Jacopo Siccardi: “Il teatro è smettere di pensare solo all’io per iniziare a pensare al noi”

Classe 1991, Jacopo Siccardi è un performer torinese. Non solo attore, cantante e ballerino ma anche fiorettista: per 12 anni ha praticato a livello agonistico la scherma, aggiudicandosi il terzo posto al Campionato Nazionale Cadetti. Dopo aver frequentato il liceo scientifico informatico si iscrive Accademia dello Spettacolo di Torino. Ed è proprio questa la terra felix dove cresce, studia e sperimenta diverse discipline dalla tecnica vocale, al repertorio musical, canto pop\rock, la recitazione teatrale, la danza contemporanea e classica, danza jazz Tip Tap, dizione e fonetica, fino alla storia del musical. Nel giugno del 2013 si diploma, con la lode, come Triple Threat Performer. Durante l’esperienza accademica Jacopo Siccardi ha l’opportunità di calcare il palcoscenico in svariati ruoli: come Scrooge Canto di Natale in cui interpreta Federigo, Sogno di una Notte di Mezza Estate in cui veste i panni del folletto Puck, Jesus Christ Superstar nel quale canta nel ruolo di Judas, come danzatore nell’ allestimento dello spettacolo\documentario Bororo e Decameron  il Prencipe Galeotto, nel quale recita la parte di Rustico, 6 Come Noi, con la regia di Alessandro Avataneo con il quale lavora al personaggio di Luigi.

Nell’estate 2013 prende parte alla realizzazione del Dvd di C’è da non crederci a cura dell’Accademia dello Spettacolo. Nello stesso anno viene scelto per il ruolo di Artù per la produzione di Excalibur La Spada nella Roccia, in tournée in tutto il nord Italia per il 2014. Nel 2015 Jacopo Siccardi è in teatro con Il Mercante di Venezia e ne il Monello di Charlie Chaplin, fino al 2016. Nello stesso anno presso il Pantomime Festival di Dresda è impegnato in  Undercreative Project- Angle Breaking e in Smile Cafè. Ancora nel 2016 Jacopo Siccardi  prende parte All’ombra del Campanile. 

La sua carriera conta esperienze anche al cinema e in televisione: sul grande schermo, nel 2016, ne Il Principe dei Tarocchi e in Smoking Tar; in tv, nel 2017, con la fiction rai, Non Uccidere 2 e con una produzione mediaset, il film, il Terzo indizio.

Nel 2017 è ancora in teatro, con la commedia musicale Il Piccolo Principe, nel ruolo dell’aviatore. Nel 2018, è in scena con Amalfi Musical Opera e con A Christmas Carol.

L’anno successivo Jacopo Siccardi è impegnato in Notre dame il mistero della cattedrale e in Murder Ballad.  Attualmente è impegnato con Vajont di tutti, riflessi di speranza. 

Jacopo Siccardi in Vajont di tutti- Riflessi di speranza

 

Quando ha capito di voler fare l’attore e il performer?

Direi durante gli studi presso l’Accademia dello spettacolo di Torino ed il Duse International a Roma. Inizialmente volevo fare il cantante Rock (sono un fan di Bruce Springsteen) ma ho preferito intraprendere lo studio anche di danza e recitazione e nel farlo… mi sono accorto che mi piacevano!

Chi sono stati o sono i suoi Maestri? A questo proposito con chi sogna di lavorare?

Il mio primo maestro è stato Angelo Galeano, prima ancora di iscrivermi all’ Accademia. Ho fatto un anno di lezioni di canto con lui ed è stato merito suo se ho cominciato a scoprire il mondo musicale al di là del Rock. In realtà nel corso degli anni mi sono accorto che c’è un po’ da imparare da tutti! Dai registi, dai colleghi, dalle squadre tecniche, ed anche dai “non addetti ai lavori”, da chiunque insomma. Attualmente sono molto felice dei progetti a cui sto lavorando. Lo spettacolo Il Vajont di tutti scritto e diretto da Andrea Ortis mi sta portando ad un’ analisi e ad un ascolto interiore piuttosto profondi e sono grato a tutti i colleghi con cui sto condividendo questo percorso per la loro meravigliosa umanità oltre che per la loro professionalità. Mentre con Vlad Dracula di Ario Avecone ,oltre al piacere di collaborare di nuovo con vecchi amici, sono grato che mi permetta di lavorare con Artisti che seguo da tempo come Christian Ginepro e Giorgio Adamo.

 

È stato campione di fioretto nella vita e poi maestro di scherma scenica in teatro. Ci può spiegare meglio nel dettaglio?

Beh… ad essere sincero io ho iniziato a fare scherma (a 8 anni) dopo aver visto La Maschera di Zorro al cinema. È stata una folgorazione! Poi per dodici anni l’aspetto coreutico di questa mia passione è rimasto latente, coperto dalle dinamiche agonistiche, per poi riemergere quando ho iniziato a studiare Arti Sceniche. Ora… io non mi definisco un maestro. Semplicemente ho elaborato e sto perfezionando un metodo per permettere ad attori e professionisti del settore di approcciarsi al combattimento scenico, soprattutto a quello all’ arma bianca, in maniera funzionale. Non ci si improvvisa schermidori, ma talvolta non si ha tanto tempo in allestimento per montare combattimenti che siano belli da vedere ed abbiano l’apparenza di realismo. Il mio compito è facilitare questo processo agli attori, in modo che la scena di combattimento non diventi un ostacolo ma sia al servizio della recitazione e quindi del testo e dello spettacolo.

E’ un attore del Film Commission Torino Piemonte (FCTP) che ha come scopo la promozione della Regione Piemonte e del suo capoluogo Torino come location e luogo di lavoro d’eccellenza. Quanto è importante sostenere le produzioni che scelgono di produrre sul territorio piemontese?

Per me è fondamentale! Non fraintendetemi, Roma è un centro di produzione cinematografica meraviglioso. Semplicemente io vedo il potenziamento di un centro come quello di Torino, e dei suoi attori, registi, tecnici ecc ecc non con un fine di competizione ma bensì di collaborazione con il polo di Roma. A Torino abbiamo per esempio uno dei teatri di posa più grandi d’Europa, perché lasciare questi spazi poco utilizzati? La crescita artistica di un centro come Torino può ed è giusto che porti alla crescita di tutto il settore! Questa almeno è il mio punto di vista.

Cosa vuol dire essere un attore oggi?

Per me, Jacopo Siccardi,  più che mai è il mettersi nei panni degli altri. Può sembrare una banalità. Ma comprendere il punto di vista di un’ altra persona, le emozioni, i pensieri, i dubbi, le aspirazione che la muovono è un processo che porta a parer mio ad arricchirsi di giorno in giorno. Stando sempre e solo con le proprie idee alla lunga ho la sensazione che si rimanga un po’ come un cane alla catena. Ascoltare le idee degli altri e riuscire a rispettarsi anche nel disaccordo è un processo artistico ma anche sociale. È smettere di pensare solo all’ Io per iniziare a pensare al Noi.

Qual è per Lei la maggiore differenza tra un attore di teatro e uno di cinema?

Personalmente non vedo tutta questa differenza se non dal punto di vista della tecnica attoriale. Ovviamente un attore a teatro avrà bisogno di una una qualità vocale e di una carica fisica di maggior respiro, per arrivare allo spettatore seduto in ultima fila, come si dice in gergo, rispetto alla recitazione più contenuta, più intima potremmo dire, dell’ attore che sta davanti alla macchina da presa, pronta a intercettare anche il più piccolo movimento, ed il più piccolo dettaglio. Ma il percorso emotivo, il processo di immedesimazione che deve compiere l’attore, sono i medesimi per entrambi gli ambiti. Naturalmente un professionista può preferire uno dei due ambienti, nulla di male a riguardo. Personalmente mi piacciono entrambi. Adoro la presenza del pubblico in teatro, la carica e la magia dell’ irripetibile, anche facendo diverse repliche dello stesso spettacolo nessuna sarà mai uguale all’altra, ma nel contempo la spettacolarità della macchina cinematografica è sempre un’ emozione.

Ha calcato palchi a livello nazionale ed internazionale. Come viene percepito il teatro, che tipo di pubblico c’è. Ha riscontrato delle differenze tra Italia e l’estero?

All’ estero ho lavorato principalmente con il gruppo Jobel in spettacoli di pantomima. Un genere poco di moda attualmente in Italia. Partecipando per esempio al Pantomime Festival di Dresda ho scoperto che in Germania questo è un genere vivo e attivissimo. Il pubblico è più abituato all’ idea di uno spettacolo senza parole. In Italia abbiamo un grande esponente di questo teatro che è Paolo Nani. Per esempio sono rimasto estasiato dal suo L’arte di morire ridendo. All’ estero talvolta capita che il pubblico rida o si emozioni in un momento imprevisto dello spettacolo, perché magari sei andato a toccare un retaggio culturale, un frammento di un modo di vivere che non conosci appieno. Magari all’ inizio si può rimanere un po’ spiazzati, ma di base la trovo una cosa molto bella.

In una società come la nostra, dove tutto si svolge e si consuma nell’immaterialità del mondo digitale, di internet, dei social e dei videogiochi. Come si fa ad educare il pubblico e soprattutto le nuove generazioni alla cultura teatrale o alle arti in generali?

La performance dal vivo non ha paragoni. Questo è il mio parere. Far comprendere alle nuove generazioni che andare a teatro non è come andare al cinema, che l’attore in quel momento è lì per te, in carne ed ossa, è essenziale. Con questo non voglio attaccare il digitale. Per esempio in ambito videoludico ci sono operazioni come Death Stranding di Hideo Kojima che sono state interamente realizzate con la partecipazione di attori professionisti senza i quali il videogioco non avrebbe potuto assumere l’aspetto esperienziale, e non di solo intrattenimento, che lo caratterizza. Certamente i linguaggi è giusto che si evolvano, che si incontrino, senza chiudersi nei propri compartimenti stagni.

Tra i tanti ha vestito i panni del folletto Puck in Sogno di una notte di mezza estate, Federigo in Scrooge Canto di Natale, Stattford in Vlad Dracula, Rustico nel Decameron-Principe Galeotto. Che rapporto ha con la letteratura, quanto è complesso per un attore misurarsi con autorevoli opere letterarie, trasporle e renderle fruibili per il pubblico?

Penso che la letteratura sia un’ incredibile ricchezza. Porta in sé oltre al contenuto di ogni opera anche il retaggio dell’ ambiente culturale che l’ha generata. Il modo di pensare, le abitudini, la conformazione sociale… . Per me un attore è giusto che sia in un certo senso anche un po’ un letterato, che legga, che guardi film di diversi generi, che sia curioso. E poi c’è da mettersi in gioco, al servizio della visione del regista, dal punto di vista performativo ed umano. Il rapporto tra attore e regista è fondamentale! Un buon lavoro fatto prima porterà ad una migliore comunicazione con il pubblico. Per me l’arte è sempre comunicazione! Non sono un grande amante di quell’ Arte elitaria, talvolta piuttosto ermetica, difficile da avvicinare a più ancora a volte da comprendere appieno. Credo profondamente nelle forme d’arte a più livelli, nelle quali lo spettatore può cogliere ciò che appare nell’ immediatezza ma poi anche immergersi al di sotto della superficie trovando nuovi contenuti e sempre maggiori profondità.

