‘’Pianissimo’’, la silloge poetica bisbigliata di Camillo Sbarbaro

Il mondo letterario di Camillo Sbarbaro, poeta ligure con una sconfinata passione per la botanica e per i licheni, pone le sue radici nel lirismo essenziale che imprigiona nei versi il disagio verso il fluire dell’esistenza. Sbarbaro, nonostante tragga ispirazione dalla poetica pascoliana, descrive le brutture esistenziali con placidità e pacatezza; il suo universo poetico, infatti, è una perpetua descrizione dei piccoli accadimenti della vita seppur mai con astio verso l’esistenza ma, anzi, con una modalità sommessa e, si potrebbe dire, quasi bisbigliata. Poeta legato visceralmente alla sua terra, descrisse con maestria i colori suggestivi della sua Liguria creando, nel lettore che si accinge alle sue raccolte, un fluire onomatopeico di suoni, colori e caratteristiche tipiche dei paesaggi liguri.

Camillo Sbarbaro è conosciuto, soprattutto, per la silloge poetica ‘’Pianissimo’’ edita per la prima volta da ‘’La Voce’’, nel 1914,  a Firenze. Di questa raccolta si contano, però, tre edizioni; quella originale del 1914, la seconda edizione edita ‘’Pozza’’ a Venezia nel 1954 e, successivamente,  un’ulteriore edizione dell’editore Scheiwiller di Milano nel 1961.

Il tema predominante della raccolta è, come consuetudine continuativa al mondo letterario del poeta, il disagio esistenziale; quel vuoto interiore creato dall’innata incapacità umana di creare un rapporto di sinergia e armonia fra soggetto e contesto reale, in cui l’essere umano milita durante la sua esistenza.

Gli influssi della poesia francese e di Baudelaire nella raccolta ‘’Pianissimo’’

La raccolta ‘’Pianissimo’’ custodisce, fra i versi che la compongono, numerosi riferimenti alla poesia simbolista francese e, soprattutto, a Baudelaire. La poetica di Camillo Sbarbaro è spesso stata definita ‘’leopardiana’’ ma dai toni crepuscolari, eppure alcune tematiche sono in linea con lo spleen descritto da Charles Baudelaire;  l’espediente letterario che dona alla poesia di Sbarbaro una linea più intimistica, però, è dovuta alla volontà di creare un rapporto contraddittorio fra le tematiche scabrose e i temi familiari. Il poeta ligure utilizza la città come se fosse un riflesso: un grande palcoscenico in cui si rispecchia la sua abulia, un’apatia che diventa un mezzo di cui Sbarbaro si serve  per connettersi e identificarsi agli strati più umili e relegati della società: prostitute, ubriachi, uomini senza fissa dimora. Il poeta tenta di ricreare un percorso interiore autentico attraverso queste tematiche che connette ai temi degli affetti familiari e, ancor prima, all’atmosfera perduta dell’infanzia:

 

«Andando per la strada così solo / tra la gente che m’urta e non mi vede / mi pare d’esser da me stesso assente.»

 

Sbarbaro: il mondo come un deserto e l’inadattabilità dell’Io alla società

 

Spesso relegato ai margini della letteratura, confinato per dar spazio alla grande poesia, si è andato a cristallizzare il pensiero per cui Camillo Sbarbaro fosse un autore di facile comprensione, quasi provinciale o banale. Tuttavia, proprio nella raccolta ‘’Pianissimo’’, il poeta fa luce su una realtà che coinvolge le società di ogni tempo: l’inadattabilità del soggetto al proprio contesto.

 

«… e il mondo è un grande / deserto. / Nel deserto / io guardo con asciutti occhi me stesso».

 

L’autore frammenta sia la figura del poeta che quella stessa di soggetto vivente in un dato contesto: il mondo è inteso come scisso attraverso forme antitetiche che, paradossalmente, convergono nella silloge in una dimensione strutturale coerente e lineare. Ma la genesi emozionale da cui prende vita la raccolta ‘’Pianissimo’’ è la morte del padre di Sbarbaro:

 

«Padre, se anche tu non fossi il mio / padre, se anche fossi a me un estraneo / per te stesso egualmente t’amerei.»

