Lovecraft, lo scrittore disperato e razzista che annienta il pensiero progressista

Nel corso degli ultimi tempi è riemerso il ciclico, soporifero dibattito sul razzismo di H.P. Lovecraft: con l’uscita di Lovecraft Country e dopo le accuse – francamente incomprensibili – rivolte a George Martin, tante anime belle hanno avuto il piacere di indignarsi nell’apprendere che lo scrittore del New England aveva chiamato il suo gatto “negro”.

Al netto della noia che i farfugliamenti liberal necessariamente suscitano, rimane un’osservazione da fare: se, guardando nella misera, ectoplasmica esistenza di Lovecraft la cosa peggiore ci sembra il razzismo, allora non abbiamo guardato bene. Perché c’è un legame angosciante fra la vita vissuta, la visione del mondo e le opere, una sinergia dolorosa da cui emerge una figura umana inquietante ed emblematica.

Lovecraft è un uomo triste, malato, oppresso dall’ossessiva presenza della madre e spaventato da tutti gli altri. Lovecraft è un ateo materialista che ammette tutte le implicazioni esistenziali di una posizione filosofica così pesante. Lovecraft è soprattutto un mitografo, come Tolkien e diametralmente opposto a Tolkien. Il professore di Oxford compone la mitologia di un mondo cristiano, eroico, un lungo medioevo che all’uscita de Il Signore degli Anelli era già in agonia, oggi è addirittura impensabile; il solitario di Providence, invece, scrive i miti per il mondo che verrà, oltre le ingenuità del positivismo, nutrito dai massacri meccanizzati della Prima guerra mondiale: il mondo in cui ci troviamo a vivere.

La potenza dei miti risiede nella loro verità, che è eterna e prescinde dai fatti: “queste cose non avvennero mai, ma sono per sempre”, con le parole di un altro mitografo, Saturnino Secondo Salustio. Dunque, la mitologia di Lovecraft è un cifrario perfetto per leggere il presente. Il saggio che Houellebecq dedica a Lovecraft ha un titolo icastico: Contro il mondo, contro la vita. L’horror di Lovecraft è l’orrore che si prova per la disgrazia di esistere, per l’umanità, per tutte le cose, filtrato attraverso il lessico del mito. Il suo – innegabile – razzismo è solo una manifestazione del disgusto per l’altro, tanto più ripugnante quanto più lontano dal microcosmo di Providence, a partire dagli immigrati di Chinatown fino agli Dei Esterni dall’altra parte della galassia:

“Pochi esseri sono stati posseduti, penetrati così a fondo, dalla convinzione dell’assoluta futilità delle aspirazioni umane. […] La razza umana scomparirà. […] I cieli saranno freddi e vuoti, attraversati dalla flebile luce di stelle quasi spente. […] Bene, male, moralità, sentimenti? Solo fandonie vittoriane. Tutto ciò che esiste è egotismo”.

Per la teologia manichea dei buoni, un razzista è un razzista e basta. Per chi invece pensa, il razzismo di Lovecraft appare lontanissimo da quello, delirante e mistico, di Alfred Rosenberg, l’ideologo di Hitler che ha scritto Il Mito del XX secolo. A Providence non resta, infine, niente da salvare, nessuna gloriosa palingenesi ariana che libererà il mondo dalle razze inferiori: ci sono solo gradazioni di orrore.

La mitologia di Lovecraft è meno pericolosa di quella nazista, ma anche più disperante. Il pensiero di Lovecraft è, infine, soltanto disperazione. Ed è il nostro pensiero, anche se non lo sappiamo. Azathoth, il caos nucleare, è l’immotivata esplosione del Big Bang; Shub-Niggurath, il capro nero dai mille cuccioli, è l’istinto di procreazione che spinge gli esseri viventi a “moltiplicarsi per morire innumerevoli”; Cthulhu è la gelida lontananza dello spazio, Yog-Sothoth l’inaccessibile assurdità del tempo. Sono tutte incarnazioni del nostro scientismo ateo, che domina il dibattito culturale, che insegniamo ai bambini, che spacciamo per progresso.

