Narrazione e stile in “Quarto Potere” di Orson Welles

“Soffre di gigantismo, di pedanteria, di tedio. Non è intelligente, è geniale: nel senso più notturno e più tedesco di questa parola”. Sono le parole quanto mai azzeccate, del grande scrittore Jorge Luis Borges a proposito del capolavoro firmato da Orson Welles, Quarto potere (Citizen Kane), del 1941.

Quarto potere narra della straordinaria carriera di Charles Foster Kane, magnate della stampa scandalistica ed erede di una colossale fortuna, candidato politico battuto e infine, bislacco marito di una falsa cantante lirica, per il cui successo spende un patrimonio, ma inutilmente. Ritiratosi nel castello da favola di Xanadu, muore in solitudine, pronunciando una parola di cui nessuno comprende il significato: “Rosebud”. Un giornalista cercherà di scoprirne il significato, indagando nell’ infanzia di Kane e intervistando suoi amici e dipendenti. Da sempre in testa alla lista dei 10 migliori film del mondo, Quarto potere ha avuto 8 nominations agli Oscar: film, regia, Welles attore, fotografia, musica , scene, montaggio, ma ha vinto solo quello della sceneggiatura (Herman J. Mankiewicz, O. Welles).

Orson Welles ha rivoluzionato la calligrafia tradizionale, riassumendo in un solo film tutte le esperienza tecniche e artistiche ai fini della sua riflessioni sul capitalismo nordamericano e sulla caduta del sogno americano di cui Kane è l’emblema. Ciò che è importante prendere in considerazione è lo stile di questo masterpiece e come spiegano Bordwell e Thompson in Cinema come arte, teoria e prassi del film, scopriamo così che il film è organizzato come una ricerca: il giornalista Thompson è una sorta di investigatore che cerca di trovare il significato dell’ultima parola pronunciata da Kane prima di morire; l’inizio del film genera un mistero: dopo che una dissolvenza d’apertura ha rivelato il cartello di divieto d’ingresso nella proprietà, la macchina da presa oltrepassa alcune cancellate per poi indugiare sulla grande tenuta, mentre la casa (che in realtà consiste in una serie di dipinti combinati con la tecnica matte con i modellini tridimensionali ripresi in primo piano), resta sempre sullo sfondo. Il film, dominato da una luce fosca e una musica funerea, è attraversato da un’atmosfera sovrannaturale propria dei racconti del mistero.

La macchina da presa continua a muoversi verso le cose potrebbero rivelare i segreti della personalità del magnate Kane, seguendo uno schema di penetrazione nello spazio e di ingresso graduale nella storia, creando suspence e curiosità nello spettatore. Nei flashback, Welles evita il montaggio alternato, girando in piani sequenza lunghi e statici, limitandosi a mostrare ciò a cui hanno potuto assistere i partecipanti della scena. Welles si avvale di una fotografia focale profonda, la quale produce una prospettiva esterna sull’azione, rinunciando agli stacchi di montaggio, usando la messa in scena nello spazio profondo e il suono.

La narrazione di quarto potere colloca in contesti più ampli le visioni oggettive dei narratori: l’inchiesta di Thompson si riferisce a diversi racconti e noi sappiamo quanto ne sa lui, ma il protagonista del film è e rimane Kane; attraverso l’uso del chiaroscuro, Thompson viene reso irriconoscibile: volta le spalle allo spettatore e di solito è al buio in un angolo. Tutto questo per rendere il giornalista un investigatore neutrale. Tuttavia tale indagine giornalistica è posta in una narrazione onnisciente come si può subito notare dalla sequenza di apertura di Xanadu: quando entriamo nella camera del moribondo Kane, “lo stile suggerisce di tuffarsi nella mente dei personaggi”. In questo modo abbiamo una visione soggettiva delle cose.

Osservando lo sviluppo narrativo di Quarto potere, possiamo notare come Kane da giovane idealista si trasformi nel corso della vita in un uomo solitario, senza amici. Questo contrasto è visibile nella messa in scena  e in particola modo negli allestimenti degli uffici di Xanadu e nella redazione dell’ “Inquirer”. La transizione dalla vita del protagonista all'”Inquirer” alla reclusione finale a Xanadu è anticipata da un cambio di messa in scena all'”Inquirer”, mentre Kane è in Europa, le statue che spedisce in patria iniziano a riempire il piccolo ufficio e ciò indica la crescente ambizione di Kane. Ma quando le ambizioni politiche vengono spazzate via, il magnate cerca di sostituirle creando una carriera pubblica per la moglie, priva di talento artistico.

Quella del cinegiornale è una sequenza fondamentale, in quanto funge come una sorta di mappa degi fatti dell’intreccio; in primo luogo il regista ci fa credere che si tratta davvero di un cinegiornale per stabilire il potere e la ricchezza di Kane, usando diverse tecniche per ottenere l’aspetto e il suono di un cinegiornale dell’epoca: la musica è quella dei cinegiornali, e le didascalie ne sono una convenzione.

Un altro importante aspetto da rilevare in Quarto potere è il modo in cui l’intreccio manipola il tempo storico: il passaggio dal presente del narratore agli eventi passato che spesso racconta è intensificato da uno stacco “traumatico” che crea una contrapposizione stridente come dimostrano l’inizio del cinegiornale dopo la sequenza del letto di morte o il passaggio dalla pacata conversazione  nella sala di proiezione del cinegiornale ai tuoni e fulmini fuori dal nightclub El Rancho. Anche la musica rafforza lo sviluppo dello sequenza: la cena iniziale è accompagnata da un valzer; ad ogni passaggio, la musica cambia, ad esempio la scena finale, dominata dal silenzio della coppia, è accompagnata da una lente e lugubre variazione del tema iniziale. Vi sono diversi motivi musicali: quello associato al potere di Kane, il modo in cui l’arredamento della stanza della cantante Susan rivela il comportamento di Kane nei suoi confronti, le foto che si animano e le sovraimpressioni durante le sequenze di montaggio.