 

Un sentimento luttuoso che tornerà anche nella silloge Trucioli (1920), seppur in altre forme, connesso agli eventi della Prima Guerra Mondiale e allo sgretolamento che la tragedia bellica aveva arrecato al paese. Proprio nella consapevolezza della fugacità degli attimi e dell’effimera sostanza delle cose, Sbarbaro si aggrappa all’elemento naturale che diviene necessario, così come è impellente l’utilizzo di un appellativo da donare al fenomeno naturale, riflessione della piena potenza evocatrice della parola poetica:

 

Capisco, adesso, perché questa passione

ha attecchito in me così durevolmente:

rispondeva a ciò che ho di più vivo,

il senso della provvisorietà.

Sicché, per buona parte della vita, avrei raccolto,

dato nome, amorosamente messo in serbo….

neppure delle nuvole o delle bolle di sapone

– che per un poeta sarebbe già bello;

ma qualcosa di più inconsistente ancora:

delle effervescenze, appunto.

“Licheni”

 

In un certo senso, Camillo Sbarbaro cerca di esorcizzare quel senso di provvisorietà di cui parla nella poesia ‘’Licheni’’, ma che pure permea la sua intera produzione poetica, attraverso la siglatura: il dare un nome alle cose diventa esercizio di placidità per arginare le piccolezze fugaci di cui la vita di ogni uomo è puntellata. In sostanza, Sbarbaro tenta di appagare la sua provvisorietà verso la vita con la tangibilità di ciò che è visibile, dando un nome alle cose che lo circondano.

Quella di Sbarbaro si potrebbe definire una ‘’poesia del risveglio’’. La sua missione consiste nel tentare di scuotere l’uomo ingarbugliato e sopraffatto dalla civiltà moderna, con cui diviene quasi impossibile la comunicazione. “Pianissimo” è  una raccolta che descrive la condizione del poeta, la sua sofferenza, ma che ben si presta nel descrivere le circostanze esistenziali di ogni uomo.

Lo stato di sofferenza individuale diventa voce ‘’sommessamente urlata’’ che pare far affermare al poeta ligure che il dolore sì, è parte integrante del mondo, che esiste un’incomunicabilità di fondo fra l’Io e la realtà circostante ma che un baluginio di speranza, forse, può scorgersi: non afferma questa possibilità, ma nemmeno la nega. Sbarbaro, attraverso la silloge ‘’Pianissimo’’ sembra quasi dire al suo lettore che, magari, è possibile esorcizzare la sofferenza in modo individuale, attraverso appigli soggettivi.

L’umanesimo secondo Mann e Kerényi

Cos’è l’umanesimo? È forse qualcosa che può riguardarci oggi, che riguarda ancora il geistige Tierreich, come direbbe Hegel, degli intellettuali? E Thomas Mann, potrà veramente esser considerato un umanista?

Non a caso è l’Apollo oscuro (figura di un’oscurità più fonda di Hermes, ma pur sempre il dio dello Spirito), l’emblema inaugurale del carteggio del celebre scrittore tedesco con Karóly Kerényi, nel quale l’argomento trainante diventa ben presto quello della possibilità di sopravvivenza di ciò che si è chiamato ‘umanesimo’; e correlativamente, del ruolo dell’‘umanista’, ovvero del custode e conservatore cui prema la necessità di tramandare i tesori tradizionali del retaggio europeo, salvandoli e trasportandoli dal mondo vecchio in quello nuovo (K, 3 II 1945). Umanesimo è un atteggiamento complessivo verso l’uomo che è fonte insieme di  delusione e di conforto: una «felicità difficile – ma pur sempre felicità».

L’umanesimo secondo Mann e Kerényi

Ma chi  possono essere i padri di questo rinnovato, auspicabile umanesimo? Su questo argomento, le posizioni di Mann e Kerényi si differenziano alquanto. Oggi i maestri, scrive Kerényi nel 1944, «attraversano in pauroso isolamento un mondo di rovine, soli con
la propria ombra, come colui che uscì per tempo dalla casa degli “scienziati” erroneamente trionfanti [il riferimento è a Nietzsche]. Ed è molto se possiedono almeno la loro ombra; se nel loro isolamento non hanno perduto anche le radici dalle quali può forse ancora crescere qualcosa per l’avvenire» (pref. a Romanzo e  mitologia).

