Fantastico, grottesco e angoscia nei racconti e articoli di cronaca nera di Dino Buzzati

Dino Buzzati è conosciuto soprattutto per il “Deserto dei Tartari”, in cui il militare Giovanni Drogo è costretto a vivere in una fortezza “esiliato tra ignota gente”. La minaccia dell’assedio da parte dei Tartari, l’attesa snervante del protagonista simboleggiano l’ansia metafisica ed il pensiero ossessivo della morte.

Il finale del romanzo è a sorpresa. È del tutto inatteso. Infatti quando arrivano i Tartari il protagonista sta morendo di un male incurabile. Alcuni critici sostennero che Buzzati si “kafkasse addosso” e che fosse quindi un manierista di Kafka. Lo scrittore ironizzò su queste accuse dichiarando che “alcuni critici denunciavano colpevoli analogie anche quando spedivo un telegramma o compilavo un modulo Vanoni”.

Ma per capire meglio Dino Buzzati bisogna leggere anche i suoi racconti, in cui dettagli apparentemente insignificanti divengono tristi presagi: delle ombre, dei passi, degli scricchiolii sono spesso l’inizio di un capovolgimento di fronte. Ecco quindi che all’improvviso entra in scena l’assurdo.

Breve premessa: per Freud esistono tre tipi di sogni. Il primo tipo di sogni sono frutto di appagamento di desideri non mascherati. Ad esempio un bambino a cui piacciono le patate può sognare di fare una scorpacciata di patate. Il secondo tipo di sogni sono frutto di soddisfacimento mascherato di fantasie inconsce. Il terzo tipo invece sono sogni di angoscia.

I racconti di Buzzati spesso sembrano scaturire da sogni di angoscia o quantomeno sembrano essere dei sogni di angoscia. Ma in questi brani troviamo non solo angoscia e onirismo, ma anche mistero e solitudine.

Nei suoi “Sessanta racconti” si mischiano fantastico, realismo, grottesco, gusto del paradosso e metafisica (Buzzati fu anche pittore  influenzato da De Chirico).

Leggendolo abbiamo la dimostrazione che la vera arte non è copia del reale ma trasfigurazione. Lo scrittore bellunese in questo senso voleva evadere dal mondo e sostituirgli un universo fittizio. Buzzati  fu anche redattore per molti anni del Corriere della Sera e giornalista di cronaca nera.

La cronaca nera vista da Dino Buzzati

È proprio analizzando i suoi articoli di nera che si scopre la sua sensibilità. Carlo Bo scriveva a riguardo di Dino Buzzati: “cronista di assoluta fedeltà, ma alla fine andava oltre e scioglieva tutto con il miracolo della poesia”.

Nei suoi articoli troviamo alcuni delitti, che colpirono l’immaginario collettivo degli italiani: Rina Fort che massacra l’intera famiglia dell’amante che l’ha lasciata, il caso Montesi e lo scandalo conseguente nella Democrazia Cristiana di allora, la contessa Pia Bellentani che a una festa dell’alta società uccide l’amante.

E se talvolta gli assassini non sembrano belve feroci ma persone normali lo scrittore avverte che “l’ombra del male scivola intorno a ciascuno di noi e ci potrebbe toccare”. Ma leggere questi articoli significa ritornare indietro nel tempo e constatare che una grande parte di quella cronaca è diventata storia del Novecento.

Si pensi all’aereo della squadra del Torino che si schianta a Superga, il dramma di Marcinelle in cui morirono 139 minatori italiani in Belgio, il disastro del Vajoont del 1963, la rivolta di San Vittore, la strage di Piazza Fontana. Non ci si può dimenticare di Marcinelle, che è emblematica per quel che riguarda la nostra emigrazione.

Per la scarsità di materie prime della nostra nazione il governo italiano decise di stipulare un accordo con il Belgio, secondo cui avrebbe inviato 50000 minatori ed avrebbe ricevuto 2 tonnellate di carbone all’anno per ogni lavoratore. I minatori italiani furono costretti a lavorare a 1000 metri di profondità.

Il contratto di lavoro non comprendeva la possibilità di dimettersi, era senza diritto di recessione. I minatori che volevano smettere di lavorare venivano condannati a 5 anni di prigione. Molti lavoratori morirono di cancro al polmone. I più fortunati divennero asmatici. Dino Buzzati descrisse con maestria anche il dramma di Superga.

Scrisse che i campioni del Torino fino a pochi giorni prima dominavano i campi di calcio e che la morte in pochi istanti li aveva trasformati. Scrisse: “Esegue balzi così immensi la morte che neppure la nostra immaginazione riesce a starle dietro. Come far capire alle mamme, alle fidanzate, alle sorelle che è meglio non entrare?”.

Memorabili ed amarissime anche le sue parole sul Vajont: “Un sasso è caduto in un bicchiere di acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi”.

Buzzati quindi sapeva essere poetico anche da giornalista senza mai scrivere elzeviri. Possiamo senza ombra di dubbio affermare che il lavoro di giornalista fu fondamentale per la formazione del suo immaginario e della sua poetica, in cui dominò incontrastata l’imperscrutabilità del Fato.

