Addio a Dario Fo, capopopolo e ‘giullare’ di corte dell’ultrasinistra

Dario Fo si è spento ieri 13 ottobre, all’età di 90 anni a Milano, tre anni dopo la morte della sua amatissima compagna di vita Franca Rame. Negli ultimi anni aveva dato pubblicamente il suo appoggio al M5S, ravvisando nel Movimento fondato dal suo amico Beppe Grillo, alcuni valori propri della sinistra che, disilluso, non riscontrava più nel partito.

Dario Fo, la cultura popolare e l’ideologia manichea

Dario Fo è stato un importante attore di teatro, regista, autore, sceneggiatore, pittore. Sarcastico e umorista, si è aggiudicato il Premio Nobel per la Letteratura nel 1997, e ha inventato con il grammelot, una nuova lingua volgare, che racchiudeva i dialetti di tutta Italia. Dario Fo è stato un giullare che ha trasformato in giullare a sua volta anche Francesco d’Assisi, raccontando la vita del santo più amato in Italia in maniera  efficace e divertente. La sua opera più conosciuta è senza dubbio Mistero Buffo, del 1969, costituita da un insieme di monologhi che descrivono alcuni episodi di argomento biblico, ispirati ad alcuni brani dei vangeli apocrifi o a racconti popolari sulla vita di Gesù.

L’opinione pubblica e molti addetti ai lavori reputano Dario Fo, secondo il quale la cultura popolare e la sua architettura collettiva (non quella ufficiale) è il vero cardine della storia del teatro e di tutte le arti, un character che si è contraddistinto per il diverso uso del corpo e delle potenzialità sceniche dell’attore: ogni suono, parola o canto uniti alla gestualità danno vita ad un insieme semantico indivisibile, di cui il racconto degli eventi è un canovaccio, accompagnato da un nonsense linguistico, da uno stile irriverente, buffonesco e parossistico, atto a dileggiare il potere, che si richiama alle rappresentazioni medioevali eseguite dai giullari e dai cantastorie. A ben osservare, Dario Fo non sembra proprio che si sia battuto per restituire dignità agli oppressi, indipendentemente dalla sua volontà, sulla quale non possiamo aprire un dibattito, ma sembra piuttosto che il nostro “giullare” abbia spalleggiato un certo tipo di potere, passando da ribelle a conformista; e il potere, come ci insegna il teatro elisabettiano, è sempre uguale a se stesso e non è né positivo, né negativo. Dario Fo è stato propugnatore di un’ideologia manichea, i cui ipse dixit sono ben lontani dal fulgore e dalla saggezza dei fools elisabettiani, delle gesta epiche dei plays di Shakespeare che raccontano la natura umana.

Dario Fo, tra teatro e politica

Figlio di un ferroviere e di una casalinga, Dario Fo crebbe in un paesino del lago Maggiore, in un ambito familiare intellettualmente molto vivace. La prima esperienza artistica fu presso l’Accademia di Brera, poi ci furono la guerra e la divisa della Repubblica di Salò, la radio con Franco Paraenti e Dyrano al Piccolo di Milano con Il dito nell’occhio; nonché il cinema con Lo sviato di Carlo Lizzani e soprattuto l’amore con l’attrice e drammaturga Franca Rame, con la quale firma Gli Arcangeli non giocano a flipper, Chi ruba un piede è fortunato in amore, La signora è da buttare, sino a diventare uno dei maggiori protagonisti del teatro italiano ed europeo e dell’intellighentia nostrana. Ma per ricordare in maniera giusta Dario Fo, bisogna menzionare anche misfatti non solo glorie, altrimenti si scade nell’apologia, scalfendo la memoria.

Dario Fo fu tra i giovani balilla che aderirono alla Repubblica di Salò, per combattare per la Patria perduta. E fin qui la cosa non deve sorprendere, dato che la maggior parte dei ragazzini cresciuti sotto il regime fascista, sotto il segno del Duce, presero parte alla Repubblica Sociale Italiana nata in seguito alla destituzione di Benito Mussolini. Dario Fo, allora diciassettenne andò a combattere volontario tra i parà della RSI, nel Raggruppamento A.P.A.R. di Tradate. Ancora nulla da obiettare, sarebbe troppo facile sentenziare allegramente sul passato di una persona, processare la sua storia, ma ciò che infastidisce a molti del Dario Fo “politico” sono le omissioni e i cambi di bandiera durante la sua vecchiaia, o come avrebbe preferito dire lui, l’anzianità, perché i vecchi sono ottusi e nostalgici, a differenza degli anziani. L’autore del Mistero buffo, non ha mai parlato del suo passato da repubblichino di sua sponte, e quando lo ha fatto incalzato da qualcuno ha spiegato che andò volontario tra i parà dell’esercito della RSI per far cadere le accuse di antifascismo che pendevano su suo padre, temendo una rappresaglia fascista. Sono parole che lasciano esterrefatti.