A causa di questa esigenza spirituale Kerényi ammette di non poter accettare l’impersonalità del metodo storicistico in filologia, poiché dietro ogni scienza dello spirito si nasconde una più intima vita dello spirito.

All’interno del lavoro spirituale si devono attuare, infatti, i più profondi interessi dell’anima, collegati con la sua stessa libertà: «da quando il consenziente Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff riportò la vittoria scientifica sul tedesco dissenziente, su Nietzsche, il “conoscitore di sé, il carnefice di se stesso”, l’idea umanistica cedette il passo a una res publica doctorum virorum» (pref. a Romanzo e mitologia), alla fallacia di un’indagine filologica all’apparenza spassionata, immune da tratti esistenziali o lirici, in fondo anti-umanistica, pseudoscientifica, tecnicizzata.

Anche Mann coglierà l’occasione di esprimersi al riguardo, osservando come «la non molto buon’anima di Wilamowitz se la cava a malapena […]. Mi sono sempre meravigliato che dopo il suo attacco a Nietzsche abbia ancora osato aprir bocca. Egli era una specie di Kundry maschile, aveva “riso”. Sarà stato un grande erudito sino alla fine; come spirito non era più da prendere in considerazione» (M, 15 VII 1936). Nietzsche, dunque, è il primo ‘padre’ umanistico, il rappresentante dello spirito contra Wilamowitz e la cultura postasi al mediocre servizio della tecnica:

Ho avuto l’impressione di una indicibile sofferenza dello spirito, di un muto aggregarsi dei mediocri, del loro collaborazionismo e della famelica smania di imporsi da parte di tutti quelli che sono peggio che mediocri. Devo confessare che mi preoccuperei ben poco della mediocrità se non avesse dalla sua il peso della massa, sotto la quale lo spirito – coi suoi rappresentanti – rischia di rimanere schiacciato. […]. (K, 13 VIII 1934).

L’aspetto religioso in Mann

Facile vittoria di Apollo, del Geist umanistico? Sarà. Se anche i nomi di riferimento sono qui quelli di Hölderlin e Nietzsche, Kerényi mostra di prediligere nell’opera manniana la figura di umanista più banale, Settembrini, considerandolo «l’incarnazione per me estremamente simpatica dell’atteggiamento umanistico di fronte a una sempre ricorrente situazione umana […]. Intendo la situazione del trovarsi in prossimità della morte».

Umanesimo e morte: la scienza umanistica deve possedere, quindi, un carattere ermetico; questo si esplicherebbe attraverso quel “ritorno alle realtà fondanti, supreme dello spirito”.

Mann tenta un approfondimento dell’umanesimo mediante l’elemento religioso, cioè mitico, del tutto al di là dei dogmatismi non più degni di fede, per conferirgli «la forza impegnante di cui ha bisogno per raccogliere la sbandata umanità intorno a un’autorità nuova». Altrimenti, «il risultato dell’intricato esperimento “uomo” sarebbe, come ognuno sa, molto minaccioso, anzi senza speranza» (M, 12 II 1946).

 

Susanna Mati: Thomas Mann l’ermetico

I migliori incipit della letteratura del ‘900

Gli incipit di un’opera letteraria rappresentano l’ingresso di un labirinto, una vera e propria arte che attira i lettori, che li invoglia a proseguire con maggiore curiosità nella lettura. Non è detto che un bel romanzo abbia un incipit altrettanto valido, e chiaramente ci sono romanzi orribili con un meraviglioso inizio.

Varie sono poi le tecniche, tanto che l’esordio di un’opera può ridursi a una sola riga o dilatarsi a qualche frase o addirittura a intere pagine. Vari sono anche i modi di iniziare: una descrizione paesaggistica, una dedica, una notizia, una data, la presentazione di uno dei personaggi, un aforisma, un’anastrofe (ovvero cominciare descrivendo la fine).sono un tema sempre interessante. Perché, prendendo a prestito un verso di Ungaretti, “è sempre pieno di promesse il nascere”: così anche un romanzo ci porge il suo biglietto da visita in quelle prime frasi introduttive.

