‘I Re dell’Africa’, gli uomini d’onore di Giuseppe Resta

Giuseppe Resta è nato nel 1957 a Galatone. Architetto con qualificata esperienza nell’edilizia di qualità e nel restauro, si è sempre battuto per la difesa e la valorizzazione del territorio. Ha collaborato con il sito di storia medievale dell’Università di Bari e con varie testate giornalistiche.

Nel 2012 ha presentato la raccolta di racconti “Scirocchi Barocchi” e nel 2018 il romanzo “Quel millenovecento69” (I Libri di Icaro). I re dell’Africa, sua ultima opera, è un romanzo di fantasia ma ispirato dalla cronaca. Si tratta di un libro davvero ben scritto e che denuncia il malaffare, la cosiddetta terra di mezzo in cui si trovano invischiati in molti (“Fai come i politici: tutti contro i meridionali, però, quando c’è da prendere i nostri voti, sono tutti pro-meridionali. Impara da loro. L’interesse prima di tutto. Davanti all’interesse non ci sono sardi, piemontesi e meridionali”; “Qui ci troviamo di fronte a interi territori, dico interi territori, avvelenati dall’arsenico. E non solo. Non mancano berillio e vanadio. Dotto’, io era dai tempi di chimica alle superiori che non sentivo più questi elementi della tabella di Mendeleiev… si chiamava così” ; “Ma perché dici questo? Sempre sospettosa… e che sei? Dobbiamo solo caricare dei fusti da una parte e scaricarli in un’altra”).

 

L’autore scrive saggiamente che il Sud è una bellissima terra martoriata. In questo avvincente romanzo ci imbattiamo in una carrellata di personaggi. I giusti si mischiano con gli iniqui. Lo scrittore espone le ragioni e i torti, i meriti e le colpe di tutti.

I malavitosi sono senza scrupoli e spesso non hanno sensi di colpa. Il loro è un mondo amorale.  Nel libro viene narrato ogni tipo di abuso di potere criminale. Si va dalla corruzione, all’evasione fiscale macroscopica, allo sfruttamento, agli abusi sessuali, al disastro ambientale. Il ritmo è incalzante.

Le prose all’inizio di ogni capitolo sono così pregevoli  che le descrizioni ricordano Landolfi e Calvino. Il resto delle pagine è sempre attuale, le accuse al sistema omertoso sono sempre circostanziate e documentate. Il  Vento, voce narrante, sa tutto ed entra dappertutto, entra negli uffici dei politici corrotti, negli ospedali dove alcuni responsabili fingono di non vedere, nei locali dove i criminali festeggiano ad ostriche, champagne e viagra.

I Re dell’Africa fa riflettere e spinge tutti a considerazioni serie. I cosiddetti uomini di onore hanno una mentalità differente. Nella loro testa conciliano codice cavalleresco (Osso, Mastrosso, Carcagnosso) e imprenditorialità spregiudicata. Sono atavici e moderni allo stesso tempo.

Molti appartengono ad una famiglia mafiosa e sono stati affiliati da ragazzini. Per molti di loro è difficile uscire dalla mafia e fare come ha fatto a sue spese Peppino Impastato. Infatti fin dalla tenera età sono stati costretti a credere in certe regole. Alcuni diventano mafiosi perché si ritrovano disoccupati. Se ci fosse meno disoccupazione nel Sud saremmo già a più di metà dell’opera! Ma che dire comunque di chi nasce mafioso? Quanto è difficile dire no alla mafia per loro? In fondo vorrebbe significare dire no ad un sistema che ha dato e riesce a dare da mangiare alle loro famiglie. Vorrebbe significare rinnegare tutti i propri famigliari.

Pochissimi riescono a pentirsi. Come fanno a ribellarsi se hanno ricevuto una certa educazione e se appartengono ad un determinato contesto? Leggendo questo libro viene da chiedersi che cosa può spezzare questa catena? Questo romanzo fa scaturire molti interrogativi.  Dobbiamo sperare che lo Stato intervenga con un esercito di maestre elementari (come sosteneva Bufalino), con dei grandi investimenti al Sud e con una repressione efficace delle forze inquirenti?

Lo Stato riuscirà a vincere il controllo del territorio delle mafie? Nel romanzo di Resta solo la Giustizia riuscirà a distruggere gli intrecci tra mafie, politica, economia, apparati dello Stato. Bisogna attendere una entità suprema, come indica l’autore? Oppure qualcuno riuscirà a denunciare tutti i compromessi della società civile con le mafie?

Bisognerà aspettare grandi eventi storici che determineranno una nuova struttura sociale ed economica? Un altro aspetto che dobbiamo tenere presente è che ogni volta che parliamo di mafia non dobbiamo assolutamente puntare l’indice, ma farci tutti un esame di coscienza. Non dobbiamo pensare solo ai Mafiosi con la M maiuscola, ma anche a tutti i comportamenti mafiosi con la m minuscola che abbiamo noi persone apparentemente oneste.