Sono motivazioni labili quelle di Dario Fo, “paracule”, inaccettabili soprattutto se si pensa ad un’altra figura di rilievo del nostro teatro che ha condiviso gli stessi ideali adolescenziali di Fo, quella di Giorgio Albertazzi, anche lui giovanissimo combattente nelle fila dei repubblichini. Ma a differenza del suo collega non lo ha mai negato e rinnegato. Fo è stato un intellettuale della sinistra non di sinistra, sinistra che in questi giorni si stanno sperticando in stucchevoli encomi e retorici panegirici verso “il grande artista e uomo libero” che è stato Dario Fo. Si usano sempre gli stessi termini quando ci lascia un intellettuale o uomo di cultura, magari sopravvalutato, come probabilmente è stato il Nobel per la Letteratura assegnato a Fo (premio che in realtà è un martello politico, più che un riconoscimento ad un vero e serio risultato letterario), se si pensa che scrittori come Gesualdo Bufalino, tanto per fare un nome, non hanno mai avuto l’onore di vedersi consegnare un meritato premio Nobel. Ma Dario Fo è stato un “poeta di corte dell’ultrasinistra”, come soleva dire Indro Montanelli, (il quale riservò a Fo una pungente battuta: “Ha la statura del suo nome”), un intoccabile, e se alcuni suoi show televisivi sono falliti, è perchè gran parte dell’opinione pubblica ha attribuito i suoi flop a censure o a cospirazioni (non si capisce bene da parte di chi e perché), non perchè non funzionavano.

Per ricordare in toto Dario Fo, non possiamo non dimenticarci della sua difesa degli assassini del rogo di Primavalle nel 1973 e della vergognosa firma della condanna del commissario Calabresi. Così come non possiamo dimeticare l’invettiva di Fo contro gli intellettuali italiani, rei di essere asserviti al pensiero unico:

“Abbiamo oggi una classe d’intellettuali che in gran parte ha perso il tamburo, un formidabile strumento per svegliare i bambini imbambolati. Tacciono in molti: non hanno dignità e quindi non s’indignano. Ecco cos’è terribile e incredibile: la mancanza di indignazione. Molti pensano: ma chi me lo fa fare di espormi? Un giorno magari avrò bisogno di qualcosa, di un favore, di un aiuto da chi ora sto criticando. Tutto è giocato sui ricatti, sulla possibilità di avere un vantaggio. Chi fa informazione o opinione ha capito una cosa: bisogna stare al gioco”.

Un intellettuale però non dovrebbe nemmeno rinnegare il proprio passato e fare il “paraculo”. Ma siamo certi che Dario Fo non ce ne avrebbe voluto, proprio in virtù della sua giusta invettiva contro i seguaci del pensiero unico, lo stesso che vuole i non estimatori dell’artista e dell’uomo Fo, ignoranti, fascisti o schiavi del potere. Surreale. Che la terra ti sia lieve signor Fo e che i suoi seguaci non siano troppo snob e sprezzanti con chi non è riuscito a farsi sedurre dalla sua rivoluzione linguistica, che ha trovato il suo Mistero non buffo ma noioso. In fondo siamo liberi di disfarci del senso di colpa che ci induce a farci intimidire dal rango di un artista, a non comprendere delle opere soprattutto quando queste non vogliono farsi comprendere da tutti noi.

 

Adele Perna: fascino da diva, talento e tanta gavetta

Sguardo intenso e magnetico che ricorda Sophia Loren, quello dell’attrice siciliana che sognava di diventare psicologa Adele Perna che, a dispetto di tante “attrici” monoespressive e di dubbio talento, si distingue per un fascino da diva d’altri tempi, volontà di migliorarsi e di apprendere quanto più possibile da questo mestiere, serietà e talento. Infatti Adele Perna non ha mai smesso di fare gavetta e sa bene che spesso le dinamiche sulle scelte per un ruolo importante in un film o in una fiction a volte non sono proprio meritocratiche.

Adele Perna inizia la sua carriera studiando presso l’Accademia di Pino e Claudio Insegno, Accademia che a quei tempi si chiamava “Tutti in scena” e collaborando con la regista Rodigina Josiana Pizzardo con la quale viaggia in tutta Italia facendo parte di una compagnia di Musical e operette. Recita  accanto ad attori come Sergio Fiorentini compianto doppiatore, interpretando una ragazza disabile in “Passato di pomodoro” e Lando Buzzanca con il Don Giovanni di Molière. Nel 2008 l’attrice si sposta a Torino dove lavora con Ivan Fabio Perna e la compagnia teatrale Louis and Clark con la quale porta in scena il giallo Sei personaggi in cerca di un cadavere; negli stessi anni inizia a lavorare con il cinema indipendente e la pubblicità. Da circa otto anni Adele Perna lavora insieme alla drammaturga e regista Maria Elena Masetti Zanini con la quale porta in scena spettacoli di nuova drammaturgia.

Il 16 settembre prossimo Adele Perna sarà in scena a Castellammare del Golfo con la tragedia Eroideide, mentre ad ottobre usicrà nelle sale uno degli ultimi film che l’attrice ha girato l’anno scorso: Fratelli di sangue, diretto da Pietro Tamaro e scritto da Francesco Rizzi. Sempre in autunno riprenderanno le repliche del fortunato spettacolo interattivo Le dissolute assolte che la vedono protagonista. Ma Adele Perna è molto attiva non solo nell’ambito dello spettacolo: in questi anni infatti ha anche approfondito una delle sue più grandi passioni, la cucina )anch’essa un’arta, del resto), e sta lavorando per mettere su una società di private chef.

 

1.Cosa vuol dire per una ragazzina del sud sognare il mondo dello spettacolo, della recitazione?

È una cosa molto strana perché io in realtà non ho mai sognato il mondo dello spettacolo, mi sono ritrovata a collaborare e con una compagnia teatrale quasi non volendolo, perché è andata così: ero stata chiamata solamente per cantare una serenata all’inizio dello spettacolo e a conclusione, ma quando arrivai alla sala prove mi innamorai di quel mondo e pensai che mi sarebbe piaciuto molto far parte del loro gruppo, poi casualmente la ragazza che doveva interpretare il ruolo della protagonista il giovane si ammalò poco prima del debutto e il regista chiese a me se avessi avuto il piacere di interpretare quel ruolo. Io ovviamente risposi di sì e iniziai così a lavorare insieme a loro. Girai l’italia con la filodrammatica per circa quattro anni e quando poi arrivai a Roma io volevo semplicemente studiare quello che era fino a quel momento solamente una grande passione per imparare le tecniche e poter farlo diventare un lavoro ma realmente non ho mai sognato il mondo dello spettacolo per me.

