me: contenuti e stile

Dopo un’intera esistenza dedita all’arte, coltivando la passione per la letteratura, la poesia, la musica, tanto da dedicare il tempo libero alla scrittura di ben dodici libri non ancora editati e di un diario di oltre 3500 pagine, Martin, di Bologna, classe 1971, ha deciso di uscire allo scoperto con “Tanta roba di me”. L’emblematico nome della raccolta è stato scelto durante un tragitto in macchina con la madre, che ha commentato: «Il titolo è forte». Così come lo sono i componimenti del volume, appassionati e trascinanti, con una penna che graffia e insieme accarezza.

La pubblicazione aggiunge un nuovo tassello all’esistenza di Palmadessa, costellata di esperienze appaganti a livello sociale. È stato Consigliere di Presidenza della Pro Loco di Dozza e nei Consigli di Amministrazione di diverse aziende, creando e dirigendo diverse società commerciali.

L’influenza di Tagore

«Al lettore dovrebbe arrivare uno tsunami, questo è il concetto – ammette con chiarezza, parlando del libro -. Il mio intento non è certo quello di lasciare una piccola traccia nei cuori della gente. Io voglio aprirci un’autostrada».

Ognuna delle 52 poesie della raccolta è contraddistinta da una scrittura persuasiva, che stupisce. «Ha il tratto ruvido, espressivo e diretto di chi non ha peli sulla lingua, in particolare quando si interroga e parla di sé stesso», è il giudizio di Serra.

Entusiasta è anche Haidar, che esprime parole di grande encomio per la cifra artistica dell’opera. «I versi di Martin penetrano nell’anima del lettore e ci regalano i benevoli frutti del cuore, alla stessa stregua dei versi del poeta Tagore».

Non è un paragone eccessivo. Già dalle prime pagine del libro, si comprende che Palmadessa rientra nella categoria dei Poeti che hanno qualcosa da dire, di quelli che parlando di sé stessi arrivano a parlare a una moltitudine. Dall’alto della sua esperienza, Haidar ne ha riconosciuto la voce, tra le tante che gravitano indistinte nel mondo poetico.

Una raccolta ambiziosa

Tanta roba di me è un’opera ambiziosa che parla di cieli immensi, dell’assoluto, della profondità della nostra anima e dei nostri sentimenti, ricercando la bellezza della vita che va accettata in ogni suo aspetto, dimostrando che ogni poesia si presta alla più svariata combinazione di parole, fluida e precisa, ritmata.

Interrogandosi su se stesso, l’autore coinvolge nelle sue riflessioni temi importanti, basilari, degno di essere cantati nel modo più nobile, alla Dante, insomma, aggiungendo qualche tassello in più alla teosofia o quantomeno ribadendone le sue istanze e contenuti, sotto la guida dell’ottimismo.

 

‘Il racconto di un sogno. Ritorno a Twin Peaks’, l’indagine personale di Ilaria Mainardi

Il racconto di un sogno. Ritorno a Twin Peaks, edito Les Flâneurs Edizion, è l’ultimo libro di Ilaria Mainardi. E’ a Pisa, sua città d’origine che la scrittrice matura l’amore per il cinema, scrutato col rispetto e la sospensione incredula che si deve a ciò che è al tempo stesso familiare e misterioso. Collabora con il sito di critica cinematografica www.spietati.it. Nel 2020 sempre con Les Flâneurs Edizioni pubblica la sua opera prima La quarta dimensione del tempo.

Les Flâneurs Edizioni nasce nel 2015 grazie a un gruppo di giovani amanti della Letteratura. Il termine francese “flâneur” fa riferimento a una figura prettamente primo novecentesca d’intellettuale che, armato di bombetta e bastone da passeggio, vaga senza meta per le vie della sua città discutendo di letteratura e filosofia.