I 15 incipit più belli

«Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio». Cent’anni di solitudine, di Gabriel García Márquez

«La prima volta che incontrai Dean fu poco tempo dopo che mia moglie e io ci separammo. Avevo appena superato una seria malattia della quale non mi prenderò la briga di parlare, sennonché ebbe qualcosa a che fare con la triste e penosa rottura e con la sensazione da parte mia che tutto fosse morto». Sulla strada, di Jack Kerouac

«Era una fresca limpida giornata d’aprile e gli orologi segnavano l’una. Winston Smith, col mento sprofondato nel bavero del cappotto per non esporlo al rigore del vento, scivolò lento fra i battenti di vetro dell’ingresso agli Appartamenti della Vittoria, ma non tanto lesto da impedire che una folata di polvere e sabbia entrasse con lui». 1984, di George Orwell

«Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so». Lo straniero, di Albert Camus

«Nei miei anni più giovani e vulnerabili mio padre mi diede un consiglio che non ho mai smesso di considerare. ‘Ogni volta che ti sentirai di criticare qualcuno’, mi disse, ‘ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i tuoi stessi vantaggi». Il grande Gatsby, di Francis Scott Fitzgerald

«Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia». Lolita, di Vladimir Vladimirovič Nabokov

«Solenne e paffuto, Buck Mulligan comparve dall’alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio». Ulisse, di James Joyce

«Soltanto i giovani hanno momenti del genere. Non dico i più giovani. No. Quando si è molto giovani, a dirla esatta, non vi sono momenti. È privilegio della prima gioventù vivere d’anticipo sul tempo a venire, in un flusso ininterrotto di belle speranze che non conosce soste o attimi di riflessione. Ci si chiude alla spalle il cancelletto dell’infanzia, e si entra in un giardino d’incanti». La linea d’ombra, di Conrad

«Era una gioia appiccare il fuoco». Fahrenheit 451, di Ray Bradbury

«È tutto accaduto, più o meno». Mattatoio n. 5, di Kurt Vonnegut

«Una mattina Gregorio Samsa, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato, nel suo letto, in un insetto mostruoso». La metamorfosi, di Franz Kafka

«Se sono matto per me va benissimo, pensò Moses Herzog». Herzog, di Saul Bellow

«Il sole splendeva, non avendo altra alternativa, sul niente di nuovo». Murphy, di Samuel Beckett

«Avevo vent’anni, non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita», Aden Arabia, di Paul Nizan

«Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non va proprio di parlarne». Il giovane Holden, di J.D. Salinger

Fonte: https://cantosirene.blogspot.com/2009/04/gli-incipit.html

Loescher Editore pubblica “Per leggere i classici del Novecento”: un’antologia per scoprire i capolavori del nostro tempo

Per leggere i classici del Novecento è il titolo del nuovo volume della collana I Quaderni della Ricerca/Didattica e letteratura pubblicato da Loescher Editore, storica casa editrice di Torino. Il libro, a cura di Francesca Latini e Simone Giusti, raccoglie 22 saggi dedicati a testi novecenteschi, apparsi sulla rivista “Per Leggere” tra il 2001 e il 2016. Un’antologia unica nel suo genere, che colma l’assenza di contributi critici e filologici dedicati a prove letterarie recenti o addirittura contemporanee, e che rappresenta un’opportunità – a disposizione dei docenti di oggi e di domani – per scrutare con la giusta messa a fuoco opere che per la loro vicinanza cronologica rischiano di scomparire dal nostro orizzonte.

Nei saggi selezionati trovano spazio le analisi di prose liriche, racconti, poesie, poemetti in versi e persino di una canzone, a testimonianza della scelta dei curatori di allargare i confini della scrittura d’arte oltre i tradizionali testi ‘classici’ che, come ricorda Francesca Latini nell’articolo di apertura, Calvino definiva “quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli”. Ed è proprio il desiderio di creare “le migliori condizioni” per i nuovi lettori alla base del volume, che affianca il Guido Gozzano di Invernale a maestri come Ungaretti, Montale e Fenoglio; e protagonisti della scena letteraria del XXI secolo del calibro di Giovanni Raboni, Andrea Zanzotto, Alda Merini, alle intense voci contemporanee di Milo de Angelis, Valerio Magrelli, Fabio Pusterla, per arrivare sino al cantautore Francesco Guccini.