Se in Cristo si incarna la millenaria storia ebraica, allora i mostri di Lovecraft scrivono coi loro tentacoli la Bibbia della civiltà occidentale contemporanea. Il fatto è che Lovecraft potrebbe avere ragione. È persino probabile che abbia ragione: vivere non ha senso, non c’è niente dopo la morte, siamo soltanto elettricità che corre cieca nel labirinto dei neuroni. L’orrore lovecraftiano sta tutto qui, in ciò che è vero e al tempo stesso inaccettabile. I personaggi di Lovecraft, spesso professori e accademici, scoprono che l’uomo non conta nulla di fronte a potenze primordiali e invincibili, che la ragione non può rendere conto di una realtà senza logica, che l’intero universo è “invenzione di un non-dio la cui malvagità supera l’immaginazione”, come scrive Agota Kristof. La conseguenza è la follia, o il silenzio.

Se si pensa come Lovecraft, allora non si può che vivere come Lovecraft. Diventa, quindi, imbarazzante il contrasto fra lo scrittore eremita e le nostre rockstar dell’ateismo – gente come Dawkins, Pinker, Odifreddi. Diventa nauseante questa melassa di illuminismo scaduto e superomismo capito male che passa per pensiero, offensiva la serenità che “colpisce il dolore accumulato e privo di parole”. Se noi cresciamo con la favola che Dio non serve più perché possiamo essere felici anche senza, Lovecraft muove il suo attacco alla religione dalla parte opposta:

“Vedo che nella vostra filosofia la verità ha un posto minuscolo […]. Nella vostra mente, l’uomo è al centro di tutto, […] l’unico problema dell’universo”.

 

Lovecraft, lo scrittore triste e razzista che annienta il pensiero progressista – Pangea

‘Casa di Foglie’, il best seller ergodico di Mark Z. Danielewski

Casa di foglie, House of Leaves titolo originale, è il bestseller scritto da Mark Z. Danielewski, scrittore statunitense, figlio di un regista d’avanguardia polacco e madre statunitense, esponente della cosiddetta letteratura ergodica, che mette a dura prova il lettore, trattandosi anche di un trattato sul postmoderno, costellato di note a pié di pagina che costituiscono una storia a sé.

Il romanzo d’esordio che più di tutti ha colpito e accattivato milioni di lettori, subisce la verve artistica paterna, riportata egregiamente tra i fogli. Il libro salito alla ribalta per la sua trama e per la sua composizione tipografica ,è uscito nel 2000 negli Stati Uniti, e ha registrato fin da subito un’accoglienza calorosa da parte della critica mondiale. Comparso prima in piccoli spezzoni e poi in un unico volume, man mano ha conquistato un seguito di appassionati, prima in patria e poi all’estero, che hanno consacrato l’opera tra le migliori del ventunesimo secolo. Edito in Italia nel 2005 con la Mondadori, alla sua uscita ha registrato subito un tutto esaurito. A lungo però è scomparso tra gli scaffali italiani.

Questa edizione è rimasta l’unica fino al 2019 quando la 66Thand2nd ne ha acquisito i diritti. Il motivo per il quale la sua ripubblicazione sia stata stoppata non si conosce e questo ha donato al libro un non so che di misterioso, rendendolo così anche molto richiesto. Il Mistero, la suspence e lo stupore legate alle vicende dello stesso libro nonché al suo contenuto caratterizzano , dunque , questo romanzo dove confluiscono diversi generi: prevale per lo più quello horror.

Lo stile ergodico è però la sua peculiarità: agli appassionati di intrecci, scritture criptiche e rompicapi trovano tra queste pagine “Pane per i loro denti”. Infatti fin da subito il lettore si troverà dinanzi a tre livelli di racconto, interrotti sempre in momenti di maggior tensione emotiva e di probabile svolta, preparandosi ad uno sforzo comprensivo e ad una attiva interazione. Si dovrà essere pronti a catapultarsi all’interno delle stesse vicende narrate per poterne trarre il senso. Fondamentale è concentrarsi sui passaggi e tener a mente eventi , situazioni. Ma non solo, proseguendo con le pagine, si dovrà cercare anche di stabilire connessione tra i vari spezzoni posizionati su ogni pagina. Frammenti e note sono onnipresenti e compongono ogni pagina in modo causale: la scelta tipografica è inusuale e caratteristica oggettiva e principale della Casa di Foglie.

