‘’L’umana fragilità’’, l’analisi storico-artistica della morte nel saggio di Francesca Callipari

La morte nella sua accezione dovuta al pensiero comune è sempre stata interpretata come la fine di tutto; eppure, nella visione del mondo moderno, il tema della morte in sé sembra sempre più spesso relegarsi a spazi circoscritti: ospedali, case di cura, luoghi di sofferenza. Il  libro di Francesca Callipari, L’umana fragilità, concilia attraverso l’arte il rapporto fra uomo e morte: l’analisi artistica e socio-antropologica degli uomini con il trapasso approfondisce, oltre l’aspetto artistico legato alle grandi opere della Storia dell’Arte, anche un assetto filosofico spesso arginato per timore. Morire fa paura, così come intimorisce la perdita di qualcuno di caro; l’ignoto, il non avere risposte su cosa ci sarà dopo è,  probabilmente, la linfa che alimenta questi timori reconditi.

Ma come la stessa autrice sottolinea nel libro  riguardo al sonno eterno:

 ‘’È  la più autentica protagonista del vivere, accomunando nella stessa identica sorte ogni essere umano’’.

Se la storia di ogni uomo è diversa quello che è certo è che il finale sarà il medesimo,  per tutti. L’autrice, attraverso l’analisi storico artistica, presenta al lettore un’esperienza di riflessione che, a tratti, si potrebbe definire trascendentale: la vera felicità è da ricercarsi non sulla terra ma in un’altra dimensione, in quanto gli uomini vivono sulla terra ma non le appartengono. Un promemoria antico, che già appare nel Vangelo di Giovanni (Gv 17) come la stessa Callipari non manca di ricordare:

 “Viviamo nel mondo, ma non siamo del mondo’’.

La caducità dell’esistenza è argomento di disquisizione e riflessione già dall’antica Grecia, basti pensare al poeta elegiaco Mimnermo.  I temi dei suoi scritti si ispirano alla giovinezza e,  in particolar modo,  alla paura della vecchiaia e della fine come conseguenza. Il componimento ‘’Come foglie’’  ne è una conferma: le foglie diventano analogia dell’esistenza umana che  ben attesta l’arcaico e atavico timore che ogni uomo, fin dalla notte dei tempi,  custodisce nei meandri delle proprie angosce:

‘’[…]Ma le nere dèe ci stanno a fianco,

l’una con il segno della grave vecchiaia

e l’altra della morte. Fulmineo

precipita il frutto di giovinezza,

come la luce d’un giorno sulla terra.

E quando il suo tempo è dileguato

è meglio la morte che la vita’’.

 

 L’eterna lotta fra l’uomo e il suo destino imprescindibile

L’autrice Francesca Callipari, storico e critico d’arte, si sofferma proprio sull’arcaica lotta dell’uomo contro il suo destino mortale e inevitabile. La mitologia greca, in questo senso, dona diversi spunti sulle innumerevoli strategie ricercate da eroi e uomini  nell’intento di escogitare piani e tattiche  per sfuggire alla ‘’Nera Signora’’: la ninfa nereide Teti che immerge Achille nel fiume Stige per renderlo immortale, inutilmente come poi si appurerà, è simbolo della continua lotta umana per sfuggire al destino ineluttabile che investe ogni uomo; oltre che emblema chiarissimo dell’imprescindibilità di un fato che accomuna ogni essere umano. E proprio partendo da questo assunto che l’autrice dà al lettore una nuova visione, stoica ma realista: si è di passaggio, il tempo è probabilmente poco quindi tanto vale adornarlo di bellezza senza sprecarlo.

Francesca Callipari si sofferma su due periodi storici molto importanti: il Seicento e il Settecento e proprio partendo dal fato mortale, finale della storia di ognuno,  pone una riflessione sulla vita esortando a viverla pienamente, contraddizioni comprese. Le opere analizzate dall’autrice risalgono, maggiormente, al  XVII e al XVIII secolo, non perché la tematica della morte abbia un’etichetta storica fissa, semplicemente perché è proprio in questo periodo che il senso di angoscia legato alla dipartita prevale sull’arte.