 

 

 

Giuseppe Ungaretti: ragioni di una poesia

Giuseppe Ungaretti, come ogni vero poeta che si rispetti, riflette sui problemi dell’espressione poetica e dello stile come dimostrano alcune sue annotazioni uscite sulla rivista “La Ronda” nel 1922. Il poeta ermetico parte da un saggio di Jacques Rivière su Dostoevskij in cui si afferma che “gli abissi umani sono perlustrabili”. Rivière opponeva all’opera dello scrittore russo, l’arte francese, l’arte del romanzo francese, il metodo occidentale d’analisi psicologica. L’errore di Revière, secondo Giuseppe Ungaretti, era di credere che l’opera del grande scrittore russo potesse trasporsi in problemi di metodo, di analisi, di psicologia, generando in questo modo un buon romanzo di tipo francese. Dice il poeta:

“Se il buio non è un buio materiale delle cose, non la notte passeggera, non un effetto di fumo o di nebbia […] ed è invece un buio dello spirito all’ultimo limite, come si farà a infrangerlo con le ridicole violenze e i lucignoli delle povere invenzioni nostre, quelle comprese della buona marca scientifica vantata da Rivière? Se Dostoevskij fosse stato francese, sarebbe stato tutt’al più uno Zola […]. Rileggiamo Dostoevskij. Vi concontriamo una turba, ma è sempre la stessa persona che gira su se stessa, e il suo moltiplicarsi è derivato dalla vertigine del suo giro. Vano a Dostoevskij, e a chiunque, qualsiasi tentativo di definire logicamente  tale fantasma facendogli assumere, comunque, un atteggiamento di controllo verso le circostanze”.

Giuseppe Ungaretti sa bene che per l’essere umano tutto poggia sempre su un fattore oscuro che non siamo in grado di misurare affinché possiamo fare chiarezza, anche se volessimo interpellare le “luci” proustiane o freudiane. Dobbiamo imparare a convivere con il mistero che è in noi, senza mai dimerticarcene e dè per questo che secondo il poeta l’arte per noi avrà sempre un fondamento di predestinazione e di naturalezza, ma, allo stesso tempo, anche razionale. Ma, come dice il poeta, trovata la via della logica, un ciottolino può diventare un macigno o viceversa: è questa la nostra possibilità di portare la realtà, scoprendone la poesia e la verità? Questo è uno degli effetti della metamorfosi della nostra mente. Che sia questo l’unico potere magico dell’uomo? Per cui la parola ci riconduce, nella sua origine oscura, al mistero? Questa è l’arte greco-latina, di prosa e di poesia, questa è la nostra civiltà; da millenni.

Nel 1930, sulla <<Gazzetta del Popolo>>, Ungaretti afferma:

“Pensavo alla memoria, e non potevo non essere ingiusto col sogno. In verità non era ingiustizia; ma la persuasione, che stava maturandosi in me, che la poesia italiana non fiorisce se non in uno stato di perfetta lucidià: tecnica, sensazioni, logica, sogno o fantasia e sentimento: tutte queste cose per noi non hanno senso se simultaneamente non vivano oggettivate per un poeta, in una parola che canti”.

La memoria, in questo senso, ha una funzione chiarificatrice e a tal proposito Ungaretti ammette di aver commesso un errore quando ha detto che in Dostoevskij non c’era se non un fantasma che diventava turba per potenza allucinante di chi scrive. C’è davvero una turba, ma non di fantasmi, bensì di cuori sofferenti. Da qui Ungaretti inizia il suo esame di coscienza tra inquietudini e perplessità come dimostra Inno alla Pietà; per il poeta si tratta ora di spalancare gli occhi impauriti davanti alla crisi di un linguaggio, di cercare nel valore di una parola. Secondo lui, infatti ogni uomo moderno dovrebbe riconciliare il vero con il mistero. Dunque, questa è stata la prima preoccupazione del poeta di oggi: la riconquista del ritmo per risvegliare l’innocenza e per fare ciò è necessario recuperare la memoria. Ma cosa sono i ritmi nel verso? Ce lo dice lo stesso Ungaretti:

“Sono gli spettri d’un corpo che accompagni danzando il grido di un’anima”.

Il poeta moderno possiede il senso acuto della natura, ha partecipato e partecipa agli eventi più tremendi della storia, ha imparato ciò che vale l’istante nel quale conta solo l’istinto. La poesia è una forma estremamente sintetica per natura e i mezzi che l’uomo utilizza per arrivare ad essa sono sempre infelici mettendo insieme immagini lontane tra loro.

Il pensiero di Giuseppe Ungaretti sul significato della poesia si va via via ampliando e definendo negli anni come dimostrano le raccolte del grande poeta , subendo delle revisioni. Ungaretti perviene alla convinzione che in arte conta il miracolo, che la parola ha un valore sacro. Il sentimento dell’ Allegria dà conferma al poeta che non si ha nozione di libertà se non per l’atto poetico che ci dà a sua volta nozione di Dio. Ma il linguaggio di cui l’uomo si serve nella sua fase terrena può contenere una qualche rivelazione facendoci andare oltre la storia? Tale questione, che si era posta Vico e Leopardi (al quale Ungaretti fa spesso riferimento), dovrebbero porsela tutti gli aspiranti poeti.

Tuttavia di una cosa possiamo esser certi: la vera poesia si presenta prima di tutto a noi nella sua segretezza.

“Soltanto la poesia, l’ho imparato terribilmente, lo so, la poesia sola può recuperare l’uomo, persino quando ogni occhio s’accorge, per l’accumularsi delle disgrazie, che la natura domina la ragione e che l’uomo è molto meno regolato della propria opera che non sia alla mercé dell’Elemento”. (G. Ungaretti)

 

 

Siamo solo noi, di Margherita De Bac

LA LETTERATURA “RESPONSABILE”

“Questo libro, raccontando le storie dei pazienti affetti da malattie rare e delle loro famiglie, va proprio nella direzione giusta: sensibilizzare tutti noi a questo problema tanto grave quanto sconosciuto, alimentando la speranza perché tutte queste creature sofferenti possano godere di un futuro migliore” (Dalla Prefazione di Dario Fo al libro “Siamo solo noi” di Margherita De Bac.