2.Recitare per te è anche un modo di analizzarti conoscerti meglio, visto che sognavi di fare la psicologa?

Sì; ecco quella forse è la vera motivazione per cui continuo ancora a fare questo lavoro e mi piace sempre tantissimo, perché poter essere tante persone contemporaneamente mi dà l’opportunità di esplorare i mille aspetti del mio essere che altrimenti difficilmente potrai analizzare. Sono anche una bravissima osservatrice quindi analizzo e faccio mie anche le sfaccettature caratteriali delle persone che mi circondano e cerco poi di utilizzarle nei lavori che porto in scena.

3.Quanto metti di tuo nei personaggi che interpreti e quanto invece prendi dai tuoi ruoli?

Quando ero bambina e vedevo i film, perché mia madre e mio padre andavano molto al cinema e mi portavano con loro, io vedevo quelle immagini e pensavo. Pensavo che quei personaggi potessero esistere solamente grazie al volto che avevano sul grande schermo ti faccio un esempio, tu immagineresti mai Rossella O’Hara di via col vento con un viso diverso da quello di vivien Leigh? è praticamente impossibile! oggi facendo l’attrice mi rendo conto che io presto al personaggio tantissimo di me ed è proprio quello che rende speciale un personaggio teatrale o cinematografico, che quel ruolo se hai fatto un buon lavoro potrà essere interpretato solamente da te. Poi è vero ci sono caratteri che sono scritti talmente bene dei quali ti resta un po’ ti resta un po’ della loro tristezza, della loro caparbietà! E’ vero, se i personaggi sono scritti bene ti regalano delle armi per continuare a vivere meglio, come quando leggi un bel libro.

 

Adele Perna

4.Che ricordi hai della tua esperienza romana presso l’Accademia di Pino e Paolo Insegno?

L’esperienza formativa in accademia da Claudio e Pino insegno è stata molto importante perché era un’accademia di Musical, si studiava danza, canto e avevamo degli insegnanti molto bravi e molto qualificati, ho studiato dizione con il maestro Diotaiuti che è in assoluto il migliore in Italia, canto con Tosca Donati che tutti quanti conosciamo essere una bravissima interprete e danza con Raffaele Paganini. Avevo il top dell’insegnanti in Italia einsegnanti di recitazione molto bravi quali Adalberto Maria Merli e lo stesso Claudio Insegno che insegnava recitazione due o tre volte, il quale mi ha anche fornito le armi per gestire la voce. Devo dire che ho un ottimo ricordo anche della classe: sono tutti ragazzi con i quali ancora mi sento e che ho incontrato nel mio percorso lavorativo dopo quegli anni, ragazzi a cui voglio bene e che come me faticano tanto per fare questo lavoro al meglio.

5.E di quella torinese con la compagnia teatrale “Louis e Clark”?

Con la “Louis and Clark” ho lavorato per due anni ho un ricordo meraviglioso di tutti quanti: persone fantastiche, ragazzi che si impegnano quotidianamente per far crescere la città dal punto di vista culturale. Il regista casualmente mio omonimo Ivan Fabio Perna gestisce un piccolo teatro, l’ho fatto diventare un gioiellino e anche gli altri ragazzi della compagnia sono tutti bravissimi, attori con la A. In un piccolo centro avere una compagnia teatrale che lavora insieme in modo compatto e continuativo è molto più semplice, a volte rimpiango di essere tornata a Roma perché lì mi sentivo veramente a casa qui invece quest’opportunità non c’è.

 

Adele Perna

6.Ti senti più a tuo agio a cinema o a teatro?

Sono due mondi completamente diversi e in qualche modo inparagonabili fra di loro anche se appartengono alla stessa matrice: il teatro è un’emozione continua nel momento in cui vai in scena il pubblico ti risponde, senti il suo calore continuamente, dagli applausi, dalle risate dalle lacrime a volte e questo ti riempie il cuore di gioia e ti fa continuare ad andare avanti, ti dà la spinta per andare avanti nelle repliche; invece il cinema è molto più interessante. Per quanto riguarda la creazione del personaggio, vedi, in teatro fai tante prove, un mese più o meno di prove prima di andare in scena, in cinema no, a volte fai delle prove,quando il regista è disponibile ma perlopiù crei il personaggio da solo, soprattutto nel cinema indipendente che al momento è l’unico cinema che ho fatto io, ma durante i ciak si crea come una magia difficile da spiegare: passo dopo passo diventi davvero il personaggio che stai interpretando, soprattutto se la concentrazione è buona. In questi mesi sto studiando al Duse International di Francesca De Sapio il metodo Stanislawsky e sto imparando a gestire tanto di me, del mio carattere, della mia impulsività in funzione del personaggio e sul set fa la differenza.

7.Quanto è stata fondamentale la gavetta per te in un ambiente, anzi in un mondo, dove spesso si vuole ottenere tutto e subito, contando magari su un colpo di fortuna?

La gavetta è assolutamente fondamentale, soprattutto perché io non ho ancora smesso di farla. Non ho mai partecipato ad una fiction importante con un bel ruolo, tantomeno ad un film cinema con un bel ruolo perché le dinamiche sulle scelte a volte non sono proprio meritocratiche quindi continuo a fare la mia gavetta nella speranza di diventare talmente tanto brava che i casting o i registi non possono non scegliermi per un ruolo.