Il viaggio, che connette l’angoscia esistenziale legata all’aspetto lugubre e comunemente diffuso della morte, si sofferma su dipinti, monumenti funebri, ma anche sculture che ben confermano dubbi, timori, sensazioni di precarietà esistenziale condivise in ogni tempo. Ma non solo: L’umana fragilità non è un semplice libro descrittivo ma la peculiarità del testo si riscontra soprattutto nel tentativo, ben riuscito, dell’autrice di spiegare con estrema maestria l’interesse per il macabro, i messaggi dietro le composizioni e i motivi del perché un qualcosa che fa tanto paura sia comunque argomento preponderante di cui si cercano informazioni, indipendentemente dal periodo storico. I primi due capitoli sono dedicati alla concezione della morte partendo dalla storia antica: il ruolo del trapasso  nell’antica Roma e la scissione fra morte del corpo e dell’anima fino a giungere  all’ossessione della società del Seicento che costruisce e basa la vita in virtù della fine.

‘’Verosimilmente, potremmo affermare che proprio a partire dalla seconda metà del XVII secolo si pongano, in qualche modo, le basi del pensiero moderno sulla morte. Il mutamento socio – culturale sarà ancor più evidente nel XVIII secolo, periodo caratterizzato dall’esplorazione dell’uomo per il proprio “io” e dal concetto della “morte dell’altro”.

In seguito, il culto dei morti e dei cimiteri come luogo di riposo e di tacita custodia della dipartita si andrà ad accentuare proprio nel Settecento.

 

La morte attraverso l’arte, il Seicento e il Settecento: monumenti funebri e dipinti

Nei successivi capitoli l’autrice trasporta il lettore in un viaggio fra l’onirico, l’arte e la realtà dove tempo e memento mori si incontrano in modo tangibile, raffigurati in tutta la loro concretezza in monumenti funebri, incisioni ma, anche, dipinti. Il macabro si interseca alla ‘’poetica dello stupore tipica del Barocco’’ come  l’autrice delinea, così come i tipici oggetti che ricordano il momento de trapasso ( il teschio alato, simbolo artistico per eccellenza di questo periodo) si inseriscono anche  orologi, libri, candele  che evocano sia il continuo scorrere del tempo, sia al dominio della morte sulla vita terrena.

Le tombe diventano monumenti  funebri evocativi con effigi ed epitaffi, che lodano e inneggiano le gesta del defunto. Ma ricordando la celebre Livella di Totò, il Principe Antonio De Curtis, anche nella casa dell’eterno riposo esistono divisioni di classe: la gente abbiente dalle sontuose  tombe  e le classi povere della società.

Nel Seicento, per supplire alla problematica, coloro  i quali appartenevano alle classi sociali più elevate abbandonano i cimiteri per costruire cappelle e lasciare spazio a chi è sprovvisto di loculo. Solo nel Settecento si giunge a un nuovo cambiamento che vedrà la costruzione di  tombe ricche nuovamente all’interno dei cimiteri, soprattutto da parte di una classe sociale media che non si accontenta più di rimanere nell’ombra. L’autrice prosegue nella descrizione tecnica e artistica della tipologia di tombe e monumenti funebri, così come della loro locazione.  Nelle pittura, invece, così come nelle incisioni la morte diventa provocatoria, eroica e anche erotica.

Si prosegue con l’analisi di dipinti importanti dove arte e morte collidono mescolandosi in un tripudio scenografico di cui è impossibile non percepirne la potenza; è il caso di J. Louis David: Andromaca veglia Ettore, A. Gentileschi: Giuditta e Oloferne, G. Cagnacci: La morte di Cleopatra, proseguendo con le analisi di incisioni famose la scultura e i monumenti funebri del Bernini: Monumento funebre a Urbano VIII o J. B. Pigalle: La tomba del Conte D’Harcourt, per citarne alcune.

Nel viaggio filosofico e artistico in cui l’autrice trasporta il lettore c’è spazio non solo per approfondire la conoscenza delle bellezze artistiche sotto la guida di un’esperta, ma soprattutto di riflettere su una condizione che la natura umana allontana dai pensieri, automaticamente, per natura. Ed è proprio oggi, in un periodo storico post-pandemico, in cui si è stati bombardati – mediaticamente e  non – da continue notizie sulla morte che, attraverso l’arte, si può riflettere su una tematica così discussa ma poco concepita, attraverso un modus operandi distaccato che scandaglia le pieghe interiori del lettore ‘’costringendo’’, quasi, chi si approccia al testo a fermarsi e pensare come l’arte possa essere un strumento mitigatore e, a tratti, magico la cui potenza consiste fin dalla notte dei tempi a elevare spiritualmente l’essere umano anche al di sopra dei propri timori.