Imbattersi dunque, in una sola frase o in una parola capovolta, al margine del foglio o al lato , è del tutto normale. La sensazione si ritrovarsi in un labirinto di parole o un puzzle, dove tutto sembra non avere senso accompagnerà il lettore fino alla fine. Bisogna armarsi di curiosità e pazienza per poter affrontare le 700 e più pagine così sconnesse tra loro, e non lasciarsi ingannare dalla scritta di inizio “Questo non è per te”.

Frase ad effetto ,posizionata non a caso,  simile ad una dedica, che accende il desiderio di conoscenza, senza ancora non dire nulla ,di chiunque ci si soffermi. Il premio finale sarà più che soddisfacente , anche se la certezza assoluta di aver dato un senso al tutto non si avrà mai. Il tutto inizia con la vicenda accaduta a Johnny Truant tra il 96-97, il narratore onnisciente.

Questo, per puro caso, si imbatte , mosso dalla curiosità, tra gli oggetti personali di un vecchio cieco vicino di casa del suo amico Lude, Il signor Zampanò, morto improvvisamente. Prima che le cose di quest’ultimo vengano date via , Truant trova all’interno della casa del defunto un baule contente un manoscritto e decide di iniziarlo a leggere. Gli scritti rivelano dei commenti dello stesso Zampanò fatti al documentario The Navidson Record, girato da Will Navidson, famoso fotografo, da sua moglie Karen e da i suoi due figli.

La famiglia trasferitasi in periferia in una nuova casa, avrà a che fare con eventi strani e inusuali, che scuoteranno e, non poco, la quiete e l’equilibrio del nucleo. La comparsa di luoghi misteriosi all’interno dell’abitazione darà il via a scene piene di tensione, mistero che lasceranno con il fiato sospeso. Alle tre diverse narrazioni se ne aggiunge addirittura una quarta, costituita dalle Lettere di Whalestoe, nella quale la voce che racconta è la madre di Johnny Truant, che spiega come queste vicende abbiano avuto incidenza nella vita di chiunque le abbia conosciute.

La prima narrazione è legata alla vita stessa di Truant che legge le note di Zampanò, le interpreta e compie ricerche sulle fonti utilizzate, contemporaneamente racconta e analizza aspetti della sua vita personale, stupendosi delle conclusioni a cui arriva. La seconda narrazione è composta principalmente dal lavoro di Zampanò che cita e analizza il filmato, ricorrendo ad altre opere, annotazioni e testimonianze. Molte di queste ultime si rivelano inesistenti.

La terza narrazione è quella descritta all’interno del girato, dove i fatti paranormali sono descritti fin nei piccoli dettagli. Impeccabile come Danielewski sia riuscito ad inventare e mescolare forti reali con quelle del tutto inventate, particolari comuni con quelli bizzarri, riproponendo il tutto sul piano del verosimile. L’espediente descrittivo è meravigliosamente utilizzato ed unito alla scelta topografica. Scelta che riproduce per ogni livello narrativo un carattere diverso, utile per distinguere le vicende descritte e i loro protagonisti. Le stesse vicende alla quale viene data anche una valenza visiva: possibile trovare diversi passi in cui il mistero si infittisce, di conseguenza anche la posizione stessa delle frasi cambia.

Anche se ogni vicenda può risultare incompleta al lettore, il finale sarà tutto da scoprire e da ricollegare, lasciando libera interpretazione. Una lettura interattiva e curata nei minimi dettagli che apre nuovi orizzonti nella creazione propria di ogni libro. L’uso di artifici e espedienti visivi possono essere sfruttati, insieme alle parole, in modo variegato offrendo a chi legge una esperienza a 360 gradi.

 

A chi piace la letteratura ergodica? Leggete questo best seller! – YouTube

Anemone Ledger torna in libreria con ‘Il sorpasso dell’irrealtà’ ovvero cos’è davvero l’horror?

Ritorna in libreria, dopo tre anni di assenza, Anemone Ledger, autrice conosciuta soprattutto dal popolo del web appassionato del genere, con la rinnovata raccolta di racconti noir e horror dal titolo Il Sorpasso dell’ Irrealtà, edito dalla casa editrice napoletana Homo Scrivens. Anemone Ledger, giovanissima scrittrice campana, vive tra Roma e Caserta.