Commentare un’opera – scrive nella Postfazione Simone Giusti – è un’attività tra le più artigianali che si trova a compiere lo studioso di letteratura, richiede di mettersi in ascolto del testo, tenendo sempre d’occhio il suo svolgersi nello spazio della pagina […] È un’opera di comprensione, di interpretazione e di valorizzazione che può essere compiuta solo attraverso una pratica di lettura puntuale del testo”. A partire da questa volontà, il nuovo Quaderno di Loescher Editore rivolge un appello al mondo degli studi umanistici e dell’insegnamento scolastico e universitario, per considerare la lettura come pratica indispensabile alla formazione dei docenti.

Un progetto editoriale che guarda a una scuola in cui insegnare non la letteratura, ma con la letteratura, usando le opere per costruire competenze linguistiche e culturali. “L’esperienza ‘mediata’ dalle opere della letteratura e, in generale, dalle storie, – prosegue Giusti – è libera e liberatoria, consente di ‘moltiplicare la vita’, di allenare l’empatia e di sviluppare l’‘immaginazione narrativa’. Un’esperienza che, esattamente come le esperienze reali, lascia tracce di sé nella memoria, preparando il terreno ad altre esperienze, tracciando piste per comportamenti futuri, aprendo la strada ad altre interpretazioni”. 

Per leggere I classici del Novecento si può ordinare in tutte le librerie (anche online) d’Italia; i docenti possono richiederlo agli agenti Loescher di zona. La Postfazione è online; sempre online è possibile consultare, in versione pdf, l’indice, l’introduzione e il primo capitolo.
QdR Per leggere i classici del Novecento – Indice

Invernale di Guido Gozzano – a cura di Nicoletta Fabio
Il maiale di Umberto Saba – a cura di Marzia Minutelli
Genova di Dino Campana – a cura di Paolo Giovannetti
Stralcio e Perdóno? di Clemente Rebora – a cura di Matteo Giancotti
Dove la luce di Giuseppe Ungaretti – a cura di Francesca Latini
La vite e A Carlo Tomba di Camillo Sbarbaro – a cura di Simone Giusti
Meriggiare pallido e assorto di Eugenio Montale – a cura di Tiziano Zanato
L’Appennino di Pier Paolo Pasolini – a cura di Francesca Latini
L’avventura di uno sciatore di Italo Calvino – a cura di Giovanni Bardazzi
Un altro muro di Beppe Fenoglio – a cura di Marco Gaetani
Ferro di Primo Levi – a cura di Anna Baldini
Pensieri di casa di Attilio Bertolucci – a cura di Fabio Magro
Falso sonetto di Franco Fortini – a cura di Davide Colussi
Amerigo di Francesco Guccini – a cura di Paolo Squillacioti
Laggiù dove morivano i dannati di Alda Merini – a cura di Marilena Rea
Periferia e Treni di Antonia Pozzi – a cura di Georgia Fioroni
Le ceneri di Vittorio Sereni – a cura di Rodolfo Zucco
Diffidare gola, corpo, movimenti, teatro di Andrea Zanzotto – a cura Marco Manotta
Ombra ferita, anima che vieni di Giovanni Raboni – a cura di Fabio Magro
L’ordine di Milo De Angelis – a cura di Marco Villa
Children’s corner di Valerio Magrelli – a cura di Claudia Bonsi
Le parentesi di Fabio Pusterla – a cura di Sabrina Stroppa

Marcel Proust, botanico morale: una cronaca (severa) dal 1922

L’opera di Marcel Proust porta il titolo generale À la recherche du temps perdu: essa dunque si annuncia come un’opera autobiografica. L’autore infatti racconta come un bel giorno, per effetto d’un certo profumo, il passato, che pareva per sempre sepolto, gli balzò innanzi con sorprendente evidenza; ed ecco, la puerizia estremamente sensibile (Du coté de chez Swann); ecco l’adolescenza deliziosa e fremente (À l’ombre des jeunes filles en fleurs); ecco la giovinezza nei suoi primi contatti mondani (Le coté de Gourmantes); ecco la giovinezza nella sua piena maturità d’esperienza mondana (Sodome et Gomorrhe). Terminato quest’ultimo tomo, di cui sono state pubblicate soltanto due parti, chiuderà la serie, la quale consterà probabilmente di una quindicina di volumi, Le temps retrouvé (Ed. Nouvelle Revue Francaise). Opera «autobiografica» in senso assai largo, in quanto nessuno vorrà credere all’esattezza storica di tutto ciò che vi è raccontato; ma anche in senso profondo, giacché veramente tutto è narrato come fosse ricordo d’esperienza reale, e se i fatti non si sono svolti precisamente in quel modo, i loro elementi sono stati certo desunti da un’osservazione personale, singolarmente attenta e sottile.