Questo vuole fare anche 900letterario: sensibilizzare attraverso un libro toccante e commovente, Siamo solo noi della scrittrice e giornalista Margherita De Bac, la quale raccoglie delle storie ascoltando uno per uno i protagonisti del suo viaggio attraverso le malattie rare, chiamate anche orfane per la loro unicità. Alcune, come la distrofia muscolare, la talassemia, la sclerosi laterale amiotrofica si incontrano più spesso ma l’opinione pubblica pare non prestarci molta attenzione. In Italia non esiste un registro completo dei pazienti, eppure l’aggettivo “raro” pare essere improprio: le malattie in tutto sono più di 7.000 e oltre il 90% hanno una base genetica; molte sono gravissime e costituiscono una minaccia per la vita o la compromettono seriamente, condizionando il resto della famiglia. Infatti anche quando la diagnosi è certa, informazioni e aiuti restano limitati e il destino è quello di una sopravvivenza in uno stato precario. Sono profonde anche le ferite sociali e le associazioni quando esistono su iniziativa delle persone colpite direttamente non riescono, come afferma la De Bac, non riescono ad accorciare la distanza tra i bisogni e l’incapacità a rispondere del sistema sanitario, non solo italiano, al quale però bisogna riconoscere di aver almeno imboccato la strada giusta, anche se lentamente.

Secondo una legge pubblicata nel 2001 i centri regionali dovrebbero inviare i dati su pazienti e diagnosi al registro nazionale presso l’Istituto Superiore di Sanità e allo stato attuale è incompleto. Un altro problema è legato alla natura delle malattie, che sono diverse l’una dall’altra, poco rappresentate secondo la giornalista, dal punto di vista dei soggetti colpiti e quindi un medico, in perfetta buona fede, potrebbe non riconoscerle, confondendole. Ad esempio il KCNQ2 è un gene coinvolto nel funzionamento di un canale del potassio del cervello. Le mutazioni di questo gene sono state associate per oltre 10 anni ad una epilessia benigna “Epilessia familiare benigna” o BFNC.
I bambini con BFNC hanno convulsioni subito dopo la nascita e si risolvono entro i primi mesi e crescono normalmente.
Ma di recente i ricercatori hanno identificato altre mutazioni KCNQ2 associate ad una forma grave chiamata KCNQ2 ENCEFALOPATIA.
I bambini affetti da ENCEFALOPATIA KCNQ2 hanno dei ritardi sia motori che cognitivi, spesso gravi, e le crisi non sempre si riescono a controllare.

Lo Xeroderma pigmentoso, in codice Xp, è una malattia davvero invalidante: se esposto ai raggi ultravioletti il paziente sviluppa tumori della pelle. L’Xp, come si legge in un referto, «è da considerarsi potenzialmente letale». Roberto M. non può uscire di casa durante il giorno altrimenti rischierebbe di morire, ha subito ben 111 interventi chirurgici per rimuovere i tumori maligni formatisi su viso e corpo. La storia di Roberto ha avuto risonanza qualche anno fa (vi è un articolo de Il Corriere della Sera del 2010, “Il ragazzo che vive al buio ora cerca lavoro” e un altro su Il Giornale) ma nessuno si è mai interessato davvero a ciò che stava passando questo ragazzo che ha tentato di togliersi la vita, e la sua famiglia. Spesso queste umili famiglie si rivolgono ad associazioni, alcune delle quali in cambio chiedono soldi, e le istituzioni? Latitano, non garantiscono diritti e l’attenzione giusta ai malati rari e alle loro famiglie; mai una lettera di incoraggiamento, di sostegno.

La storia di Roberto è simile a quella di Alex affetto da XLPDR, un acronimo che non può contenere tutte le difficoltà che compongono la vita di un bambino di soli cinque anni. Il disordine reticolare della pigmentazione legata al cromosoma X  è una condizione cutanea che è stata descritta nelle donne adulte che presentano striature lineari di iperpigmentazione e nella quale i pazienti maschi manifestano una pigmentazione della pelle reticolata e a macchie che, in biopsia, evidenziano depositi cutanei di amiloide. Non è stato ancora identificato il gene responsabile della condizione. I maschi sviluppano nella prima infanzia una iper-pigmentazione reticolare generalizzata. I capelli sono spesso disordinati.

Alex ha bisogno di una incredibile quantità di farmaci generici, quasi mille euro al mese, senza i quali il bambino non potrebbe vivere.

Il panorama italiano dunque mostra anche molte ombre: dove non esistono centri specializzati ele famiglie devono lottare per vedersi riconoscere ciò che gli spetta di diritto. Ma l’assenza di una rete di assistenza domiciliare, la dispersione delle competenze, l’insufficienza dei fondi sono problemi comuni alla maggior parte dei Paesi industrializzati.

Siamo solo noi è un commovente viaggio tra le emozioni e gli stati d’animo dei malati rari, nonché una valido glossario delle malattie rare, per chi volesse saperne di più.

Visitate il sito http://www.rarissime.it/

Top ten settembre 2014

Dopo essere stato per molte settimane al primo posto delle classifiche dei libri più venduti, Markus Zusak esce dal podio lasciando spazio a Ken Follet con I giorni dell’eternità. Seguono John Green con Colpa delle stelle e Sveva Casati Modignani con Il bacio di giuda.

Stabile anche Andrea Camilleri con Donne, seguito dalla new entry Eia eia alalà di Giampaolo Pansa, che entra in classifica al quinto posto. Scende di due posizioni Nono viaggio nel Regno della Fantasia di Geronimo Stilton. La seconda new entry della classifica dei best seller della settimana la troviamo all’ottavo posto: Il capitale del XXI secolo di Thomas Piketty. Chiude la top ten Massimo Recalcati con L’ora di lezione.