La Mafia uccide, ci dice Resta, ma anche i piccoli abusi di potere e i piccoli comportamenti illegali o anche solo illegittimi creano ingiustizia e sofferenza.  Facendo una breve analisi di abusi di potere italici così diffusi scopriremo che gran parte del Paese è malato. È questo che vuole dirci lo scrittore. Cosa dobbiamo sperare se nel corso della storia di Italia è mancata la volontà politica di combattere la mafia?

La mafia oggi è ancora molto potente. Una cosa però è certa: da qualsiasi punto di vista lo si guardi questo è un fenomeno con cui “rompersi la testa”, come scriveva Sciascia. I re dell’Africa con il suo crudo realismo è allo stesso tempo atto di accusa, sentita testimonianza e viva partecipazione alla questione meridionale.

 

Davide Morelli

‘In viaggio’: Gerry Di Lorenzo ritorna in libreria con una nuova silloge

In viaggio, edito da Robin Edizioni, è la nuova silloge di Gerry Di Lorenzo. Lo scrittore è nato il 27 giugno 1975 in provincia di Napoli, dove trascorre la sua infanzia. Fin da piccolo coltiva la sua passione per la poesia e la musica che lo porterà a formarsi tra Zocca (Mo) e Roma. Tornato a Napoli si laurea, intraprende l’attività di libero professionista, senza mai abbandonare le sue vere passioni.

Nel 2019 pubblica la sua prima silloge poetica: Pensieri di un poeta mediocre. Nel 2021 pubblica la sua seconda silloge poetica: In viaggio. Attualmente Di Lorenzo collabora con giornali online pubblicando editoriali, scrive canzoni (passione nata sin da bambino) sia come autore che come compositore e ha ancora un cassetto pieno di progetti da realizzare. Dopo le prime due raccolte di poesie, si è avvicinato alla prosa e sta ultimando la scrittura di un romanzo.

In viaggio: sinossi

“Scrivere una poesia è come disegnare un ritratto:  devi andare oltre al volto che dipingi… devi leggere  dentro per dare al ritratto la giusta espressività. Un bel ritratto riesce sempre a trasmettere qualcosa, come se chi lo osserva conoscesse davvero  quel volto dipinto. Una poesia è uguale: trasmette emozioni quando  sei in grado di far conoscere a chi legge, la persona  della quale parli, o vivere lo stato d’animo che descrivi. Poi il resto viene da sé: la poesia, la fantasia e  l’immaginazione che vola in alto” scrive Gerry Di Lorenzo nella premessa

La vita è un continuo viaggio alla ricerca di sé stessi, fotografando piccoli gesti e riflessioni per fermare questi istanti nel tempo. Per quanto possa sembrare assurdo, “cercarsi” è un viaggio possibile ed incredibile.

Tempo

Ho l’ossessione del tempo
quello che mastico tra i denti
e lo faccio col timore
che mi scivoli dritto in gola
togliendomi l’aria che respiro
senza lasciarmi nemmeno il tempo
di raccontarti il mondo che gira
perché si blocca il tempo per spiegarti
e può farlo lasciandomi senza voce.
Oggi ho paura del tempo
perché passa veloce
e veloce fugge via.
Tra questi versi può finire
o alla prossima poesia
senza il finale che vorrei dire
mentre cerco le parole
quelle giuste da scolpire
sopra il foglio delle scuse…

“Mi chiamo Gerry Di Lorenzo – ha dichiarato l’autore – e ho capito che se nella vita mi fermo, sono morto! Probabilmente è l’unica cosa che ho capito della vita. Questa paura mi spinge a trovare sempre nuovi stimoli e nuove iniziative per rincorrere quella serenità interiore che, per un essere inquieto come me, dura un secondo e vola via. Credo che avere sempre degli obiettivi sia alla base della felicità, perché in fondo, si è felici solo se si è soddisfatti e privi di rimpianti.

I rimpianti mi spaventano, mi opprimono, mi tolgono l’aria perché sono la fonte delle insoddisfazioni e dell’infelicità. Troppo spesso si ci illude di essere felici, ma la realtà è che in tanti la felicità non l’hanno mai incontrata e, non conoscendola, sono convinti che ciò che hanno lo sia. La felicità è come una donna che devi fare tua, riempire di premure e alimentare quell’amore ogni attimo della vita, altrimenti andrà via. Chi sono? Sono un uomo qualunque, ancora alla ricerca di sé stesso e che lo fa scrivendo, trasformando in versi i suoi stati d’animo, le sue paure, le sue gioie, le sue delusioni”.

Dalla lettura di questa seconda raccolta si comprende che la vita è un continuo viaggio alla ricerca della felicità, affrontando tormenti e vivendo emozioni sottopelle che scuotono.

 

http://www.robinedizioni.it/nuovo/in-viaggio

 

‘Viera. Un’italiana del ’23’, il romanzo memoriale di Paola Mattioli

La scrittrice bolognese Paola Mattioli, classe 1962, inizia a scrivere giovanissima. Per motivi lavorativi la passione per la scrittua per un lungo periodo di tempo, per poi riprendere dopo la morte della madre, avvenuta nel 2006. Paola Mattioli pubblica le opere “Al di là del cielo” (Pendragon, 2015), “A piccoli passi” (Pendragon, 2017), “Viera. Un’italiana del ‘23” (Pendragon, 2018) e “Vorrei…” (Europa Edizioni, 2019).