Già autrice del romanzo horror fiction “L’insana improvvisazione di Elia Vettorel”, pubblicato nel 2017, Anemone ha partecipato negli anni a diverse manifestazioni ed eventi regionali e nazionali, riscuotendo ampie approvazioni soprattutto tra i giovanissimi. Se pur ventunenne, annovera presenze al “TOHorror Film Fest’ di Torino nel 2016, di Ruggero Deodato e Davide Toffolo e fa parte dello staff della fiera partenopea “Ricomincio dai libri.

Nel 2019 Anemone ha presentato numerosi artisti al “Napoli Horror Festival”, come Sergio Stivaletti. L’autrice si appassiona al genere Horror e Noir in giovanissima età , a soli 8 anni, collezionando classici di Edgar Allan Poe, Lovecraft e Stephen King. Attratta dalle immagini forti e ambientazioni cupe, utilizza la scrittura come mezzo per esorcizzare le sue paure più profonde. I sogni più inquieti e le emozioni più terrificanti sono il principale materiale per i suoi racconti. Ama definire la sua scrittura “Horror essenziale perché capace di produrre una catarsi in chi legge piuttosto che spaventare. Per quanto abbia fatto tentativi nel cimentarmi in altri generi, cercando di distanziarmi da questo, con i mie scritti, inevitabilmente e inconsciamente ci ritorno.”

Il nuovo lavoro Il Sorpasso dell’Irrealtà è essenzialmente il rifacimento di una primissima raccolta già pubblicata nel 2016. E’ il frutto, per l’autrice, di un percorso letterario evolutivo durato ben cinque anni, nei quali è riuscita a raggiungere una miglior consapevolezza stilistica e letteraria.

Sinossi

“Cos’è davvero la realtà? E quanto ci nasconde? L’Horror è la terra di una realtà altra, in cui la paura dei personaggi è affrontata attraverso pensieri mistici e eventi stranianti. In nove stralci di irrealtà – così l’autrice definisce i propri racconti – Anemone Ledger mette in crisi la psiche umana e ci mostra, con corredo di illustrazioni horror e contaminazioni noir come l’irrealtà possa alterare la vita quotidiana e realizzare un sorpasso sulla realtà effettiva delle cose, provocando lo stravolgimento completo di qualsiasi situazione stabile.”

La pubblicazione del romanzo è avvenuta il 2 Luglio 2020 e la presentazione ufficiale è stata fatta il 10 dello stesso mese, al cospetto dell’ editore napoletano nonché mentore dell’autrice, Aldo Putignano. Anemone è riuscita ad elaborare e modificare “stralci” già presenti, conferendo agli scritti maggiore maturità. Ad avvalorare i nove racconti, le 13 immagini prodotte da ben 12 illustratori ed artisti, si alternano all’interno del libro. Accattivante è sicuramente il disegno riportato sulla copertina , frutto dell’artista Francesca Terrieri, la quale è riuscita a rappresentare in un’immagine, le paure che Anemone Ledger utilizza e descrive nei suoi racconti.

La raccolta , dunque, rappresenta il primo traguardo importante nella carriera della giovane scrittrice, che si dice intenzionata a continuare e migliorare il suo personale percorso esplorativo nel mondo editoriale, prefiggendosi come obiettivo di entrare in contatto con i più grandi esponenti contemporanei di noir e horror. L’artificio narrativo – che gode di illustri precedenti letterari e cinematografici, primo tra tutti quello della Divina Commedia – di descrivere la follia anche nei bambini, comunemente considerati i “puri” e “buoni” incide positivamente sull’originalità della raccolta.

‘Parasite’: la guerra totale tra ricchi e poveri secondo il sudcoreano Bong Joon-ho che fa ridere amaro

Il Joker e il ParasiteParassita, attenti a noi. Perfettamente in sintonia con il recente cult hollywoodiano, “Parasite” è ambientato a Seul, ma la metropoli asiatica funziona come un gigantesco specchio in cui ci è dato l’amaro privilegio di vedere cosa sta per succedere nel mondo. O forse ciò che è già successo.

La guerra totale tra poveri e ricchi come evento ineluttabile non è, peraltro, l’unico argomento del film premiato con la Palma d’oro a Cannes perché nel corso del suo imprevedibile percorso emerge una metafora raramente diramata al cinema con altrettanto cinico determinismo: i derelitti e gli svantaggiati non sono affatto “buoni”, non sono guidati da nobili ideali o consunti manuali ideologici, non hanno la faccetta corrucciata di Greta o di Carola, vogliono godere anch’essi dei beni consumistici, sono furbi, notturni, coriacei, duri a morire anche se –annota a margine il cinquantenne regista e sceneggiatore Joon-ho– non possono togliersi di dosso il tanfo emanato dalla loro condizione di perdenti.

