Carla Vasio: “Ho fatto la guerra del Gruppo ’63, ora vivo per dimenticare tutto”

E poi c’era lei. Carina. Molto carina. In quel Gruppo ’63. In quella foto affollata di teste che sarebbero diventate note e con il vecchio Ungaretti davanti alla torta: “Eravamo nati a un giorno di distanza l’uno dall’altra. Festeggiammo insieme i compleanni. Ungaretti era lì. Con l’immancabile basco. Non spaesato. Sordo e inguaribilmente incazzato. Mio Dio, pensai, ora prende la torta e la lancia contro qualcuno”, ricorda Carla Vasio. Sì, Ungaretti poteva essere imprevedibile.

Quello che non si capisce è perché delle donne che hanno partecipato al Gruppo ’63 non si parla mai. La Vasio è una signora fine, con un bel libro di memorie pubblicato da poco ( Vita privata di una cultura, Nottetempo) – e ci si aspetta una risposta risentita, rancorosa. E invece è ironica: “Forse non gliela davamo. O forse pensavano di essere solo loro i protagonisti di questa scena che è durata alcuni anni e molto ha svecchiato nella cultura italiana”.

Erano maschilisti incalliti?
“Si sentivano tutti dei geni. E alcuni forse lo furono anche. Sicuramente Edoardo Sanguineti. Il più sorprendente. Paradossale”.

C’è una foto in cui ballate avvinghiati.
“Avvinghiati? È di una castità dopolavoristica. Del resto Edoardo era sposato e io avevo le mie storie, rigorosamente fuori dal gruppo”.

Di tutta la combriccola fu molto presente Giorgio Manganelli.
“Adorabile nevrotico. Fu un’amicizia vera con lui. Fatta di intesa e di confidenza. Ma senza complicazioni sessuali. A volte reagiva con indignazione alle ingiustizie culturali”.

A cosa si riferisce?
“Accadde un episodio, proprio nel 1963. Nella sede milanese di Garzanti fu presentato Accoppiamenti giudiziosi di Gadda. Aprì Ungaretti. A un certo punto Pasolini lo interruppe accennando, provocatoriamente, ad alcuni versi di una poesia piuttosto sconcia da dedicare allo scrittore. Il pubblico rumoreggiava. Gadda in prima fila era rosso come un peperone e in preda a un’angoscia terribile”.

E Manganelli?
“Soffriva. Mi trascinò fuori in preda all’ira. Reagì alla provocazione pasoliniana allontanandosi”.

Ma il Gruppo ’63 non amava Pasolini.
“Non condivideva nulla della sua impostazione anacronistica. Non lo amava, ma non ne parlava. Il vero grande nemico che temevamo non erano neppure Cassola o Bassani, facili bersagli. No. Era Alberto Moravia. Lui, soprattutto. Non gli altri”.

La racconta come fosse una guerra.
“E in un certo senso lo è stata. Con morti e feriti. Roma e Milano furono i due grandi campi di battaglia. Preceduti da Palermo che fece da detonatore. Per me che ero veneziana fu un bel divertimento “.

Quanto è rimasta a Venezia?
“Fino all’adolescenza. Con i miei abitammo prima in un angolo di un vecchio palazzo gotico. Poi andammo a vivere al Lido. Feci lì le elementari. Tra le mie compagne di classe c’era Rossana Rossanda”.

E com’era?
“Bella, elegante e molto intelligente. Quando ci rivedemmo, molti anni dopo, mi propose di collaborare al Manifesto . Ringraziai e poi dissi che i miei interessi erano troppo frivoli per le loro esigenze”.

Frivoli?
“Diciamo leggeri, impolitici. Ero stata per un periodo a Parigi nei primi anni Sessanta. Mi ero laureata in storia della musica e facevo le mie brave ricerche su Debussy. Poi conobbi Henri Michaux, un bel tipo. Continuava a parlarmi dei grandi effetti letterari che l’uso della mescalina produceva. Lo guardavo affascinata e inorridita al tempo stesso”.

Tornerei ancora un momento a Venezia. Quando la lasciò?
“Durante la guerra. Mio padre, che era un giornalista del Gazzettino, partecipò alla Resistenza. Si trasferì a Roma e noi con lui. Poi sparì e restammo io e mia madre. Il 1943 fu il nostro inverno della fame. Fu terribile. Il padre di due mie compagne ebree notando la mia denutrizione ricordo che mi diede due scatolette di vitamine americane”.