8.Parlaci dello spettacolo “Eroideide”che andrà in scena il 16 settembre prossimo a Castellammare del Golfo.

“Eroideide” è una tragedia, racconta la leggenda di come nacque il paese di Castellammare del Golfo, i personaggi sono storici e mitici Dei ed eroi, da Giunone a Creusa, Segesta Egesta Agesilao fino ad arrivare allo scrittore di questa tragedia che è proprio Eroide, interpretato da Edoardo Siravo il mio ruolo è un po’ avulso dalla storia che raccontiamo perché io interpreto la voce del tempo ed è molto interessante per me sviluppare un personaggio che non ha corporeità.

9.A ottobre uscirà anche un film che hai girato l’anno scorso “Fratelli di sangue” diretto da Pietro Tamaro e scritto da Francesco Rizzi. Che ruolo interpreti?

Sì ad ottobre uscirà nelle sale “fratelli di sangue” diretto da Pietro Tamaro e scritto e interpretato da Francesco Rizzi. Il mio ruolo è molto divertente sono una ex ladra, Mara la strega, che ritorna a colpire soltanto per un ultimo per un’ultima volta insieme a una banda che Antonio il camaleonte, il personaggio interpretato da Francesco Rizzi raduna per ultimo colpo. E’ un personaggio molto divertente, è stato bello interpretarlo perché è vero che è una malvivente, ma adesso ha un figlio di 8 anni, ha cambiato vita, vorrebbe cambiare definitivamente vita per regalare al figlio un mondo migliore; però a volte come spesso capita anche nella realtà, i personaggi che hanno avuto un passato discutibile difficilmente riescono a uscirne completamente. quello che intuiamo nel film è anche che lei in qualche modo è stata innamorata di Antonio, il camaleonte, quindi vorrebbe preservarlo da tutte le cose negative che potrebbero venir fuori dopo questo ultimo colpo che vogliono con commettere, dunque è anche dolce e’ anche delicata in alcuni dei suoi aspetti.

10.Cosa pensi del cinema italiano?

Sul cinema italiano ho le idee un po’ confuse e forse non le posso esprimere nemmeno troppo liberamente. Credo che ci siano dei registi molto bravi che stimo immensamente primo fra tutti Emanuele Crialese o il mio conterraneo Giuseppe Tornatore (ho vissuto 10 anni a Bagheria); anche matteo Garrone è un ottimo regista, Paolo Virzi e alcuni nuovi come Piero Messina mi piacciono tanto e mi fanno ben sperare sul futuro del nostro cinema, ovviamente non vedo i cinepanettoni, non saprei nemmeno farti nomi di attori e registi che ne hanno girato e anche molte commediole non le guardo perché non mi interessano, però credo che il cinema italiano di questi anni sia nella giusta direzione.

11.Quali attori e attrici ammiri di più, e con quali ti piacerebbe lavorare?

Di attori italiani veramente bravi, quegli italiani che hanno reso grande il cinema italiano penso siano tutti morti e lo dico con un po’ di rimpianto, fra gli attori viventi mi piacciono tanto Valeria Golino, Valeria Bruni Tedeschi per le donne, e fra gli uomini Valerio Mastrandrea e Kim Rossi Stuart, non lo so, credo che la mia lista si fermi qui, ma certamente ci sono anche tantissimi bravi attori di cui non conosco il nome.

12.Hai in cantiere anche un progetto legato alla gastronomia. Vuoi parlarcene? E come è nata questa passione per l’arte culinaria?

La mia passione per la cucina nasce quando ero bambina, da sempre direi, mia madre tutti pomeriggi cucinava qualcosa di speciale o per il pomeriggio o per cena, faceva i biscotti, le pizze e io facevo i miei biscotti, le mie pizze sempre, tutte le volte che lei preparava qualcosa di speciale, io preparavo qualcosa di speciale insieme a lei. Ho sempre saputo cucinare e da ragazzina invitavo le mie amichette a cena e cucinavo io per loro. Poi nel 2010 decisi che volevo imparare le tecniche di ristorazione allora feci una scuola per chef a Roma che durò un paio d’anni comprensivo di stages formativo e devo dire che sono stata molto fortunata perché ho fatto lo stages formativo in un ristorante meraviglioso dei Parioli di cui però non posso fare il nome e da loro ho imparato veramente tanto, poi vivendo a Los Angeles, ho lavorato presso uno dei più importanti ristoranti italiani della California e anche lì ho imparato molto di quello che conosco oggi. Il mio progetto di cucina però non è di ristorazione, io sto mettendo su un progetto di private chef quindi uno chef che viene direttamente a casa e prepara la sua cena live. Ovviamente il progetto sarà dedicato agli stranieri in vacanza Roma o ad un target di persone che possono concedersi il lusso di invitare uno chef a casa propria. In questi giorni sto creando il sito internet, nel mio sito si potrà anche usufruire di un sommeliers di un bartender, di un musicista di un fotografo e di un video maker per la serata. E col tempo ho intenzione di allargarmi, mi piacerebbe tanto che gli chef di tutta Italia avessero il piacere di registrarsi sul mio sito e creare lo stesso movimento nelle altre città italiane.

 

Adele Perna n una scena dello spettacolo “Le dissolute assolte”

13.Riprenderà anche lo spettacolo interattivo “Le dissolute assolte”. Che sensazioni si provano quando si ripete più volte lo stesso spettacolo, riesci a trovare sempre nuove motivazioni ed emozioni?