Sarà in scena con “Vajont di tutti, riflessi di speranza”. Ci anticipi qualcosa

È un progetto al quale come ho detto sono davvero grato di poter partecipare. Va a toccare momenti della Storia del nostro paese che non è giusto dimenticare. Non certo per esaltare la tragedia, o per rinvangare il dolore, ma piuttosto perché ci sono lezioni in quelle storie che ancora non sono state del tutto imparate. È uno spettacolo che, a parer mio, ha in se’ un fortissimo senso di speranza e che racchiude la volontà di lasciarsi alle spalle il dolore, ma non per dimenticarlo, bensì per poter iniziare a ricostruire con una nuova consapevolezza. È anche uno spettacolo che ha una sua brillantezza. Certo si parla di argomenti non facili, che vanno approcciati con delicatezza e rispetto, ma questo non significa che la narrazione e la comunicazione non possa avvenire nella serenità e nel piacere di stare insieme. Si… questo è un aspetto di questo spettacolo che sento particolarmente, il pubblico in sala non è mero spettatore, ma sta con noi, vive con noi la serata!

Progetti futuri?

L’ambito musicale non è stato mai dimenticato! Sto registrando un album con la band progressive rock ARCA PROGJET di cui sono il cantante. È un lavoro pieno di passione. I membri della band (e compositori dei brani) sono Alex Jorio alla batteria, Gregorio Verdun al basso e Carlo Maccaferri alle Chitarre. Appena il progetto verrà ultimato non mancherò di farvelo sapere.

 

https://www.vivaticket.com/it/ticket/il-vajont-di-tutti-riflessi-di-speranza/190805

Guia Zapponi: “Il teatro è un luogo di catarsi e per cercare di capire che cos’è la vita”

Guia Zapponi classe 1977, è una attrice, produttrice e regista milanese. Dopo gli studi teatrali fra la City Lit di Londra e la Scuola del Teatro Stabile di Genova, la vita di Guia si divide fra teatro, cinema e televisione sia sulla scena che dietro le quinte. Artista poliedrica e dal corpus artistico molto nutrito.

Dal 1995 interpreta ruoli principali in teatro tra cui Il postino di Neruda (regia di Memè Perlini), Giulietta e Romeo (regia di Nicolaj Karpov), Olga (regia di Maura Cosenza), La bisbetica domata (regia di Marco Cesobono), Il Rompiballe (regia di Andrea Brambilla), Posta prioritaria (regia di Sara Bertelà),  Tre voli (regia di S. Bertelà), Bash (regia di Marcello Cotugno), Don Chisciotte (regia di Maurizio Scaparro), Theatre Ouvert (progetto teatrale presso il Teatro Stabile di Torino, di Elisabetta Pozzi).

Guia Zapponi nel DON CHISCIOTTE

Dal 2005 al 2012 lavora in televisione per Rai e Mediaset. In Gente di mare è Laura, sempre lo stesso anno in Codice Rosso interpreta Stefania (regia di Riccardo Mosca) e nel 2008 è Lina ne La Squadra (regia di G. Leacche) e nel  2012  partecipa al film tv Il Matrimonio (regia di Pupi Avati). Successivamente interpreta la sorella di Elena Sofia Ricci nel film tv Le due leggi (regia di Luciano Manuzzi 2013) e successivamente partecipa come protagonista nella serie di successo Don Matteo 10 (regia di Jan Michelini 2015).

Guia e Terence Hill in Don Matteo

 

Per quanto riguarda cinema, l’attrice esordisce nel 2004 con il film Non aver paura (regia di Angelo Longoni) successivamente Una talpa al bioparco (regia di Fulvio Ottaviano). Tra i tanti cortometraggi partecipa come Maria Maddalena in Jesus-il Miracolo italiano (regia di Franco Di Pietro). Il suo curriculum è impreziosito da svariati sodalizi artistici: Guia inizia la collaborazione con un maestro del cinema come Pupi Avati partecipando ai film Il figlio più piccolo, Una sconfinata giovinezza, Un ragazzo d’oro e Un Viaggio lungo cent’anni. Lavora con Carlo Verdone nel film Sotto una Buona Stella.

 

 

 

 

 

Guia Zapponi- Sotto una buona stella

Con il regista genovese Ildo Brizi  gira due cortometraggi e un lungometraggio come protagonista assoluta Danza Macabra 2014 che vince quest’anno come miglior film di genere al Terra di Siena International Film Festival. Ha lavorato ad una commedia al femminile in uscita al fianco di Paola Minaccioni, Violante Placido e Claudia Pandolfi dal titolo Alice non lo sa

La sua carriera conta anche alcune esperienze all’estero: Guia è stata protagonista nei  film Sharkskin (regia di Dan Perri 2013)  Nothing like the sun (regia di Nguyen Nguyen) Nine-eleven ( regia di Martin Guigui) Los Angeles 2016 e Zeroville (regia di James Franco 2014).

in Sharkskin

Come regista debutta nel 2007 nel suo primo documentario girato in Mauritania, sostenuto dal Ministero dei Beni Culturali, sui cambiamenti climatici proiettato all’interno della settimana sostenibile dell’UNESCO a Roma.

Guia continua la sua esperienza di regista in teatro firmando la regia teatrale di Cena con Burlesque con ben 200 repliche e produce The Great Carouesel.

Guia Zapponi –The Great Carouesel

Si è cimentata nel cinema con la regia del  suo primo cortometraggio dal titolo Paludi e il suo secondo corto dal titolo Una scatola piena di Luce con Giulia Lazzarini, Sara Bertelà e Ginevra Ghisleni, acquistato da Rai Cinema ha vinto una menzione speciale al Terra di Siena International Film Festival.

Come regista firma tre documentari: Journey To Mauritania, Oman Expedition acquistato da De Agostini e il suo ultimo film Soul Travel prodotto da RS Productions branchia di Rolling Stone Italia è uscito al cinema in tutta italia ad agosto 2021. Proprio con quest’ultimo Guia Zapponi è stata premiata al 25° International Terra di Siena Film Festival nella categoria “Migliore Regia Documentario”.

Nella sua carriera Guia ha prestato il suo volto anche per noti spot pubblicitari e nel corso della sua carriera si preoccupa di curare anche degli aspetti organizzativi e della produzione teatrale e cinetelevisiva. Dal 2008 al 2016 per La Biennale di Venezia si occupata dell’organizzazione del Festival di Venezia nel settore Delegazioni Film.

Guia Zapponi è un’attrice di talento, quel tipo di interprete che lavora non in virtù della popolarità e del successo, ma per amore dell’arte. Un’attrice pensante e generosa, preziosa per il nostro spettacolo.

 

1 Chi sono i maestri del cinema italiano? Quali caratteristiche devono avere secondo lei?

Quando mi viene chiesto chi sono i maestri del cinema italiano mi vengono in mente i grandi del passato De Sica, Fellini, Antonioni, Rossellini e Monicelli. Sono maestri del cinema indiscusso, conosciuti in tutto il mondo. È ovvio che poi ci sono delle persone, comunque, molto in gamba anche oggi e che si potrebbero chiamare maestri. Abbiamo avuto un grande cinema soprattutto in quegli anni. Quello è storia. Ascoltavo proprio l’intervista di un’altra attrice, Monica Vitti appunto, e diceva che in quei tempi spesso i registi non prendevano attori usciti dalle accademie, ma prendevano gente della strada. L’attore era visto come un personaggio non comodo su un set. Per cui non solo erano dei maestri ma, in più avevano una grande creatività. Le caratteristiche che dovrebbero avere secondo me i registi sono sicuramente la creatività, la scrittura- perché il cinema parte dalla scrittura- e una visione, cioè un immaginario. E questi maestri le avevano.  Anzi credo che oggi chiunque faccia cinema deve avere secondo me queste tre caratteristiche.

2 A proposito di maestri, ha lavorato con Pupi Avati, lo trova un cineasta più ruvido o sentimentale? Cosa ha imparato stando a contatto con lui?

Ci sono registi di grande calibro e Pupi Avati è uno di questi. La sua filmografia è abbastanza corposa. Il suo ultimo film, quello su Dante, secondo me è molto interessante. Con lui ho fatto “Una sconfinata giovinezza” un film su una malattia che però non ha avuto a mio avviso il giusto spazio. Lui fa dei film, molto belli, molto difficili ma che magari posso non avere una grande risonanza. Ruvido o sentimentale? Io direi una via di mezzo. La cosa che ho imparato da lui sicuramente il rapporto che ha con gli attori. È molto bravo ad istaurare il rapporto registra-attore. Ha usato persone che non erano attori e li ha trasformati in attori, ad esempio, Katia Ricciarelli. Tanti altri che magari avevano altre professioni. O attori che venivano da tutt’altro cinema, magari, comico, commedia e lui li ha usati nel drammatico. È stato molto bravo da questo punto di vista: sa come parlare agli attori e li conosce. Un aspetto che si dovrebbe tenere conto quando si fa cinema. Perché non è importante solo quale macchina da presa usi o quale luce o qual è il direttore della fotografia o come fai l’inquadratura, ma se  non riesci ad avere una relazione, un rapporto con gli attori, in un certo modo, non riesci a tirar fuori da loro le emozioni, e se non riesci non puoi emozionare il pubblico. È un po’ una catena. Essendo attrice, avendo fatto tanti set, non è solo l’empatia, ma è sapere qual è lo strumento dell’attore, il proprio corpo la propria psicologia. Sapere come parlargli, cosa chiedergli, come chiederglielo. Se sai come parlare e quali emozioni vuoi tirar fuori dall’attore questo cambia il film. Questo l’ho imparato da lui proprio guardandolo e osservandolo. Se avessi fatto più film con lui avrei imparato come usare  al meglio il linguaggio cinematografico. È una persona di grande talento.

3 Cos’è è per lei il palcoscenico Guia? Un territorio neutrale dove si inventa l’uomo, il luogo ideale per essere se stessi, un modo per sfuggire al destino?

Per me il palcoscenico è un luogo in cui esprimersi, in cui attraverso i personaggi si riescono ad esprimere alcune potenzialità ed emozioni. Il teatro è un luogo di catarsi, nel senso che si va a teatro per cercare di capire che cos’è la vita.

4 Il mondo visibile ed invisibile si toccano di più in teatro o al cinema? Ritiene che il teatro sia più veritiero del cinema, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto tecnico, la messa in scena, la recitazione, ecc?

Il teatro  è presenza. Il cinema è visione. Poi, ovviamente la cosa bella è che non tutto deve essere detto, cioè tu metti gli ingredienti e poi lasci anche spazio al pubblico. Veritiero no, perché veritiero è soltanto il documentario, perché ciò che si vede è vero, forse nemmeno quello perché comunque è montato e quindi si fanno delle scelte, non si vede tutto. In questa prospettiva nulla è veritiero, neanche il teatro e il cinema sono veritieri perché sono rielaborazioni della realtà. Se poi parliamo di autenticità allora può esserci in tutto.

5 Guia è stata la regista del documentario Soul Travel, incentrato sul tema del viaggio. Cos’è per lei il viaggio? Perché ha scelto proprio Il vulcano Kilimanjaro?