 

Per maggiori info sui progetti della Dott.ssa Callipari: www.iloveitalynewsarteecultura.it

 

Lovecraft, lo scrittore disperato e razzista che annienta il pensiero progressista

Nel corso degli ultimi tempi è riemerso il ciclico, soporifero dibattito sul razzismo di H.P. Lovecraft: con l’uscita di Lovecraft Country e dopo le accuse – francamente incomprensibili – rivolte a George Martin, tante anime belle hanno avuto il piacere di indignarsi nell’apprendere che lo scrittore del New England aveva chiamato il suo gatto “negro”.

Al netto della noia che i farfugliamenti liberal necessariamente suscitano, rimane un’osservazione da fare: se, guardando nella misera, ectoplasmica esistenza di Lovecraft la cosa peggiore ci sembra il razzismo, allora non abbiamo guardato bene. Perché c’è un legame angosciante fra la vita vissuta, la visione del mondo e le opere, una sinergia dolorosa da cui emerge una figura umana inquietante ed emblematica.

Lovecraft è un uomo triste, malato, oppresso dall’ossessiva presenza della madre e spaventato da tutti gli altri. Lovecraft è un ateo materialista che ammette tutte le implicazioni esistenziali di una posizione filosofica così pesante. Lovecraft è soprattutto un mitografo, come Tolkien e diametralmente opposto a Tolkien. Il professore di Oxford compone la mitologia di un mondo cristiano, eroico, un lungo medioevo che all’uscita de Il Signore degli Anelli era già in agonia, oggi è addirittura impensabile; il solitario di Providence, invece, scrive i miti per il mondo che verrà, oltre le ingenuità del positivismo, nutrito dai massacri meccanizzati della Prima guerra mondiale: il mondo in cui ci troviamo a vivere.

La potenza dei miti risiede nella loro verità, che è eterna e prescinde dai fatti: “queste cose non avvennero mai, ma sono per sempre”, con le parole di un altro mitografo, Saturnino Secondo Salustio. Dunque, la mitologia di Lovecraft è un cifrario perfetto per leggere il presente. Il saggio che Houellebecq dedica a Lovecraft ha un titolo icastico: Contro il mondo, contro la vita. L’horror di Lovecraft è l’orrore che si prova per la disgrazia di esistere, per l’umanità, per tutte le cose, filtrato attraverso il lessico del mito. Il suo – innegabile – razzismo è solo una manifestazione del disgusto per l’altro, tanto più ripugnante quanto più lontano dal microcosmo di Providence, a partire dagli immigrati di Chinatown fino agli Dei Esterni dall’altra parte della galassia:

“Pochi esseri sono stati posseduti, penetrati così a fondo, dalla convinzione dell’assoluta futilità delle aspirazioni umane. […] La razza umana scomparirà. […] I cieli saranno freddi e vuoti, attraversati dalla flebile luce di stelle quasi spente. […] Bene, male, moralità, sentimenti? Solo fandonie vittoriane. Tutto ciò che esiste è egotismo”.

Per la teologia manichea dei buoni, un razzista è un razzista e basta. Per chi invece pensa, il razzismo di Lovecraft appare lontanissimo da quello, delirante e mistico, di Alfred Rosenberg, l’ideologo di Hitler che ha scritto Il Mito del XX secolo. A Providence non resta, infine, niente da salvare, nessuna gloriosa palingenesi ariana che libererà il mondo dalle razze inferiori: ci sono solo gradazioni di orrore.

La mitologia di Lovecraft è meno pericolosa di quella nazista, ma anche più disperante. Il pensiero di Lovecraft è, infine, soltanto disperazione. Ed è il nostro pensiero, anche se non lo sappiamo. Azathoth, il caos nucleare, è l’immotivata esplosione del Big Bang; Shub-Niggurath, il capro nero dai mille cuccioli, è l’istinto di procreazione che spinge gli esseri viventi a “moltiplicarsi per morire innumerevoli”; Cthulhu è la gelida lontananza dello spazio, Yog-Sothoth l’inaccessibile assurdità del tempo. Sono tutte incarnazioni del nostro scientismo ateo, che domina il dibattito culturale, che insegniamo ai bambini, che spacciamo per progresso.