Oggi come allora, la casa editrice si pone come obiettivo la diffusione della cultura letteraria in ogni sua forma, dalla narrativa alla poesia fino alla saggistica, con indipendenza di pensiero e occhio attento alla qualità. Les Flâneurs Edizioni intende seguire l’autore in tutti i passaggi della pubblicazione: dall’editing alla promozione. Les Flâneurs Edizioni è contro l’editoria a pagamento.

Il racconto di un sogno. Ritorno a Twin Peaks: sinossi

Il racconto di un sogno. Ritorno a Twin Peaks è uscito il 16 Aprile 2021.

«In che anno siamo e cosa è successo davvero in questa storia che tende i margini del quadro fino a straripare nel non visibile?»

Is it the future or is it the past? Con David Lynch non ne siamo mai certi: i bordi si sfumano, le maglie si allargano, lo spaziotempo e ogni sua logica esplodono in un Big Bang di intuizioni e suggestioni. Raccontare tale caos primigenio come se fosse un sogno è l’obiettivo di questa disamina del terzo capitolo dell’iconico Twin Peaks, una lettura metaforica che ne esplora il simbolismo con l’ausilio della critica cinematografica e della filosofia, della religione e della psicologia. Provando a fare ordine, a comprenderlo quanto più possibile senza annullarne del tutto il mistero. Perché forse è proprio lì, nella sua perturbante indeterminatezza, che si annida il fascino visionario del regista di Missoula.

Chi non ricorda Twin Peaks, la serie tv statunitense ideata da David Lynch e Mark Frost, che ha tenuti incollati allo schermo milioni di telespettatori e trasformandosi ben presto in un cult degli anni 90-91. E soprattutto la liceale Laura Palmer che nasconde una doppia vita?

È proprio da qui che Ilaria Mainardi parte per dare vita al suo nuovo lavoro editoriale. Il racconto di un sogno. Ritorno a Twin Peaks è un saggio divulgativo ricco di spunti di riflessione, che si focalizza sul terzo atto del capolavoro seriale di David Lynch.

Come afferma il critico cinematografico Luca Pacilio nella prefazione: “La terza stagione di Twin Peaks, venticinque anni dopo la seconda, propone intrighi ancora più astratte di quelle qui David Lynch e ci aveva abituato, mette in gioco nuovi personaggi, muove quelli che conoscevamo in contesti e ambiti inediti, fa della madre di tutta la nuova serialità una proposta familiare e insieme straniante. Viene pubblicizzata come Il ritorno: che, certo, è quello dell’agente Dale Cooper alla ricerca di sé e della sua identità, ma anche quello dello spettatore nel mondo creato dal regista americano, una dimensione in cui il perturbante continua a scaturire dal quotidiano punto in questo labirinto rinnovato.

Ilaria Mainardi non segue una strada pretendendo sia l’unica, non intraprende un senso pensando di esaudirlo. Presenta la sua come un’esplorazione, un itinerario tra i tanti possibili, quello di una persona che il cinema di Lynch e lo conosce lo frequenta da tempo, con immutata curiosità. E che con lo stesso non ha mai preteso di chiudere la partita, anzi, che ha tenuto a riaprirla ogni volta che ha deciso di confrontarvisi.

Quello di Ilaria Mainardi è un invito al viaggio, dunque, un’ipotesi di studio, la rivendicazione di uno sguardo parziale fatta perché il lettore possa mettere alla prova il proprio […] Mainardi, tra le nebbie di Twin Peaks, prova a indovinarne i contorni – confrontando pareri, equiparando testi – e, fidandosi del suo intuito e della conoscenza della geografia lynchiana, ne dipinge un ritratto sorprendente.”

Il racconto di un sogno. Ritorno a Twin Peaks, dunque, è un’opera in cui si fonde la passione autentica per il cinema della scrittrice ma al contempo il desiderio indefesso della ricerca, dello studio e dell’approfondimento del capolavoro twinpeaksiano.

Un saggio per gli appassionati della serie ma anche un caleidoscopio dove il cinefilo più esperto potrà ricercare spunti di riflessioni del tutto inediti, trascinato nelle atmosfere distopiche e misteriose di Twin Peaks- tipiche per altro dei romanzi di Orwell, Edgard Allan Paul e Conan Doyle.