La trama di Viera. Un’italiana del ’23: «Un giorno trovai nella libreria un quaderno in pelle verde, profilato di camoscio, tenuto bene e avvolto scrupolosamente all’interno di un’agenda. Lo aprii lentamente per paura di rovinarlo. Riconobbi subito la calligrafia di mia madre e il cuore mi balzò nel petto. Le prime righe mi portarono indietro nel tempo, ai ricordi di una vita passata, a pensieri e parole mai detti, racchiusi in un quaderno dimenticato, o lasciato per essere ritrovato».

Queste poche righe sono molto più esplicative di qualsiasi spiegazione. Viera è una biografia, pubblicata con fotografie dell’epoca e il commento della figlia. Il libro di Paola Mattioli non è un tomo noioso e corposo, ma un libricino smilzo che contiene una testimonianza preziosa perché è allo stesso tempo l’esempio di una donna che ha superato molte vicissitudini e tragedie, al contempo è un’opera in cui si intrecciano la Storia con la S maiuscola e la storia di una donna su cui di ripercuotono i grandi eventi.

La storia non è autofiction. Non c’è niente di inventato. Talvolta vengono pubblicate biografie romanzate che hanno un quid di adulterato e che finiscono per mistificare la realtà. La scrittrice non si accontenta di inventare qualcosa di realistico, ma riporta fedelmente gli avvenimenti così come sono accaduti, trascrive le memorie della madre, mettendo in bella copia e in bello stile la sua vita.

Nel 1991, su iniziativa del Comune di Pieve Santo Stefano, nasce la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, divenuta poi una Onlus e riconosciuta con Decreto Ministeriale il 7/6/2000. L’importanza dei diari in Italia è stata riconosciuta anche dalle istituzioni. La stessa cittadina Pieve Santo Stefano è stata denominata “città del diario”.

È legittima ogni forma di libertà di espressione, così come è doveroso ricordare ogni storia, anche quella che può apparire più inutile e insignificante, magari perché troppo ordinaria. Ma nel caso di questo libro la vicenda narrata è singolare, anzi eccezionale sia perché ricorda la sofferenza di una generazione di fronte all’errore e alla brutalità della guerra, sia per la elevata qualità letteraria della narrazione, una narrazione sobria, mai sopra le righe, mai eccessiva, mai pretenziosa e senza alcuna voglia di strafare.

L’intreccio del romanzo è anche tra la memoria della madre e quella della figlia, che ricorda che ogni persona scomparsa è stata una enciclopedia di ricordi e allo stesso tempo che ogni defunto esiste fino a quando c’è qualcuno che raccoglie il suo testimone, che fa da staffetta, che lo ricorda e col ricordo lo tiene in vita.

Talvolta perché troppo indaffarati, per damnatio memoriae, per rimozione ci scordiamo di qualcuno. Ma non è questo il caso. La vita di Viera, la protagonista, era esemplare e degna di essere ricordata. Doveva riemergere dalle nebbie del passato ed essere riportata alla luce, ovvero essere divulgata e essere portata alla conoscenza degli altri. Pubblicare una biografia così significa anche ricordare tutti i sacrifici fatti, tutti gli stenti patiti da parte della madre e significa rendere onore.

Viera non è solo una presa di coscienza delle difficoltà vissute dalla madre; ma anche un atto che testimonia la narratività, lo stile impeccabile e scorrevole della scrittrice, che dimostra versatilità perché scrive anche poesie ed articoli. Probabilmente proprio la forma più breve della lirica e degli articoli hanno aiutato Paola Mattioli ad esercitarsi e a riuscire in una prosa caratterizzata dalla linearità e dalla capacità di sintesi.

Viera è un libro che si legge tutto di un fiato. Sono solo 63 pagine ma molto dense, incisive, pregnanti. Ci sono molti contenuti significative in questa biografia. La protagonista è del 1923. Vive una infanzia spensierata. Quindi il terrore e la miseria della Seconda Guerra Mondiale. Era una sfollata. Si riparava continuamente dai bombardamenti.

Così scrive l’autrice:

«Cominciò una specie di Via Crucis. I bombardamenti, o per meglio dire gli aerei, cominciarono a sorvolare Bologna spingendosi anche fino in Romagna per fare voli di ricognizione; suonava così l’allarme e fu imposto il coprifuoco: non si poteva uscire dopo le otto di sera».

Siamo all fine della guerra. Molte italiane che prima giacevano negli accampamenti con i tedeschi iniziarono ad offrirsi per pochi tozzi di pane ai liberatori, agli americani. Molti fascisti della prima ora dopo la guerra cambiarono casacca e diventarono comunisti.