Lo spettacolo “Le dissolute assolte” e’ quanto di più divertente abbia mai fatto e come dicevi, è uno spettacolo interattivo: il pubblico segue Leporello attraverso le stanze, lui accompagna gli spettatori presso le ragazze che interpretano il loro personaggio, l’atmosfera è magica, sembra di stare nei cunicoli nascosti delle ville settecentesche dove si concludevano i peccati più nascosti e le persone vengono ammaliate da questo pensiero. È proprio il pubblico che ti dà la carica e la voglia di ripetere le repliche sempre, a volte facciamo anche due repliche a sera perché lo spettacolo dura un’ora quindi spesso ci ritroviamo ad avere il doppio turno ma, nonostante questo, è sempre un’esperienza meravigliosa. Il gruppo è compatto, siamo tutte amiche, ci vogliamo tutte bene, non c’è rivalità, non ci sono conflitti si sta bene insieme, viva le dissolute!!!

14.Il teatro è quel luogo “dove tutto è finto ma niente è falso”, come disse una volta Gigi Proietti?

Proprio così, non c’è niente di falso, assolutamente nulla, tutte le emozioni che vengono provate sulle assi del palcoscenico sono reali se piangi piangi davvero, se ridi stai ridendo davvero, è così, è strano non è finzione, in quel momento lo stai provando realmente! Quando poi finisce lo spettacolo ritorni alla tua vita portandoti dietro un pezzetto dell’anima del tuo personaggio.

15.Quale personaggio ti piacerebbe interpretare a teatro o al cinema?

Ce ne sono così tanti forse quello che maggiormente mi piacerebbe interpretare in teatro è Ofelia dell’Amleto, o Nina del Gabbiano di Cechov, ma nella scrittura contemporanea ci sono personaggi molto interessanti che richiamano caratteri immortali delle opere classiche che tutti conosciamo. Al cinema invece non saprei; mi piacciono i personaggi complessi mi piacciono i cattivi forse perché con la faccia che mi ritrovo mi verrebbe bene un cattivo, non c’ho mai pensato. Se posso dirti invece un personaggio che hanno già interpretato e che mi piacerebbe rifare, beh allora forse Annie Sullivan, l’educatrice di Anna dei miracoli, quello si che è un personaggio che adorerei interpretare, non è cattiva, anche se lo sembra per tutto il film; in realtà è una donna molto buona che ha sofferto moltissimo, un po’ come me, forse!

Eduardo De Filippo, tra palco e realtà

(Napoli, 24 maggio 1900 – Roma, 31 ottobre 1984)

Trent’anni fa ci lasciava Eduardo De Filippo, un gigante del teatro contemporaneo e tra i massimi rappresentanti della drammaturgia popolare. La sua sottile ironia e la sua grande umanità hanno smesso di incantare il pubblico il 31 ottobre 1984. 

Prima di affrontare, anche solo in maniera sommaria, un autore prolifico e personaggio cardine della cultura italiana di fine secolo come Eduardo De Filippo bisogna innanzitutto avere ben presente un aspetto: prima c’è Napoli e poi il suo teatro. Eh già perché Napoli è l’unica città del mondo ad avere un “senso scenico” così incredibilmente sviluppato e così profondamente intrinseco al suo stesso essere. Ma “senso scenico” è un termine da non confondere con “teatralità”, sono due aggettivi ben distinti. La “teatralità” comunemente intesa, è semplicemente il gusto per l’eccesso, per l’innaturalezza e per il piacere di stupire; il “senso scenico”  invece è la tendenza alla rappresentazione scenica della vita in tutti i suoi aspetti, sia belli che brutti, al fine di esorcizzarla, capirla, renderla più sopportabile ed, al limite, riderci sopra. La fame, i figli, i sogni, la malavita, la famiglia, i vicoli, l’arte di arrangiarsi: sono queste le tematiche cardine del teatro napoletano e non i tormenti dell’alta borghesia tipici della produzione ibseniana, i tarli psicologici dei testi pirandelliani o le tensioni spirituali e morali tipiche del teatro russo. Argomenti all’apparenza semplici, banali ma difficili da universalizzare, generalizzare, che richiedono un vissuto profondo, anche drammatico per poterli eviscerare e trasmettere con la giusta efficacia. È necessaria una contestualizzazione molto forte dei soggetti e dei personaggi con il luogo da cui provengono per poter mettere lo spettatore nella condizione di comprendere il vissuto che la finzione scenica rappresenta. Napoli, con le sue contraddizioni, portentose ricchezze e indicibili miserie rappresenta lo sfondo ideale per questa sorta di “teatro della realtà”.

“Napule è ‘nu paese curioso: è ‘nu teatro antico, sempre apierto. Ce nasce gente ca senza cuncierto, scenne p’ ‘e strate e sape recita’”