1 – Ken Follet – I giorni dell’eternità – Mondadori

2 – John Green – Tutta colpa delle stelle – Rizzoli

3 – Sveva Casati Modignani – Il bacio di Giuda – Mondadori Electa

4 – Andrea Camilleri – Donne – Rizzoli

5 – Giampaolo Pansa – Eia eia alalà – Rizzoli

6 – Markus Zusak – Storia di una ladra di libri – Frassinelli

7 – Geronimo Stilton – Nono viaggio nel Regno della Fantasia- Piemme

8 – Thomas Piketty – Il capitale del XXI secolo – Bompiani

9 – Giorgio Fontana – Morte di un uomo felice – Sellerio

10 – Massimo Recalcati – L’ora di lezione – Einaudi

La diva Sophia compie 80 anni

Ha compiuto 80 anni l’ultima diva del cinema, Sophia Loren, festeggiata in tutto il mondo. Ha vinto due volte il Premio Oscar e rimarrà nella storia del cinema soprattutto per le interpretazioni ne “La ciociara” di Vittorio De Sica e “Una giornata particolare” di Ettore Scola.

Conserva ancora il portamento altero, le labbra carnose, gli zigomi alti e lo sguardo sognante di quando era ragazza, Sophia Loren, l’ultima diva del cinema, vera protagonista indiscussa nello scorso Festival di Cannes, che il 20 settembre 2014 ha compiuto 80 anni che non hanno scalfito nè la sua bellezza nè il suo fascino mediterraneo, prorompente e leggera allo stesso tempo, internazionale e napoletana, sofisticata e semplice; sublime nel ruolo di popolana, a suo agio sia nel dramma che nella commedia, convincente in quello di donna borghese; Sophia è stata ed è tutto e il suo contrario cedendo alla sua passione per l’arte cinematografica e recitativa, e il pubblico di tutto il mondo ha ceduto al suo appeal stellare, dando vita ad un rapporto paritario: lei ci ha reso fieri di essere italiani e noi le abbiamo regalato la bellezza immortale delle dive.

Ma la vita di Sophia non è stata facile, per questo non la sivede come una dea irraggiungibile ma come un esempio di ragazza povera che ce l’ha fatta con cui identificarsi; prima di annoverarsi tra le stelle grazie ad impegno, talento, studio, determinazione, tenacia e fortuna, l’attrice di Pozzuoli ha patito la fame e la povertà durante la seconda guerra mondiale, protetta con le unghie e con i denti da una madre, Romilda Villani, che ha sempre sognato per lei un grande avvenire e desiderosa di riscattare la sua famiglia da quell’umiliante miseria.

 

Oscar alla carriera 1991

Sofia Scicolone Villani è nata a Roma, figlia del marchese siciliano Riccardo Scicolone Murillo, che riconobbe la piccola Sophia ma non sposò mai sua madre Romilda. Trascorre la sua tribolata infanzia e adolescenza a Pozzuoli fin quando, trasferitasi a Roma con sua madre, comincia pian piano la sua carriera con una quindicina di piccoli ruoli diretta, tra gli altri, anche da Fellini e Lattuada in Luci del varietà (1950) Mattoli in Tototarzan con Totò, sempre del 1950, Comencini in La tratta delle bianche (1952); poi il concorso di bellezza, che le fa vincere solo la fascia di Miss eleganza ma soprattutto che la fa notare al produttore Carlo Ponti (diverrà suo marito per ben due volte, in Italia e in Francia), che resta ammaliato dalla bellezza della giovanissima Sofia e il contratto di esclusiva che per lui firma nel 1951. Da qui comincia la cavalcata che la porta da Sofia Scicolone a Sofia Lazzaro e da Sofia Lazzaro a Sophia Loren per diventare un’attrice internazionale, passando anche dai fotoromanzi. Recita truccatissima nell‘Aida, di Clemente Fracassi nel 1953, dove canta con la voce di Renata Tebaldi. Ma il primo film destinato a fare storia è Carosello napoletano di Ettore Giannini (1954) poi di nuovo al fianco di Totò in Tempi nostri per la regia Alessandro Blasetti, e in Miseria in nobiltà, e infine con il suo pigmalione e amico Vittorio De Sica, ne L’oro di Napoli, dove interpreta un’indimenticabile e seducente pizzaiola,  e con il suo partner di tanti film, Marcello Mastroianni in Peccato che sia una canaglia ancora di Blasetti.

 

Sophia diventa un’incona, il simbolo erotico dell’Italia del dopoguerra che predilige bellezze opulente e generose come quella della Loren e della sua rivale Gina Lollobrigida, della quale prende anche il posto del terzo episodio della trilogia di Pane, amore e… di Dino Risi, del 1956. Il successo internazionale arriva grazie anche alla celebre copertina di Life che la incorona come emblema della bellezza mediterranea. Carlo Ponti, che intanto convive con lei destando scandalo poiché non può divorziare dalla prima moglie secondo la legge italiana, la accompagna a Hollywood dove trova attori come Cary Grant (suo partner in Un marito per Cinzia), il quale non esita a corteggiarla, ma inutilmente, Frank Sinatra, John Wayne, William Holden, Anthony Perkins, Richard Burton, Burt Lancaster, Gregory Peck, Peter O’ Toole e Marlon Brando con il quale recita ne La Contessa di Hong Kong (1967) per la regia di Charlie Chaplin. Viene diretta da Kramer nel film Orgoglio e passione (1957), da Ritt in Orchidea nera (1958), da Shavelson ne La baia di Napoli (1960), da Curtiz in Olympia (1960). Ma nonostante questa felice avventura americana in cui si confronta alla grande con le dive più popolari come Marilyn Monroe, Liz Taylor ed Ingrid Bergman, è in patria che avviene la consacrazione di Sophia.