Come scrive Bukowski “Nessun uomo ė forte come le sue idee”. In quei momenti di grave difficoltà era facile cedere a compromessi e ricatti, piegarsi al più forte. Ma la protagonista riesce a rimanere fedele a sé stessa, riesce a mantenersi onesta. In modo emblematico si trova scritto:

“La ripresa fu lenta, ma la speranza di migliorare sempre ci dava ogni giorno più forza”. Queste parole riassumono ottimamente la voglia di fare, di riprendersi degli italiani di quegli anni.

Tuttavia il “romanzo memoriale” è importante perché descrive in modo magistrale la storia di una donna, che ha fatto parte dell’ultima generazione che ha vissuto da adulta la guerra.

È una testimonianza perciò molto preziosa e valida, intrisa di ottimismo e di slanci vitali, che dovrebbero infondere vitalità a giovani, che spesso nella bambagia o comunque nella loro comfort zone si abbattono per nulla. Usando una parola assai inflazionata e usata fino allo sfinimento si potrebbe dire che questo diario è la prova provata della resilienza di una donna e con essa della sua generazione, che dimostrò volontà,  coraggio, determinazione, abnegazione, dedizione alla causa.

Ė da ricordare che molti dopo aver vissuto eventi così tragici si sentivano in colpa di essere sopravvissuti. Per tutte queste ragioni andrebbe letto e servirebbe per far capire ai più giovani quanto la follia di alcuni dittatori ha influito molto negativamente sulla vita di molti incolpevoli e inermi.

 

Davide Morelli

Irene Gianeselli presenta il romanzo ‘Il movimento del ritorno’

Nel romanzo “Il movimento del ritorno” di Irene Gianeselli sono contenute profonde riflessioni sul senso della vita, dell’amore e della perdita; è una storia attraversata da sensazioni forti e contrastanti e da personaggi tormentati, che si pongono dolorose domande esistenziali.

Parallelamente alle vicende di Tancredi, Arcangelo, Veronica, Astolfo e Maddalena vi è inoltre l’affascinante narrazione, a inizio di ogni capitolo, della storia di Adamo e del compimento del destino del primo uomo. Tancredi è un attore, e vuole mettere in scena qualcosa di particolare.

«Non è uno spettacolo. Volevamo spingere gli spettatori a sentire la crisi, la necessità di essere privati di una certezza e volevamo che desiderassero sapere. È possibile un altrove? Dove? Come? Volevamo incuriosirli, costringerli a immaginare con noi la rappresentazione».

Purtroppo egli si scontra con la sterilità delle emozioni umane, con la mancanza di empatia e anche di coraggio nell’affrontare nuove sfide – «La mente umana, si dice Tancredi, deve essere come una città e noi ci nascondiamo sempre nelle periferie del pensiero».

L’uomo di teatro e l’uomo che vive nella realtà sente il nulla dentro e fuori di sé; la sua ultima donna, Maria, dice che il suo è il corpo della lontananza, ed effettivamente Tancredi si sta allontanando sempre di più dalla vita, per rintanarsi in un microcosmo, il teatro, dove spera di trovare un senso alle sue pene. Arcangelo è un uomo di settant’anni molto solo, e con una visione dell’esistenza tutta sua; egli riflette sull’umanità, e sulle distinzioni tra uomo e donna.

«La maggior parte degli uomini a stento riesce a reggersi in piedi. Ma ci sono donne che camminano troppo in fretta per seminare gli inquisitori e inciampano anche loro. Tutti inciampiamo, tutti».

Ogni mattina incontra Maddalena al bar, e con lei intrattiene focose conversazioni su questi argomenti, non trovandosi quasi mai d’accordo. Un giorno, però, è un poliziotto ad accoglierlo, perché la giovane donna è dispersa, dopo essersi gettata da un ponte; Arcangelo sente una forza misteriosa che lo spinge a cercarla.

Veronica è sposata con Astolfo ma il loro matrimonio in apparenza felice cade pezzo dopo pezzo, dopo la perdita del figlio che portava in grembo e il tradimento del marito – «Astolfo s’è preso, ha bevuto, ha succhiato da lei tutta la sua fiducia nell’umanità, nell’amore, nella possibilità di essere liberi e insieme felici». La vicenda di Maddalena è invece la più sfuggente, di cui è difficile parlare; è la storia di una donna che non vuole frantumarsi.

 

 

Casa Editrice: Les Flâneurs Edizioni

Collana: Bohémien

Genere: Narrativa contemporanea

Pagine: 238

Prezzo: 16,00 €

 

 

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‘La Madre’, il thriller di Marco Lugli, ambientato in un Salento arido ed emozionante

Marco Lugli è uno scrittore e fotografo emiliano che da alcuni anni vive in Salento. “La Madre” (2020) è il terzo romanzo giallo della serie dedicata al commissario Luigi Gelsomino, dopo “Nel Tuo Sangue” (2015) e “Ego Me Absolvo” (2017).