«Fatti», per modo di dire; e chi nell’opera del Proust andasse cercando un intreccio, uno svolgimento di casi curiosi, interessanti, drammatici, farebbe cosa assai vana. Ché, se ogni tomo dell’opera rappresenta un’età successiva nella vita dello scrittore, in ciascun tomo le situazioni si svolgono, più che nel tempo, nello spazio, e temporalmente, secondo una logica che non è quella del tempo oggettivo, ma soggettivo, non quella dell’orologio, ma della reminiscenza. Così, una soirée, o un viaggio di poche ore, possono durare… duecento pagine ciascuno; nel primo caso, volendosi presentare una grande quantità di signori e signore, con tutte le loro caratteristiche esteriori, le loro storie, vorrei dire le loro particolari atmosfere morali; nel secondo, raccontare un numero straordinario di ricordi, suscitati dalla vista di ogni stazioncina raggiunta ed oltrepassata. In realtà, i fatti non contano pel Proust; contano gl’individui, i quali sono ritratti l’uno vicino all’altro, in lunghissima serie, sopra uno stesso piano spaziale-temporale, che potrebbe essere la società aristocratica parigina negli ultimi decenni del secolo scorso, come anche l’infinito e l’eternità. Giacché è vero che si pirla dell’affaire Dreyfus, come d’un riferimento temporale, è vero che si discute di teorie mediche, di scuole artistiche e filosofiche di venti o trent’anni fa, è vero che si dipingono i costumi mondani dell’aristocrazia francese in recenti decenni; ma non è men vero che le analisi più fini e squisite sono psicologiche, e queste non valgono soltanto relativamente al tempo e al luogo ai quali si riferiscono, bensì assolutamente, per tutti e per domani come per ieri.

In Sodoma e Gomorra, ch’è il tomo Ultimo pubblicato, o richiama oggi la nostra attenzione in modo particolare, lo scrittore analizza i fenomeni del ricordo e del sogno, le intermittenze del cuore, la mutabilità delle opinioni, i rapporti fra dolore o desiderio lirico…: è evidente che codeste analisi riguardano un materiale umano permanente, il quale di necessità deve dare a quelle analisi un carattere generale ed astratto. La stessa analisi dell’inversione sensuale, considerata in se stessa o nei suoi rapporti sociali, come destino mitico o quasi mistico d’una parte numerosa dell’umanità, ha qualcosa di trascendente, che sembra sfidare la mutabilità dei costumi.

Se così è, ecco Marcel Proust messo idealmente accanto a un Saint-Simon, o ad un La Bruyère; i quali infatti, sotto forma di Mémoires o di Caractères, ritrassero uomini e costumi del loro tempo, e seppero insieme penetrare sì addentro nello spirito dell’uomo, da formulare, magari senza volerlo, alcuni eterni paradigmi psicologici. Eccolo tuttavia distaccato da essi, per il metodo d’indagine e per l’atteggiamento sentimentale durante l’indagine. Che il Saint-Simon è un appassionato ed un vendicativo, il La Bruyère un satirico e un moralista, entrambi degli scontenti; mentre il Proust è un osservatore senza scrupoli e senza velleità moralistiche, senza odi né amori, e il sorriso che ogni tanto gli fa brillare lo sguardo, è ironico ben più che satirico, e piuttosto che ironico, soddisfatto dello spettacolo prodigiosamente vario ed identico dell’umana commedia. D’altra parte, La Bruyère e Saint-Simon sono nutriti di secentismo cartesiano; il Proust, d’ottocentismo bergsoniano, o piuttosto, di novecentismo relativista e psicanalista. Certo, ciò ch’è detto della memoria, richiama la psicologia del Bergson; ciò che del sogno, le teorie di Freud; ciò che del tempo, il relativismo filosofico che s’è preteso costruire su quello fisico-matematico einsteiniano…