 

Il celebre spogliarello del film “Ieri, oggi, domani”

Vittorio De Sica la dirige magnificamente nell’ultimo sussulto neorealista, La ciociara (1960) dove la Loren dà un’interpretazione tragica e sconquassante di Cesira, una giovane vedova e madre che, con la figlioletta Rosetta (Eleonora Brown), durante la guerra cerca rifugio tra i monti della Ciociaria per sfuggire ai bombardamenti. Il film, come sappiamo, è valso il primo Oscar alla Loren come migliore attrice protagonista. In realtà il ruolo di Cesira  fu offerto, in un primo momento, alla grandissima Anna Magnani con la regia di Cukor; alla Loren sarebbe spettato invece il ruolo della figlia.  Ma quando la vulcanica  Magnani, celebre anche per il suo caratteraccio, seppe della scelta del cast si fece una risata dicendo: «La Loren mia figlia? Nella scena dello stupro degli egiziani, ci sarà da star attenti che lei non stupri loro!» e rifiutò la parte.

De Sica continua a valorizzare il talento dell’attrice campana in I sequestrati di Altona (1962) e soprattutto negli indimenticabili Ieri, oggi, domani (1963) che le frutta un altro David, per l’interpretazione di tre personaggi femminili diversi, Matrimonio all’italiana (1964) dove dà vita ad una strepitosa Filumena Marturano, ottenendo un altro David e due nominations per l‘Oscar e i Golden Globe, I girasoli (1970) accanto al suo amico Mastroianni che sarà ancora suo partner ne La moglie del prete (1971) di Risi. Si cimenta anche nel fantasy con C’era una volta…(1967) di Rosi, recita per Monicelli ne La mortadella e  per Huston in Angela, probabilmente il peggior film della carriera della Loren, ma soprattutto con Gassman in Questi fantasmi, per la regia di Eduardo De Filippo.

Una scena del film “La ciociara”

Alla serie di film sbagliati o poco riusciti, a parte il drammatico Cassandra Crossing, si aggiunge un’inchiesta della Tributaria che coinvolge l’attrice e il marito nel 1978. Il caso finisce nel 1982 e la Loren viene incarcerata per 17 giorni nel penitenziario di Caserta per frode fiscale, poi attribuita al suo commercialista. Con la solita tenacia che la contraddistingue, riabilita la sua immagine lavorando in televisione in film tv come Madre coraggio (1986) e la miniserie Mamma Lucia (1988) di Stuart Cooper con John Turturro. Nel 1995 recita accanto a Jack Lemmon e Walter Matthau in That’s Amore – Due improbabili seduttori.

Nel 1991 vince il César onorario e, lo stesso anno si aggiudica anche l‘Oscar alla Carriera con la seguente motivazione dell’Academy: «Uno dei tesori più autentici del cinema mondiale che, nel corso delle sue memorabili interpretazioni, ha portato grande lustro a questa forma d’arte». Nel 1994, arriva l‘Orso d’Oro onorario e il 26 giugno 1996 viene nominata Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

Il 1977 Sophia torna a risplendere come ai tempi dei film con De Sica nello struggente capolavoro firmato da Ettore Scola, Una giornata particolare, dove interpreta Antonietta, moglie di un fascista, casalinga trasandata ed infelice e madre di sei figli, che, nell’ultimo giorno di Hitler a Roma, incontra Gabriele (Mastroianni), intellettuale omosessuale destinato al confino. Il film le frutta un David e un Nastro d’Argento.

 

Sophia Loren con Marcello Mastroianni in una scena di “Ieri, oggi, domani”

Nel 1978 Sophia è diretta da Lina Wertmuller in Fatto di sangue tra due uomini per causa di una vedova (si sospettano moventi politici). Nel 1994 replica il celebre spogliarello di Ieri, oggi, domani con Marcello Mastroianni, che però stavolta si addormenta in Prêt- à-porter di Robert Altman con Tim Robbins e Julia Roberts, grazie al quale viene nominata al Golden Globe come miglior attrice non protagonista.

Nel 2002 viene diretta da suo figlio Edoardo in Cuori estranei, prende simpaticamente ad alcuni spot pubblicitari e, nel 2007, si regala perfino un Calendario Pirelli. Nel 2009, recita nel (deludente) musical Nine con Daniel Day-Lewis e Nicole Kidman.

Più diva o più attrice? Già, perché alcuni pensano che Sophia Loren non abbia talento, che abbia solo una bellissima ed irresistibile immagine, sapientemente gestita, che abbia avuto successo e abbia vinto premi solo perché sposata con un grande produttore cinematografico che, per amore e stima, le ha costruito una straordinaria carriera. Sophia è stata ed è una diva perché è stata ed è una grande attrice, perché lo ha voluto con tutta se stessa, impegnandosi e migliorandosi di volta in volta, con l’entusiamo di sempre, come dimostra il suo ultimo importante lavoro diretto da suo figlio Edoardo, La voce umana, dello scrittore Jean Cocteau il cui monologo è divenuto già cinema con l’Amore di Rossellini, avente come protagonista una magnifica Anna Magnani.

La Loren ha meritato tutto quello che ha conquistato, perché bellezza, passione e il talento senza ambizione, intelligenza, umiltà e spirito di abnegazione, non bastano per diventare l’attrice italiana più famosa nel mondo, amata per la sua solarità e spontaneità, ben lontana dall’essere una diva altezzosa che non si concede al suo pubblico. Dubitiamo che molte  giovani leve, italiane e non, che tanto vorrebbero somigliarle riescano a percorrere una carriera simile, posando per il Calendario Pirelli a 70 anni. Se volessimo riassumere velocemente la versatilità di Sophia Loren attraverso due fotogrammi, sceglieremmo il ballo con De Sica in Pane, amore, e… e quello che la vede scagliare la pietra contro la camionetta di soldati, dopo la violenza subita dai nord-africani ne La ciociara.