Perché leggere Buzzati

Buzzati va letto e riletto perché non appartiene a nessuna scuola, non abbraccia nessuna ideologia e si rivela sempre originale e versatile. Riesce a intrecciare realtà e finzione con uno stile efficace e apparentemente semplice, a farsi comprendere da tutti ed è sempre distante dalla ricercatezza ad esempio della prosa d’arte.

È unico nel suo genere. Infatti ha una fervida immaginazione che gli permette di descrivere le angosce, gli incubi, l’ignoto come nessun altro narratore italiano nel corso del Novecento.

Buzzati all’epoca fu ostracizzato dai critici letterari. Eppure nessuno come lui in quegli anni in Italia riesce a descrivere i fantasmi della mente, le brutture del quotidiano, l’imponderabile che stravolge l’ordine costituito, il senso di minaccia e l’irrazionalità presenti nell’esistenza umana.

Dino Buzzati come nessun altro riesce a raccontare storie che si nutrono di caos e assurdo: storie che spesso sono contrassegnate da una cifra trascendente. Questo è il suo lascito.

 

Davide Morelli

La morte di un carabiniere non può dividere l’Italia

La tragica morte del Vice Brigadiere Mario Cerciello Rega, sposatosi da poco di più di un mese, merita rispetto e cordoglio da parte dell’Italia intera. La vicenda del carabiniere ucciso nelle scorse ore ha più punti oscuri che certezze, domande che – data la dinamica così poco usuale dei fatti – non possono non sorgere nell’opinione pubblica.

Chi era l’uomo che ha richiesto l’intervento dell’Arma per rientrare in possesso dello zaino trafugato dai due studenti americani? Cosa consente a due turisti statunitensi, appena maggiorenni, di sentirsi così sicuri – a mille miglia da casa – da sfidare quello che nell’immaginario comune è, nel migliore dei casi, un delinquente di mezza tacca, certo, ma sicuramente inserito all’interno del tessuto criminale di una città che per i due dovrebbe essere del tutto sconosciuto? Com’è possibile che un ragazzino della Los Angeles bene, viziato, coccolato, prepotente: in soldoni un bamboccione, riesca a sferrare otto, dico otto, coltellate fatali ad un carabiniere addestrato?

La verità su questa storia, se uscirà mai, non potrà che provenire da un’aula di tribunale, ergo, con tempi biblici. I pochi dati certi che abbiamo ci permettono, comunque, di tratteggiare una situazione veramente atroce della nostra quotidianità. Del resto, fin quando fatti di cronaca che non dovrebbero essere tali, vengono manipolati ed utilizzati per meri calcoli elettorali dal ministro dell’Interno, fin quando vedremo educatori e professori esaltarsi sui social per la morte di un carabiniere, perché a loro avviso rappresentante di una non meglio identificata reazione – chi scrive si domanda quale sia l’azione a cui reagire –, non ci si potrà meravigliare che accadano vicende del genere.

Il fatto odierno è solo la punta dell’iceberg dello sfacelo totale del sistema nazione, poco importa se nelle pieghe di questa vicenda emergeranno altri fatti che riusciranno a spiegare più semplicemente l’accaduto. Tra qualche settimana, purtroppo, saremo di nuovo qui a chiederci come sia potuto accadere un qualcosa di impensabile, senza capire che la risposta sta nel nostro essere una nazione finita. Crediamo non ci sia altra chiave di lettura per spiegare certi fatti di cronaca, non fatti isolati e circostanziati, ma una lunga teoria della stessa matrice.

Del resto, non si è fatto neanche a tempo a celebrare il funerale del caduto, che una fuga di immagini da una caserma dei carabinieri, colleghi del brigadiere ucciso, direttamente sulle home page delle principali testate giornalistiche nazionali, potrebbe con buona probabilità dare una base di difesa processuale al presunto assassino. Uno Stato al collasso, una nazione finita, dove l’interesse di parte, sempre più individuale, ha soppiantato completamente l’interesse nazionale.

 

Andrea Scaraglino

Davide Bacchilega, autore del noir ‘Più piccolo è il paese, più grandi sono i peccati’

Pubblicato a Maggio di quest’anno da Las Vegas edizioni, Più piccolo è il paese, più grandi sono i peccati è il romanzo del giovane scrittore romagnolo Davide Bacchilega, nato a Lugo, in provincia di Ravenna, già autore di I romagnoli ammazzano al Mercoledì e Bad News e reduce dal Salone Internazionale del Libro di Torino 2016.
Ci troviamo in Emilia Romagna, durante il periodo natalizio. Una Emilia Romagna fredda in cui si snodano le vicende di uomini e donne con mestieri differenti eppure imprescindibilmente legati tra loro. Al centro un delitto e tre ex prostitute che ricevono una lettera minatoria. Da questo momento in poi Michele, giornalista di cronaca nera, non smetterà per un solo minuto di cercare la verità. Più piccolo è il paese, più grandi sono i peccati è un noir con molti colpi di scena che tengono sulle spine il lettore più attento, uno spietato ed ironico affresco della provincia italiana, attraverso quella dell’Emilia Romagna, descritta nel romanzo come una terra piena di contraddizioni.
 