Come fu il dopoguerra a Roma?
“Eccitante. Avevo fatto il liceo al Mamiani, l’università a Lettere. La vera Roma, quella straordinariamente reattiva capace di diventare un assoluto centro internazionale, si realizzò nella seconda metà degli anni Cinquanta. Non si può avere un’idea di che cosa fosse la sua vitalità: artistica e culturale. La cosa più strabiliante fu anche un certo lato esoterico che in seguito la città, sotterraneamente, sviluppò”.

Cosa intende per esoterico?
“Una certa predilezione per le dottrine orientali e in particolare indiane. Era facile nei primi anni Sessanta incontrare Krishnamurti nel salotto di Vanda Scaravelli. Lei grande esperta di yoga ed entrambi appassionati di automobili. Oppure, in casa del compositore Giacinto Scelsi, trovarsi al cospetto di qualche affascinante lama tibetano. Lì ci si poteva imbattere in Patrizia Norelli- Bachelet. Aveva sposato un diplomatico e si era trasferita in America. Di punto in bianco, così raccontò, sentì la chiamata mentale dall’Ashram di Aurobindo”.

Il santone indiano?
“Lui. Patrizia abbandonò tutto. E senza soldi, né un programma, con un bambino di sei anni, si mise in viaggio per raggiungere l’India. Si incamminò verso l’India come fosse il posto più vicino a casa. E fece una lunga tappa a Roma”.

E qui cosa accadde?
“Incontrò una giovane pianista, allieva prediletta di Arturo Benedetti Michelangeli, su cui il maestro riponeva grandi speranze. Ma la giovane donna sorprese un po’ tutti quando, all’inizio di un concerto, disse che non avrebbe più suonato in pubblico. Da quel momento si dedicò a mettere a punto una terapia musicale per bambini difficili e down”.

E lei in tutto questo che c’entrava?
“Eravamo diventate amiche. Io mi occupavo di musica, Patrizia di astrologia e Maura Cova, insieme ad Alberto Neuman, altro allievo straordinario di Michelangeli, fondò una scuola musicale in cui insegnava il nuovo metodo. Il mio compito era trascrivere quello che accadeva. Poi mi accorsi di un fatto abbastanza curioso”.

Quale?
“A Roma si era formata una enclave di junghiani”.

Lo dice come fosse una setta.
“In un certo senso lo era. Ne fui ammessa andando, per diverso tempo, in analisi da Ernst Bernhard. Alla fine Bernhard, che aveva avuto in cura Manganelli e Fellini, voleva che diventassi analista e mi spedì da un personaggio meraviglioso che viveva ad Ascona”.

Chi era?
“Aline Valangin. Non saprei come definirla: una specie di drago mitologico. Era già molto anziana. Era stata una pianista mancata, dopo un incidente alla mano sinistra. Allieva e paziente di Jung. Sposò un avvocato ebreo e la sua casa durante la dittatura fu un punto di riferimento per gli antifascisti. Ebbe anche una storia con Ignazio Silone. Insomma, mi presentai a lei con una lettera di Bernhard. Fu premurosa. Mi disse che avrei dovuto studiare qualche anno a Zurigo, prima di intraprendere la professione di analista”.

E cosa decise?
“Ero tentata e lusingata. Ma alla fine prevalse il desiderio di occuparmi di musica e di arte. E poi volevo scrivere. Ma intendevo farlo in forma originale. Passò qualche anno quando realizzai un curioso “romanzo storico”, scritto su di un solo grande foglio da appendere alla parete. Enzo Mari ideò la gabbia grafica. E quando il libro uscì ricevetti una telefonata da Italo Calvino”.

Cosa le disse Calvino?
“Cominciò a imprecare. Sembrava arrabbiato. Poi di punto in bianco cambiò tono: ti devo parlare. Stasera vediamoci a cena, disse. Eravamo amici. Spesso si mangiava insieme in trattoria e si scherzava su tutto. Sentirlo così rancoroso mi preoccupò. Quando ci vedemmo mi sembrò freddo: come ti sei permessa di scrivere il libro che volevo fare io? Restai sconcertata. Poi capii che era il suo modo di esprimere consenso. Qualche mese dopo uscì una sua recensione in cui definì Romanzo storico uno dei più straordinari libri degli ultimi anni”.