Di Annalina Grasso

La letteratura responsabile: “Noi, quelli delle malattie rare”

Un libro non ha solo il potere di farci sognare, di farci evadere dalla quotidinità, di intrattenerci. Un libro può e deve anche informarci, farci riflettere, farci conoscere delle realtà importanti di cui non siamo a conoscenza. Un libro può e deve renderci più sensibili. Un libro può e deve nobilitare il nostro essere umani. Ed è per questo che 900letterario ritiene fondamentale dare spazio a storie di persone molto spesso trascurate, ignorate e dimenticate; a storie di vita, di amore e di coraggio.

I protagonisti di queste storie sono affetti da malattie rare, e oggi vogliamo presentare un libro che ci fa scoprire la tenacia di persone che si aggrappano alla vita con tutte le loro forze, perché la amano e che siano di sostegno a chi ha deciso di non mollare ma anche a chi non avrebbe più voglia di lottare, Noi quelli delle malattie rare della giornalista de Il Corriere della Sera, Margherita De Bac edito da Sperling & Kupfer (2010) che ci consente di porre la nostra attenzione su questo delicato argomento, probabilmente ignorato da molti.

Ma cosa vuol dire ‘malattia rara’? Rara è considerata ogni malattia che ha, nella popolazione generale, una prevalenza inferiore ad una data soglia, codificata dalla legislazione di ogni singolo paese. L’Unione europea ha stabilito tale soglia allo 0,05% della popolazione, ossia 1 caso su 2000 abitanti, e l’Italia si attiene a tale definizione. Molte patologie sono però molto più rare, arrivando a frequenza di 1 caso su 100.000 persone (0,001%) o più. Le malattie rare sono molte, la maggioranza delle quali sono di origine genetica, identificabili per un difetto dell’acido nucleico.

Il numero di malattie rare conosciute e diagnosticate oscilla tra le 7.000 e le 8.000, ma è una cifra destinato a crescere con l’avanzare dei  progressi della ricerca genetica. Si sta parlando non di pochi malati ma di milioni di persone in Italia e decine di milioni in tutta Europa.
Secondo la rete Orphanet Italia nel nostro paese sono 2 milioni le persone affette da malattie rare e il 70 per cento di esse sono bambini in età pediatrica.
Vi sono diverse liste di malattie rare: la National Organization for Rare Disorder (NORD), Office of Rare Diseases. Orphanet propone una lista di circa 5.000 nomi di patologie rare in ordine alfabetico. In Italia l’Istituto Superiore della Sanità ha individuato un elenco di malattie rare esenti-ticket e tale elenco comprende attualmente 583 patologie. Alcune Regioni Italiane hanno deliberato esenzioni per patologie ulteriori da quelle previste dal decreto 279/2001.

Noi, quelli delle malattie rare è un libro di speranza, in cui sono presenti non solo racconti, testimonianze ed interviste, ma anche alcuni brani tratti dal blog www.lemalattierare.info che ha dato voce a chi non ne ha mai avuta. Le malattie rare non sono più un tabù? In un certo senso esse sono state sdoganate sicuramente sul piano della conoscenza, ma c’è ancora tanta strada da fare, a livello di leggi, di cure, di finanziamenti, di ricerca e appunto di sensibilità. Noi vogliamo cominciare proprio con quest’ultima, attirando l’attenzione delle persone e infondendo speranza ricordando i progressi scientifici e confidando in molte persone che si impegnano per divulgare queste tematiche, come la stessa autrice del libro (il suo secondo dopo Siamo solo noi) che ha saputo unire l’attività giornalistica a quella di formazione ed insegnamento di tecnica della comunicazione scientifica, devolvendo il ricavato dei suoi libri a sostegno della lotta contro le malattie rare.

Il libro consegna alla sensibilità del lettore storie commoventi come quella della diciannovenne Costanza affetta da Sindrome di Ehlers-Danlos, malattia che colpisce colpisce prevalentemente il tessuto connettivo, della piccola Margherita (solo tre anni e mezzo) affetta dalla Sindrome di Noonan, caratterizzata da un insieme di malformazioni congenite, di Manuela, 21 anni affetta dalla Sindrome di Williams, caratterizzata da stenosi aortica sopravalvolare, ritardo mentale associato ad un carattere estremamente socievole ed estroverso, da Martina, 16 anni affetta dalla Sindrome del QT lungo, anomalia cardiaca caratterizzata da una ritardata ripolarizzazione delle cellule miocardiche ed associata a sincope.

Le storie sono tante ma se ne parla sempre troppo poco e anche in questo campo c’è la solita Italia che va a due velocità diverse. Tra diagnosi certa e l’effettivo accesso alle cure possono passare anche nove-dodici mesi; la rete di centri specialistici istituita dalle legge numero 279 del 2001 mostra ancora troppe rotture: i centri individuati dalle Regioni con ruolo di riferimento non sempre sono all’altezza, e c’è la corsa all’investitura perché poi arriveranno i soldi. Ad esempio la Toscana funziona bene da questo punto di vista, inserendo le malattie rare tra le sue priorità e prevedendo lo screening neonatale per 40 sindromi metaboliche. Uno dei problemi principali è che non è conosciuta l’esatta dimensione del fenomeno; nel 2008 L’Istituto Superiore di Sanità ha reso pubblico il risaultato della prima fase del censimento. Ma si tratta di un bilancio incompleto, dato che sette Regioni non hanno inviato il materiale; in media 5 italiani su 10.ooo sono <<rari>>, il 20% delle famiglie deve intraprendere viaggi per cercare la diagnosi, nel 58,8% del campione l’intervallo tra la comparsa dei sintomi è la diagnosi è superiore ad un anno, nel 22% supera addirittura i cinque anni. Tutto questa sta a dimostrare come l’autonomia non è la soluzione migliore per le malattie rare e come ci sia bisogno di un forte coordinamento centrale.