Se in Cristo si incarna la millenaria storia ebraica, allora i mostri di Lovecraft scrivono coi loro tentacoli la Bibbia della civiltà occidentale contemporanea. Il fatto è che Lovecraft potrebbe avere ragione. È persino probabile che abbia ragione: vivere non ha senso, non c’è niente dopo la morte, siamo soltanto elettricità che corre cieca nel labirinto dei neuroni. L’orrore lovecraftiano sta tutto qui, in ciò che è vero e al tempo stesso inaccettabile. I personaggi di Lovecraft, spesso professori e accademici, scoprono che l’uomo non conta nulla di fronte a potenze primordiali e invincibili, che la ragione non può rendere conto di una realtà senza logica, che l’intero universo è “invenzione di un non-dio la cui malvagità supera l’immaginazione”, come scrive Agota Kristof. La conseguenza è la follia, o il silenzio.

Se si pensa come Lovecraft, allora non si può che vivere come Lovecraft. Diventa, quindi, imbarazzante il contrasto fra lo scrittore eremita e le nostre rockstar dell’ateismo – gente come Dawkins, Pinker, Odifreddi. Diventa nauseante questa melassa di illuminismo scaduto e superomismo capito male che passa per pensiero, offensiva la serenità che “colpisce il dolore accumulato e privo di parole”. Se noi cresciamo con la favola che Dio non serve più perché possiamo essere felici anche senza, Lovecraft muove il suo attacco alla religione dalla parte opposta:

“Vedo che nella vostra filosofia la verità ha un posto minuscolo […]. Nella vostra mente, l’uomo è al centro di tutto, […] l’unico problema dell’universo”.

 

Lovecraft, lo scrittore triste e razzista che annienta il pensiero progressista – Pangea

Mito: fascino e magia senza tempo

Nonostante la familiarità che tutti abbiamo con i racconti della mitologia, il mito rimane un oggetto misterioso che ogni cultura sembra forgiare secondo criteri propri e che non smette di affascinare; perché il mito è un qualcosa che accade ogni giorno.

Mito: origini

L’idea di una sfera mitologica come universo organico di racconti che precederebbe il nascere del logos e della filosofia è tuttavia estranea ai greci. L’opposizione tra mito e logos si svolge in modo lento e tortuoso: la Grecia rimane una terra di frontiera, dove il “favoloso” sopravvive accanto alla ragione “scientifica”.

Nel progetto politico di Platone, l’identità del mito e della parola parlata acquista un’evidenza estrema che investe la vita della città. Il parlato deve essere al servizio degli ideali della città.

Perché continuiamo ad essere affascinato dal mito, dal “c’era una volta”, tanto che spesso lo facciamo entrare nel nostro quotidiano?

Tra linguaggio e memoria

Se la prima mitologia è considerata da molto l’effetto di una malattia parassitaria del linguaggio, le cui tracce sono ancora riconoscibili sulla superficie scritta delle società più razionali, la mitologia in senso moderno è quindi un’invenzione della scrittura: nasce quando il segno scritto immobilizza il flusso della parola viva che si ripete in una infinità di varianti.

Per salvare una certa idea di mitologia, come sostiene Marcel Detienne, si evoca fin troppo spesso, l’inventività della memoria e dell’oblio, vissuti in perfetta unione con la naturalezza di Filemone e Bauci, favola contenuta nelle Metamorfosi di Ovidio, in cui si racconta della virtù dell’ospitalità che viene ricompensata.

Il mito nella modernità

Solo oggi è diventata viva e presente in modo quasi veemente la lotta della memoria e dell’oblio, da quando si sono moltiplicate le società, dove gli storici non sono diventati altro che dei funzionari e dei burocrati ufficiali, in cui la lotta contro il potere costringe uomini e donne ad alzarsi di notte, per ripetere, contro ogni speranza, le parole dei loro defunti privati della scrittura, o i versi fuggitivi e indimenticabili dei poeti messi al bando e assassinati?

Ma c’è paradiso per la memoria e per l’oblio? O forse non vi è altro che il lavoro dell’una e dell’altra  e i modi di lavoro che hanno una storia. Una storia ancora da iniziare. Ma nulla è più familiare del mitologia, perché come sosteneva Levi-Strauss, “un mito è riconosciuto come tale da ogni lettore, in ogni parte del mondo”.

Cos’è che ci affascina maggiormente della mitologia in un mondo senza miti, dove nello spazio di due o tre generazioni, tutto ciò che viene detto è soggetto a cambiamenti continui e inevitabili, qualunque siano l’autorità e il numero “dei ministri della memoria”?