La Madre racconta il parto di una ragazza madre, l’innesco del caso di omicidio che riporta il commissario Luigi Gelsomino al centro dell’azione investigativa dopo mesi di aspettativa. Nella sua Lecce, la città dove ha vissuto, dove si è sposato e dove ha sempre lavorato, alcuni fantasmi sembrano materializzarsi e interferire nell’indagine con i loro messaggi provenienti dal mondo dei morti.

E se il periodo di riposo lo aveva illuso di essersi liberato della zavorra del suo doloroso passato e di averlo preparato a spiccare un salto verso il futuro, è un intreccio di morte e nuova vita a tenerlo ancorato a terra. Un Salento arido eppure generoso di emozioni, fa ancora da sfondo a questa terza indagine di Gelsomino e sospinge il lettore tra Lecce e il Capo di Leuca, in balia dei venti di Scirocco e Tramontana.

Da qualche anno a questa parte ci sono sempre nella società occidentale i soliti film gialli o romanzi thriller con il serial killer che ha una personalità multipla. In questo periodo la correlazione tra omicida seriale e sindrome di personalità multipla nei film e nei romanzi  thriller americani è molto sopravvalutata.

Diciamo pure che questi film americani adoprano alcune nozioni della moderna psichiatria per riprendere il topos de “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”, scritto da Stevenson. Nei film e nei romanzi gialli americani inoltre viene dato grande spazio ai cosiddetti profilers; è innegabile che in America esistono professionisti, che fanno questo mestiere. Ma spesso nei film viene dato grande spazio al profiler perché è più accattivante un esperto che fa ipotesi sulla personalità del killer piuttosto di un anatomo-patologo, di un medico legale o di un esperto di balistica, che utilizzerebbero termini incomprensibili ai più.

Gli sceneggiatori dei film gialli e dei thriller rischiano sempre di scadere nel già visto, nell’ovvietà, nella banalità. Rischiano di utilizzare luoghi comuni abusati. Questa premessa era doverosa per dire che è  difficile trovare una trama  originale come nel caso di questo romanzo di Lugli.

Oggi scrivere gialli e thriller è molto più difficile di trent’anni fa: un giallista si trova di fronte ad un bivio: consultare esperti della scientifica e coroner oppure sfoggiare la sua creatività nel modo più spontaneo e meno artefatto possibile, che è quello che fa Lugli. In molti gialli di oggi la documentazione ha nettamente la meglio sull’ispirazione, sulle trovate, sull’inventiva, ma non in questo caso. Spesso in fondo ai libri gialli vengono rivelati tutti i debiti contratti dagli autori, che ringraziano esperti del crimine e poliziotti consultati.

Lugli lavora più che altro in proprio per quello che è possibile. È un ottimo artigiano del giallo. Il suo ė un giallo procedurale ma è più incentrato sul commissario che sul suo team. Gelsomino è un piccolo commissario Maigret, pur con sostanziali differenze, nel senso che accentra su di sé l’attenzione del lettore.

La madre è un romanzo corposo ma mai noioso. Sono 352 pagine dense ma avvincenti. Un genuino sottofondo di ironia pervade il libro e lo rende divertente.  L’ambientazione lo aiuta. La scelta del paesaggio pugliese si rivela azzeccata. È una scelta logica ed appropriata. L’autore è anche un promotore della bellezza del Sud. Non vanno discusse in questa sede le  ragioni ma c’è tutta una narrativa che descrive un Meridione in modo negativo, diciamo pure col segno meno.

Non è questo il caso. Viene da chiedersi se lo scrittore mette al centro del romanzo il parto di una ragazza madre per porre l’accento sulle culle vuote, sulla denatalità, sul fatto che gli italiani facciano sempre meno figli. Secondo alcuni studiosi delle linee della mano sembra che della gravidanza indesiderata resti una traccia nei palmi, sembra che sia somatizzata.

Per gli psicologi di certo è un trauma psicologico, spesso rimosso. Ma nel romanzo le vicende portano il lettore a riflettere ad ampio raggio sulla procreazione e sulla genitorialità perché il commissario Gelsomino ha perso una figlia e la moglie. Tutti i suoi progetti di padre sono terminati. La perdita di un figlio è il lutto più tremendo per una persona, è il lutto più difficile da elaborare perché è quello meno prevedibile e più contro-natura di tutti.

Gelsomino è un protagonista solitario ed ironico,  che suscita nel lettore simpatia ed empatia. Lo scrittore lo ha definito in una intervista un antieroe, è una figura complessa e complicata,  un uomo mai pienamente risolto. La vena ludica emiliana, la cifra lunatica nel senso migliore del termine  dell’autore hanno fatto sgorgare dalla penna un personaggio chiave ben delineato e allo stesso tempo ricco di sfumature, contraddittorio e contraddetto, in una parola sola sfaccettato, così come indefinibili e polisemiche sono le figure di donne che si avvicendano nel libro.

Il romanzo è ricco di peripezie e capovolgimenti di fronte. Il lettore rimane spiazzato, spesso deve cambiare prospettiva. Lugli adotta uno stile originale, il quale, pur avendo riferimenti, non soffre di epigonismo ed occupa un posto a parte tra I bastardi di Pizzofalcone, I delitti del BarLume e i romanzi di Carlo Lucarelli.