1.Contrariamente all’idea che molti italiani hanno dell’Emilia Romagna, quella descritta da lei appare come una terra piuttosto ostile, fatta di strade asettiche e tanta nebbia che appesantisce l’aria e anche l’anima dei personaggi. Loro stessi sembrano vivere questa contraddizione tra desiderio irrefrenabile di vivere tutto a trecentosessanta gradi e momenti di accettazione della realtà. Insomma, come due facce della stessa medaglia. La sua è stata una scelta precisa?

È la scelta su cui si fonda il libro. D’altronde credo che il compito di chi scrive sia quello di cercare di illuminare tutte le facce di una realtà, che non sono necessariamente solo due. La realtà è un solido complesso che spesso, per pigrizia, viene osservato da un unico punto di vista. Scrivere significa invece muoversi attorno a quel solido e provare a rischiarare anche gli angoli e gli spigoli che si nascondono dietro. Ciò che più mi interessa è esplorare il confine e il conflitto tra apparenza e realtà, tra forma e sostanza, sempre che siano concetti scindibili. Per quanto riguarda l’Emilia Romagna, c’è da dire che si tratta di un territorio in cui il livello di benessere è senz’altro elevato, e anche gli stereotipi con i quali la regione viene descritta spesso non sono sbagliati. Nonostante ciò non può essere una terra priva di contraddizioni, proprio perché non ne possono essere prive le persone che ci vivono. In più, questo è un romanzo dalle forti connotazioni noir: pescare nel torbido è il divertimento principale di chi maneggia questo genere letterario.

2. Un giornalista di cronaca nera, un “tanatoprattore” (uno che ”aggiusta i morti”) e una donna incaricata di piangere ai funerali sembrano figure speculari che ho trovato pervase da uno spietato cinismo (forse un po’ meno Mauro che è più paranoico), è davvero così? Le minuziose descrizioni fatte da Mauro sono state indispensabili per la comprensione di alcuni suoi comportamenti. Quanto è importante la caratterizzazione psicologica dei personaggi, per lei?

La caratterizzazione psicologica dei personaggi per me è tutto. Senza trascurare la rilevanza dell’intreccio e lo stile linguistico con il quale la storia prende corpo, i miei romanzi sono incentrati soprattutto sui caratteri, le aspirazioni e le ossessioni di chi si muove sulla scena: personaggi a volte strambi e insoliti, ma sempre verosimili, o perlomeno possibili. Quasi mai li raffiguro attraverso tratti fisici, oppure osservandoli da fuori. Preferisco lasciare emergere le loro riflessioni e le loro emozioni, cercando di imitare con la scrittura il modo in cui ragionano e sentono. Il giornalista di cronaca nera, Stefano, è senza dubbio il più cinico di tutti. In lui combaciano alla perfezione lo squallore del suo privato e la sua missione professionale. La donna che piange ai funerali, Barbara, è cinica per necessità: il suo atteggiamento è una forma di difesa. Il tanatoprattore, Mauro, avrebbe più motivi degli altri per essere cinico (“aggiustare i morti” non è proprio un lavoro che mette allegria), ma in fondo non lo è. Seppure a modo suo, Mauro è un sognatore: spera di diventare milionario partecipando a un noto quiz televisivo e nonostante sia quotidianamente accerchiato dalla morte conserva uno sguardo pieno di dolcezza verso tutto ciò che lo circonda.

3. Un giro di prostituzione, una serie di omicidi compiuti nella stessa zona e un elenco di casi irrisolti fanno da scenario. “Bad news is good news”, quindi è proprio vero, come sostiene il cronista di Romagna sera, che i morti ammazzati fanno più notizia? Questo vale anche per un romanzo?

Per un romanzo giallo o noir vale per definizione. Per un romanzo non di genere il morto ammazzato è pur sempre un acceleratore narrativo. Ma la teoria secondo la quale “Bad news is good news” è valida soprattutto in campo giornalistico e ne abbiamo conferma ogni volta che un omicidio irrisolto (altrimenti non ci sarebbe il mistero, il giallo) sale ai primi posti delle notizie più trendy del momento. I casi che hanno coinvolto Yara Gambirasio, Sarah Scazzi, Chiara Poggi e Meredith Kercher, tanto per ricordarne solo alcuni, hanno rappresentato ottime notizie per qualsiasi redazione di cronaca, per gli inserzionisti pubblicitari e ovviamente per le audience (le cose brutte che capitano agli altri, magari in un luogo lontano, hanno sempre un notevole effetto catartico).

Come se non bastasse, a me sembra che per rendere più appassionanti le notizie di cronaca nera, la “narrazione” giornalista vada a ricalcare quella dei romanzi gialli, come se la realtà, per essere venduta meglio, debba rifarsi agli schemi della finzione.