 

https://www.lesflaneursedizioni.it/product/il-racconto-di-un-sogno-ritorno-a-twin-peaks/

‘La saggezza del lupo’, la salvazione secondo Alessandro Venuto

Alessandro Venuto è nato nel 1983 a Chiavari (Genova) e vive a Milano dal 2011, nel quartiere Casoretto. Sposato con due figli, lavora come educatore in una comunità per la cura delle dipendenze e una per i minori. Si è occupato di meditazione in carcere; ha collaborato con Dario Fo ed autori Einaudi e Mondadori. Ha conseguito alcuni premi letterari ed ha ricevuto molti consensi critici. Ha poi esordito nel 2020 con il romanzo “In direzione opposta” (Edizioni Montag). Il suo nuovo libro, un romanzo di formazione, si intitola “La saggezza del lupo”, pubblicata sempre con le Edizioni Montag.

L’attività di Alessandro Venuto

Breve parentesi sull’attività lavorativa dello scrittore, il quale si occupa anche di tossicodipendenti, stigmatizzati ancora oggi e giudicati in modo particolarmente severo da certi moralisti. Poco importa sapere se la tossicodipendenza sia una fuga, la ricerca di un paradiso artificiale. Poco importa sapere se il tossicodipendente abbia iniziato per noia, senso di vuoto, trasgressione, automedicazione, autodistruzione, senso di impotenza, conformismo con il gruppo dei pari, culto dello sballo o per avere un momento di felicità.

Probabilmente esiste una concomitanza di fattori, ma non è questo che conta. Quel che conta è che oltre alle cure disintossicanti ci vuole la terapia della parola, la cura dell’animo. È questa la missione quotidiana dello scrittore ed è particolarmente meritevole aiutare ad uscire dal tunnel della droga. Un tempo veniva punito anche il semplice consumatore di droga.

Soltanto con il Testo Unico 309 del 1990 si legifera la non punibilità di chi detiene sostanze stupefacenti per uso personale, che viene solo segnalato dal Prefetto e riceve delle sanzioni amministrative. Un passo avanti nella legge. Ma prima di puntare l’indice su chi si droga bisogna ricordare che è solo il Ministero che stabilisce di volta in volta cosa considerare droga e cosa no.

Così come va ricordato che anche l’alcool è una sostanza psicotropa, nonostante la nostra cultura mediterranea lo tolleri e lo consideri un alimento quotidiano con cui pasteggiare. Queste sono tra le ragioni per cui leggere il primo romanzo “In direzione opposta”.

La saggezza del lupo: trama e contenuti

Invece ne “La saggezza del lupo” il protagonista è Luca Amato, cresciuto per strada e legato dalla adolescenza ad un gruppo criminale, con cui rompe dopo essersi messo con una prostituta cinese. La criminalità è una strettoia. È molto ridotto il margine di scelta. Eppure nonostante certi vincoli il libero arbitrio esiste sempre. È questo che vuole dirci Venuto, anche se come cantava De Gregori gli stessi malavitosi “sono giovani vite dentro una fornace”.

La criminalità minaccia, spara, uccide. Ha le sue regole, la sua logica spietata, non c’è mai niente di giusto. La criminalità potrebbe essere la chiave di volta per analizzare l’intera società di massa occidentale. Lo scrittore Paul Goodman paragonò la nostra società ad una stanza chiusa, dove i cittadini sono come dei topi che fanno una corsa, girando a vuoto. Per molti intellettuali non c’è via di uscita.

Eppure ognuno, anche i più disperati, hanno la possibilità di cercare un varco o quantomeno uno spiraglio, un ancora remota di salvezza: questo è il pensiero di Venuto. Successivamente infatti il protagonista finisce in carcere dove cambia completamente prospettiva delle cose e cerca appunto il riscatto: decide di smettere con la criminalità e vuole diventare scrittore, grazie all’aiuto di due formatori.