Da un tetro seminterrato la famiglia dei Ki-taek riesce a trasferirsi, grazie a una serie di raggiri, nella villa da sogno della famiglia dell’archistar Park dando il via a una spericolata variazione di generi che passerà col giusto dosaggio di ritmi e toni dalla commedia sociale al thrilling psicologico (“Il servo” di Losey), dall’horror (“L’invasione degli ultracorpi”) al catastrofico, dal grottesco della commedia all’italiana (“Brutti, sporchi e cattivi”) al surrealismo bunueliano all’acido muriatico.

In Parasite La full immersion nella lotta per la sopravvivenza in cui ciascuno si tramuta in parassita di un altro procede, così, a base di allarmanti carrellate nell’appartamento (il principale “personaggio” dell’apologo), strategici tagli di luce, recitazioni strepitose di attori sempre sull’orlo del collasso: se la tragedia del divario sempre più abnorme scavato tra derelitti e benestanti ci riguarda tutti, il film non indulge alle solite artificiose indignazioni, non elargisce morali pret-à-porter, non recapita messaggi di speranza all’annichilito spettatore.

Quella che spiazza e avvince, insomma, è una questione di topografia sociale, le strettoie, le stratificazioni e i doppi, tripli fondi di una mappa prim’ancora fisiologica che umana in cui l’altissimo sovrasta l’alto, l’alto schiaccia il basso e l’ancora più basso è adibito a funzionare esattamente come funziona una cloaca.

La chance degli spazi perlustrati dall’occhio della cinepresa viene, dunque, utilizzata per scatenare una brutale sarabanda; una spirale satirica che via via costringe i contendenti a protestare, ringhiare, contorcersi, strisciare, rosicchiare, mimetizzarsi, rintanarsi; un’apnea emotiva sconsigliata a chi ama fare il tifo per una sola delle parti in gara; un gioco al massacro in cui la sinistra risata della governante licenziata sembra raccogliere e amplificare quella del grande Joaquin Phoenix che ancora trabocca dalle sale.

PARASITE
THRILLER/GROTTESCO, COREA DEL SUD 2019
Regia di Bong Joon-ho. Con: Song Kang-ho, Jo Yeo-jeong, Park So-dam, ChoiWoo-sik, Lee Sun-kyun

 

Parasite

Cannes 2019: vince il thriller coreano ‘Parasite’ di Bong Joon-Ho

Cala il sipario sull’edizione 72 del Festival del Cinema di Cannes che anche quest’anno ha presentato pellicole variegate e di elevatissima qualità. A trionfare è stato il coreano Bong Joon-Ho, con la pellicola Parasite. un thriller crudelissimo dai risvolti horror. La storia è quella di una famiglia di disoccupati, i Ki-taek, ossessionati dalla ricca famiglia Park al punto da invadere la loro vita quotidiana. Bong Joon-Ho, già regista di Snowpiercer, era stato a Cannes nel 2017, quando aveva presentato Okja, il primo film Netflix proiettato in Concorso nell’unico anno in cui il colosso streaming veniva accolto nella selezione ufficiale del Festival sulla Croisette. Quel film era stato bocciato in partenza, in maniera simbolica dalla giuria di Pedro Almodóvar che all’epoca dichiarò: “non possiamo certamente dare la Palma d’oro a un film che non arriverà nei cinema”. Adesso il regista coreano vive il momento di trionfo: il suo film ha recentemente trovato una distribuzione in Italia. Sarà infatti Academy Two a lanciarlo nelle sale italiane.

Bong Joon-ho ha costruito una carriera sulla distorsione del fantastico ma in questo film non ci sono creature, né immersioni nel soprannaturale: solo due famiglie, due case, e la brutale dissezione di una disuguaglianza di classe nella società tanto coreana quanto globale.