Forse proprio questo flusso di parole, storie e racconti a cui ognuno di noi può togliere o aggiungere qualcosa, magari di più gradevole, come diceva Fontanelle, ma non con lo scopo di colorare qualcosa di già “falso”.

Alle nostre orecchie, il memorabile è inconsciamente e necessariamente vero e mai ci stancheremo di ripetere e ascoltare certe storie.

La mitologia allora non sarà proprio frutto di una memoria estranea ai processi della scrittura e libera dalla tirannia del testo? Solo la memoria inventiva, sorella dell’oblio, potrebbe salvare del tutto la mitologia o sottrarla all’erranza in cui i greci l’hanno condotta, durante le nostre letture.

L’opinione di Barthes

Su questo particolare aspetto, può venirci in soccorso Roland Barthes secondo il quale la mitologia può avere solo un fondamento storico, perché il mito è una parola scelta dalla storia e non può sorgere dalla ‘natura’ delle cose”.

In sintesi Barhes vuole dirci che il mito è un sistema di comunicazione, avendo tutte le caratteristiche di un messaggio. “Il mito – afferma – non nega le cose, anzi, la sua funzione è di parlarne; semplicemente le purifica, le fa innocenti, le istituisce come natura e come eternità”.

Di una cosa si è sicuri, il mito non è un qualcosa di negativo negativo, ma, come farlo vivere in modo “eterno” in una società idolatra e non più iconoclasta come la nostra?

Sempre sulla scia di Barthes, per il quale vi è bisogno di una scienza della mitologia basata sulla semi-oclastia, probabilmente sarebbe opportuno riconoscere nelle narrazioni mito-logiche un elemento eternizzante da demitizzare, riconducendo tali favole al loro inaggirabile fondamento storico.

In fondo la nostra ragione si fonda anche su alcune finzioni. E nemmeno questo può rappresentare qualcosa di necessariamente negativo.

 

Fonte: L’invenzione della mitologia, Marcel Detienne

 

https://zeitblatt.com/mythology-timeless-fascination/?fbclid=IwAR0ReIninX_Uy-xS2aUfmBNhmRyGxDiyT5DpjnWgo0Ams8L0B_v8xKu9i5g

 

‘La canzone di Achille’ di Madeline Miller, un mito moderno

“Dimenticate la violenza e le stragi, la crudeltà e l’orrore. E seguite invece il cammino di due giovani, amici prima e poi amanti e infine anche compagni d’arme – due giovani splendidi per gioventù e bellezza, destinati a concludere la loro vita sulla pianura troiana e a rimanere uniti per sempre con le ceneri mischiate in una sola, preziosissima urna”. (M. G. Ciani)

L’epica attualmente è una disciplina trascurata dalle scuole, tanto da non esser degna di un cattedra a sé o di un monte ore considerevole, seppur necessario, per introdurre le anime giovani e aperte degli studenti ad una materia che narra il significato della vita, sempre diverso e sempre identico attraverso i secoli. Trascurata da adulti che la classificano come una semplice sfumatura di un programma più ampio e, di conseguenza, trascurata da studenti, che finiscono col pensare ad essa come ad un addizionale ed ingombrante libro da aggiungere al peso quotidiano da portare sulla schiena. Forse non hanno ancora avuto la possibilità di capire che il peso di quelle pagine dipende dal carico emotivo, culturale e storico rinchiuso nelle parole che vi sono impresse.

Tuttavia, ogni qual volta un regista, più o meno noto ai più, decide di investire su una sceneggiatura che si sviluppa liberamente attorno ai classici più antichi, ecco che vengono scomodati gli attori più celebri ed ammirati del momento, quasi la bellezza di tale opera fosse fruibile solo attraverso il riflesso di volti e corpi acclamati. Ed ecco che troviamo Brad Pitt ad impersonare Achille, Orlando Bloom, Paride. Allora l’Epica viene risvegliata e scomodata, per qualche tempo, per poi essere ricondotta nella stanza delle cose dimenticate, dove può tornare a lasciar cadere su di sé strati di polvere legati alla superficialità dei più.

L’epica, che si riduce per molti a soli due titoli, lanciati come sassi nel vuoto, ad una leggenda su un autore cieco e di dubbia esistenza, qualche epiteto, tanti piccoli aforismi e niente di più. Si perde l’amore, la tradizione, la metrica, gli esempi di vita, sacrificio ed onore.