L’evoluzione umana nella letteratura

I riferimenti letterari di Venuto, nonché i suoi maestri di vita, diventano Jack London, Dostoevskij, Tolstoj, Knausgard. Lo scrittore ci dice che si può cambiare. Chiunque può cambiare, nonostante mille difficoltà e le più grandi resistenze al cambiamento. Cambiare significa affrontare l’ignoto con i rischi che comporta, ma può significare anche evolvere, come avviene ne La saggezza del lupo.

Con entrambi i romanzi, l’autore genovese vuole comunicarci che per uscire da qualsiasi tunnel di questa vita bisogna riconoscere la propria irripetibilità ed unicità; così come è di particolare aiuto, una sorta di agente catalizzatore, la liberazione dei propri impulsi creativi.

La saggezza del lupo è un romanzo è ben scritto, lo stile è fluido e scorrevole, privo di segni criptici; una prosa cristallina e diretta, orchestrata da talento e perizia,  allo stesso tempo contrassegnata da una autentica intellettualità e da un retroterra culturale solido, che spesso indaga su uno dei più grandi misteri umani, ovvero la creatività artistica

Tra letteratura e sociologia

Pensando ad entrambi i romanzi viene in mente la frase di un manuale di sociologia di Ferrarotti: “Non si dà l’individuo senza società, né c’è società senza individuo”. Una certa fiction o certi noir ci presentano la devianza brutale e crudele, prevalentemente con il segno meno.

Allo stesso tempo altra narrativa oltre alla Saggezza del lupo, affronta questi temi civili con retorica e sentimentalismo, sfruttando la fisiologia delle lacrime. Invece Venuto  ci vuole dire che anche in questa realtà sotterranea esiste il lato umano ed il riscatto, senza mai essere strappalacrime e senza addossare la colpa quando al sistema o quando all’individuo, come fanno i pressapochisti.

Ogni uomo può indagare se stesso, riflettere su stesso e salvarsi. Non importa che la redenzione sia etica, filosofica o religiosa. L’essenziale è che avvenga, indipendentemente dalla forma e dalla modalità.

Venuto con la sua opera ci lascia una testimonianza di vita ed al contempo smuove la coscienza del lettore con la sua denuncia sociale. Infine ogni incontro può aiutarci in questo nostro cammino, può facilitarci. In ogni incontro esiste “un filo conduttore” come scriveva Paulo Coelho ed è per i suddetti motivi che ne consiglio caldamente la lettura.

 

Di Davide Morelli

 

‘Gli occhi di Nausicaa’, la silloge junghiana di Marina Cherubini

Marina Cheubini è nata a Brescia il 6 agosto 1988. Dopo la maturità scientifica si è laureata in “scienze filosofiche”.  Nel 2013 ha  scritto la  prima raccolta di poesie: “Componiti, Mistero”,  vincitrice della XXXIV edizione del  Premio “Letteratura”, attribuitole dall’Istituto Italiano di Cultura di Napoli. Ecco ora  questa sua seconda silloge, “Gli occhi di Nausicaa”, edita da QuiEdit.

In questa sua ultima raccolta si possono trovare molti componimenti pregnanti e di ottima fattura. Estetica e mitologia vanno a braccetto con sobrietà e senso della misura. Una ricerca poetica di questo tipo sottende una lettura ben digerita ed assimilata di Jung: significa far parlare gli archetipi e l’inconscio collettivo, ricercare il proprio Sé, cercare di compiere il proprio percorso di individuazione.

Con ponderatezza sceglie la via del prerazionale, ma lo fa, per l’appunto, con circospezione e prudenza, senza gettarsi a capofitto nei meandri dell’ignoto: la sua coscienza è sempre vigile. L’autrice si situa poeticamente in una posizione intermedia tra interno ed esterno, anche se il suo viaggio deve intendersi innanzitutto come esistenziale ed interiore. In questa sua ricerca è tutta tesa all’essenziale, i suoi versi non tracimano né strabordano mai.