Tuttavia negli ultimi anni sono stati compiti parecchi passi in avanti nella ricerca, nello sviluppo di farmaci; gli USA sono stati il primo Paese, nel 1983, ad attrezzarsi di una legge per lo sviluppo di medicine orfane, l’Europa è arrivata in seguito concentrando però la sua attenzione sul cancro e i difetti metabolici, mentre nessuna molecola ha interessato le malattie neurologiche.

L’unica certezza che emerge da queste considerazioni è la solitudine delle famiglie dei malati rari, sebbene abbiano avuto coraggio di uscire dalle proprie mura per far sentire la propria voce. Ma non possiamo non rimanere coinvolti ed emozionarci di fronte al modo che hanno soprattutto i bambini di vivere la malattia: Margherita si considera un angioletto Noonan, come se fosse depositaria di un privilegio, sia pure ingrato. La malattia con lei è stata abbastanza benevola rispetto ad altri, perché le ha impresso sul visino quei tratti inconfondibili, occhi distanziati e asimmetria e quella strana incurvatura sul petto, ma per il resto Margherita è una bambina sveglia e intelligentissima.

Invitiamo tutti a leggere Noi, quelli delle malattie rare, a visitare il blog www.lemalattierare.info, e i siti www.orphanet-italia.it/national/IT-IT/index/le-malattie-rare/, http://www.orpha.net/consor4.01/www/cgi-bin/?lng=IT, http://www.osservatoriomalattierare.it/ (prima testata dedicata alle malattie rare).

 

 

 

Il giovane favoloso, G. Leopardi in concorso a Venezia 2014

Mario Martone

Giudizi contrastanti intorno al nuovo film di Mario Martone, Il giovane favoloso, ovvero Giacomo Leopardi provengono dalla laguna veneziana; Il film infatti, in concorso per l’ambito Leone d’Oro, ha diviso la critica: alcuni la considerano un’opera- compendio che non scongiura totalmente il rischio di diventare un didascalico biopic per scolaresche, altri un lavoro che rimuove i luoghi comuni che da sempre accompagnano il grande poeta e filosofo marchigiano, interpretato da uno straordinario Elio Germano.

Cosa sappiamo effettivamente di Giacomo Leopardi, pessimismo a parte? Lo conosciamo davvero? In realtà l’autore de Lo Zibaldone, di A Silvia, de Il canto notturno di un pastore errante, di Alla luna, de L’infinito, de La ginestra e via discorrendo, è stato collocato dalla cultura postmoderna fuori del suo tempo, e il risultato è un approccio scolastico e banale alla figura di uno dei più grandi poeti dell’Ottocento.

Mario Martone racconta il “suo” Leopardi proprio dalla giovinezza a Recanati, seguendo il giovane nella ricerca costantemente osteggiata dal padre Monaldo e dalla madre, una bigotta e anaffettiva, la quale presterà il suo volto a quella Natura ostile e maligna cui il poeta si è rivolto per tutta la vita con profondo rancore e dolore per essere stato un figlio abbandonato e mai compreso.

Attraverso un salto temporale, ritroviamo Leopardi a Firenze, dove conosce l’amata Fanny e l’amico Antonio Ranieri, entrambi fondamentali all’interno del percorso emotivo del poeta. Leopardi si confronta con la società intellettuale della sua epoca dell’epoca, che invece di cogliere la capacità visionaria di Leopardi  fuori dagli schemi, ne intuiscono invece la pericolosità dal punto di vista politico, in quanto non allineato con il pensiero (ottimista) dominante che mitizza la storia e il progesso, respingendo qualsiasi utopia.

Leopardi era un uomo libero e scomodo, alcuni critici lo hanno considerato nemmeno un filosofo, come il vecchio filone della cultura laicista italiana, presieduta da De Sanctis a  da Croce, ritenendo la filosofia di Leopardi scarsamente significativa. In effetti tale filosofia  può sembrare che esprima null’altro altro che un superficiale pessimismo che nasce dalla presa di coscienza della propria infelicità che poi si estende a tutta la realtà, al quale fa da contralatare una poesia profonda. Eterogenesi dei fini: Leopardi che odia la vita, ce la fa amare attraverso la poesia. Come avrà reso questo controsenso il regista napoletano?

Bisogna attendere il decennio tra le due guerre per avere una rivalutazione del pensiero di Leopardi; Giovanni Gentile infatti legge il poeta con interessi filosofici, nell’intento di rivalutare le Operette morali, e arriva ad affermare che Leopardi è autentico e grande filosofo. Un filosofo che non si è preoccupato di indagare su problemi metafisici e gnoseologici; Leopardi non procede per astrazioni nelle sue riflessioni, ma comunica in maniera immediata come dimostra lo Zibaldone, e ci è più comprensibile.

L’atto conclusivo del film di Martone si svolge a Napoli, dove Leopardi dà vita a La ginestra, summa del pensiero esistenziale del poeta disperato.
Martone racconta quindi un Leopardi vulnerabile, dalla salute cagionevole e l’animo fragile, ma seppur rattrappito nel corpo, egli dimostra fino alla fine una grande lucidità intellettuale ed ironia; e proprio questa ironia si configura come un aspetto “nuovo” nel presentare la figura di Leopardi, nella cui parole e lingua, secondo Martone, si ritrovano le orgini dell’Italia di oggi.

Mario Martone vuole mostrare come Leopardi sia un personaggio attualissimo e moderno, attraverso un’opera filologica, facendoci avvicinare al lato umano e affettivo di un giovane il cui straordinario intelletto che confidava nella forza della ragione, era confinato in un corpo deforme e in un mondo troppo piccoli per contenerlo.

Il film sembra essere un omaggio non solo a questo importante protagonista della nostra cultura ma alla cultura e alla bellezza stesse, troppo spesso malatrattate ed ignorate. Ma Martone sarà stato anche in grado di coinvolgere lo spettatore riflettendo su una delle tematiche più affascinanti e sempre attuali del pensiero leopardiano che riguarda tutti noi, ovvero la teoria dell’amor proprio, secondo la quale l’uomo è un essere che ama necessariamente se stesso e mira alla propria conservazione e alla propria felicità. L’altruismo per Leopardi è un controsenso: quando si fa  del bene ad un altro è perché si prova piacere, quindi lo si fa sempre a se stessi.