È Napoli l’indiscussa protagonista del suo teatro, una Napoli che può essere all’occorrenza “milionaria”, oppure miserabile, tristissima o felicissima, ma sempre e comunque presente come una grande madre che abbraccia, coccola, sgrida o punisce i suoi figli. Dalle farse pulcinellesche alle commedie di Scarpetta, dagli scugnizzi di Viviani alle sceneggiate basate sulla famosa triade “isso, essa e ‘o malament’”, fino all’Assunta Spina di Salvatore Di Giacomo ed ai moderni testi di Eduardo, Napoli è sempre stata il palcoscenico ideale, croce e delizia, per il fiorire di una tradizione teatrale che si perde nella notte dei tempi. Testimonianza di questo indissolubile legame sta nel fatto che tutto il teatro napoletano è scritto e rappresentato in dialetto; sarebbe impossibile anche solo concepirlo in altro modo. Nonostante gli evidenti limiti linguistici battute come “ ‘a dda passa’ ‘a nuttata” o “Te piac’ ‘o presep’?” sono diventate di uso comune travalicando confini cittadini e regionali a testimonianza di una forza e di un’immediatezza non comune. In questo contesto si inserisce il teatro di Eduardo che assorbe e rielabora la tradizione teatrale napoletana, occupando in parte anche un’inquietante zona novecentesca, che appartiene soprattutto ad autori come Pirandello e Beckett, fino a trovarne un minimo comun denominatore che la renda universale e collettiva. Questo minimo comun denominatore sta nell’illusione intesa come pulsione ancestrale che muove le azioni umane. L’illusione di un domani migliore in Napoli Milionaria, l’illusione in un “mondo meno rotondo e un po più quadrato” in Il Sindaco Del Rione Sanità, l’illusione del colpo di fortuna in Non Ti Pago, l’illusione della famiglia in Natale In Casa Cupiello, Sabato, Domenica e Lunedì, Mia Famiglia, un’illusione che puntualmente viene disattesa lasciando il più delle volte l’amaro in bocca o al limite un grosso punto interrogativo. Il teatro del maestro napoletano vuole servire a qualcosa, esso denuncia le piaghe nella società e nei singoli individui, e solo la ‘lingua’ napoletana riesce a rendere al meglio la riflessione sull’ambiguità delle intenzioni nei rapporti umani e le illusioni (La lingua per Eduardo è molto importante perché è espressione della realtà che vuole raccontare, ma soprattutto è memoria).

“Voglio dire che tutto ha inizio, sempre da uno stimolo emotivo: reazione a una ingiustizia, sdegno per l’ipocrisia mia ed altrui, solidarietà e simpatia umana per una persona o un gruppo di persone, ribellione contro leggi superate e anacronistiche con il mondo di oggi”

Ma da dove nasce tale illusione? Nel caso di Eduardo da una condizione esistenziale obiettivamente disagiata che ha caratterizzato la sua vita fin dalla prima infanzia. Nato a Napoli il 24 maggio del 1900, secondogenito di Luisa De Filippo e di Eduardo Scarpetta (i suoi fratelli erano Titina e Peppino), ha sempre mal sopportato il suo status di figlio illegittimo. Il padre, infatti, ufficialmente coniugato con un’altra donna, non ha mai voluto riconoscere i tre fratelli De Filippo, rifiutandosi di dargli il cognome. È vero che il maestro Scarpetta ha sempre mantenuto, date le sue ingenti possibilità economiche, tutti i suoi numerosissimi figli ma è pur vero che la sua assenza come padre ha causato numerosi problemi alla prole. Sebbene a quel tempo, in una città come Napoli, fosse una cosa abbastanza normale essere figli di secondo letto (Totò ad esempio versava nella stessa condizione), Eduardo ha vissuto questa situazione in maniera non pacifica arrivando a sviluppare una corazza fatta di, disincanto e durezza caratteriale. La capacità di illudersi, o meglio, la voglia di illudersi gli è rimasta trovando nelle tavole del palcoscenico il mezzo ideale per metterla in atto. Spinto a recitare fin da bambino nella compagnia del padre e dei fratelli, ha sviluppato negli anni una padronanza assoluta del teatro come mezzo di comunicazione e come mezzo di illusione. La Grande Magia, (che occupa quella zona “inquieta” novecentesca), recita il titolo di una delle sue commedie più famose al cui centro si trova l’utopia dell’amor fedele, ma cos’è la magia se non inganno, stupore, finzione alla fine della quale si torna alla realtà con la consapevolezza che è tutto un trucco, un sortilegio destinato a finire? Un’illusione appunto: il Professor Otto Marvuglia fa “sparire” durante uno spettacolo di magia la moglie di Calogero di Spelta per consentirle di fuggire con l’amante, e fa poi credere al marito che potrà ritrovarla solo se aprirà la scatola in cui sostiene sia rinchiusa. Alla fine la donna ritorna pentita, ma il marito si rifiuta di riconoscerla, preferendo restare ancorato all’illusione di una moglie fedele custodita nell’inseparabile scatola.

Eduardo, che si è sempre definito un “illitterato” ma ha vissuto delle contraddizioni come quella che rappresentata dalla presentazione di un uomo disagiato che ha smarrito il senso dell realtà. riflette su quanto nel teatro si “viva sul serio quello che gli altri recitano male nella vita”, ossia su quante siano le convenzioni e le sovrastrutture che dettano la nostra vita quotidiana: attribuzioni di senso condivise che rendono “reale” ciò che altro non è che frutto di un tacito accordo tra individui che credono nella stessa illusione. E in questo modo ognuno nella vita, come nella scena, si trova a recitare il proprio ruolo e ad avere fede in ciò che più ritiene opportuno nella cieca illusione di detenere la verità a differenza di quanto accade in teatro dove, può sembrare un paradosso, si è più consapevoli dell’assurdità di questa presunzione. In quanti potrebbero riconoscersi in questa geniale opera senza tempo che ci consegna un Eduardo cinico e disincantato, ritrattista di un’Italia statica, prigioniera di circostanze immutabili; un Paese che attua l’autoinganno. Cosa è cambiato oggi?