L’autrice Marina Cherubini

Va sottolineata ne Gli occhi di Nausicaa, anche l’ironia e il divertissement, che caratterizzano questa opera: se la mitologia ne è il pilastro, l’ironia ne è il substrato; in ogni modo sia le fondamenta che la struttura di questo libro sono benfatte e solide. Le basi, come si suol dire, ci sono. La poetessa non ricerca l’empatia e non esprime nella pagina il suo disagio.

La priorità dell’autrice non è assolutamente quella di persuadere, stupire il lettore. Non ammicca mai né c’è traccia nei suoi scritti di compiacimento. Il suo è un isolamento, che non conduce alla solitudine, ma al raccoglimento, alla contemplazione disinteressata. Il fine ultimo non è quello di impressionare né quello di fare in modo che il lettore si immedesimi. Non fa leva su una presunta sensibilità spiccata, come fanno in molti.

Ne Gli occhi di Nausicaa non si assumono pose. Non si parla della propria condizione psicologica, sociale, esistenziale. La soggettività della raccolta poetica trascende i puri dati biografici. L’autrice non vuole che il lettore si identifichi in quello che scrive, probabilmente. Vuole ascoltare la vera musica del mondo, togliendo i rumori assordanti che la disturbano. Vuole far riaffiorare la parte più atavica ed ancestrale di sé stessa, indipendentemente dalla partecipazione del lettore.

Per perseguire questo obiettivo non tratta dell’idea della morte, non fruga nei ricordi, non si cala nella dimensione del futuro. Ci sono essenzialmente l’eterno presente, sé stessa e gli archetipi. Tutto ciò è un atto di onestà intellettuale. La poetessa utilizza come filtro la mitologia, che si interpone e media tra lei ed il lettore, senza mai mettersi totalmente a nudo interiormente.

Le sue non sono effemeridi. Chi cerca una scrittura confessionale la trovi altrove. Infatti sconfina dall’io, scende nei più profondi scantinati, che non sono quelli dell’inconscio freudiano, ma quelli dell’inconscio collettivo. La poetessa trova in Nausicaa, principessa dei Feaci, il suo archetipo: in fondo è lei stessa ad aiutare Ulisse, l’ospite, lo straniero, in una parola sola l’Altro. Ma oltre al piano mitologico c’è quello più prettamente esperienziale perché la  poetessa cerca anche  il rispecchiamento tra realtà e mondo interiore.

Ne Gli occhi di Nausicaa il paesaggio non è mai definito. Ma cosa importa delineare con esattezza un luogo preciso? Un luogo o nessun luogo è l’identità stessa cosa ai fini del suo discorso.

Il luogo è un luogo dell’anima. Fondamentale piuttosto è la correlazione tra il mondo e le sensazioni, tra la realtà esterna e gli stati d’animo, anche se letterariamente il paesaggio non si concretizza e non è facilmente riconoscibile.

Fondamentale è l’ipostatizzazione della parte più profonda di sé, attraverso l’auscultazione dei moti del suo animo e lo scavo interiore. L’armonia col mondo, la completa conciliazione con esso è cosa ardua da trovare, anche per gli esseri più spirituali. La Cherubini si pone comunque ad un livello ulteriore di conoscenza e di approfondimento della realtà.

Gli occhi di Nausicaa, sebbene supportata da una poetica e da certi riferimenti culturali, è leggibile e comprensibile a tutti e questo a mio avviso è un pregio non di poco conto in un periodo in cui le citazioni colte, i richiami intertestuali e gli intellettualismi si sprecano.

Va detto, ad onor del vero, che spesso molti poeti contemporanei mischiano l’immischiabile, fanno delle misture improponibili, cercano nei modi più inverosimili di dare forma all’informe. È un poco come cercare di conciliare l’inconciliabile, come versare nello stesso bicchiere il latte con la birra.