Guia Zapponi- Soul Travel

Per me il viaggio è come un percorso interiore, per cui io lo vivo così: si può andare alla ricerca di qualcosa, oppure, avere voglia di un cambiamento, quindi intraprendere un viaggio per cambiare alcune cose o per spostarsi comunque da una realtà e vederla sotto un’altra prospettiva. Il mio documentario inizia proprio con un testo filosofico, scritto da Massimo Cacciari nel quale si legge che ci possono essere tanti modi di viaggiare. Ci può essere l’avventura e ci può essere anche soltanto il percorso per andare a fare la spesa che è una sorta di viaggio. Il viaggio che ho inteso in questo film è l’avventura e il cambiamento, quindi il percorso interiore. Avevo scelto due posti: uno era il Tibet e l’altro era la Tanzania. Purtroppo per via del Covid- perché comunque fortunatamente abbiamo potuto lavorare durante il COVID, il Tibet diventava complicato, proprio logisticamente, anche perché le frontiere erano chiuse. La mia idea era di avere una montagna come simbolo da scalare con trekking e il Kilimanjaro che era la seconda possibilità, è stata quella che abbiamo scelto. Se dovessi tornare indietro direi che è stata la scelta più adatta, soprattutto per quello che è successo durante il film, che ha potuto confermare il messaggio che io volevo mandare e cioè che non è importante la meta, ma appunto il percorso e le persone con cui lo tu fai. Un po’ il parallelismo della vita: cioè non è importante arrivare a chissà quali successi. Ognuno ha le sue mete, i suoi sogni… a volte per arrivare a quelle mete si perde una serie di cose e di bellezze che ti dà la vita tutti i giorni. Magari ecco le piccole cose o magari delle cose che puoi fare nel frattempo e che ti regalano comunque delle belle emozioni o belle sorprese. Ho riscoperto che stare insieme agli altri è bello e piacevole, umanamente ti fa sentire bene e utile. Ecco, il Covid ci ha permesso di capire questo messaggio importante.  La meta non è fondamentale, ma tutto il resto dentro questa vita sì: gli amori, le delusioni, le cose, i figli eccetera. Il viaggio sul Kilimanjaro è stata la stessa cosa. Tutti volevamo arrivare alla nostra cima-non era complicato arrivarci, perché ci arrivano tutti con una preparazione minima- ma c’è stato un incendio: il fumo ci ha bloccato, l’ultimo giorno, proprio ad un giorno dalla cima. Questo ha confermato il mio messaggio iniziale abbiamo potuto ammirare tante bellezze, tante cose che ci hanno cambiato e hanno contribuito alla creazione di un bel gruppo.

6 Cosa pensa del cinema italiano?… E delle fiction? Ravvisa in chi fa teatro e cinema d’autore dei pregiudizi  verso queste ultime?

Mi ricordo quando facevo teatro e volevo fare fiction, non dovevo dire che facevo teatro. Ci sono sicuramente i compartimenti cinema, teatro e fiction. Per me un attore può fare tutto.  Sono linguaggi differenti,  oggi hai più possibilità di lavorare bene anche sulle fiction, ma quando io lavoravo su Gente di mare o Codice rosso era tutto molto veloce. Ciak, scena uno, buona, avanti. Se fai teatro fai un mese di prove, lavori molto sul tuo personaggio e non è mai buona la prima. Io come attrice passerei da un linguaggio all’altro senza problemi. Sono un po’ chiusi come mondi e non sono tanto interscambiabili. Con le serie televisive di oggi, forse c’è un po’ più di possibilità di questo interscambio. Ti dico la verità, sono veramente molto positiva sul cinema italiano. Per me è un bel momento. Vedo autori molto interessanti, vedo registi che riescono comunque a fare dei bei film per cui sono molto fiduciosa.

7 Qual è stato l’ultimo film che ha visto?

Io guardo tantissimo cinema, tantissima televisione, mi piace, amo il cinema. L’ultimo che ho visto è stato A Chiara. Poi la Famiglia Addams, ad Halloween, con mia figlia Ginevra che ha 11 anni. Poi ho visto anche Tenet di Christopher Nolan, poi ho visto La Caja Come dire di Lorenzo Virga, che aveva vinto il Leone d’oro. In tv ho visto Revolutionary road di Sam Mendes. Diciamo che guardo veramente tantissimi film e tantissima televisione perché è anche un modo di studiare gli altri. Adesso voglio andare a vedere sicuramente Freaks out- Un film di Gabriele Mainetti. Ed è stata la mano di dio di Paolo  Sorrentino.

8 Regista- Attore è un sodalizio fondamentale per il successo del film. Eppure tra le due figure chi conquista una popolarità immediata è l’attore che sta sullo schermo rispetto al regista che sta dietro. Da cosa dipende a suo avviso? In più è lapalissiano che ci siano più registi uomini che donne. Perché? Quanto è stato difficile affermarsi rispetto a suoi colleghi uomini e in che tipo di ostacoli e preconcetti si è imbattuta ?

L’attore ci mette la faccia e quindi ha una popolarità immediata, il regista ci mette il nome, ma poi dipende anche da paese a paese. Da noi in Italia non so quanta gente esca per vedere un regista o un attore. In America, ad esempio, c’è chi va vedere un film di Nolan anche se molti non sanno che faccia abbia, altri invece scelgono il film perché c’è ad esempio Tom Cruise, Clooney o di Caprio, che sono mondialmente conosciuti.  L’attore tendenzialmente si promuove, si fa vedere anche perché è scelto in base alla sua immagine, corpo e fisicità. Il regista invece deve vendere ai produttori un suo contenuto. Purtroppo, sì ci sono più registi uomini che donne, come in tante professioni. Ci sono anni da convertire perché non abbiamo proprio lavorato come donne, partendo dall’Ottocento e avanti con i secoli. Mentre gli uomini hanno sempre lavorato, si sono create delle posizioni.

Noi ce le stiamo creando adesso e la Rai come altri broadcaster dovrebbe tener presente questo aspetto e dare un pochino più di spazio a registe donne. Ad esempio, quando vado a parlare con i produttori sono tutti uomini, così come le reti sono tutti uomini. La mia idea, quindi, deve valere almeno il doppio rispetto quella dell’uomo, a mio avviso, devi essere molto brava. Se io da donna un giorno dovessi avere una produzione avviata e c’è una donna incita che lavora con me tendenzialmente troverei un modo o comunque spererei che lo stato ci supporti perché queste persone possano lavorare. Io ho lavorato fino quando ero all’ottavo mese e ti dico la verità la Mostra del cinema di Venezia me lo ha permesso e io ne sono stata felice. A me piace lavorare. Noi per di più facciamo lavori per periodo. Io ho scelto per 3 anni di non lavorare e stare con mia figlia. Ma quella è stata una mia scelta ma dopo per rientrare ho fatto e sto facendo tanta fatica. Per di più sono una mamma single, per cui faccio tre volte la fatica che fanno gli altri però ti assicuro mi alzo la mattina e dico anche questa volta ce la faccio a fare questo film. E poi ci sono persone con cui collaboro che sono felici di collaborare con me.

Sono stata a Confindustria per ritirare il magazine in cui ero presente una mia intervista, scritta da Stefano Rudilosso, un grande professionista con cui mi piacerebbe collaborare sul mio prossimo film ambientato nel territorio comasco. Ci sono molte persone con cui sto collaborando al mio prossimo film soprattutto voglio ringraziare Flavio Artusi, produer e assistente alla regia, Giovanni Stilo, per la parte di scrittura iniziale e Lucio Montecchio e Dario Sonetti, professori universitari collaborazioni scientifiche per la scrittura del prossimo film. Ci sono tanti uomini e poche donne che hanno ruoli importanti. Secondo me l’involuzione di marcia ci sarà ed è una questione cultura. Dovremmo affermare i nostri diritti con determinazione. Ci sono molte registe donne brave. Anche attrici che stanno facendo film come registe, la Gerini, la Golino che li fa già. Da questo punto di vista sono molto fiduciosa, perché se ci possono essere registi uomini ci possono essere anche registe donne. La cosa migliore è essere considerati essere umani qualsiasi sia il genere, la razza ecc. I preconcetti in cui mi sono imbattuta sono tanti. Una donna deve sempre stare attenta a tante cose, perché si deve promuovere, deve essere piacente, ma dall’altra parte c’è la tua vita, le tue cose, le relazioni con chi vuoi tu. Sono fili molto labili. Non mi interessa né della fama né dei soldi se poi io mi guardo allo specchio e sono felice con me stessa quello che ho fatto va bene. È faticoso come attrici, non è una cosa solo mia, l’abbiamo vista con il Me too e non è solo nel cinema ma ovunque dall’azienda, alla musica, in qualsiasi settore. Ognuno dentro ha i suoi valori e fa delle scelte. Quando hai la possibilità di scegliere è già una grande cosa.  Quando avevo 19 anni e sono andata a Roma avevo per fortuna al mio fianco avevo il mio ex compagno che credeva in me: mi disse che sarei diventata una brava attrice, di studiare e che il resto lo avrebbe fatto la vita Non entrare in certe spirali perché potresti pentirtene. Io l’ho seguito, per fortuna avevo lui. Una ragazza potrebbe anche perdersi. Invece a volte bisogna avere la forza di dire no.

Ho fatto lo stabile di Genova poi sono passata al cinema con una consapevolezza differente. Magari non sono diventata famosa a vent’anni ma non so neanche se certi escamotage possano portare alla fama, forse sì o forse no. Alla fine, ognuno fa i conti con se stesso e la cosa più importante è conoscere se stessi e fare ciò che è nella tua natura, ciò che ti dice la tua voce interiore in modo tale che tu vivi serena con te stessa. Io, Guia, non giudico e non mi interessa. Voglio essere una persona onesta, pulita e leale. Ho combattuto con le mie paure, con le mie fatiche. Ognuno fa un suo percorso, che è unico, ognuno ha il suo modo di crescere ed imparare le cose, di fare gli errori. L’80% della mia vita è il mio lavoro. Quella è una parte importante e quindi devi condividerla con una persona che magari ha fatto un percorso simile oppure lo comprende. Ma se due persone si supportano in qualsiasi caso, lavorativo o sentimentale, è una bella relazione. Tornando alla questione lavorativa, dico che ci sono molti produttori a credere nelle donne per cui si deve provare e se una strada non va bene chiuderla e intraprenderne un’altra.

9 A cosa sta lavorando e quali sono i suoi progetti futuri? 

Sto lavorando ad un film ed è una storia stupenda secondo me. È il mio primo lungometraggio ed è la mia prima esperienza come regista in questo senso. È una storia pazzesca che ho inventato e parla della relazione tra essere umano e piante. Anche su temi di attualità come ambiente e sostenibilità. Poi c’è una parte di invenzione perché non è scientificamente provato quello che andremmo a raccontare nel film. La storia parte da un continente straniero: la Costa Rica e poi giriamo il film tra Milano e Como. E’ un thriller, ci sarà all’inizio una bella scena in Costa Rica per proseguire poi Italia. Il Film mi piace molto, ci sto lavorando da un po’ e dovremmo a dicembre finire la prima stesura della sceneggiatura e iniziare la produzione l’anno prossimo.

 

 

 

 

Intervista all’attrice Barbara di Bartolo: ‘In un mondo ‘ideale, l’attore dovrebbe lasciare che sia il regista a lanciare la sfida’

L’attrice romana Barbara di Bartolo, viso dai lineamenti delicati, dal carattere deciso e determinato, e dal talento cristallino, accresciuto dallo studio e dalla dedizione, simboleggia quel pezzo di teatro, di cinema e di televisione italiana verso il quale è impossibile provare un pizzico di nostalgia e anche una “sana invidia”, dove la bravura e un volto, una voce, un corpo che dicono qualcosa, vengono premiate.

Barbara di Bartolo infatti oltre ad aver lavorato con personalità importanti del mondo dell’arte e dello spettacolo, ha lavorato come modella, prendendo parte a pubblicità e viaggiando molto, cosa che le ha permesso di affinare la conoscenza delle lingue, la quale all’epoca era appannaggio di pochissimi.

Ha esordito giovanissima nel 1992 nel in Nessuno di Calogero e in tv nel cast fisso della prima soap targata Mediaset Camilla, per la regia di C. Nistri, dopo essere apparsa in alcuni spot pubblicitari e nel videoclip di Claudio Baglioni Dagli il via di cui è protagonista.

È stata testimonial di importanti campagne pubblicitarie internazionali diretta negli anni da registi come Gabriele Salvatores e Jean-Jacques Annaud.

Barbara di Bartolo ha avuto ruoli rilevanti anche nella fiction, come la serie di successo La squadra, dove ha interpretato il ruolo di Miriam Russo, nelle fictions targate Mediaset Il bello delle donne, in cui è la figlia dell’indimenticabile Virna Lisi, e Don Luca accanto a Luca Laurenti.