La magia è bella però, fa sognare, come sognano l’Alberto Saporito de Le Voci Di Dentro, il ladruncolo di De Pretore Vincenzo, la protagonista di Filumena Marturano, il Libero Incoronato di Le Bugie Con Le Gambe Lunghe, il don Gennaro di Gennariniello o il Pasquale Lojacono di Questi Fantasmi!, salvo poi scontrarsi con la dura realtà di un tradimento, della menzogna, della povertà e del bisogno. E’ proprio questa sua capacità di mettere in scena l’illusione, il sogno in forte contrasto con i piccoli eventi quotidiani a fare di Eduardo uno tra i più grandi commediografi moderni. Nonostante la staticità scenica e l’uso del dialetto, Eduardo riesce a catturare l’attenzione dello spettatore per tre atti, grazie ad una forte caratterizzazione dei personaggi, ad una straordinaria mimica facciale e a una maniacale attenzione per l’uso dei vocaboli. Pochi attori in scena, scenografie elementari, trame semplici, ma una straordinaria dialettica che rende ogni dialogo avvincente e costruito su misura per il personaggio. Le parole prendono vita, suscitando ilarità, tensione, commozione, mentre gli attori restano fermi. Il finale di Napoli Milionaria è esemplare in questo senso: i due protagonisti seduti ad un tavolo danno vita ad un finale tragico e commovente.

Gennaro– “Teh… Pigliate nu surzo ‘e cafè…” (Le offre la tazzina)
Amalia accetta volentieri e guarda il marito con occhi interrogativi nei quali si legge una domanda angosciosa: “Come ci risaneremo? Come potremo ritornare quelli di una volta? Quando?”. Gennaro intuisce e risponde con il suo tono di pronta saggezza.
Gennaro– “S’ha da aspetta’, Ama’. A’ dda passa’ ‘a nuttata”. (Da Napoli Milionaria-Atto III)

Parole, gesti, sogni, illusioni il teatro di Eduardo è tutto questo. Rappresenta il superamento del teatro napoletano classico ed il suo sdoganamento presso le platee internazionali ma nonostante il successo, i premi, i riconoscimenti, Eduardo non ha mai dimenticato da dove veniva, quell’intreccio di vicoli e stradine che costituisce il cuore della vecchia Napoli. Non ha mai dimenticato la sua gente, la sua musica, il sole, il mare ed il profumo di Napoli che ha sempre riproposto anche nei lavori della maturità. Non ha mai ambientato commedie in un posto che non fosse la sua città natale; non ha mai usato un altro linguaggio né usato altri personaggi, a dimostrazione di un cordone ombelicale invisibile ed indissolubile con una città che, nel bene e nel male, è stata attrice e spettatrice del suo teatro e della sua stessa vita. Eduardo è immortale; il suo teatro, fatto con onestà e per il quale il maestro ha sacrificato la sua vita, conosciuto e apprezzato in tutto il mondo, è immortale. Eduardo è un esempio di dedizione e passione per il proprio mestiere, bel lontano dalla bramosia del successo facile.

“Ho fatto l’attore perché la mia famiglia era una famiglia di attori. La recitazione che vedevo sui palcoscenici di allora non mi piaceva, la trovavo esagerata, finta. Con la presunzione dei bambini ho pensato che avrei fatto molto meglio io, e che Il stavano sbagliando tutto. Per tutta la vita ho sempre voluto fare meglio degli altri, essere più vero, osservare più attentamente la realtà, raccontare meglio di tutti la vita” (E. De Filippo)

Luigi Pirandello: precursore del modernismo

“Trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica di tutte le vostre costruzioni”. (Luigi Pirandello)

Forse è questo ciò che accade quando, nelle nostre certezze, entra una frase, una parola, un concetto o un’idea di quell’uomo che, ancora oggi, resta con le sue opere famoso in tutto il mondo.

Pirandelliano, pirandellismo, termini che derivano da uno dei più grandi scrittori del ‘900 per indicare un avvenimento o una situazione paradossali. Un autore, un uomo, uno scrittore che, elabora e costituisce la poetica dell’umorismo respingendo l’armonia classica e il mito romantico.

Tre furono gli ambienti che influenzarono la formazione psicologica e culturale del grande drammaturgo e narratore sicliano premio Nobel per la letteratura che risponde al nome di Luigi Pirandello: quello siciliano, quello tedesco e quello romano. In Sicilia Pirandello visse dalla nascita, avvenuta ad Agrigento il 28 giugno 1867, fino al 1887, anno in cui si trasferì a Roma per continuare gli studi universitari, conseguendo a Bonn, in Germania, la laurea in filologia romanza.

I primi passi furono mossi all’interno della scuola siciliana, portando l’autore ad una visione relativistica della vita e del mondo. Fu però il teatro a dare quella fama più che meritata. Lo scrittore siciliano mette in scena attraverso relativismo, surrealismo ed espressionismo, le diverse fasi di uno stile di vita volto ad affrontare la realtà attraverso quell’umorismo, quel paradosso, che l’hanno reso uno dei pochi scrittori famoso in tutto il mondo. Per i primi anni, successivamente a conseguimento della laurea, si dedicò all’attività poetica  (“Mal giocondo”, 1889; “Pasqua di Gea”, 1891), testimoniata in seguito da poche altre opere (“Elegie renane”, 1895; “Zampogna”, 1901; “Fuori di chiave”, 1912). Giunto a Roma nel 1893, fu introdotto negli ambienti giornalistici e letterari, dedicandosi ad un’intensa attività pubblicistica e creativa. Fu a partire dal 1915, successivamente ad una serie di problemi familiari che colpirono il padre e la moglie dell’autore siciliano, che si legò al teatro, anche nella regia, affrontando una serie di spostamenti all’estero. Diresse il Teatro d’Arte di Roma (1925-28) creando una propria compagnia, chiamandovi come prima attrice la giovane Marta  Abba, alla quale rimase legato da profonda passione fino alla morte. Nel 1934 gli fu conferito il premio Nobel per la letteratura.