Secondo un vecchio assunto della psicologia il tutto è superiore alla somma delle parti. Ma si potrebbe anche dire che il tutto è la sintesi delle parti.

Invece con Gli occhi di Nausicaa, la poetessa non si cimenta in arditi esperimenti poetici e trovo che sia meritevole per il fatto di non eccedere né strafare mai. Il componimento che mi è piaciuto di più, ma ciò dipende anche dal gusto personale naturalmente, è “Good morning” perché la Cherubini nella notte intravede l’Ombra e l’attraversa definitivamente:

Notte sbadiglio, notte schiamazzo, a

richiamarti fuori sul terrazzo,

guardando alla luna come alla

notte il sole; notte corazza,

coperta di stuole, notte profeta,

sarà ciò che vuole;

del nostro mattino nessuno ha certezze,

o forse un profumo e del sonno carezze.

Sentire la Notte desueta meschina,

sentirla covare e tornare mattina,

aprire la bocca per dire qualcosa,

e riporla in fretta, profumo di rosa.

La Pagina notte s’è aperta e s’è chiusa,

corazza di stelle e spada disusa;

ormai è finito il tuo canto incantato,

sottratto alle vesti del tuo muro innato;

la luce ci prende solenne

e risveglia: lo sguardo la sente e la luna farfuglia.

Giocano gli occhi a rispondere al cenno

e le finestre sbattono: si stanno aprendo.

 

L’autrice in estrema sintesi è ben consapevole che la letteratura europea non potrà più essere mitopoietica, ma questa sua operazione di ritornare al mondo greco è, oggi come oggi, originale. E poi perché cercare un discrimine tra avanguardia e tradizione? Bisogna guardare soprattutto alla bontà dell’opera ed a mio avviso in questa raccolta c’è semplicemente del buono.

 

Di Davide Morelli

‘Sundara’, la nuova silloge di Mauro de Candia che anela la bellezza

Sundara, pubblicata da Edizioni Ensemble, è la seconda silloge di Mauro De Candia. Lo scrittore, nato in provincia di Bari, è laureato in Lettere Moderne e vive in Lombardia, dove lavora come docente di Lettere.

Tra i vari riconoscimenti ottenuti, è giunto due volte finalista (nel 2017 e nel 2018) all’edizione italiana del 100 Thousand Poets for Change (l’evento poetico creato dai poeti americani Michael Rothenberg e Terri Carrion); finalista al Premio Letterario Città di Ravenna 2018; due volte finalista al Concorso Letterario Gioachino Belli (2018 e 2019); Premio Speciale della giuria nel concorso letterario “I colori dell’anima” 2018; diploma di merito nel concorso letterario La zattera della medusa 2018; segnalazione nel Premio Nazionale di poesia inedita Ossi di seppia” 2019.

Nel 2018 esordisce nel panorama letterario con la silloge Le stanze dentro per Edizioni Ensemble (Roma), libro che si classifica al secondo posto al Premio Nabokov 2019 e finalista al Premio Carver 2020.

A distanza di 2 anni De Candia si riaffaccia sul mercato editoriale con un’altra raccolta di poesie.

 

Sundara: Sinossi

Sundara è uscito a febbraio di quest’anno.

La silloge si apre con una prefazione della poetessa e critica Sabatina Napolitano che scrive: “Sundara è un termine che condensa una bellezza di tipo armonico che il poeta sintetizza e dedica al lettore colto, ma soprattutto Sundara è una polemica ideologica che muove il processo intero della silloge. La raccolta consiste di trentuno testi dove dominano le capaci suggestioni e le formule appassionate di una attualità e di un quotidiano fusi in una cornice specifica che prende forma da mitologie e da abilità figurative possibili grazie alla lingua frammentata e anticonformista di De Candia. Il messaggio incoraggiante dal libro è traducibile in un andamento vocativo e convergente a una idea di poesia come comunicazione letteraria autosufficiente con una insostituibile sintesi delle contraddizioni. È in questo spazio di attenzioni e scavi che la poesia non è un passatempo ma un sentire migliore, un raccontare che sta in mezzo all’attuale e all’immaginario”

I cani sognano in coro

Su orizzonti circolari,

cigolando su lunghissimi ponti

decisero di trasmigrare.