Che anno era?
“Mi pare fosse il 1976. Si avvicinava una nuova fase di contestazione che non avrebbe portato a niente. Poi ci fu la tragedia di Aldo Moro. Il Paese allo sbando. Roma da tempo aveva smesso di essere la città straordinaria che era stata. Credo che l’ultimo sussulto lo ebbe con l’estate dei poeti nel luglio del 1979”.

Fu un evento che alcuni ancora oggi considerano memorabile.
“Si realizzò grazie alla fantasia e al coraggio di Renato Nicolini e a circostanze fortuite. Fu Fernanda Pivano a portare a Roma i poeti americani. Una sera mi telefonò. Domani arrivo con Allen Ginsberg. Devi condurci con la tua macchina a Ostia. Partimmo in tre. Ginsberg sembrava inquieto. Arrivammo che c’era già una quantità pazzesca di gente. Dal palco qualcuno leggeva poesie”.

E cosa accadde?
“Peter Orlovsky fu coinvolto in una rissa. Ginsberg vedendo il fidanzato in difficoltà reagì in modo sublime. Salì sul palco. Afferrò il microfono. Si sedette in terra. E cominciò a cantilenare, con la sua voce bellissima, un mantra. Improvvisamente si fece silenzio. La rissa finì. E l’evento poté finalmente decollare”.

Fu un canto del cigno.
“Fu la cosa più bella e gratuita che ci potesse accadere. Ricordo che Nanda era divisa tra lo stupore per quella serata imprevedibile e il racconto che mi fece di un tentativo da parte di Gregory Corso, totalmente drogato, di farsela. Senza riuscirci”.

Come reagì la Pivano?
“Non lo so. Sembrava divertita al racconto. C’era nell’aria una strana eccitazione. Tutto poi rientrò con un misto di stanchezza e di quiete. La festa era finita. Quell’estate andai in Puglia e poi, per una decina di anni, ho vissuto in Giappone”.

Al quale in seguito ha dedicato un libro.
“Sì, lo pubblicò Einaudi nel 1996. Come la luna dietro le nuvole fu il titolo. Raccontavo attraverso gli occhi di una scrittrice giapponese della fine dell’Ottocento le percezioni che avevo avuto di un mondo capovolto rispetto al nostro. Mi servì anche per prendere le distanze da tutto quello che ero stata. Dal mondo che avevo conosciuto e che era finito”.

Lasciando qualche trauma?
“No, in me non ha prodotto ferite. Semmai, resta il rimpianto per coloro che sono scomparsi e che qualche volta vorrei rivedere”.??Chi per esempio??”La mia amica Amelia Rosselli, anche lei a suo modo fece parte del Gruppo ’63. Fu una poetessa bravissima. Deformata dalla schizofrenia che non le diede mai pace. Per tutta la vita provò a combattere l’oscurità. Ho dentro, sconsolata, la sua sofferenza. Mi telefonò una notte. Era l’inverno del 1996. Mi chiese di portarle da mangiare. E quando giunsi, e non aprì la porta, capii che era troppo tardi”.

Come giudica la sua vita, la sua bellezza di allora?
“Non mi sono mai addomesticata, né ammansita. Della mia bellezza non me ne sono fatta uno strumento, anche quando avrei potuto servirmene. Il succo della vita è di viverla. Possibilmente al di là delle transenne. Continuo a farlo. Con le forze che restano in una signora di 91 anni. Ho finito di scrivere un libro, il cui titolo dovrà ruotare attorno all’arte di dimenticare”.

Curioso per una donna che ricorda tutto.
“Sono d’accordo, ma considero quell’arte suprema”.??Perché?? “Via via che il tempo ci passa addosso occorre spogliarsi di ciò che siamo stati. Mi soccorre un’immagine che ricavo dal Libro egizio dei morti. C’è la dea Maat che sta sulla soglia dell’aldilà, per esaminare lo spirito dei morti, e decidere chi potrà varcarla e chi no”.

E come conosce l’anima dei defunti?
“Maat ha in una mano la bilancia. Su un piatto mette il cuore del defunto; sull’altro depone una piuma della sua acconciatura. Ecco: il proprio cuore deve essere leggero come una piuma, deve aver dimenticato tutto per poter entrare nell’aldilà”.

Lei crede nell’aldilà?
“Non si sa mai, mi verrebbe da dire. E poi via via che mi avvicino alla fine sento che mi seccherebbe oltremodo pensare che non ci sia nulla. Che tutto finisca su quella soglia. No, quanto meno mi sembrerebbe una triste svalutazione della vita”.