E, attraverso gli echi della sua vita, di quella giovinezza che lo ha condotto a divenire un drammaturgo mai dimenticato, ancora in grado di stupire chi si accinge per la prima volta ad avvicinarsi alle sue opere, ci avviciniamo a quei romanzi, “L’esclusa”- “Il turno” (1901-1902), in cui, come già accennato, si delinea una visione angosciosamente relativistica della vita.

“La vita o si vive o si scrive, io non l’ho mai vissuta, se non scrivendola.” 

Pirandello con Eduardo, Peppino e Titina De Filippo

Ma sono nelle vicende e nei personaggi le discordanze tra l’essere e l’apparire, il pare, ciò che realmente si ritrova nelle sue grandi opere, ciò che appassiona, ciò che trascina in una lettura senza tempo. E così  Luigi  Pirandello interviene nel racconto con ironia, sarcasmo, umorismo. Queste le caratteristiche che ritroviamo in quello che viene, ancora oggi, considerato il suo  capolavoro , “Il Fu Mattia Pascal”(1904). Ma queste caratteristiche sono proprie anche delle successive raccolte di novelle (Erma bifronte, 1906; La vita nuda, 1910; Terzetti, 1912; Le due maschere, 1914, poi intitolata Tu ridi, 1920; La trappola, 1915; Erba del nostro orto, 1915; E domani, lunedì…, 1917;Un cavallo nella luna, 1918; Berecche e la guerra, 1919; Il carnevale dei morti, 1919) e dei romanzi posti nel mezzo o che seguono la “grande opera” (Suo marito, 1911, più tardi in parte rifatto col tit. Giustino Roncella nato Boggiolo, post., 1941; I vecchi e i giovani, 2 voll., 1913; Si gira…, 1916, tit. poi mutato in Quaderni di Serafino Gubbio operatore, 1925; Uno, nessuno e centomila, 1926). E nonostante quell’elemento realistico rimanga sempre in Luigi Pirandello, i modi della narrativa verista appaiono ora capovolti. Sullo sfondo provinciale e borghese di quella narrativa, e nel bel mezzo dei temi che le sono proprî (gelosie, adulterî, terzetti matrimoniali, pazzie, vendette), prende rilievo un’inquietudine nuova, per la quale il nome di Luigi Pirandello è stato accostato a quello dei maggiori esponenti del decadentismo italiano ed europeo: l’ansia dell’uomo che invano cerca di ribellarsi agli schemi della vita per essere soltanto sé stesso e inutilmente si sforza di comporre il dissidio tra forma (maschera) e vita (autenticità). Ai personaggi della narrativa verista, “vinti” ma non privi di una loro grandezza epica, succedono così figure di medî o piccoli borghesi, di impiegati, professionisti, pensionati, rappresentanti di una società priva d’ideali e condannati proprio per la loro realtà, per la loro condizione, per quella differenza sostanziale tra l’essere e l’apparire; e la narrazione si fa aggrovigliata, intesa, seguendo le tortuosità del pensiero e a creando intorno ai personaggi e alle loro vicende un’aria allucinata, di caos.

Il teatro di Luigi Pirandello, così come la narrativa, si muove prima sugli schemi della commedia borghese (“Lumie di Sicilia”, 1910; “Pensaci Giacomino!”,1916; “Liolà”, 1916, scritta originariamente in dialetto siciliano; “Così è (se vi pare”), 1917; “Il piacere dell’onestà”, 1917; “La patente”, 1918; “Ma non è una cosa seria”, 1918; “Il berretto a sonagli”, 1918; “Il giuoco delle parti”, 1918; “Tutto per bene”, 1920; “Come prima, meglio di prima”, 1920; “La signora Morli, una e due”, 1920); schemi abbandonati per giungere in un clima di dramma e tragedia(“Sei personaggi in cerca d’autore”, 1921, l’opera scenicamente rivoluzionaria che, insieme con “Ciascuno a suo modo”, 1924, e “Questa sera si recita a soggetto”, 1930, costituisce la cosiddetta trilogia del “teatro nel teatro”; “Enrico IV”, 1922; “Vestire gli ignud”i, 1922; “L’uomo dal fiore in bocca”, 1923; “La vita che ti diedi”, 1923; “Diana e la Tuda”, 1927; “Come tu mi vuoi”, 1930; “Quando si è qualcuno”, 1933; “Non si sa come”, 1935). Tutto questo è il teatro della maturità, il teatro di un secondo momento, un secondo approccio, ma che in realtà approfondisce il primo momento pirandelliano. Opere fuori dal tempo, fuori dallo spazio. Restò incompiuta la sua ultima opera,” I giganti della montagna”.  L’autore stesso provvide a riordinare editorialmente la sua produzione drammaturgica.  Mentre segue a Cinecittà la realizzazione di un film tratto da “Il Fu Mattia Pascal” e lavorando alla conclusione dei “Giganti della montagna” e all’ultimo volume delle “Novelle per un anno”, viene colto da una polmonite. Luigi Pirandello Lascerà questo mondo che l’ha amato e lo ama ancora a Roma, nel dicembre 1936. Non ci furono onoranze pubbliche né funerali di Stato; le sue ceneri furono traslate ad Agrigento, e una “rozza pietra”, come egli voleva, fu posta per memoria ai piedi di un pino nella contrada del Caos, dove lo scrittore era nato sessantanove anni prima.

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