 

4. Si può dire che le donne sono le uniche figure, forse un po’ disincantante, che tentano di reagire? Il loro punto di vista mi ha permesso di leggere gli eventi sotto la loro prospettiva. Giorgia accoglie la possibilità di curare il suo disturbo, Didi prova ad immaginare un futuro altrove e così Marta che lotta per sperare almeno in quello immediato, ad esempio…

Sì, è proprio così. Giorgia, Didi e Marta partono tutte da una condizione di disagio, per diversi motivi. Ma ognuna di loro attinge a tutte le risorse possibili per cambiare la situazione. C’è chi ci riuscirà e chi no, ma nessuna si arrende. Come sempre, a dare un senso ai nostri sforzi non è tanto l’ottenimento di ciò che desideriamo, ma le battaglie che combattiamo per guadagnarcelo.

 

5.Davvero molto efficace la metafora della partita a biliardo. Crede funzioni davvero così l’esistenza? Questione di geometrie e matematiche?

Se sapessi davvero come funziona l’esistenza smetterei subito di scrivere! Più semplicemente, nella scena a cui fa riferimento, quella in cui il dottor Benelli riallinea i suoi pensieri giocando a biliardo, ho cercato di descrivere una piccola mania del personaggio, e assieme la sua filosofia: date determinate cause si otterranno determinate conseguenze (così come la traiettoria impressa al pallino indirizza la sfera colpita nella direzione voluta, se il gesto tecnico è compiuto esattamente). Ma questo ineffabile rapporto di causa-effetto si può ritrovare letterariamente solo nel giallo classico, in cui la metodologia “scientifica” dell’investigatore conduce alla soluzione del caso. Di sicuro, non funziona così nella realtà. Il mio approccio narrativo è invece più vicino al pensiero di Friedrich Dürrenmatt, l’autore del romanzo La promessa: troppo spesso è il caso e non la logica a influire sull’esito delle nostre azioni.

 

6.Arrigosacchi è indubbiamente il mio personaggio preferito. Qual è il suo?

È curioso sapere che fra i tanti personaggi del libro il suo preferito è un cane! In effetti, non è la sola ad avermelo detto: questo piccolo Jack Russell terrier ha fatto breccia in molti cuori. La mia preferenza si divide invece tra il giornalista Stefano Guerra e il tanatoprattore Mauro Garavini.

 

7.Mi permetta la citazione forse azzardata ma è un’”Emilia paranoica” quella in cui si muovono i protagonisti del libro? Quanto è affezionato alla sua terra?

Si riferisce alla canzone dei CCCP, vero? Beh, allora l’accostamento mi piace. In questo caso però è meglio parlare di “Romagna paranoica” visto che le vicende del libro si svolgono a sud del torrente Sillaro. Come saprà, emiliani e romagnoli sono molto campanilisti e non vogliono essere confusi: si è dunque emiliani oppure romagnoli, mentre non ho mai sentito nessuno definirsi emiliano-romagnolo. Sono affezionato alla mia terra? Sì, pur non essendo un vitellone o un ballerino di liscio.

 

8. Sulla linea di confine tra giallo, noir e black comedy dove meglio si colloca il suo romanzo? Cosa è cambiato rispetto al precedente romanzo I romagnoli ammazzano al mercoledì?

Più piccolo è il paese, più grandi sono i peccati si avvicina al noir, mentre I romagnoli ammazzano al mercoledì vira più sulla black comedy.I due libri sono strettamente legati tra loro dalla stessa ambientazione, dalla presenza del quotidiano Romagna sera e da due personaggi che ricorrono in entrambe le vicende (Ermes e il suo cane Arrigosacchi, eccolo che ritorna), ma lo spirito di fondo è sensibilmente diverso: I romagnoli vuole essere più divertente e leggero; Più piccolo è il paese propone temi, atmosfere ed episodi più cupi e inquietanti, senza però rinunciare a quella dose di ironia che trasforma il macabro in grottesco.

 

9. Come è andata al Salone Internazionale del libro?

Per chi ama leggere e scrivere, partecipare a eventi come il Salone di Torino è sempre una festa. Prima di tutto perché si incontrano persone con le quali si condividono gli stessi interessi. E poi perché è l’occasione per conoscere dal vivo blogger, critici, librai e addetti ai lavori con cui in precedenza si era in contatto solo sui social network. Grazie ad Andrea Malabaila e Carlotta Borasio di Las Vegas edizioni, che hanno creduto nel libro, ho avuto inoltre la possibilità di presentare in anteprima Più piccolo è il paese, più grandi sono i peccati presso lo spazio Incubatore. Monica Coppola mi ha affiancato durante la serata, mentre gli attori Palma Della Rocca e Pier Mario Prandi hanno dato voce ai personaggi del romanzo. Per finire, cosa che non guasta, durante i giorni del Salone il libro è stato molto richiesto. Diversi lettori che avevano già acquistato I romagnoli ammazzano al mercoledì sono tornati allo stand Las Vegas per procurarsi anche l’ultimo nato.

10. Chi sono questi 25 affezionati lettori?

Sono i venticinque lettori di manzoniana memoria, a cui il buon Alessandro si rivolgeva ironicamente nelle pagine dei Promessi sposi. Vorrà concedermela anche a me una citazione, no?