In Un posto al sole X, nel 2006 è Chiara Reali, personaggio intenso che si presenta al pubblico in doppia veste.

Tuttavia ciò che colpisce di più della carriera di Barbara di Bartolo è il modo in cui l’attrice si è cimentata sia nel dramma che nella commedia, consapevolmente e tenacemente, senza pregiudizi, né sottovalutazioni, approcciando ai vari generi con sensibilità, scegliendo il proprio percorso artistico. Non a caso l’attrice è anche cantante: ha infatti debuttato nel musical nel 1998 come co-protagonista accanto a Massimo Ranieri.

foto di scena di Alfredo Capozzi ‘Un posto al Sole’

Nel 2001 vince una borsa di studio per corsi di perfezionamento per attori presso il Teatro Eliseo di Roma per il progetto del regista Marco Carniti de La Nuova Compagnia di Giovani dell’Eliseo a seguito del quale il regista le assegna il ruolo di Rosalina nella commedia cantata Pene d’amor perdute di Shakespeare.

Il nome dell’attrice è legato indubbiamente a quello di Giuseppe Patroni Griffi, regista sia teatrale che cinematografico, nonché scrittore, dotato di un grande senso dello spettacolo come dimostra, su tutte, l’innovativa e spiazzante opera Metti, una sera a cena.

Patroni Griffi, nell’adottare un linguaggio moderno e solido, è entrato di diritto tra i più importanti autori della drammaturgia italiana contemporanea, contribuendo ad eliminare la frattura esistente in Italia tra intellettuali e scena teatrale; è un privilegio e un piacere aver intervistato una testimone ed interprete di una stagione artistica che un po’ ci manca.

1 Ha lavorato con nomi importanti del nostro cinema, tra cui spicca il regista Giuseppe Patroni Griffi, come vorrebbe ricordarlo e perché è stato importante per il teatro e il cinema italiano?

Conobbi Peppino quando ero poco più che ventenne, mentre lui era un regista di fama  che aveva già lasciato i clamori del cinema per dedicarsi totalmente al teatro. Avevo tentato di entrare all’Accademia Silvio D’Amico dove recitai “Il mio cuore è nel Sud” di Giuseppe Patroni Griffi. Non mi presero, sebbene avessi all’attivo già un film, una fiction e alcuni spettacoli di Teatro.

Quando mi recai alle audizioni per ’Questa sera si recita a soggetto’ non volevo pensare al fatto che aveva diretto anche dei mostri sacri del Cinema internazionale. Ero li per recitare Pirandello e perché il regista cercava attori in grado di cantare. Quando Patroni Griffi mi prese, per me cominciò la vera strada del Teatro: le tourné in giro per l’Italia, e recitare con Alida Valli, Giustino Durano, Franca Valeri e molti altri.

Non ricordo di averlo mai sentito parlare di stesso in termini di cineasta, tuttavia Peppino era permeato di Cinema, persino nella sua scrittura drammaturgica; basti pensare che tra i suoi film più acclamati c’è ‘Metti, una sera a cena’, testo teatrale che aveva già riscosso successi con la regia di De Lullo. Trovo eccezionale anche il fatto che il film, nonostante le due ore di durata e i dialoghi sofisticati, regga ancora al passare del tempo. Quelle tematiche che resero il film  ‘un caso’ scandaloso erano scritte per la Compagnia dei Giovani dell’Eliseo, ma Patroni Griffi ne fece a tutti gli effetti una trasposizione cinematografica, dimostrando di esser padrone di quel mezzo. Bastano le prime note del tema musicale composto dal maestro Morricone per essere catapultati  immediatamente nelle sonorità del film. E poi le collaborazioni con La Capria, il suo contributo come sceneggiatore. Più in generale riusciva a trattare le tematiche a lui care, scandalose per quel periodo tempo, rendendole in qualche modo universali. Fu un vero pioniere in molti ambiti.

2 Lei è anche cantante, cantare è anche un po’ recitare? Qual è stato iò suo approccio al canto?

Non trovo molta differenza in generale tra l’interpretare un testo recitato e uno cantato, per me sono  la stessa cosa da un punto di vista ’emozionale’, cambia la tecnica vocale.

Ho iniziato a cantare da adolescente esercitandomi sui vinili di Barbra Streisand, Liza Minnelli, Whitney Houston ecc. quando trovare una base musicale non era facile come adesso: non c’era internet e nemmeno le scuole di musical in Italia. Perciò o andavi a studiare all’Estero o rimanevi con ciò che offriva il territorio. Questo forse mi ha anche  permesso di avere una certa libertà interpretativa, di sperimentare anche vari stili, di avvalermi di ciò mi serviva di volta in volta studiando con diverse tipologie di insegnanti.

Ad ogni modo non mi sono mai considerata una cantante a tutti gli effetti. Anche se a ben guardare non ho nell’ambito del musical, mai eseguito ‘cover’, ma sempre brani inediti, scritti per musical originali.

3 Il suo nome è associato a personaggi perlopiù drammatici, tuttavia lei si è anche cimentata con la commedia. Come è stato? E secondo lei, è veritiera la massima di Buster Keaton secondo cui “Un commediante fa cose divertenti; un buon commediante fa divertenti le cose”?

Assolutamente sì, l’ho riscontrato a un certo punto proprio in seguito a un rifiuto quasi istintivo di calarmi in personaggi troppo tragici per dare più spazio a quel mio lato bambino e leggero che ama ridere. Ancora una volta mi è venuto in soccorso il Teatro e mi è servito anche per lavorare a fianco di alcuni personaggi più squisitamente comici del nostro star- system televisivo. Oggi far ‘ridere il prossimo’ è una medicina che amo condividere anche nella vita di tutti i giorni e non ne potrei più fare a meno.

4 Chi sono i dilettanti della finzione?

Beh, i dilettanti ci sono sempre stati solo che una volta avevano ruoli marginali, oggi invece gli affidano ruoli da protagonisti. Non è tanto il dilettantismo a dover preoccupare –c’è sempre tempo per migliorare – quanto il fatto che non si migliorino, che non ne sentano la necessità.

Questo tuttavia crea una sorta di ingiustizia all ‘interno della nostra  categoria perché a qualcuno viene chiesto l’impossibile ad altri il ‘minimo sindacale’.

foto di scena ‘Amore di Tango’ regia Lindsay Kemp

5 Quali sono le qualità più importanti che dovrebbe possedere un attore? Insomma non dovrebbe mai essere doppiato, deve essere versatile il più possibile, deve essere capace di improvvisare, metterci del suo, sfidare il regista o seguirlo pedissequamente?

Dipende da che tipo di attore si vuole essere. Un attore che lavora  a volte si deve persino fingere non troppo intelligente, non troppo qualificato. Parlo sempre dell’ambito italiano naturalmente. A volte è meglio, anzi spesso  consigliato, dimezzare il curriculum o limitarlo a una pagina. (Lo so, ciò accade in molti altri ambiti lavorativi)

Diciamo che in un mondo ‘ideale’ l’attore dovrebbe lasciare che sia il regista a lanciare ‘la sfida’. E se lecondizioni lo consentono, osare certo, a me la creatività a me ha quasi sempre ripagato.

6 Ha preso parte ad una serie televiva di successo come “La squadra”, che ricordi ha di quel periodo, come si lavorava?

Si lavorava benissimo, sempre con i tempi televisivi, quindi rapidi, ma direi ottimamente. Io in quel periodo ero anche a Roma per le prove di’ Pene d’amor perdute’ di Shakespeare per la regia di Marco Carniti nell’ambito del progetto della Nuova Compagnia dei Giovani dell’Eliseo.

Un periodo splendido ed intenso. Quando arrivavo sul set di Piscinola a Napoli in realtà non avevo il tempo materiale per conoscere i colleghi fuori dal lavoro. Perciò interpretare il ruolo di Miriam è stato come fare una full immersion in una sorta di seconda vita. A distanza di parecchi anni  la fiction è tutt’ora replicata in tv e i social hanno permesso di incontrarsi con i fans di questa serie che continua a generare blog e dibattiti. Ho scoperto quanto il mio personaggio fosse amato e ciò, anche se con qualche ritardo temporale, ha ripagato l’impegno messo nel fare mie quelle emozioni negative del personaggio di Miriam, vittima di violenza domestica. Tema sempre attuale.

7  Ha scansato molti pericoli durante la sua carriera? Perché secondo lei è importante dire anche dei no? Mi riferisco anche ad aspetti intelettuali e psicologici.

In realtà non ho scansato molti pericoli, perché sin dagli esordi –ancora minorenne –mi ero costruita una sorta di piccola corazza per evitare appunto di essere sopraffatta da un mondo che può far paura sotto alcuni punti di vista. Diciamo che tendo a non trovarmi in certe situazioni a prescindere e lo faccio indistintamente e democraticamente.

Per il resto la vita ti pone delle scelte e dei bivi e a me è toccato dover rinunciare a qualcosa, scegliere tra la strada del cinema o del teatro o viceversa. Ad esempio mi sono trovata a dover scegliere tra due mie sogni nel cassetto: essere protagonista di un film di un regista impegnato come Citto Maselli o debuttare come cantante  in un musical diretto da Patroni Griffi e misurarmi in scena con un artista del calibro di Massimo Ranieri.

Non so cosa sarebbe accaduto se avessi recitato ne ‘Il compagno’, sicuramente un’opportunità mancata e serbo nel cuore il provino fatto con Maselli in cui scoprii una vera maestria nel dirigire gli attori.

Durante le prove di ‘Hollywood’ Patroni Griffi mi concesse di recarmi a Dresda per qualche giorno dove girai diversi spot in pellicola con Jean-Jacques Annaud, ma dovetti un pò insistere. Insomma non è affatto facile districarsi quando ci sono in atto determinate forze, ma c’est la vie!

8 “L’Italia conta oltre cinquanta milioni di attori. I peggiori stanno sul palcoscenico”, diceva Orson Welles, cosa ha da dire in sua difesa?

In difesa di Orson Wells non c’é da dire nulla, si difendeva bene da solo. Un maestro di tale foggia non si può contraddire (ride); certo i suoi erano livelli difficili da pareggiare.

9 Come ha influito la globalizzazione sul mondo dello spettacolo e della comunicazione ad esso collegata? Cosa non le piace?

L’aspetto positivo l’ho menzionato a proposito del fatto che i social avvicinino agli altri, aiutino alla condivisione, dall’altra parte per lo stesso motivo l’eccesso ha influito aumentando il fenomeno della sottocultura. La tecnologia secondo me non aiutano affatto l’essere umano a sentirsi meno solo.

Sotto molti punti di vista tornerei volentieri al Novecento quando gli attori facevano gli attori e il pubblico faceva il pubblico.

10 Progetti in corso?

Negli ultimi anni ho potenziato il mio inglese e ne ho visto i risultati in ambito lavorativo. Perciò sto perseverando su quella strada, ma non parlo mai dei miei progetti, per puro spirito scaramantico. Vedremo cosa riserva il futuro globale, mi auguro il meglio per tutti noi, viste le conseguenze devastanti della pandemia e quanto ne ha risentito il settore spettacolo. Ma siamo fiduciosi.

Intervista esclusiva all’attore Vincenzo Bocciarelli: ‘l’arte deve essere spudoratamente sincera’

È stata un’estate all’insegna dell’arte quella di Vincenzo Bocciarelli, reduce dallo spettacolo teatrale Senza limite, nato da un’idea di Serenella Bianchini, e che ha riscosso un grande successo. Attore, pittore, conduttore e scrittore. Classe 1974, l’attore nasce il 22 febbraio a Bozzolo, Mantova. Dalla sua città natale si trasferisce a Siena per intraprendere gli studi di recitazione.