Ma, lasciando stare i paragoni che sono sempre arbitrari, e mettendo da parte i presupposti scientifici e filosofici dell’analisi del Proust, noi dobbiamo vedere se e fino a qual punto l’osservatore è un artista, se e fino a qual punto l’opera di rappresentazione analitica è un’opera d’arte. Ammettiamo pure le lungaggini enormi ed incredibili, considerandole come intrinseche alla novissima tecnica, sebbene qualche volta appaiano affatto pedantesche e superflue, come quelle di toponomastica; chiudiamo gli occhi sulle immagini poco felici, considerato che lo stile del Proust è quanto di meno immaginifico vi possa essere. Resta tuttavia a sorprenderci, che lo scrittore, per spiegare stati d’animo e rappresentare avvenimenti, abbia così spesso bisogno di ricordare passi letterari di Racine, Molière, Madame de Sévigné, e magari quadri e pezzi di musica famosi; sebbene, del Racile egli si serva per raggiungere effetti delicatamente ironici, del Molière, per appoggiare la sua graziosissima satira, valevole oggi come sempre, contro i medici e la medicina. Sopratutto, ci sorprende come nell’opera del Proust ai abbia bensì «toute une galerìe de portraits», ma questi ritratti ci appaiano soltanto da un lato, quasi potessero disporre, appunto come le tavole dipinte, soltanto di una dimensione. Difatti, in Sodoma e Gomorra, il barone di Charlus e Albertine, studiati con estrema minuzia come tipi rappresentativi degl’invertiti maschili e femminili, si presentano soltanto come tali; il dott. Cottard, M.me de Cambremer, e tutti gli altri duchi e duchesse, principi e principesse, nelle loro esclusive vanità e relazioni mondane; i domestici, i liftiers, i maitres d’hotel, ecc. unicamente nei loro segni esteriori, e gerghi e tics professionali. L’anima, nella sua complessa vivente totalità, sembra sfuggire, non dico all’analisi del critico, ma al talento del poeta.
Ora, può darsi che codesta anima integrale, di cui tanto si discorre, sia un’astrazione ideale, e che in realtà, gl’invertiti siano precisamente come Charlus e Albertine, i dottori come Cottard, le intellettuali come la Cambremer, i maitres d’hotel come Aimé, null’altro avendo di fatto che quello che mostrano. Può darsi altresì che le manifestazioni mondane, inferiori ai movimenti artistici, alle crisi politiche, all’evoluzione del gusto, ne siano tuttavia «le reflet lontain, brisé, incertain, trouble; changeant»; onde, studiando e rappresentando il «reflet », si venga indirettamente a studiare e rappresentare il raggio della realtà tutta intera, sociale e spirituale.

Ma anzitutto bisogna riconoscere che codesto restringimento di visuale, nel Proust, s’è venuto attuando di volume in volume, con moto progressivo; il che dimostrerebbe, mi pare, dati gli effetti sempre meno soddisfacenti, una diminuzione di vigore poetico. E poi, ammettendo la reale esistenza d’individui, nei quali tutto sia in funzione di sensualità invertite, vanità salottiere, pregiudizi, orgogli, gelosie di mestiere, tutto anzi sia ridotto a codesto; resta a vedere se la rappresentazione artistica di tali individui valga quella delle personalità veramente grandi, complesse, profonde, le quali toccano veramente i poli opposti della terra e del cielo. Chi non dubita che le Précieuses ridicules sono infinitamente inferiori al Don Juan, non avrà difficoltà ad ammettere che l’opera del Proust ha un orizzonte assai limitato, e, se le cose non cambieranno, è destinata, dopo un’effimera voga, ad una vita non lunga. In verità, mancano in essa quelle ombre in cui s’intuiscono inesplorabili abissi, quei fulgori in cui balenano delle rivelazioni; tutto è sotto una blanda luce filtrata di salotto, in un’atmosfera satura di profumi artificiali… Può essere codesta, l’arte, il romanzo di domani?

Fonte:

Marcel Proust, botanico morale: una cronaca (severa) dal 1922

Exit mobile version