Eppure, libri, e ricerche, e studi, e scavi archeologici sono stati condotti alla ricerca della gloriosa Troia, poesie celebri e sulla bocca di tutti fanno riferimenti agli Dei invocati in quei versi epici, opere teatrali gloriose tentarono di cogliere ed incarnare la forza di queste narrazione, ed infine Dante, il quale non può che riservare un posto nella sua Commedia a certi eroi indimenticabili. Ma ecco che ancora ricerche, poesie, spettacoli e componimenti Divini non sempre raggiungono le anime che realmente dovrebbero nutrirsi dell’Epica, una delle discipline fondamentale per la formazione non di studenti, ma di individui. Ed ora che Settembre inizia e accompagna ai banchi menti ancora assonnate, ora l’Epica dovrebbe essere svegliata e portata a vivere il suo momento. Ed una chance c’è, una possibilità per avvicinare queste menti alla gloria. Questa possibilità è rappresentata da La canzone di Achille (Sonzogno, 2013), della studiosa americana di antichità classica Madeline Miller.

La canzone di Achille è un romanzo forse ancora poco conosciuto a livello internazionale, nonostante si sia aggiudicato l’Orange Prize nel 2012, importante premio britannico. Si tratta di un romanzo assolutamente degno di nota, adatto ad un pubblico colto di professori ed esperti letterati, così come trampolino di lancio per giovani studenti, che in esso troveranno storia, guerra e amore.

La canzone di Achille è una rivisitazione originale che narra di uno dei tanti fili intrecciati che compongono la leggenda, dando voce a sospetti, non per diffamare, ma con la tenerezza di una cantilena bisbigliata e sussurrata da una madre al figlio, e mostra sotto nuova luce, ricca di forza e poesia, il lato nascosto di una storia già conosciuta, ma che appare nuova e sorprendente in ogni riga, in ogni pagina, in ogni giorno che viviamo attraverso di essa, tanto da portare il lettore a sperare con ogni forza che il finale possa cambiare e donare speranza ed amore ai gloriosi eroi che descrive. Si tratta di un romanzo dolce ed impegnato, chiaro, scorrevole ed avvincente, che ha richiesto alla sua autrice ben dieci anni di assiduo lavoro per riportare alla luce una storia vecchia sotto forma nuova, senza tradire la fedeltà della narrazione, pur donando nuove e appassionate sfumature. Tuttavia il sospetto che si tratti di un’operazione furbetta per vendere e portare avanti la sacrosanta crociata contro l’omofobia dimostrando il rapporto omosessuale tra Achille e Patroclo, è presente.

Nell’Iliade i due hanno una profonda amicizia; i commentatori dell’epoca classica hanno facilmente tradotto il rapporto esistente tra i due attraverso la chiave interpretativa della propria cultura. Ad Atene durante il V sec a.C. il rapporto è stato considerato alla luce tradizionale della pederastia pedagogica (la quale non necessariamente sfociava nell’atto sessuale). Mentre alcuni lettori contemporanei mantengono il punto di vista pederastico, altri ritengono invece sia stata semplicemente una forte amicizia virile tra due uomini di guerra.

Durante il V e IV sec a.C. la relazione tra i due eroi epici è stata ritratta sempre più come un rapporto pederastico tra eromenos ed erastes (come sostiene Eschilo nella sua trilogia dedicata ad Achille e pervenutaci frammentata), anche se questi ruoli risultano anacronistici ed invertiti, così come è invertito il rapporto d’età: Achille, il più giovane, risulta dominante avendo maggior fama di guerriero, mentre Patroclo, il più adulto, svolge ruoli domestici e di servizio. Non ci sono quindi prove certe della relazione omosessuale tra i due personaggi e probabilmente se l’autrice avesse raccontato la storia d’amore tra Paride ed Elena, il libro non avrebbe avuto lo stesso successo e considerazione.

La canzone di Achille è una piacevole scoperta, è il ritrovare un sentiero percorso nell’infanzia, accompagnati da gambe più esperte e forti, e ritrovarsi poi, anni dopo, a ripercorrerlo in solitudine, carpendo ogni sensazione dimenticata o nascosta, fino ad arrivare all’ultima curva, che apre sulla meta finale, sul visuale panoramica, con una lieve nostalgia.

Exit mobile version