Parasite è un’eccellente lettura del suo tempo, che Bong riposiziona nel verticale delle stratificazioni domestiche dopo averlo disteso sull’orizzontalità del treno in Snowpiercer. Alla fotografia, vivida e fluida nello sfruttare i volumi architettonici, c’è Hong Kyung-po, reduce dal fenomenale lavoro su Burning, che della lotta di classe faceva uno sfondo elegante laddove Parasite la erge ad allegoria principale.

A Cannes 72 rimangono a bocca asciutta l’Italia rappresentata da Bellocchio e Favino con Il traditore, ottimo film sul pentito di mafia più famoso di tutti i tempi, che rievoca Rosi e Coppola, e Quentin Tarantino e il suo C’era una volta a Hollywood. Il film monumento agli anni d’oro della fabbrica del cinema non ha vinto nessun premio nonostante la presenza del regista alla cerimonia di chiusura del Festival.

 

Tutti i vincitori

 

PALMA D’ORO
Parasite, di Bong Joon-ho

GRAND PRIX
Atlantique, di Mati Diop

PREMIO DELLA GIURIA
Les Misérables, Ladj Ly

Ex aequo con

Bacurau, di Juliano Dornelles e Kleber Mendonça Filho

PREMIO ALLA REGIA
Jean-Pierre e Luc Dardenne – Young Ahmed

MIGLIORE ATTORE
Antonio Banderas – Dolor y Gloria

MIGLIORE ATTRICE
Emily Beecham – Little Joe

MIGLIORE SCENEGGIATURA
Céline Sciamma – Portrait of a Lady on Fire

MENZIONE SPECIALE
It Must Be Heaven, di Elia Suleiman

PALMA D’ORO AL MIGLIOR CORTOMETRAGGIO
La distance entre le ciel et nous, di Vasilis Kekatos

MENZIONE SPECIALE DELLA GIURIA – CORTOMETRAGGIO
Monstruo Dios, di Agustina San Martin

CAMERA D’OR ALLA MIGLIORE OPERA PRIMA
Nuestras Madres, di César Diaz

 

Fonte: Film.it

In morte di George A. Romero, Il più estremo maestro dell’horror contemporaneo

Gli zombi siamo noi. Anche in Italia, senza attendere il via libera dei “Cahiers du cinéma” che sarebbe arrivato da lì a poco, i sessantottini cinéfili ne colsero subito l’essenza e se la scambiarono come un passaparola. “La notte dei morti viventi”, un horror americano costato la miseria di 114.000 dollari (ma ne incasserà circa trenta milioni nel mondo), 96 minuti in bianco e nero, senza attori noti e denso di polemici riferimenti all’attualità senza, però, ricorrere alle prediche del cinema etico-politico, divulga così il nome di George A. Romero, uno dei registi chiave della New Hollywood morto ieri per una grave malattia a Toronto. Nato nel febbraio 1940 a New York da padre cubano, Romero si trasferisce a Pittsburgh e insieme ad alcuni amici si occupa di spot e documentari prima di fondare la casa di produzione Image Ten il cui primo titolo sarà proprio “Night of the Living Dead” uscito nell’ottobre 1968. Sia pure ricco di precedenti nobili, come il cult di Val Lewton “Ho camminato con uno zombi”, il film di Romero ispirato a un racconto del maestro di un’intera generazione di cineasti indipendenti Richard Matheson sviluppa in maniera geniale il tema (anche western) dell’assedio adattandolo a quello distopico dell’epidemia distruttrice: una volta contagiati da un virus procurato dai maneggi del potere, gli uomini non diventano mostri o vampiri, bensì “morti viventi” avidi della carne dei sopravvissuti.

Scetticismo sarcastico rispetto alle battaglie per l’integrazione (l’eroe è un nero, ma di lieto fine neppure l’ombra), suggestioni splatter e disprezzo dei valori familiari, nessuna fiducia nell’ordine naturale e casomai certezza dell’odio che cova sotto la pelle di una società lobotomizzata diventano i temi romeriani per eccellenza. Il più estremo maestro dell’horror contemporaneo e il più coerente esorcista del killer che vive dentro di noi non è peraltro destinato a diventare un brand commerciale né un autore da festival e la sua filmografia sembra oggi un giro di montagne russe tra il compiaciuto auto-esilio nel B-movie e la lotta a viso aperto contro l’impero delle Majors.