Augias e i boccoli di Fortuna

Fortuna era una bambina di sei anni. E’ morta il 24 giugno di due anni fa, caduta o spinta dall’8° piano del palazzo in cui viveva, a Caivano (NA). Una bambina in un ambiente degradato, abbandonato a sé di cui ci si ricorda mestamente in circostanze come questa. Ancora prima del tragico vagito, ha subìto delle violenze ripetute e che sarebbero premeditate con indicibile macchinazione. Secondo gli inquirenti, il presunto pedofilo, Raimondo Caputo, avrebbe pure avuto l’appoggio della madre e della compagna, anche lei arrestata. Bastava questo.

Tuttavia, durante la trasmissione “Di Martedì” (La7) dello scorso 3 maggio, il giornalista Corrado Augias intervistato dal conduttore Giovanni Floris sul tragico fatto, ha detto la sua, elargendo la sindrome di una sorta di ateismo delle parole, lanciate senza molta assennatezza (con elucubrazioni da intellettualoide), senza risparmiarsi dal fornire una propria personale parentesi, di cui avremmo volentieri fatto a meno, sull’atteggiamento, il trucco e l’acconciatura boccolosa della vittima ritratta in una fotografia. Secondo Augias nello scatto Fortuna “con quei boccoli”, quei vestiti e una postura da 16enne, sollecita “uno stridore” che il giornalista riconducerebbe alla mancanza della madre di un punto di riferimento culturale, di conseguenza di una mancanza di stabilità spirituale per la bambina. Lo stridore andrebbe collegato con la fede cristiana incarnata dalla statuetta di Padre Pio apparso in un intervento della mamma di Fortuna. Augias nelle dichiarazioni ad Huffpost delle ultime ore ha chiarito anche la sua avvisaglia di una perdita del senso del sacro radicata nel contesto famiglia-condominio. In poche parole, una madre che veste e tratta la figlia come una adolescente (oggettivamente non deducibile dalla foto), ha perso l’orientamento, non avrebbe educato la figlia a preservare la purezza dell’infanzia. Ma Augias, in che mondo vive? Non ha mai visto una bambina adornata perché imita la mamma, le amiche o la zia? E che colpa avrebbe, quella di avere indossato un leggero lucidalabbra o un pantaloncino troppo corto? E’ pur vero che oggi il consumismo coglie le sue prede nei minori. Allora, in quel caso si dovrebbe attribuire la colpa della sessualizzazione delle bambine nella martellante campagna pubblicitaria delle grandi case di moda che propongono piccole indossatrici a 6/7 anni. L’età di Fortuna. Ma un adulto non dovrebbe avere capacità di discernimento, maturità e capire che anche acconciata da ragazza adolescente, è sempre una bambina? E’ un po’ come dire che le donne vengono violentate perché provocano con i loro abiti succinti. E i bambini poi? Ci sono anche dei bambini maschi vittime degli adulti, e dalle foto mostrate in TV non sembra affatto che si atteggiassero a machi. Probabilmente Augias non è bene informato.

Fortuna Loffredo: una bambina non una ragazzina

Non si può giustificare nessun abuso sulle bambine e sui bambini, che nasca in un ambiente degradato o meno. La violenza contro i minori è un crimine contro l’umanità, ricamarci sopra riflessioni su riflessioni estenuante e inconcludente.
Ora, di certo Augias non intendeva immolare la foto al presunto pedofilo come prova di una civetteria colpevole della bimba, o santificare l’orco, al contrario. Solo che a volte non serve sviscerare, analizzare, su questioni che sono un’ignominia di per sé. A volte sarebbe preferibile mettere un punto, almeno di sospensione, tra la presunzione di decenza e l’accettabilità di una congettura “sociologica”, antropologica , eccetera eccetera. E anche se fosse, anche Fortuna si atteggiava a ragazza di 16 anni (come tutte le coetanee), cosa vuol dire? Avremmo dovuto presagire perché era troppo bella e “agghindata”? Sarebbe come dire che un colpevole si riconosce dall’esteriorità dei suoi comportamenti. Allora i bambini, e non solo le bambine, dovrebbero essere protette ogni giorno: nei parchi, nei quartieri in e out, e nelle case. I pedofili non portano tunica o blasone di riconoscimento, per echeggiare “l’abito non fa il monaco” così come le vittime. Agghindate o meno, sono vittime innocenti. Anche di una società che non si ricorda che all’adulto per proteggere i bambini non occorrono filosofeggiamenti astratti sulla loro natura di essere fragile, ma riconoscere i propri errori. La società degli adulti si sta dimenticando di nuovo, (non a caso sono stati proprio i bambini a buttare giù il muro di omertà e del silenzio degli adulti, raccontando la verità), che un bimbo non va usato (e l’elenco di questi abusi anche morali è lungo, la pedofilia è la punta triste dell’iceberg), ma rispettato nel suo evolversi creatura autonoma e libera. E non basta la famiglia. E’ la società che deve crescere, recuperando valori sacri come l’infanzia; per citare Dietrich Bonhoeffer: <<Il senso morale di una società si misura su ciò che fa per i suoi bambini>>. Ma questa società di senso morale e di protezione verso i bambini ne ha perso le tracce, si è disintegrata. E ci si mettono anche gli pseudo intellettuali con i loro modi e tempi sbagliati.