L’altruismo quindi è davvero una sublimazione dell’amor proprio? Può coincidere con l’egoismo? Quest’ultimo è un atteggiamento di chi è debole o forte, è mosso dal raziocinio, dal calcolo o dall’istinto?

Il rischio principale de Il giovane favoloso è quello di perdersi in parole pedanti e noiose didascalie, piuttosto che in immagini suggestive che ci trasmettano il senso della convinzione leopardiana che l’immaginazione è la fonte primaria della felicità e la l’illusioni sono il vero, la realtà; assunto che è l’essenza del cinema stesso, del resto.

Umberto D. di Vittorio De Sica: storia di un capolavoro

Una pietra miliare della storia del cinema, una delle vette del Neorealismo, il capolavoro Umberto D. di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, alla sua uscita, nel 1952,  a sette anni dall’altro capolavoro neorealista Roma città aperta di Roberto Rossellini, è stato oggetto di forti polemiche sia da destra (famoso l’intervento dell’onorevole Giulio Andreotti, che accusò De Sica di eccessivo pessimismo e di non ricordare che l’Italia era anche patria di don Bosco, di Forlanini e di una progredita legislazione sociale), sia da sinistra, per la mitologia del “personaggio positivo”, che il film smentiva, non prestandosi a essere semplicisticamente definito “un appello alla solidarietà umana”. Certamente Umberto D. è stato sottovalutato, complici i giudizi provenienti da destra e da sinistra e la crisi dello stesso neorealismo, con l’Italia che si avviava al boom economico, la fortuna che avrebbero avuto da li a poco i film mitologici e la nascita della televisione.

Realizzato grazie al coraggioso produttore Giuseppe Amato, il film  incassa forse la metà di quanto speso e risulta un clamoroso flop del neorealismo italiano. Ma Umberto D. è più che mai una pellicola di successo, un punto di riferimento per moltissimi cinefili ed addetti ai lavori, un monumento della nostra cultura che non smetterà mai di essere celebrato, nè di commuoverci.

Ma come nasce questo capolavoro? La risposta sta proprio nel volume dello sceneggiatore Zavattini, Umberto D. Dal soggetto alla sceneggiatura, divenuto ormai un libro cult per i bibliomani, un testo fondamentale per tutti gli studiosi di scrittura cinematografica. Il modo di scrivere di Zavattini infatti è rivoluzionario, e non solo per l’Italia: lo stesso Martin Scorsese ha ammesso come il cinema italiano abbia profondamente influenzato la sua regia. Con questo libro Zavattini ha voluto dimostrarecome da una semplice idea di poche righe si possa sviluppare un intero film.

Umberto D. racconta la realtà come fosse una storia, tentativo che nasce dall’impegno di Zavattini di porsi contro l’eccezionale a favore del quotidiano senza timori, perchè, secondo lui, “il banale non esiste” e chi fa cinema non deve avere paura del banale. Il percorso della scrittura di Umberto D. è esemplare e propedeutico per chi volesse intraprendere il mestiere dello sceneggiatore. Come Miracolo a Milano e Ladri di biciclette, Umberto D. funge da modello per la personalità di uomo di cinema di Zavattini, così predominante ed originale, che gli ha consentito di conquistare un nuovo stile che risponde ad un preciso mondo morale. In Umberto D. come in tutti i film neorealisti il normale diviene eccezionale, spettacolo; è una banale  e spettacolare avventura quotidiana vissuta da un anziano (interpretato da un professore di glottologia, Carlo Battisti) con il suo fedele cagnolino Flik.

Sullo sfondo di una Roma traboccante di gente produttiva, Umberto D., che abita presso una donna che fitta camere, cerca di affrontare con dignità la miseria economica, la vecchiaia e  la solitudine esistenziale. L’unico rapporto lo instaura con la servetta Maria (Maria Pia Casilio), chiedere la carità per lui, è troppo degradante e umiliante.

Lo sguardo di De Sica è fulgido, catartico in tutta la sua essenzialità, anche quando si tratta dei propositi suicidi del protagonista che sarà salvato proprio dal suo cagnolino, mentre l’ambiente circostante è occupato da bambini (che nel cinema di De Sica hanno sempre un ruolo “purificante”) intenti a giocare: il futuro della società è nelle loro mani…

C’è  ancora speranza? La domanda sembra avere risposta positiva, in riferimento alle nuove generazioni, ma il film tenta un cambio di rotta, segnando un passaggio storico; il mondo infatti stava precipitando nell’incubo del conflitto nucleare, mentre l’Italia era sempre più alle dipendenze degli USA, come dimostrano anche la quantità di film di Hollywood che invadeva le sale italiane.

A proposito del titolo del film, Zavattini afferma: <<Mi venne in mente il titolo Umberto D. come mi sarebbe potuto venire in mente Antonio D. Poi cercai di giustificarlo con una brevissimascena sul Campidoglio in cui Umberto doveva dare il proprio nome e cognome ai dimostranti che avevano scelto casualmente lui con altri quattro o cinque per recarsi dal sindaco a protestare in nome dei proprietari di cani troppo tassati; e Umberto modestamente diceva; “Umberto Domenico Ferrari…ma può scrivere: Umberto D. Ferrari…basta”. Quando sotituii il corteo dei padroni di cani con il corteo dei pensionati, riallacciandomi all’idea del soggetto, misi una situazione quasi identica nell’ospedale dove gli scioperanti della fame raccoglievano firme di solidarietà; infatti il vecchio diceva agli agitati raccoglitori di firme: “Basta Umberto D. Ferrari”. Ma lo sciopero, fu uno dei tagli grossi che De Sica e io decidemmo di fare dopo che il film fu girato>>.

 

 

 

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