L’anarchismo senza ideologie a carico di Romero colpisce meno duro in “La città verrà distrutta all’alba” o “La stagione della strega” e tocca, invece, vertici di tossica crudeltà nel sottovalutato “Wampyr”, ma il ritorno ai temi prediletti con “Zombi” (1978), apocalittico attacco dei non-morti al paradiso terrestre di un centro commerciale, grazie anche agli effetti speciali del mitico Tom Savini lo ritrova in splendida forma e più cinico che mai. Inevitabile, ma sin troppo modulato sui toni del grottesco, appare il connubio con Stephen King (“Creepshow”, ’82), ma per noi il vero capolavoro è il cattivista “Monkey Shines” dell’88 in cui la violenza primordiale della scimmia si contrappone a quella evoluta del giovane tetraplegico protagonista. In coppia con Dario Argento che lo ha sempre venerato, dirige l’imperfetto ma sentito omaggio a Edgar Allan Poe “Due occhi diabolici” prima di ritirarsi a lungo, flirtare col fumetto e i videogiochi e riemergere a sorpresa con “La terra dei morti viventi” nel 2005 che, nonostante il più alto budget mai avuto a disposizione, alterna intuizioni di grandiosa cupezza a qualche cedimento retorico “a favore” delle sue creature, gli ormai troppo umanizzati zombi. A Venezia, nel 2009, Romero presenta “L’isola dei sopravvissuti” e si conferma personalità singolare e acuta, mai incline al narcisismo tipico dei colleghi habitué del cerchio magico degli autori. Un artigiano intellettuale per cui l’unica mostruosità del nostro tempo è l’omologazione e i veri zombi siamo sempre e solo noi.

 

In morte di George A. Romero

Alessandro Petrelli, autore di “Oltre la finestra”

Alessandro Petrelli, 25enne di Lecce è appassionato di libri e film horror, passione che lo ha portato a scrivere un romanzo proprio di questo genere: Oltre la finestra, edito da Lettere Animate, ambientato in un paesino sulla costa Salentina e che ha come protagonista Davide, un ragazzo rimasto orfano, che comincia a ricevere delle minacce da uno sconosciuto il quale gli lascia però dei piccoli indizi. Gli scrittori preferiti da Alessandro Petrelli, che si nutre di soli horror e thriller, sono King, Dan Brown e Dorn.

 

Alessandro Petrelli è l’autore del libro Oltre la finestra

 1. Oltre la finestra è un romanzo che parla di morte e che sfiora il genere horror-thriller…sei d’accordo con questa definizione?

Per quanto sia schietta sì, sono d’accordo. Per essere più precisi, è un thriller che in alcuni tratti sfiora l’horror.

2. A un certo punto, nella storia, si instaura una scena, quella della riunione attorno al tavolo di Laura, Davide e i due amici, che più o meno fa pensare alla riunione di Jumanji (1995) in cui Robin Williams, apparso dopo 30 anni di assenza, intrappolato in un lungo futuro della giungla, torna e convince i ragazzi a proseguire il loro percorso e terminare il gioco. Il tuo libro risente di questa suggestione o presenta altre influenze cinematografiche nascoste? Cosa torna dal passato, o meglio, dalla finestra?

Non ne risente. Non ci sono collegamenti al film Jumanji. Se qualcosa torna dal passato? Certo, riemerge una storia terrificante e mai risolta. Una vicenda che implica dei tragici avvenimenti manifestatisi a distanza di anni l’un l’altro. Il vecchio irrompe dalla finestra, è esatto.

3. Le location sono ben precise: San Foca, Manfredonia, Lecce… Come è nata l’idea di un’ambientazione pugliese?

Sono nato e cresciuto nel Salento quindi non potevo che rendere omaggio con il mio libro a questa splendida terra, approfittandone per descrivere, tra un capitolo e l’altro, alcuni di questi paesaggi meravigliosi.

4. E il maresciallo distratto? Potremmo definirlo un personaggio “tipizzato”,che troviamo spesso in fiction e serie tv come il Cecchini di Don Matteo.

Il maresciallo più che distratto, è incredulo. Nessuno si aspetta che storie del genere, avvolte da mistero e antiche credenze, si manifestino. Soprattutto un maresciallo dei Carabinieri con un’esperienza degna di nota alle spalle. Tuttavia, in un secondo momento, verrà distratto ulteriormente da un avvenimento personale che lo farà allontanare del tutto dalla storia del protagonista.