 

Omicidio Varani, quando si sceglie il male

Roma è scossa per l’omicidio Varani. Brutali e vacui, gli usurpatori, assassini di un ragazzo fragile, di nome Luca Varani. La parola assassini non basta, ed è difficile trovarne un’altra che renda l’idea di quanto sangue, quanto dolore trasuda e si cosparge sugli osservatori immobili di un becero teatro degli orrori. Quello architettato anche con cura da giovani che, in una notte da sbadigli troppo grossi per ricchi, hanno deciso che si può uccidere tanto perché la coca ce l’ha detto, o chissà quale voce ci dice che si può fare. Luca Varani, 23 anni, già non c’è più. Restano solo poche fotografie, qualche video, e il messaggio perlato di lacrime della fidanzata distrutta dal dolore. Il ragazzo è stato ucciso dai coetanei Marco Prato, l’amico infame, e il conoscente trascinatore: Manuel Foffo. L’omicidio, di impronunciabile crudeltà, è innanzitutto senza movente. E resta un esempio di abominio di cui, inarrestabile, è capace la natura dell’individuo, sollecitato a stare in bilico tra umano e inumano. Se si volge lo sguardo al passato, si potrà constatare che casi come questi, di omicidi sanguinosi, vili in cui si impone la regola del dominio del killer sul più debole, di grado inferiore per età, genere, condizioni economiche o gusti sessuali, sono frequenti, anche se in numero ridotto. Diverso paese, situazione analoga.

Omicidio Varani: uccidere per vedere cosa si prova

Nel 2009 Alyssa Bustamante, 15 anni, strangola Elisabeth Olten una ragazzina più giovane (9 anni) per poi dichiarare, a distanza di due anni dal tragico fatto, che all’epoca la piena consapevolezza nel commettere un gesto irreparabile nato con intenzionalità. L’unica motivazione che l’aveva spinta a strangolare la piccola vittima era il desiderio incontrollabile di mettere alla prova le proprie emozioni. In parola povere, per “vedere cosa si prova ad uccidere”, come fosse un giro sulle montagne russe. Perché non provare? Lo stesso afferma oggi Marco, uno dei due colpevoli dell’omicidio di Luca. Il giovane ignaro delle intenzioni dei compagni, sale dai due che lo aspettano, avidi, bramosi, con gli occhi grandi e vitrei, automi, tossicodipendenti. Venerano il nulla, l’infimo, l’accecata spinta di braccia deficienti. Cosa è rimasto nel petto di questi colpevoli? C’è ancora qualche residuo di sentimento? Non per gli altri, quello l’ha preso la droga, o la vanità del posso tutto a vent’anni. Dov’è andato a finire l’amor proprio? La pietà per un coetaneo non è uguale alla tenerezza per la propria stessa, preziosa esistenza? Si è persa anche quella, tra un festino e una caccia alla preda, non interessa se tra uomini, etero o gay, non ha importanza. Luca varani 23 anni, preso di mira, forse era debole e pieno di sbagli, il più fragile tra i suoi coetanei, una vita che pulsava. E’ stato attirato con inganno nella casa di Foffo, poi torturato, seviziato con martellate e colpito al cuore con un coltello da cucina. Stando alle ultime indiscrezioni e dichiarazioni, Luca non assumeva stupefacenti. Non importa, che fosse etero o meno, che si prostituisse per racimolare due soldi in più, che avesse scelto una strada sbagliata, ma la dignità, chi potrà restituirgliela? Quanto male c’era nelle mani assuefatte dei due assassini? Si può essere incapaci di intendere e volere, intendere che un male atroce come questo non conosce neppure un pizzico di innocenza, né sgravi o giustificazioni? Bisogna sempre passare il limite, per riconoscerlo? Se non si rinviene una ragione, una logica all’omicidio alla trasgressione della vita contro la vita, si può parlare di Male puro, scelto deliberatamente, dato che i due assassini cercavano da giorni un bersaglio umano da seviziare sotto l’effetto disinibitorio della cocaina e dell’alcol, che non possono e non devono costituire delle attenuanti. Purtroppo anche l’opinione pubblica tende ad usare la pschiatria come un tappabuchi, dimenticandosi che esiste la malvagità e che il mondo non si divide in buoni, timorati di Dio e in folli, incapaci di intendere e di volere. Ma dove nasce questo male?

Omicidio Varani, esiste davvero il gene del male?