Dopo la maturità debutta al Piccolo Teatro di Milano diretto dal maestro Giorgio Strehler, iniziando la carriera come attore teatrale e recitando al fianco di grandi nomi del teatro come Valeria Moriconi, Giorgio Albertazzi, Irene Papas, Roberto Herlizkca, Riccardo Garrone.

Mentre la sua attività teatrale prosegue sul palcoscenico, il pubblico inizia ad apprezzarlo in fiction come Orgoglio, Il bello delle donne ed Incantesimo e al cinema nei film: E ridendo l’uccise​ di Florestano Vancini, pellicola anticonvenzionale per il cinema italiano sulla celebre congiura di Giulio d’Este, vista attraverso gli occhi del buffone di corte Moschino; L’inchiesta,​ Nirakazhcha Irakazhcha-La strada dei colori e recentemente nel film campioni d’incassi La scuola più bella del mondo.

Definito <<l’orgoglio del grande cinema dal Messaggero>>, Bocciarelli è da sempre un artista poliedrico, appassionato e zelante, vicino al suo pubblico. A marzo 2020, nel periodo del lockdown ha ideato “il “Bocciarelli Home Theatre” un format digitale, con cui l’attore ha portato il teatro nelle case degli italiani, infondendo loro un messaggio di speranza e di forza. Questa esperienza ha poi ispirato la sua opera prima scrittoria, intitolata Sulle ali dell’arte. L’esperienza del «Bocciarelli home theatre» per sopravvivere ad una pandemia. Ediz. illustrata.

Bocciarelli ha preso parte al cortometraggio di Anna Marcello ‘Lockdown love.it’ che ha già ricevuto attenzione a livello internazionale e a Mission Possible, film d’avventura lanciato sulla piattaforma Chili con attori del calibro di John Savage (Il cacciatore, Maria’s Lovers, Il maledetto United, La sottile linea rossa, Il padrino) e James Duval (Donnie Darko), ma sembra che sia il teatro, divino anacronismo, il suo grande amore, probabilmente perché come soleva affermare il grande Vittorio Gassman, il teatro è la zona franca della vita, dove si è immortali.

Il teatro mette a nudo l’ipocrisia e le bassezze dell’animo umano e non è un caso che Bocciarelli sia un eccellente interprete di personaggi di opere shakespeariane, quali La tempesta, Re Lear, Il mercante di Venezia, nonché mitologiche come Edipo re e Antigone. Nel curriculum di Bocciarelli si annoverano numerosi riconoscimenti tra i quali il Premio alle Arti per meriti professionali, che riceverà a breve.

Vincenzo Bocciarelli è la dimostrazione che nel teatro, il visibile e l’invisibile si incontrano e la parola vive di una doppia gloria, come diceva Pasolini. Glorificazione che l’attore è riuscito a trasferire anche sul piccolo e grande schermo. La parola è al contempo, scritta e pronunciata, scritta, come la parola di Omero, e pronunciata come le parole che si scambiano le persone nella vita, nel quotidiano, che a volte restano per sempre, e altre volano via con la vita.

Bocciarelli, a differenza di alcuni che pensano che l’arte del recitare consista solo nell’imparare a memoria testi di altri, ci dice una cosa fondamentale: l’arte deve essere spudorata, sincera e scandalosa come è scandalosa ogni cosa divina e il mistero ad essa legato.

 

Lockdown love

1 Durante il lockdown ha dato vita ad un format digitale il “Bocciarelli home theatre”, portando nelle case il teatro in un momento storico difficile. Cosa ha tratto da questa esperienza? Come ha risposto il pubblico?

Durante il primo lockdown mi è venuta l’idea di portare l’arte, la poesia, il teatro nelle case del pubblico e così è nato il Bocciarelli home theatre, programma facebook e youtube, in diretta dal soggiorno di casa mia, inizialmente tutti i giorni, poi tre volte alla settimana. Ritengo che il pubblico non sia sprovveduto e cerca cose di qualità e in un momento difficile come quello, ho capito quanto fosse importante entrare nelle case delle persone per donare creatività, e tutto il mio impegno e amore che nutro per l’arte, così da essere di sostegno e anche di compagnia. Ho capito quanto le persone avessero bisogno di sentirsi meno sole e di pensare anche ad altro, entrando in un’altra dimensione, quanto l’arte possa essere utile. Il pubblico ha risposto molto bene, ho ricevuto molti messaggi di stima e affetto; è stata un’esperienza arricchente.

2 Quale pensa sia il mezzo migliore per veicolare l’arte?

Qualunque mezzo è idoneo a divulgare la cultura e l’arte purché si tenga ben presente il significato di questo termine. Non ho pregiudizi di alcuna sorta. La televisione certamente rappresenta il mezzo più comodo, tuttavia io personalmente preferisco il teatro. A prescindere dal successo che si può avere, credo che bisogna metterci tutta la propria passione, da trasmettere a chi ci guarda e ascolta, e cercare di realizzare progetti di qualità, non indirizzare immediatamente il proprio obiettivo all’aspetto commerciale.

3 Il suo libro “Sulle ali dell’arte” in cui racconta proprio l’esperimento Bocciarelli home theatre, è stato definito da qualcuno un anti-covid. Cosa è invece per lei? Che aspettative ha?

Mi è molto piaciuta questa definizione, era il mio obiettivo. Il libro è nato soprattutto grazie al volere e al supporto del Presidente della casa editrice Accademia Edizioni ed Eventi, Giuseppe de Nicola, il quale mi ha proposto di raccontare questa esperienza che è stata sia artistica che socio-culturale. Il libro parla della funzione salvifica dell’arte e dell’importanza di riflettere e far riflettere il pubblico. L’arte possiede un qualcosa di divino e ci aiuta ad entrare nel mistero della vita e nei suoi accadimenti, ma non deve essere un modo per esibirsi in modo narcisistico; è fondamentale che avvenga uno scambio tra attore e spettatore, altrimenti non ha senso. Sono già molto soddisfatto, il libro sta andando bene e non mi aspetto nulla in particolare, quello che viene, insomma.

“Incantesimo”, con Elisabetta Pellini

4 Crede che la letteratura, il cinema e il teatro possano essere davvero una “carezza per l’anima”?

Certamente. Sono tutte discipline unite da un filo rosso e devono toccare l’anima delle persone, scuoterla, smuovere la coscienza, ma soprattutto, come amo ripetere ai miei allievi, la pancia. Credo che molto dipenda anche dal luogo in cui si fa teatro, perché un determinato luogo dà all’attore sensazioni particolari; ecco, ritengo che sia un  più un fatto viscerale che mentale. Un attore non può perdersi troppo in elucubrazioni e giochi intellettualistici. “Bisogna metterci il cuore”, come la battuta che faccio ripetere a Serenella Bianchini, una delle interpreti femminili della pièce teatrale “Senza limite” per cui ho curato la regia e sono stato anche interprete, durante un momento di “metateatro”. Ci tengo a ricordare che la prima di questo spettacolo è andata in scena al Castello di Naro, sempre in Sicilia, lo scorso 24 agosto.

5 L’11 settembre 2021 sarà insignito del Premio alle Arti per meriti professionali. Cosa significa ricevere un tale riconoscimento? Cosa pensa dei premi letterari e non? Secondo lei davvero rispecchiano il talento di chi li riceve?

Sono onorato di ricevere questo premio. Credo che i premi siano una conseguenza di quello che si fa, ma non sono il mio obiettivo principale. Ritengo che in Italia ci siano, forse, troppi premi e poche produzioni importanti. Io mi concentrerei su progetti di qualità, piuttosto che sull’organizzazione di concorsi e premi. Devo dire che non sopporto nemmeno lo sciacallaggio che si attua su determinati temi, molto delicati che meriterebbero maggiore lucidità e approfondimento. La missione dell’arte è cercare, scandagliare l’animo umano. Per me conta raccontare qualcosa al pubblico e far conoscere la cultura, essere apprezzato e stimato, il successo, la fama, i soldi vengono successivamente.

Vorrei riportare un esempio: durante il primo lockdown, ho lavorato ad un cortometraggio dal titolo Lockdown love.it, che sarà presentato a festival prestigiosi, e in cui io interpreto un personaggio sui generis. Devo ringraziare tutte le persone che ci hanno creduto insieme a me, soprattutto Anna Marcello. Abbiamo preso tutte le precauzioni e rispettato le misure di sicurezza. Abbiamo lavorato in silenzio della notte, spesso più viva del giorno stesso; è stato bellissimo e suggestivo perché avevamo proprio la sensazione di creare qualcosa all’insaputa di tutti. Trovo meravigliosa la lavorazione di un film, l’atto creativo, prima ancora di vedere il risultato, noi attori, sul grande schermo.

Nel ruolo del marchese Andrea Obrofari con Mary Petruolo in “Orgoglio”

6 Anche quest’anno condurrà il concorso internazionale Musica sacra 2021 per giovani cantanti solisti. In questo periodo storico quanto è importante investire nelle nuove generazioni? Crede che a loro sia offerto il giusto spazio per emergere o si potrebbe fare di più?

Anche questa conduzione è motivo di gratificazione per me, mi piace toccare tutte le dimensioni dell’arte e l’arte sacra certamente è un viatico per avvicinarsi, o quantomeno sfiorare, il mistero divino. Certamente è importante investire nelle giovani generazioni, nei ragazzi e ragazze di talento, purché abbiano spirito di abnegazione, dedizione, amore per l’arte. Potrebbero senza dubbio essere incentivate determinate iniziative, corsi di studi, accademie.

7 L’arte in senso stretto ci dice appunto che oggi, o meglio già da un po’ di tempo, tutto può essere arte. Lei cosa ne pensa?

Non credo che tutto sia arte solo perché qualcuno la possa concepire come tale. Come può non contare la tecnica, un certo virtuosismo? Ma non bastano, bisogna saper emozionare chi ci ascolta e guarda, essere capaci di trasferire lo spirito di un testo in teatro, a cinema, in televisione.

8 Non trova che l’arte dovrebbe essere una fustigatrice del luogo comune invece di rassicurare sempre? Non crede che questo sia il modo per approdare all’eternità?

Nel ruolo di Ippolito d’Este nel film “E ridendo l’uccise”

Certo, recitare vuol dire morire per poi rinascere per l’attore, guardando alla cose con meraviglia, con lo sguardo di un bambino. Io credo che l’arte debba essere spudoratamente sincera, e con questo intendo dire che essa dovrebbe anche ragionare sulla sua propria natura, sulla sua funzione, relazionarsi con le contingenze storiche, con il mito; condurre lo spettatore e il telespettatore in un viaggio sensoriale, nel tempo e nello spazio. In questo senso, ritornando allo spettacolo “Senza limite”, dove ho recitato ai piedi del tempio di Giunone, nella Valle dei Templi di Agrigento, credo sia importante dire che si è trattato di un percorso evocativo e dell’anima, che porta lo spettatore all’Alfa della nostra esistenza, ai primordi della vita, alla creazione, dove tutto è Amore.

9 Tre pellicole per lei imprescindibili?

Bocciarelli: per un addetto ai lavori, per chi fa cinema o per i telespettatori?

Domanda: Per entrambi

Bocciarelli: Direi Effetto notte di Truffaut, capolavoro del meta-cinema, Nella città l’inferno, di Castellani con la grandissima Anna Magnani, che è anche un viaggio nell’Italia del Dopoguerra con quelle tristissime palazzine che fanno da sfondo alla storia. E soprattutto per chi fa cinema o vorrebbe farlo, Birdman, di Inarritu, con uno strepitoso Micheal Keaton che si identifica nel personaggio che ha interpretato in passato e che lo ha portato al successo.