Destrerius,

Plactimas,

Liperon

erano le destinazioni sbocciate come apparizioni,

luoghi gonfi di colori,

come semafori interiori

che crescono sbattendo le ali:

applausi fulminei di luce.

Canforesta,

gattropico,

cavallofter

erano i media onirici,

tassidermia del sogno in pelle animalesca.

Ma dentro,

che sterminio di immagini smembrate

c’era dentro,

racchiuso in quella glassa consapevole

che ogni cosa è commestibile per il cervello.

Così i cani volarono,

lasciando i loro corpi sonnecchianti.

Divennero aeriformi, animali aerostatici,

e dalle crepe del gatto,

e dalle crepe del cavallo,

e dalle crepe dell’uomo

entrarono a colonie interconnesse

dilavando le interiora dell’ospite,

volando in dimensioni ultraterrene.

C’è un occhio gigantesco e trasparente

che guarda i cani sorvegliare

la torrefazione di ciascuna parola

nella gola degli uomini,

li vede correre indossando

gli spiriti di ogni veste

caduta in fondo a un fiume

o lasciata macerare sotto terra.

Li guarda divertirsi

inseguendo figure

generate dallo stucco sui muri,

ombre straniere come artigli lattei,

scorpioni glaciali.

Non me

(l’ombra sfregiata, colui che vi racconta tutto),

non me,

ma il marionettista dalle buone maniere,

è lui che fa svegliare i cani,

all’alba.

Da chi sarò stato percorso

e reso ostaggio notturno?

E quale embrione della parola “meraviglia”

è rimasto tranciato come un acino d’uva dai denti,

nel seno sagittale?

Forse per salvarsi dall’invidia umana,

i cani non hanno parola.

Brucerebbero all’uomo,

gli occhi:

sterminati incendi.

Mauro De Candia sul suo blog presenta così ai lettori il suo secondo scritto: “Sundara è una silloge dalla lavorazione intensa e tormentata, in quanto era mia intenzione offrire quanto di meglio fosse nelle mie possibilità. La forma e la sostanza vanno di pari passo, e il percorso iniziato con la precedente opera ne risulta ancor più amplificato, così come risultano allargati i confini di scrittura: per la prima volta, in un paio di occasioni, faccio uso delle terzine dantesche, e per la prima volta mi dedico a un poema di otto pagine suddiviso in più “movimenti esistenziali”. Dominano il surrealismo della scrittura, il poliglottismo dei termini (dal Giappone alla Spagna, dall’Inghilterra all’uso dell’esperanto), le “favole di carne e sangue” che si configurano come introspezioni d’avanguardia. Figure, oggetti, personaggi, sogni, incubi, intuizioni, neologismi, sapori, colori e riflessioni fanno tutti parte di una stessa famiglia, come in una tessitura composita dove ogni cosa può prendere vita, persino i pensieri mai nati”

Un lavoro lungo due anni in cui si sono condensati titoli scritti ai tempi della prima raccolta e poesie inedite.

Lo stesso scrittore nella postfazione del libro scrive “Considero quest’opera il mio lavoro più maturo tra i due che ho pubblicato. Il titolo è una parola in sanscrito con funzione di attributo, che si identifica con l’idea di bellezza, armonia, meraviglia. Un titolo che ho voluto identificare con una sensazione: quella che si aspira a provare al termine di un percorso di liberazione da contaminazioni e influenze nella propria vita.  Il filo rosso che collega i vari testi dell’opera è il passo avanti ancora da compiere rispetto a una piena realizzazione, oppure il passo indietro che ci tiene lontani dalla pienezza dell’essere.

 

https://www.edizioniensemble.it/prodotto/sundara/

 

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