La scienza, anche se non all’unanimità, dice che sì, il male è presente nei geni. O meglio, si parlerebbe dell’esistenza di un cromosoma del male che provoca reazioni o azioni esasperate, violente, ingestibili? Questo dato allarmante è figlio di un’indagine condotta sui soggetti responsabili d numerose e reiterate azioni criminali a danno di cose o persone. Molti autori di delitti di straordinaria violenta detengono il cromosoma soprannumerario (tra i più celebri ci sarebbe Adolf Hitler) ovvero il risultato cromosomico di XYY. Questi soggetti sono di solito di un’intelligenza limitata, al di sotto della media, fisicamente longilinei ma robusti e con una marcata tendenza a compiere atti aggressivi quando non mortali. Spesso però questo dato non è stato confortante, nel senso che ha spinto ad avvalorare la non imputabilità dei soggetti in questione, non condannati a pene severe perché affetti da psicosi e disturbi mentali. Per fare un esempio, essi avendo una bassa soglia di resistenza a stress o situazioni di dolore o malattia, manifesteranno l’insofferenza scagliandosi su oggetti e cose intorno a loro, ma non sulle persone. Per questo motivo non si può parlare con certezza del legame ereditario con le azioni di un criminale seriale o recidivo, ma non si può escludere questa equivalenza tra genetica e comportamento. Nel 1931 si analizzava già il cervello del Vampiro di Dusseldorf, i risultati poi non resi noti. Invece nel New Messico Kent Kiehl, neuroscienziato, ha effettuato analisi dei cervelli di quei detenuti ritenuti psicopatici in ben otto prigioni. La ricerca condotta da Kiehl avrebbe dimostrato che i killer più violenti hanno un grado piuttosto basso di densità nel paralimbico, ovvero la “zona” che regola e sviluppa le nostre emozioni. In tali soggetti quindi non ci sarebbe un vuoto, una mancanza di sensi di colpa o emozionalità negative legate ad una correlata precedente azione criminale. Sarebbero in parole povere, privi di senso di colpa o remore, e agirebbero guidati solo dal loro istinto. Gli studi del neuroscienziato sono stati criticati da chi sostiene invece che non esiste una comune causa cerebrale che motiverebbe comportamenti di assassini o aggressori. Ma anche se fosse, si può giustificare uno psicopatico e “perdonare” una becera esecuzione, lenta e dolorosa, come quella toccata a Luca Varani? No, non è mai possibile arrivare a tanto, chiamandola follia. Può darsi che ci sia una deficienza di morale, mentale e spirituale che sfugge alla comprensione dei più. La mancanza dei due ragazzi, è probabile che stia in una condotta assunta come valida e unica, materialistica e asociale che schiavizza. Questa fustiga  l’uomo e lo riduce a servo della sostanza, dell’oggetto dei desideri – si può morire per la coca, ma non si muore per un amico, al contrario – che diventa così, il padrone di ogni arbitrio, responsabile di ogni mancanza di ideale, obiettivo, scopo che non sia quello dello sballo.

Si può arrivare a tanto? Spingersi fino al punto di dimenticare che la vita non è una privilegio, ma la possibilità di partecipare ad un capolavoro esclusivo, con un potere dell’uomo di essere altrettanto determinante per l’umanità? Il poter di costruire si è mestamente capovolto nel suo male estremo: se ho un potere di fare del bene, perché non si può agire in modo che il male sia opera mia, e godere di questo?  Le parole non servono, e sono troppo poche per esprimere lo choc dei media e dei lettori dinnanzi ad una nuova forma di violata innocenza, di mancanza assoluta e indiscriminata di raziocinio, oltre che di moralità. Cosa  può spingere un ventenne, sì sotto effetto di stupefacenti, a togliere brutalmente la vita ad un coetaneo? Per cercare una risposta ci richiamiamo a tre occhi: filosofia, teologia e letteratura. Albert Camus parla dell’omicidio nei suoi scritti saggistici: in particolare dell’omicidio nichilista. Il nichilismo assoluto infatti, come di deduce dall’etimologia del primo termine, legittima che un uomo tolga la vita ad un altro uomo perché in esso si va a confondere l’azione creatrice con quella delle creature viventi. Per farla breve, il pensiero nichilista non profonde nessuna speranza nel prossimo, e perciò se non esiste speranza viene a mancare ogni limite da essa. L’umano è accecato, o non vede o scorge troppo, straborda la propria percepibile indignazione, non riesce a cogliere al contrario la ragione. Ne consegue, perciò, che uccidere un altro simile, il quale dalla nascita è di per sé creatura mortale, destinata a morire,  sia un fatto inconsistente, indifferente. La mancanza totale di coinvolgimento all’atto di togliere, tagliare in due, spezzare la vita di un altro essere umano e attribuire al proprio io quell’iniziativa di dare la morte, chiarisce come l’uomo contemporaneo sia cambiato. Gli antichi, difatti, riconoscevano almeno che “il sangue dell’omicidio provocava almeno un orrore sacro: santificava così il prezzo della vita”, (Rivolta e Omicidio, Opere, Albert Camus). Se un uomo, valoroso o meno, si arrischiava a uccidere un altro, quell’azione assumeva un valore riferito alla causa, al motivo scatenante, che fosse un amore, un torto subito o una vendetta, non importa. Ma l’omicidio aveva un germe, e per questo sacrilego. Sempre in Camus, si riflette sull’idea dell’omicidio in Sade: secondo questi poiché Dio è una divinità criminale che sopprime l’uomo , questo è riscontrabile proprio nelle religioni, foriere di spargimenti di sangue e persecuzioni. Allora, in un scontato sillogismo, se Dio uccide l’uomo e può farlo, perché non può l’uomo uccidere se stesso e i suoi simili? Questi spunti sono fondamentali per avviare una riflessione, ardua ma doverosa, sul caso di Luca. L’assassino contemporaneo, che sgozza, strangola, infierisce sulla vittima e stupra, flagella, dispensa prodigali colpi sul corpo inerme e non si fa schifo di se stessa, la mano di questo assassino rinvia al Satana di Vigny (bello a guardarsi), a quelle parole caustiche, precise, come lame: lì scompare la distinzione tra bene e male, non la si riconosce proprio: “non può sentire male né beneficio. E’ persino senza gioia davanti alle sventure che ha create”. Chiamarla sventura sarebbe un generoso eufemismo, ma è chiaro che nell’azione dei due colpevoli c’è il male, che non è oscuro, si faccia attenzione ma ha una luce che acceca, luciferina forse, si capisce. Dietro al fatto che l’avvocato sottolinea che i due “erano incapaci di intendere e di volere” sta la nuova mercanzia della cattiveria.