 

10 Quando recita già si rende conto di presentare al pubblico una cosa nota come se fosse la prima volta che la si vedesse?

Senza dubbio l’arte è questo, non conta tanto la bontà del tema, quanto il modo in cui lo si affronta, è presentare un concetto, ma soprattutto delle emozioni, stati d’animo in modo originale. Purtroppo noto che si parla poco o male, in maniera distorta e faziosa, di metafisica, di trascendenza, di Dio, quasi se ne provasse vergogna.

 

A cura di Annalina Grasso e Melania Menditto

Il teatro in Italia dal fascismo al dopoguerra (Parte 2)

Il teatro, già oggetto di fermenti innovatori nei primi decenni Novecento, si ritrova con l’avvento del fascismo ad essere investito di nuove importanti trasformazioni. L’intervento del regime riguarda principalmente gli aspetti organizzativi della produzione di spettacoli.

Nel 1929 vengono inaugurati i Carri di Tespi, teatri mobili, incaricati di portare nelle città di provincia degli spettacoli popolari allestiti in collaborazione con i Dopolavoro fascisti. La scelta di far esibire questa compagnia girovaga non è di certo casuale: il regime, infatti, intende regolamentare la vita teatrale in ogni suo aspetto, scoraggiando in ogni modo qualsivoglia iniziativa estranea alla loro politica totalitaria.

L’anno successivo vengono istituite le Corporazioni dello Spettacolo, con l’intento di regolare i vari settori della produzione teatrale. All’utopia pirandelliana di un teatro di Stato, che garantisse democraticamente ai teatranti, i finanziamenti necessari per l’allestimento delle proprie opere, il regime preferisce adottare la politica dei premi e delle sovvenzioni.

Le compagnie teatrali

A tutte le produzioni che riscuotevano maggiore successo venivano elargiti incentivi economi. Il sistema delle sovvenzioni condiziona profondamente la vita teatrale, svilendo sia la figura dell’attore che della forma d’arte in sé.

Le compagnie, infatti, per incentivare gli incassi, iniziano a puntare su repertori diversi e più accessibile ridurre i periodi di prove e moltiplicare le repliche.

Il frenetico inseguimento del successo e la necessità di cambiare di continuo il repertorio spingono gli impresari ad ingaggiare gli attori per una sola stagione.

La compagnia cessa di essere la palestra privilegiata per l’allenamento e l’apprendimento dell’attore. L’attore si ritrova isolato, deve semplicemente funzionare bene all’interno dell’ingranaggio di una compagnia.

Le personalità di spicco in teatro: da Ugo Betti a Luigi Squarzina fino a Luchino Visconti

Il teatro, nel periodo fascismo, tranne Luigi Pirandello non conta grandi figure di autori teatrali. Sul piano della produzione drammaturgica l’unico autore di rilievo è Ugo Betti( 1892-1953), un magistrato cattolico che approfondisce nei suoi scritti il motivo della colpa e della responsabilità attraverso lo schema dell’inchiesta giuridica.

Betti eleva il dramma borghese alla tragedia, ponendo i suoi personaggi in condizioni estreme. Sono degli anni Trenta le suo opere migliori: Frana allo scalo Nord (1932), I nostri sogni (1936) e Notte in casa del ricco (1938).

Negli anni della guerra scrisse Ispezione e Corruzione al Palazzo di Giustizia, uno dei suoi lavori più tipici, incentrato su un’indagine di corruzione di alcuni magistrati; nel dopo guerra Acque turbate (1948) e la Fuggitiva (1952-53)

Gli stessi temi del processo morale, della colpa e delle responsabilità, tornano nell’immediato dopoguerra nelle opere di un altro autore cattolico, Diego Fabbri (1911-1980): Inquisizione (1946) e Processo a Gesù (1955)

Nell’immediato dopo guerra inizia a farsi forte il fervore del Neorealismo postbellico. A renderne meglio il clima è un autore, anche notevolissimo regista, Luigi Squarzina.

Nella sua prima opera, L’esposizione universale (1948), si rifà al modulo della cronaca tipico del nascente clima culturale e letterario. Anche Tre quarti di luna (1952), La sua parte di storia (1955) e la Romagnola rientrano nel clima morale e politico dell’antifascismo e della lotta di Resistenza.

Iniziano a diffondersi in quegli anni, sul modello del Piccolo Teatro di Milano, i Teatri stabili, sovvenzionati dallo Stato. Nel contempo si istituzionalizza la figura del regista, nata a cavallo tra le due guerre. Si afferma un tipo di spettacolo che prevede la presenta di un nuovo “autore” della scena, che controlla e dirige gli attori nella realizzazione di un prodotto replicabile.

In questo panorama operano nomi come Giorgio Strehler e Luchino Visconti che contribuiscono in maniera decisiva a fare del regista il creatore unico dello spettacolo teatrale.

 

Il teatro e la tradizione dialettale napoletana: Da Eduardo Scarpetta ai fratelli De Filippo

Nel teatro napoletano, accanto all’estro del macchiettista Raffaele Viviani, spunta un’altra figura di spicco, che documenta e incarna il passaggio dal teatro di varietà al dramma in dialetto è Eduardo Scarpetta anch’egli attore-autore di commedie in dialetto napoletano.

Scarpetta muore nel 1925 lasciando in eredità ai figli naturali (avuti con Luisa De Filippo) una scuola di teatro, in cui si formarono i suoi tre figli i  Peppino, Titina e Eduardo De Filippo. Della stessa scuola napoletana è il famoso attore comico Antonio De Curtis, in arte Totò.

I tre fratelli De Filippo istituiscono nel 1929 la Compagnia del teatro umoristico che si prolunga sino al 1944, quando Peppino se ne dissocia. Sino a quel momento i testi sono scritti dai due fratelli, Eduardo e Peppino.

Mentre Peppino si rivela soprattutto grande attore comico, il primo unisce alle abilità attoriali anche quelle di un notevole scrittore. Capacità che emergono, in particolare, dopo il 1944, quando Eduardo insieme alla sorella Titina danno vita al Teatro di Eduardo fino al 1953. L’anno successivo lo stesso Eduardo inizia a dirigere la Compagnia Scarpettiana

Sino al 1944 Eduardo è autore di commedie farsesche, dove riprende la figura di Pulcinella, personaggio maltrattato e deriso che però alla fine riesce a prendersi gioco degli altri con la sua amara saggezza.

In questo primo periodo- le cui opere sono riunite in Cantata dei giorni pari– la più riuscita è Natale in casa Cupiello (1931) costruita sul contrasto tra l’illusione della festa e l’amara consapevolezza della dolora realtà della vita.

Dopo il 1944 Eduardo si concentra, invece, su produzioni più realistiche, complesse e ricche di sfumature tipiche del genio pirandelliano. Questa nuova stagione- raccolta in Cantata dei giorni dispari– comincia con Napoli Milionara (1945), una commedia ambientata a Napoli negli anni della guerra, in cui si avverte un forte ecco dei Malavoglia di Verga. Altre grandi opere di Eduardo sono Filomena Marturano(1946) scritta per la sorella Titina, attrice nella stessa commedia; Questi Fantasmi (1946) e Le voci di dentro (1948)

 

Clicca https://www.900letterario.it/focus-letteratura/il-teatro-in-italia-nella-prima-e-nella-seconda-meta-del-900/ per leggere la prima parte dell’articolo

 

 

Maurizio Bianucci: “Il cinema è una grande bugia a cui tutti dobbiamo credere perché è l’unica che ti rivela la verità’

Maurizio Bianucci, romano, classe 1969, è un attore e cantante il cui nome a molti non dirà nulla, ma la sua passione per il teatro e per il cinema, genuina e supportata da una cultura della materia non indifferente, dalla curiosità, e dall’umiltà. Lo si capisce dal modo in cui Bianucci parla e considera il pubblico, dal rispetto che ha per i grandi maestri del passato e anche del presente, e in virtù della tanta gavetta fatta senza scendere a compromessi con la sua idea di Arte senza però esonerare il pubblico, lo spettatore, spesso indolente, dal suo importante ruolo in questo settore, ora in sofferenza più che mai data l’emergenza Covid.

Bianucci ha iniziato la sua formazione presso la Scuola Internazionale di Teatro “Circo a Vapore” di Roma diretta da E. G. Lavalleè e la Scuola di recitazione “La Ribalte” di Enzo Garinei per poi seguire un Seminario sul Metodo Strasberg con Dominic De Fazio (Actor Studio). Ha proseguito con gli Studi di Commedia dell’arte con Contin e Merisi, quelli di Canto con M° Caio Bascerano e Patrizia Troiani  fino agli Studi di teatro al DAMS di ROMA TRE. Ha insegnato recitazione presso gli Ist. Sup. Statali Q. Sella e G. Romano e nei corsi di teatro integrato per poi approdare agli spot pubblicitari e a ruoli in film e serie TV di successo quali “L’Aquila – Grandi Speranze” RAI 1 – Idea Cinema – regia Marco Risi,  “La Compagnia del Cigno” RAI 1, “Aldo Moro – Il Professore“ RAI 1 – Aurora TV – regia F. Miccichè, “Suburra – la serie” Netflix/RAI 2 – Cattleya 2017 (stag. 1)– regia Placido-Molaioli- Capotondi. Per il cinema ha preso parte al film “Fuorigioco” con Toni Garrani per la regia Benso – RioFilm 2015 selezionato per il David di Donatello 2016, “Il ritorno di Grosjean” corto – 2014 regia F. Longo – RioFilm
selezionato anch0esso per il David di Donatello 2015; è in uscita al cinema con “L’amore a Domicilio” con Miriam Leone per la regia Corapi – Prod. WorldVideoProduction.

Molto ricca la sua attività in teatro per il quale segnaliamo: “Ti hanno portato via all’alba” regia F. Giuffrè 2010 “Emigranti” regia C. Benso 2008/2009 “Memorie” regia F. Giuffrè con Jinny Steffan – tratto da Lo Zoo di Vetro – 2006 “Storia di Beatrice” regia R. Petrone – 2003 “Attore… per quel po’ che si guadagna” Varietà di e con M. Bianucci – 2003 “La Scoperta de l’America”, musiche di M. Bianucci – regia P. Bonini – 2001.

Da buon estimatore di Chaplin, Bianucci, vincitore del Premio Crocitti riservato ad attori sconosciuti ma di talento, non può non essere poeticamente nostalgico del cinema che fu, per il quale “è una grande bugia a cui tutti dobbiamo credere perché è l’unica che ti rivela la verità,” che tuttavia, anche oggi gli offre molti stimoli per continuare a lavorare con questa grande passione, puntando sulla qualità, sullo studio, e sulle ispirazioni del passato e perché no anche dagli spot pubblicitari che entrano prepotentemente nelle nostre case cui Bianucci ha preso parte con eleganza e rispetto, come ad esempio a quelli della Bauli, Vodafone, Mediolanum, lavorando sempre con professionisti.

 

1 Cinema, teatro, spot pubblicitari, musica, in quale ambito si sente più a suo agio?
Ho lavorato in tutti questi settori, ma il teatro e la musica mi mettono più a mio agio degli altri, suppongo perché ho iniziato da bambino. Avevo 12 anni, ero in una filodrammatica di ragazzini e portavamo in scena i testi di Shakespeare, Cecov, Cervantes e il livello di formazione era davvero alto. Sono stato educato con queste discipline artistiche che hanno si accresciuto il mio talento, ma soprattutto mi hanno formato come persona. Sul palco mi sono sempre sentito a mio agio, come a casa mia, il pubblico è il mio ospite a cui non si fa mancare nulla.
Mi diverto molto anche con le pubblicità, ne ho girate tante, mi hanno permesso di lavorare con grandi professionisti del settore, sono set dove si respira una grande professionalità.
Il cinema infine è per me una seduzione, mi affascina, è un punto di arrivo, seppur mi mette ansia e questo non so come spiegarlo. Nonostante la mia prima esperienza sul set risalga al 1991, ho sempre con me un po’ di ansia quando devo girare, non mi è mai passata. Ovviamente tutte le paure spariscono al primo ciak, ma prima e dopo il ciak per me sono momenti difficili e qualche notte insonne.
Per concludere, posso dirti che considero il teatro mia madre e il cinema la mia amante. Così credo sia chiaro il mio rapporto con loro.