5.Non riuscivo più a percepire e individuare le emozioni che mi assalivano. Per questo non sono sicuro che fosse proprio felicità”. A questo punto il protagonista è felice o no? Si tratta di una scelta mirata di depistare chi legge?

Il protagonista è un ragazzo semplice, nel quale in parte rivedo me stesso, che si trova però di fronte a un cambiamento drastico della propria vita. Immedesimandomi in alcune scene mi sono reso conto di quanto sarebbe difficile provare felicità di fronte a una bella notizia in un periodo buio caratterizzato da avvenimenti terribili. Per questo, Davide avverte un senso di “felicità” in alcune scene ma, allo stesso tempo, sa di non poterla equiparare alla felicità che provava prima di trovarsi in quella tragica storia.

6. Quali sono le letture che hanno fomentato ed alimentato (e che alimentano tuttora) la tua attività di scrittore?

Leggo solo ed esclusivamente thriller ed horror. Mi piacciono però, come si può notare, le storie misteriose che colpiscono ragazzi e che non vedono l’intervento del solito detective pronto a risolvere tutto… deve essere lo stereotipo di ragazzo che conosciamo ad affrontare e risolvere la storia. Solo così riesco ad immedesimarmi come dovere. I miei scrittori preferiti sono King, Dan Brown e Dorn.

7. Pirandello viene citato più volte nel testo. È curiosa questa presenza; a cosa è dovuta?

Si tratta di una coincidenza. Pirandello è autore della novella “Male di luna” e per questo ho deciso di citarlo nel mio romanzo.

8. Se il tuo libro fosse una frase?

<<Davide non sa che dovrà affrontare i fantasmi del passato che si infiltra nella sua vita come una linea sottile, irrompendo dalla finestra>>.

 

 

 

Simone Turri e Daniela Mecca: “Il Fiore nero”

L’Italia non ha una grande tradizione per quanto riguarda la letteratura gotica ma ultimamente sembra essere il genere prediletto dai giovani che vogliono intraprendere la strada della scrittura; è il caso dei veronesi Simone Turri, 33 anni, perito aziendale e corrispondente in lingue straniere e di Daniela Mecca, 35 anni, impiegata e maestra d’arte, autori della loro prima raccolta di racconti horror che vi segnaliamo:”Il Fiore nero”, edita da Edizioni Montang, 2012.

Sette racconti il cui filo conduttore è il Male portatore di dolore e sofferenza, di fronte al quale però non ci sono né vincitore, né vinti per una lettura sotto il segno della tensione e della paura, avvincente e caustica.

Il primo racconto vede protagonista un avvocato famoso dall’infanzia difficile, oggetto di scherno da parte dei suoi compagni di scuola. Trova un’amicizia particolare in uno strano signore che condizionerà tutta la sua esistenza e quella sei suoi cari. Il secondo vede come protagonista Emily una giovane donna alle prese con i problemi della sua età che verrà risucchiata  in un vortice da una panchina in un parco che invoglia le persone a sedersi su di essa. Nella terza storia, Joseph, un ragazzo tedesco ateo si ritrova a combattere con la sua incapacità di discernere il bene dal male, la realtà dall’incubo, la vita dalla morte. Non poteva mancare la tradizionale bambola infernale che vuole avere il pieno controllo sull’anima della  bambina a cui è stata affidata (quarto racconto). Nel quinto, il male si impossessa di un uomo insospettabile, un monaco di un convento del Michgan dopo la scoperta di una diario maledetto; ma un tormentato ispettore di polizia cercherà di vincere questa battaglia tra sacro e paranormale. Un classico per il penultimo racconto: moglie tradita che tenta di ricominciare una nuova vita nella sua solitudine. Riuscirà a capire chi è veramente e a fare i conti con il suo passato, presente e futuro? C’è spazio anche per la cartomanzia nell’ultima storia che ha come protagonista Madame Zwelda, una sensitiva al limite tra il professionale e la cialtroneria, che lotta con tutte le sue forza contro il Male.

I due giovani scrittori hanno in comune la passione per i viaggi e la stessa concezione della letteratura, quale sistema di interazione con gli altri portando alla luce le proprie emozioni e stati d’animo da condividere con il pubblico; entrambi si ispirano a Stephen King, Jeffrey Deaver e Donato Carrisi.

 

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