La madre è un romanzo in cui entra in scena prepotentemente il soprannaturale senza però utilizzare immagini, simboli e linguaggio esoterici. Si perdono i punti di riferimento. Si rimane spaesati. E poi lo sfondo del bel Salento è un omaggio alla Puglia.

È un giallo scritto bene, cosa non comune e che non dovrebbe lasciare indifferenti. Lugli è la riprova ennesima che si può fare della pregevole narrativa senza recarsi per forza nelle metropoli ma rimanendo ancorati alla provincia, in città a misura di uomo. E poi chi l’ha detto che nella provincia apparentemente sonnolenta e sorniona non possano accadere crimini efferati? .

Il romanzo di Lugli è un congegno ben pensato: un ottimo incastro di situazioni, circostanze, atmosfere,  stati di animo, enigmi, paesaggi: molto di più di quello che si trova in un comune romanzo giallo.

 

Davide Morelli

 

 

‘Almanda’ di Ennio Maria Petruzzella: il realismo magico che descrive una città ideale tra sogno e realtà

Il desiderio di sopravvivere alla morte lasciando una traccia terrena della propria esistenza è da sempre l’ambizione di tutti i grandi uomini, che per merito delle loro opere vorrebbero ottenere fama imperitura. Ed è di questo che tratta “Almanda, il viaggio” dello scrittore Ennio Petruzzella (Les Flâneurs Edizioni), raccontando la storia della fondazione dell’omonima città e della sua condizione un secolo dopo l’edificazione.

Stridente in Almanda, è il contrasto tra l’entusiasmo dilagante che ha condotto alla nascita di Almanda rispetto all’atmosfera grigia come il suo cielo funereo soltanto cent’anni dopo. Una città destinata a grandi fasti e nota in tutto il mondo per le sue manifatture esportate ovunque, anche nel Vecchio Continente, ritrovarsi improvvisamente al buio e senza più speranza.

Agli antipodi sono anche i protagonisti: da un lato, Giulio Flaiano, il ricco avventuriero patrizio che si imbarca in quest’impresa folle e convincendo i più talentuosi della sua epoca a seguirlo; dall’altro Julius, il giovanissimo ragazzo che vuole scoprire il mistero del sole e donare nuova luce alla città, mettendo a rischio la sua stessa esistenza. Entrambi curiosi e aperti al nuovo, sono disposti a tutto per Almanda: un luogo magico dove tutti sarebbero stati liberi di essere se stessi, sognare e amare senza limiti o condizionamenti.

«Questo era il segreto di Almanda.  Questo velo di impalpabile follia che teneva uniti gli sforzi di tutti per consentire ai sogni dimenticati del mondo di affrontare ancora il mare e raggiungere gli uomini per i quali erano stati sognati. La convinzione che aveva spinto tutti a seguire Giulio, che la grandezza di ogni uomo abita nei propri sogni, nella semplice e immateriale fuga che compie quasi ogni giorno nelle sfumature della vita».

Profonda è l’introspezione sui personaggi, di cui l’autore delinea sia gli umori che gli affanni, descrivendone a pieno l’anima, le ambizioni e le sofferenze con uno stile a tratti onirico, che riecheggia il realismo magico del premio Oscar Gabriel Garcia Marquez con le sua “prosa immaginifica”.

«… Questo prima che sorgesse il suo nuovo sole, e prima che una mano invisibile la disegnasse nei suoi confini circolari e la posasse sulla terra… come un’opera visionaria a lungo cercata, nelle pergamene del pensiero, e ideata e fissata nelle pietre del mondo”. Almanda era già lì, dipinta in forma di città onirica e perfetta, attraversata dal taglio luminoso del fiume Dieng che dall’alto delle montagne scendeva lentamente al mare. Era lì, concepita dalla mente di un uomo che si era scoperto visitatore notturno di mondi fantastici e impossibili».

 

Casa Editrice: Les Flâneurs Edizioni

Collana: Lumière

Genere: Narrativa contemporanea

Pagine: 202

Prezzo: 15,00 €

 

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‘Bruciati vivi’: Daniela Stallo torna in libreria con un noir atipico

Bruciati vivi, edito da Arkadia Editore, è il secondo libro di Daniela Stallo. La scrittrice, nata a Taranto nel 1966, ha studiato giurisprudenza e ha vinto il concorso per la cattedra di diritto nelle scuole superiori presto.

Ha iniziato a insegnare a 26 anni, in un professionale, in un paese del tarantino, dove già aveva incominciato a mettere da parte ricordi di colleghi e vita scolastica.
Giornalista pubblicista prima nel giornale diocesano, già dal liceo scriveva di libri e, poi, in un quotidiano cittadino, a Taranto, si occupava di questioni amministrative e sindacali. Vive a Pisa, dove insegna diritto, dopo molti anni di pendolarismo. La sua opera prima è La città sul mare  una raccolta di racconti per ragazzi e ragazze, ispirati a Taranto.