2 Prova nostalgia per il cinema italiano degli anni d’oro?
Io sono nostalgico per indole, anche se crescendo sto abbandonando questa debolezza. I film del passato, italiani o stranieri, mi sembrano sempre più belli degli attuali. Inoltre se per cinema degli anni d’oro intendi quello strettamente legato al boom economico italiano, dal dopoguerra in poi, direi proprio di si.
Rossellini, De Sica, Visconti, Fellini, Risi, Lattuada, Germi, Antonioni e altri, più o meno blasonati, sono la spina dorsale del nostro cinema, che con i loro film hanno offerto grandi spunti di riflessione sulla nostra società, alle volte nascosti anche in una risata. Sono artisti che dal Neorealismo, con la volontà di staccarsi dal genere dei “telefoni bianchi”, hanno accompagnato la cinematografia italiana a livelli altissimi e hanno preparato la strada per quei giovani registi che si stavano affacciando proprio in quegli anni. Ad esempio Bertolucci o Bellocchio che porteranno a loro volta un nuovo cambiamento, uno stile più coerente a loro stessi e una nuova era lucente del nostro cinema.
E’ difficile quindi contrassegnare gli anni d’oro in un solo momento specifico. Quando c’è fermento, il seme gettato a terra dà di certo frutti, che a loro volta ne daranno altri. Pensa che solo nel 1960 nelle sale c’erano film come Rocco e i suoi fratelli, La dolce vita, La Ciociara, L’avventura, ma anche il Mattatore e Signori si nasce. Un anno dopo è il turno di Accattone di Pasolini e poco dopo Bertolucci con Prima della rivoluzione.
Come non essere nostalgico allora? La fatidica frase “ma che fanno al cinema oggi?” in quel periodo trovava facilmente una risposta e ampia scelta.

3 Cosa pensa del cinema italiano di oggi?
Devo necessariamente collegarmi alla risposta precedente. Gli stimoli che hanno dato vita ai grandi periodi storici del nostro cinema, venivano da una fame culturale, da un enorme curiosità, dalla capacità di osservare da vicino la realtà e dalla incessante voglia di cambiamento. In questo ultimo ventennio ne vedo pochi di questi esempi. Non posso non citare Garrone, Sorrentino o Virzì tra quelli che mi piacciono molto e hanno queste caratteristiche, oppure Ivano De Matteo con la sua grande capacità scarna di osservare e filtrare la realtà. Vedo però nuove leve farsi strada e questo mi fa ben sperare. Inoltre quando si parla di cinema si parla di tutto un sistema produttivo enorme, pesantissimo, aggrovigliato tra burocrazia e arte, che non facilita di certo la realizzazione di un film. Credo che il sistema produttivo debba alleggerirsi, debba in futuro essere più dinamico e svincolarsi in parte dalle logiche in cui si è bloccato, lasciando più libertà all’artista. Ecco, manca un po’ di coraggio, siamo stretti in meccanismi viziati e astringenti, che alla fine non fanno che ridursi nel produrre film molto simili tra loro.

4 Chi sono i suoi punti di riferimento culturali?
Tanti, del resto i riferimenti culturali di ognuno sono mutevoli, cambiano nel tempo secondo il nostro livello e la nostra età. Alcuni però non li perdi mai, non li dimentichi. I miei primi riferimenti giovanili sono legati alla cultura di Roma e allo spettacolo popolare in genere, passando per la Commedia dell’Arte fino al Musical. Sono un cultore di Petrolini, dei poeti romaneschi, del Varietà Italiano, a cui tra l’altro ho dedicato più di uno spettacolo. Parallelamente però, mentre leggevo Maupassant e mi incuriosivo di Caravaggio e Matisse, avevo già portato in scena, con la compagnia di filodrammatica, i testi di Shakespeare e approcciavo alla letteratura Russa, partendo da Cecov per arrivare a Gogol e finire con lo scoprire Stanislavskij. Alla fine, neanche a farlo apposta, dopo i Russi sono arrivati gli Americani con Strasberg. Per gli attori Strasberg e Stanislavskij sono un punto di riferimento per la tecnica moderna di recitazione, ma anche un modo con cui riempirsi la bocca al solo suono di “Metodo Stanislvskji – Starsberg”. Allora, la mia passione per la Commedia dell’Arte è rigurgitata fortemente, intesa non solo come tecnica, ma come conoscenza di quell’affascinante mondo della vita delle compagnie di giro dal 1500 in poi. Ho riferimenti confusi come vedi, ma credo sia naturale, un artista ha bisogno di tutto, deve nutrirsi e digerire ogni cosa.

5 Cosa significa per lei aver vinto il Premio Crocitti?
Che bel momento mi fai ricordare! Quel premio è stato uno stimolo a non fermarsi, chiudeva un periodo fruttuoso per me – avendo da poco lavorato per Netflix in Suburra la prima serie e per la Rai ne La Compagnia del Cigno, L’Aquila grandi speranza e altre fiction – e ne apriva un altro. Infatti poco dopo è uscito nelle sale il film L’amore a Domicilio con Simone Liberati e Miriam Leone, per la regia di Corapi. Vincenzo Crocitti, che vinse il David Di Donatello e i Nastri D’Argento per la sua interpretazione ne Un Borghese piccolo piccolo, ha una lunghissima carriera cinematografica televisiva e teatrale alle spalle e chi lo ha conosciuto personalmente ne parla come una persona di grande umiltà. Il senso del premio Crocitti è proprio questo, premiare anche gli attori poco conosciuti ma che si sono distinti, a giudizio del Comitato e del Direttore Artistico Francesco Fiumarella, per umiltà talento e lunga gavetta. Li ringrazio ancora per aver riconosciuto in me queste caratteristiche. Ho ricevuto il premio il 7 dicembre 2019 insieme ad altri bravi artisti e sono stati assegnati 2 premi alla carriera, a Paolo Bonacelli e Francesco Nuti.

6 Cosa rende secondo lei un film un capolavoro?
Non credo si possa dare una definizione assoluta. Posso dirti che per me il capolavoro è qualcosa che spiazza le tue sicurezze, che ti parla dentro, che ti scava, trova un posto nella tua anima e non va più via. Non basta che un’opera d’arte sia tecnicamente perfetta se non ti parla dentro, per essere un capolavoro deve averti sconvolto. Per farti un esempio, personalmente il mio capolavoro cinematografico è Ultimo tango a Parigi. Mi distrugge ogni volta che lo rivedo e penso che non ci sia nulla di simile in tutta la cinematografia.

7 Chi sono stati i suoi “maestri” e cosa le hanno insegnato maggiormente?
I “maestri” sono stati tanti, ma sono quelli che purtroppo non ho potuto incontrare. Charlie Chaplin, Petrolini e Walter Chiari mi hanno insegnato tanto. Mi soffermo solo su Chaplin di cui ho divorato l’intera sua cinematografia; per un anno di seguito, tutti i giorni, non facevo altro che guardare i suoi film e leggere libri su di lui, sperando di poter rubare un pizzico della sua tecnica, ma soprattutto della sua anima. Da lui ho appreso la potenza di un gesto, non vuoto, un gesto pieno di verità, non un gesto qualunque. Chaplin mi ha insegnato che un solo gesto, se correttamente motivato, racconta tutta un’azione e può raccontare anche un intero personaggio. Poi ho avuto tanti bravi insegnanti, già dalla mia infanzia fino alle scuole di teatro che ho frequentato col passare degli anni. Sono stato fortunato, ho incontrato persone che ne sapevano di pedagogia e che amavano insegnare. Porto con me tutto quello che mi hanno dato e che ho potuto donare a mia volta, quando ho insegnato recitazione nelle scuole superiori e nei laboratori di teatro integrato.

Suburra, la serie

8 “Il cinema è la scrittura moderna il cui inchiostro è la luce”, diceva Cocteau, la pensa anche lei allo stesso modo?
Se lo diceva Cocteau non posso che trovarmi d’accordo. Non ho la capacità di formulare una immagine così poetica, ma ti racconto questa cosa. Molti anni fa ero alla Libreria del Cinema di Roma, un luogo meraviglioso oramai chiuso, in cui ho passato anni a leggere libri, vedere film, conoscere artisti e bere vino. Quel giorno stavano girando un piccolo documentario ad uso interno della libreria, mi ci trovai in mezzo e mi chiesero di rispondere a questa domanda: ”Che cosa è il cinema?”. Io d’impatto risposi “…è una grande bugia a cui tutti dobbiamo credere perché è l’unica che ti rivela la verità”. A farmi la domanda era il regista Antonello Grimaldi che, dopo aver sentito la mia risposta e aver dato lo stop alla macchina da presa, mi fissò qualche lungo istante. Ecco, ora che ci penso di nuovo, forse il cinema è li, tra la mia risposta e il lungo silenzio del regista.

9 Quali lavori le hanno procurato maggior emozione e allo stesso tempo grande agio nella parte che doveva interpretare?
In teatro ho sempre lavorato in spettacoli molto ben fatti, ma nel cuore ho Emigranti di Slamovir Mrozek, uno spettacolo con un grande successo di critica e pubblico, regia di Carlo Benso. Due uomini, di diversa estrazione e pensiero, vivono da emigrati in uno scantinato lontano dalle famiglie. L’inevitabile scontro fra le due personalità sfocerà in liti, scherzi crudeli, confessioni, sogni e delusioni di entrambi. E’ la notte di Capodanno e sono soli con le loro frustrazioni, a fargli compagnia solo i rumori fuori della festa e gli scarichi dei tubi. E’ stato duro affrontare il mio personaggio, un intellettuale che è scappato dalla propria terra per poter scrivere la sua grande opera letteraria che mai completerà, è stata una sfida con me stesso oltre che una prova d’attore non da poco. Dopo i primi mesi di prove e un continuo scontrarmi con il mio personaggio ho cominciato ad intravedere che in me c’era molto di lui, allora mi sono lasciato andare ed il resto è venuto da se.

1o C’è polemica intorno al film di Vanzina, Lockdown all’italiana. Cosa ne pensa di tale polemica e come sta vivendo lei e il mondo dello spettacolo e della cultura questo difficile momento?
Non sono uno spettatore di Vanzina, ho visto solo pochi minuti della sua intera cinematografia, quindi glisso su eventuali giudizi sulle sue opere o su polemiche intorno al suo film. Il mondo dello spettacolo, da sempre in sofferenza, ora più che mai avrebbe bisogno di essere ripensato sia dai politici che dagli addetti ai lavori. Non dovrebbe essere lasciato così in agonia perché, quando questo momento difficile per tutti sarà finito, ho timore che quello che si sarà spento durante, avrà bisogno di anni per riaccendersi. Non mi fermerei a ragionare sulla situazione attuale, che oggettivamente non permette di lavorare con la serenità di prima, ma bisogna fin da ora progettare il dopo, affinché il settore della cultura non sia sempre un fanalino di coda nella nostra economia. Ci vuole un’apertura mentale maggiore da parte di tutti, anche dello spettatore, e molta lungimiranza per una rinascita più ampia del cinema, del teatro e di tutto il mondo della cultura. In questo senso ci vengono incontro le nuove realtà distributive come Netflix o Amazon, dove si trovano film o serial molto interessanti, coraggiosi, dove puoi vedere opere che non hanno trovato spazio con la distribuzione classica. Intendiamoci, un film è meraviglioso visto nella sala cinematografica, ma le cose sono cambiate e anche le sale, che non devono chiudere, devono trovare un nuovo modo per riprendersi l’attenzione del pubblico.