Una vita, per centoventi euro. Ma qui il prezzo dello scambio è molto più alto: una morte (quella di Luca, fisica) per una morte ( quella dei colpevoli, interiore). Chi agisce per vacuità, perché l’orrendo, l’infimo, il male non ha strade dritte ma provoca piacere, fa sentire vivi uccidere , recidere quel filo, avvampa il petto si gonfia ma la droga non può essere l’unica scusante. Anche nel Medioevo, nell’iconografia, all’immagine di Lucifero bestia cornuta si sovrappone in definitiva quella di Vigny, il diavolo con il viso giovane ma triste e colmo di avvenenza, cita Camus sempre nell’Uomo in rivolta.  Si potrebbe ipotizzare che il dandy si stia riproducendo nella nuova generazione: autoreferenziale quando non atona, meschina ed egotista, accerchiata dal materialismo, non vede più l’essenza, così tra bene e male non sa perché dovrebbe scegliere il primo. Manca perciò la coscienza di cosa fare e cosa non fare, tutto è relativo, nulla inviolabile. Anche la vita è la libertà di una vita al respiro è discutibile, attaccabile e la si può incrinare.  Gli assassini di Luca sono come dei dandy, ma senza fascino. Il dandy si specchia nell’altro, e nell’altro trasferisce la sua euforia disforia. Così, uccidere e seviziare un coetaneo, potrebbe voler dire che non si ha a cuore nemmeno il proprio io, l’integrità, la volontà di opporsi all’oscuro. A vent’anni si può essere belli, forti e tutta la vita davanti. Per questo ha un senso atroce ma potentissimo: sciuparla, stritolarla e affondare con quella dell’altro, la propria; come scriveva Baudelaire: “ Vivere e morire davanti ad uno specchio”. Ma come mai un giovane vuol uccidere e vuol morire, assieme all’altro? Istigarsi alla morte, vivendo per ultimi lo stesso dramma. Ed è quello che poi è successo ad uno dei due colpevoli, che ha tentato il suicidio con i barbiturici, tratto in salvo per il rotto della cuffia. Perché oggi quel esasperato senso di possesso non fa che dare a chi è nel pieno della sua forza psicofisica una gamma di opzioni quasi infinita. La gabbia è sparita, il pettirosso non si sente imprigionato e né vola.

Il male, come il bene, è insito nella natura umana, qualcuno probabilmente darà la colpa ad Adamo ed Eva, al peccato originale; ma troppa libertà ci ha resi meno liberi, poco autodeterminati e di certo maliziosi. Se se puoi pretendere dall’esterno qualsiasi cosa tu voglia. Voglio bere-bevo, voglio farmi-mi faccio, voglio infrangere le regole della decenza, del buon senso, lo farò solo per il gusto di averlo fatto. Aboliti i tabù, inabissate la rara compiutezza della classica trasgressione da fuga d’amore, nulla eccita una mente isolata e asservita ai beni (che bene non procurano) senza i quali la sua individualità non trova posto, o senso nelle sue azioni. che non sa riconoscersi più, non sa cos’è la virtù. Nulla eccita più del fuoco fatuo della malizia. E’un falò che distrugge, senza fertilità la terra dove abiteranno le nuove generazioni è arida. Solitudine e vuoto, questa è la più profonda condanna di due colpevoli privi di rimorso. L’anima non l’avranno indietro, e forse è meglio così La letteratura, anche quando insignita del suggello filosofico, non può darci una certezza. E Raymond Carver direbbe: “dannato”, senza altri appellativi. E adesso, davanti agli inquirenti, i colpevoli si rimpiccioliscono pure davanti al mea culpa, gettandosi fango a vicenda, appallottolandoselo addosso, bevilo tutto sto fango. Chi dice che è stato l’altro a colpire mortalmente Luca e in questa corsa al io sono innocente, non resta che l’oscuro presagio di morte. La coppia prima ha premeditato il fattaccio, poi lo ha organizzato e infine si sta pulendo le mani nella latrina. Puzza di oscuro, e fa male dirsi umani se si può arrivare a produrre tanta melma immonda. Ma loro a cosa pensano: a coprire l’inganno, con l’inganno. E non c’è peggio del male coperto.

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