 

Bruciati vivi: Sinossi

Copertina

Bruciati vivi, uscito il 28 gennaio 2021, per la collana Eclypse, è un noir dove fatti di sangue e indagini si intrecciano a un racconto di scuola, di donne, di desideri e ricerca della felicità. Un libro in cui convivono la forma diaristica, tipica di autori come Italo Svevo e le atmosfere misteriose e cupe proprie di scrittori come Conan Doyle e Edgard Allan Poe.

12 settembre, giovedì
Ventinovesimo anno che spiego l’argomento, non certo la ventinovesima volta, perché le volte, in effetti, sono il doppio o poco
meno. Più classi prime in ogni anno scolastico, così lo ripeto anche
a distanza di un giorno, se non l’ora successiva. Stesse parole da ventinove anni.
Primo argomento, primo giorno di scuola, non faccio tante storie,
loro non hanno il quaderno, dico di strappare un foglio, che poi lo ricopieranno, niente presentazioni né conoscenza della classe, nessun augurio, nessuna frase di circostanza. Neppure il mio nome, dico, si informeranno. Nessuna confidenza.
Vado alla lavagna, loro guardano, per il momento in silenzio.

 norma giuridica → regola obbligatori

   ↓
precetto → comando o divieto → è vietato fumare

dobbiamo pagare le tasse

  +
sanzione → pecuniaria, detentiva, accessoria

Copiano, qualcuno strabuzza gli occhi, qualche miope si sforza. Copiano e non chiedono spiegazioni.
Non si sentono ancora autorizzati a commentare, devono osservare l’ambiente, noi insegnanti siamo estranei e loro non si fidano,
non sanno se alle superiori funziona come alle medie. Chiedono se preferisco un quaderno a righe o a quadretti, rispondo che sono liberi di scegliere, in fondo non me ne potrebbe fregare meno…

Protagonista del romanzo è Luisa, un’insegnante pendolare. Il suo diario, che copre dieci mesi, da settembre a luglio, è la cronaca quasi giornaliera dell’anno scolastico e della sua vita privata. Luisa racconta di un lavoro ripetitivo, che non la gratifica, per giunta malpagato. Spesso si ammala o finge di farlo per poter restare a casa. Con il marito Thomas i rapporti sono agli sgoccioli e la lontananza del figlio, che lavora all’estero, di certo non la aiuta.

Di pari passo crescono il malcontento, la diffidenza verso il prossimo, la solitudine e la noia. Così, lentamente, Luisa si convince che per anelare a un’esistenza migliore l’unica cosa da fare è eliminare le persone che ora gliela rendono difficile. Da questo momento in poi intraprende un personale percorso da serial killer, convinta che tutto questo le potrà donare una rinnovata serenità. E invece niente andrà secondo i suoi piani. Proiettata in una rincorsa ossessiva ed egoistica verso il proprio benessere, anche attraverso veri e propri crimini, ogni sua azione sembra votata al fallimento e a un epilogo drammatico.

“È un libro sulla scuola – ha dichiarato l’autrice Daniela Stallo. All’inizio volevo scrivere dei meccanismi burocratici nella scuola, domande, trasferimenti, assegnazioni, cose che neppure chi ci sta dentro capisce fino in fondo. Forse cercavo io stessa un senso, o solo una spiegazione, credevo che scrivendo si sarebbe sbrogliato il groviglio di norme, leggi, leggine, commi, eccezioni.                                                Poi, invece, la storia è andata per conto suo, è venuto fuori un racconto sul burnout dell’insegnante, sul loro stress, un diario di pendolarismo, non solo dei docenti.                                                                                                                                                                                              Ci sono una scuola, una strada tra nebbia e acqua, molta acqua, ondate d’acqua. Un appartamento in zona 167. Una malattia non ancora del tutto riconosciuta. Una scuola dura, a volte cattiva, e le persone non si amano a tutti i costi.                                                                    Qualcuno muore, non immediatamente, ma muore, qualcuno compie azioni muovendosi in un noir, qualcuno si pente, altri no.                         Luisa intanto si muove nella sua follia tra strada e camion e pioggia, spesso invisibile, tra tristi pastine al burro, bloster come arma di difesa, alla ricerca, qualcuno ha detto della felicità, forse solo di un’indicazione”.

L’autrice ha voluto, quindi, raccontare una storia dietro un caso, un delitto, dando al romanzo una struttura diaristica, con dialoghi brevissimi, quadri di interni di vita privata e scolastica, ripetizioni ossessive che fanno immergere il lettore nella cronaca di una vita lavorativa segnata dai sintomi e dalle manifestazioni tipici del burnout.

 

http://www.arkadiaeditore.it/bruciati-vivi/

 

‘Giada Rossa-Una vita per la libertà’: il romanzo-denuncia di Fiori Picco

Giada Rossa – Una vita per la libertà, edito da Fiori d’Asia Editrice, è l’ultimo romanzo della scrittrice Fiori Picco.