Sul set del film “L’amore a domicilio”

11 Progetti in cantiere?
Certo, anche se è preferibile non parlare di cose che non esistono ancora, ho alcuni progetti e si tornerà nella mischia appena questo momento sarà finito e saremo tutti più sereni. Uno posso svelartelo; un progetto in particolare è quello di portare in scena l’opera teatrale “Gocce d’acqua su pietre roventi” di Fassbinder, da lui mai realizzata. E’ un testo molto duro, messo in scena raramente, ed è diventato un bellissimo film nelle mani di Ozon. Ho una mia visione particolare del testo ma ho bisogno di sostegno, di un produttore e un teatro che accolga uno spettacolo così.

Il teatro in Italia nel primo ‘900: da Marinetti a Chiariello

In Italia le forme ottocentesche del Teatro verista, il Teatro dialettale e il dramma borghese agli inizi del novecento, vengono messe in discussione e soppiantate da altri generi teatrali. I primi ad operare in questo contesto sono gli avanguardisti del movimento futurista di Filippo Tommaso Marinetti.
Tre sono i manifesti dedicati al teatro.

Tre sono i manifesti che i futuristi hanno dedicato al teatro. Il primo approccio alle questioni teatrali è costituito dal Manifesto dei drammaturghi futuristi del 1911, nel quale l’intero sistema del “mercato culturale” dell’epoca viene criticato per aver trasformato il prodotto artistico in merce. Un’arte che per essere venduta, si basa su luoghi comuni, lusingando e accrescendo la pigrizia del pubblico.
Il manifesto, al contrario, teorizza un teatro che induce a riflettere e ad avere un atteggiamento critico nei confronti di ciò che viene rappresentato. I procedimenti stilistici impiegati sono la deformazione, lo straniamento e la gestualità esagerata con lo scopo di stimolare reazioni ed impedire l’adesione passiva degli spettatori. I futuristi, in particolare, propugnano il disprezzo del pubblico: i fruitori non devono essere accontentati ma scossi con proposte estreme. Il manifesto arriva ad ostentare la voluttà di essere fischiati, perché nulla più dell’insuccesso garantisce la riuscita della provocazione.

Famose in questo senso sono le “serate futuriste” in cui i membri del movimento espongono testi poetici, declamano manifesti, presentano brani musicali e quadri futuristi. Le serate, per il loro intento provocatorio spesso si concludevano con diverbi, scontri fisici e risse tra i partecipanti e gli avanguardisti.

L’innovazione più grande consiste nel proporre una scrittura drammaturgica originale che riflettesse la vita moderna, «esasperata dalle velocità terrestri, marine ed aeree e dominata dal vapore e dall’elettricità» lontana dunque dall’esaltazione di eroi, dagli stereotipi come le storie d’amore travagliate, l’adulterio e racconti pietosi e commoventi tipici delle forme teatrali passate.

Con il manifesto Il Teatro di varietà del 1913 Marinetti individua nel Teatro di varietà la forma di spettacolo più vicina alle tendenze futuriste, ritenendolo «il più igienico fra tutti gli spettacoli, pel suo dinamismo di forma e di colore (movimento simultaneo di giocolieri, ballerine, ginnasti, cavallerizzi multicolori, cicloni spiralici di danzatori trottolanti sulle punte dei piedi). Col suo ritmo di danza celere e trascinante, trae per forza le anime più lente dal loro torpore e impone loro di correre e di saltare».

Due anni dopo nel 1915 esce l’altro manifesto Teatro futurista sintetico in cui si propone una forma di teatro «sintetico», «atecnico» (al contrario della scrittura drammatica del teatro borghese, naturalista e tecnica), «dinamico» e «simultaneo» («cioè nato dall’improvvisazione, dalla fulminea intuizione, dall’attualità suggestionante e rivelatrice»), «autonomo», cioè svincolato dalla tradizione, «alogico» e «irreale». Nascondo così le sintesi futuriste: azioni teatrali sintetiche cioè brevi <<stringere in pochi minuti, in poche parole e in pochi gesti innumerevoli situazioni, sensibilità, idee, sensazioni, fatti e simboli>>.

Il Teatro grottesco

L’altra tipologia di teatro nata in opposizione al dramma borghese e alle forme teatrali tradizionali è il Teatro del grottesco. Di poco successivo al teatro futurista, si sviluppa nel periodo della prima guerra mondiale fino agli anni venti. Il termine grottesco appare per la prima volta nel 1916 come sottotitolo del dramma la Maschera e il volto di Luigi Chiariello. Il dramma avvia una tendenza tutta nuova e da l’impulso per quello che sarà poi definito teatro del grottesco. Il tema centrale di questo genere è il costante conflitto tra l’apparire ed l’essere: tra quello che siamo o crediamo di essere e come invece appariamo agli altri e le innumerevoli maschere che l’uomo deve indossare per essere accettato dalla società.

Molti esponenti della letteratura novecentesca aderiscono al teatro grottesco. Il più noto è senza dubbio Luigi Pirandello con i testi Così è (se vi pare) (1917), Il piacere dell’onestà (1917), La patente (1918), Il giuoco delle parti (1918). Altro nome di rilievo è Pier Maria Rosso San Secondo. Siciliano e amico di Pirandello che porta in scena innumerevoli opere grottesche Marionette che passione, Tre vestiti che ballano, La bella addormentata.

L’esperienza del grottesco coinvolge anche Massimo Bontempelli con il capolavoro Minnie la Candida. Questi drammi sono accomunati dalle stesse tematiche: vengono rappresentate, discusse, parodiate la bassezza e l’inautentica dei rapporti sociali.

Tutte queste nuove forme teatrali non solo hanno disgregato le strutture teatrali tradizionali, ma hanno gettato le premesse su cui si fonderanno gli sperimentalismi della seconda metà del novecento, grazie ai quali il teatro conoscerà un periodo davvero fortunato.

Fonti: Luperini: La scrittura e l’interpretazione
Baldi-Giusso: La letteratura

 

Valerio Bruner: “la musica e il teatro mi hanno salvato la vita”

Valerio Bruner è un cantautore, autore di teatro e uno scrittore napoletano. Amante dei viaggi, dopo un soggiorno londinese, grossa fonte di ispirazione per la sua carriera artistica, ritorna a Napoli, la sua città natale.

Nel 2013 esce il suo testo teatrale “La Ballata del Drago e del Leone. Alba Gu Brath” edito da OXP Orientexpress. Nel 2014 si laurea in Letterature e Culture Comparate. L’anno successivo scrive e porta in scena, insieme alla compagnia teatrale Te.Co. Teatro di Contrabbando, lo spettacolo autobiografico “Nonsense a Nord del Tamigi”, curandone anche la composizione musicale e l’esecuzione dal vivo. Lo spettacolo vince la rassegna nazionale Stazioni d’Emergenza indetta dal Teatro d’Innovazione Galleria Toledo di Napoli e si classifica come finalista al festival Crash Test Collisioni di Teatro Contemporaneo di Valdagno.

Il 2015 è un anno molto prolifico per Valerio: porta infatti in scena “Malammò o della Madonna puttana”, un monologo in lingua napoletana sulla figura di Maria Maddalena e cura le musiche e l’esecuzione dal vivo de “Il Baciamano” di Manlio Santanelli che poi sarà adattato e portato in scena con Teatro di Contrabbando. Nel 2016 pubblica “None But The Brave, un viaggio immaginario nell’America di Bruce Springsteen”, un’antologia di racconti che Valerio porta in diversi club e in vari teatri, a Napoli e nella provincia. Nel 2017 vede la luce il suo primo album “Down the River”, “cinque canzoni ambientate lungo un fiume immaginario, storie di peccato e redenzione, tristezza e gioia, sogni e rimpianti” come lui stesso afferma. L’album viene insignito del premio Anna Maria Ortese per il suo “linguaggio unico di musica e parole” e nel mese di febbraio il premio Talentum 2019. Nel 2018 Valerio si cimenta nell’esperienza della regia con il corto teatrale “La parabola della rete”, di cui è anche autore.

 

https://www.youtube.com/watch?v=Q5gX5CxtktE

 

Cosa rappresentano per Lei il Teatro e la musica?

Devo tutto al teatro, è da lì che ho iniziato, come devo tutto alla musica. Sono due energie che ti scavano dentro e portano alla luce la tua essenza, chi sei veramente. Posso dire, senza mezzi termini, che la musica e il teatro mi hanno salvato la vita o, quantomeno, hanno fatto in modo che non la sprecassi.

Com’è iniziata la Sua passione per il Teatro e quando si è aggiunta quella per la Musica?

Quello che più mi affascina del teatro è il qui ed ora. Amo il cinema e sono un divoratore di film, ma il teatro ha quella forza in più che si gioca nel presente, in quel sacro vincolo che si crea tra l’attore e il pubblico nel momento in cui si accendono le luci, così come avviene per la musica. Le storie che portiamo in scena e le canzoni che cantiamo sono vive e sempre in evoluzione, si prendono la nostra anima e la mescolano a quella del pubblico per creare qualcosa di nuovo laddove prima non c’era niente. È per questo motivo che ho deciso di fare quello che faccio.

Chi è per lei Bruce Springsteen?

Bruce Springsteen è il mio compagno di viaggio più fidato e le sue canzoni mi hanno tracciato la rotta che sto seguendo.

Il Suo primo album “Down the River” contiene brani interamente in lingua inglese. Come mai questa scelta? E soprattutto non crede che questo possa rappresentare un limite per la diffusione del disco tra la vecchia generazione?

Non so dirti se è stata o meno una scelta, nel senso che, quando ho preso la chitarra e ho buttato giù i primi versi, mi sono reso conto che la mia lingua sarebbe stata l’inglese. Sono un figlio del rock e della sua musicalità, è stato a tutti gli effetti un parto naturale. I personaggi dei miei testi teatrali parlano l’italiano e il napoletano dei vasci, quelli delle mie canzoni camminano in scarpe diverse. Per quanto riguarda la vecchia generazione ti confesso che non ho mai trovato difficoltà a farle arrivare la mia musica, anzi, dovresti vedere quanti rockettari ci sono lì in mezzo.

Quali sono i Suoi riferimenti musicali?

Ascolto ogni genere musicale, dalla classica al pop 3.0, così come spazio dal panorama italiano a quello più internazionale. Non mi impongo limiti e mi piace scoprire ogni giorno qualcosa di nuovo. Il rock, il blues e il folk restano la mia santa trinità: si va dai fondamenti, Bob Dylan, Johnny Cash, i Rolling Stones, i Doors per citarne alcuni, passando per Bruce Springsteen, Janis Joplin, Patti Smith, i Clash, Lou Reed, Tom Waits, fino ad arrivare ai più recenti Pearl Jam, Nirvana, Lenny Kravitz, Brian Fallon.

Cosa ne pensa del panorama musicale italiano attuale e dei Talent show?

Conosco tanti giovani artisti come me che stanno creando qualcosa di bello e di autentico, ognuno con le proprie forze e ognuno attraverso la lingua e la musicalità che gli scorrono dentro. Oggi che l’artista è chiamato a rivestire tutti i ruoli, dal produttore al manager di se
stesso, non è affatto scontato, quindi chapeau. Non seguo i talent, mi piace andare ad ascoltare la musica live sorseggiando un buon whisky oppure perdermi nelle folle oceaniche dei grandi concerti.

Quali sono le Sue aspettative future?

Portare la mia musica il più lontano possibile.

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