Picco è nata a Brescia il 07 marzo 1977, è sinologa, scrittrice, traduttrice letteraria ed editrice. Dopo la laurea in Lingua e Letteratura Cinese conseguita presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, si è stabilita nella città cinese di Kunming, nella provincia dello Yunnan, dove ha vissuto otto anni insegnando presso il Dipartimento del Turismo della Yunnan Normal University e svolgendo ricerche di antropologia.

Durante gli anni di vita a Kunming ha iniziato a scrivere novelle e romanzi e dal 2007 è autrice SIAE.

Dal 2011 traduce romanzi di autori asiatici e di recente ha aperto Fiori d’Asia Editrice, una realtà editoriale multilingue specializzata in letteratura orientale.

Ha ricevuto diversi premi letterari, nazionali e internazionali, tra cui il Jacques Prévert 2010 per la narrativa, il Magnificat Libri, Arte e Cultura 2014 per racconti brevi, il Premio Standout Woman Award 2016 della Regione Lombardia, il Caterina Martinelli 2017, l’Argentario 2020.

Nel 2018, con scrittori di tutto il mondo, ha partecipato all’International Writing Program presso l’Accademia di Letteratura Lu Xun di Pechino, e al Congresso Internazionale degli Scrittori e dei Sinologi di Guiyang le è stato conferito il certificato di Friend of Chinese Literature.

Collabora con la China Writers’ Association e con la Japanese Writers’ Association

Giada Rossa – Una vita per la libertà: Sinossi

Giada Rossa- Copertina

Giada Rossa-Una vita per la libertà è uscito il 10 Aprile 2020. Il libro si è classificata superfinalista al Premio Città di Latina 2020 e finalista con merito al Premio Argentario 2020.

Avevo sei anni quando mi rapirono. Per sottrarmi alla mia famiglia
scelsero il modo più subdolo e meschino; il piano fu architettato da
due conoscenti di mia madre: persone intime, fidate, insospettabili. Fu
il primo episodio doloroso di una serie di avvenimenti drammatici che
mi segnarono profondamente nell’anima. I lividi che ancora oggi mi
porto dentro e le cicatrici visibili mi hanno consentito di diventare la
“Giada Rossa” del presente: una donna tenace e coraggiosa che ha visto
più volte la morte e che altrettante volte si è disperatamente aggrappata
alla vita. Non posso e non voglio cancellare le ferite, sarebbe assurdo
perché sono parte essenziale di me.

Ogni donna è preziosa come una giada, proprio come la protagonista di questa storia che, raccontando in prima persona, ripercorre tutte le fasi della sua vita travagliata: un’infanzia negata nelle campagne del Jiangxi, un’adolescenza segnata dalla violenza, il drammatico viaggio dalla Cina verso l’Europa, le difficoltà incontrate in Italia da clandestina.

Nonostante le avversità, ha sempre dimostrato un coraggio e una forza d’animo ammirevoli, si è ribellata alle ingiustizie, agli inganni e alle prevaricazioni, perseguendo il valore più importante: la libertà. La sua testimonianza vuole essere uno stimolo per tutte le donne che si trovano in situazioni simili e che si arrendono al loro destino.

Giada Rossa – Una vita per la libertà è un romanzo nato da un incontro avvenuto presso gli Spedali Civili di Brescia, dove ho svolto opera di mediazione culturale – ha spiegato l’autrice. È la storia vera e drammatica di una signora cinese che ho conosciuto e che ho assistito durante un intervento chirurgico. In ospedale mi ha raccontato tutta la sua vita, dall’infanzia trascorsa in Cina, fino al suo arrivo in Italia. Il suo carattere allegro, comunicativo e positivo mi ha subito colpita e ispirata.           Ho sentito il desiderio di scrivere questa storia per dare voce a tutte le persone che, come lei, hanno sofferto e sono state vittime di violenze, soprusi e discriminazioni.                                                                    Considero Giada Rossa un romanzo-verità e di denuncia, in quanto affronto tematiche forti, ricorrenti e attuali. Ho intervistato la protagonista per sei anni; il lavoro di approfondimento e di ricostruzione è stato lungo e costante. Pur parlando la stessa lingua, ovvero il cinese, la signora aveva una capacità di esposizione semplice, ma è stata collaborativa e desiderosa di raccontare le sue emozioni, che io ho reso mie. I sei anni sono serviti a recuperare dalla memoria tutti i fatti e le relative sensazioni. Di mio c’è la rielaborazione dettagliata con l’inserimento delle ambientazioni e dell’analisi psicologica dei personaggi”.

In un arco temporale che dal 1970 arriva ai giorni nostri, la storia narrata da Fiori Picco avvicina il lettore a temi delicati e meritevoli di una riflessione: dall’infanzia negata alla violenza domestica, dall’immigrazione clandestina al traffico di esseri umani e lo sfruttamento della prostituzione, dall’integralismo religioso al Buddismo e il Karma, dal concetto di matrimonio in Cina al riscatto sociale.

 

Per acquistare il libro:http://www.fioridasiaeditrice.com/store/product/giada-rossa-una-vita-per-la-liberta-di-fiori-picco

 

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