 

La Repubblica

Addio a Umberto Eco, ideologo enciclopedico

Umberto Eco si è spento a 84 anni il 20 febbraio scorso, lasciando, a detta soprattutto della sinistra intellettuale radical chic, impegnata in questi giorni in sterili panegirici dello scrittore piemontese, un vuoto incolmabile.
Senza dubbio Umberto Eco è stata una delle personalità di maggior rilievo della cultura italiana dell’ultimo secolo, acuto osservatore e generoso donatore di sapere. Eco era una enciclopedia vivente, un concentrato di nozioni che gli consentiva di indagare intorno a vari argomenti, ma non è mai stato, come  molti pensano, un filosofo. In questo settore infatti mai una volta, a parte la semiologia in cui era specializzato, il borioso accademico ha dato vita ad una innovazione di pensiero. Cosa ha introdotto di significativo dal punto di vista filosofico Umberto Eco? Era un illuminista rimasto a Kant, che non si è mai reso conto che nuovi sviluppi hanno contraddetto alcuni principi. Un alfiere del progressismo di sinistra che ha accettato senza se e senza ma il pensiero unico, l’ideologia dominante. Anche nel suo caso è stata la politica a dividere il pubblico tra estimatori con la bava alla bocca e detrattori con altrettanto bava alla bocca. Da cattolico Eco è diventato miscredente, in un momento storico di grande conformismo per la politica italiana, ma tale passaggio gli ha giovato non poco in termini di consenso e soprattutto di incasso, d’altronde i laici progressisti nell’ultimo cinquantennio hanno goduto di stampa favorevole, sviolinate delle corporazioni degli “intellettuali”. Trattamenti non riservati a scrittori di grande interesse come Giuseppe Berto, Giovanni Papini o Giuseppe Prezzolini, snobbati in quanto conservatori. Cuore a sinistra e portafoglio a destra per Umberto Eco, che diverse volte non ha fatto mistero di disprezzare l’Italia e di voler lasciare il bel paese; Il suo impegno civile è cominciato ed è finito con la contestazione di Berlusconi, dichiarazioni al vetriolo nei confronti di chi si professava di destra, tacciandoli di inferiorità (pensiamo infatti a personalità come Montanelli, Gadda, Pirandello, Celine, Lorenz, Evola, Cioran, Guareschi, Gentile, ecc..) e con la professione di laicismo anticlericale. Davvero troppo poco per essere annoverato tra i geni della cultura italiana e internazionale come lo si fa apparire.

Vita e carriera di Umberto Eco

Laureatosi in Filosofia nel 1954 all’Università di Torino con una tesi sull’estetica di San Tommaso d’Aquino, che viene pubblicata, estesa, nel 1956 con il titolo Il problema estetico in San Tommaso, Umberto Eco inizia il suo interesse per la filosofia e la cultura medievale, campo d’indagine mai abbandonato.
Sempre nel 1954 partecipa ad un concorso alla RAI per l’assunzione di telecronisti; vince ed entra insieme a Furio Colombo e Gianni Vattimo. Insieme innovano l’ambiente culturale della televisione italiana. Dall’esperienza lavorativa in RAI, Eco trae spunto per molti scritti e inizia a interessarsi dell’influenza dei mass media nella cultura di massa; pubblica diversi articoli in gran parte confluiti in Diario minimo (1963), Apocalittici e integrati (1964) e Il costume di casa (1973). Interessante è anche la sua attenzione per le correlazioni tra dittatura e cultura di massa ne Il fascismo eterno. Attraverso un’attenta analisi individua forme di fascismo che si riproducono da sempre “in ogni parte del mondo” a partire ovviamente dal morboso culto della tradizione, dal rifiuto del modernismo, dalla paura delle differenze, dal populismo qualitativo di Tv e Internet. Lasciata la Rai dal 1959 al 1975 è condirettore editoriale alla Bompiani.

Negli stessi anni comincia anche la sua carriera universitaria prima come professore incaricato in diverse università italiane tra cui Torino, Milano, Firenze, e poi a Bologna come ordinario per la cattedra di Semiotica. Numerose e famose le sue trasferte come Visiting Professor alla New York University, alla Columbia, a Yale, Oxford, Harvard, alla University of California-San Diego, all Northwestern University,Cambridge, al Collège de France, alla Università di São Paulo e di Rio de Janeiro, a Buenos Aires, e all’ Ecole Normale Supérieure di Parigi.
Nel 1955 viene fondato il settimanale <<L’espresso>> ed Eco è una delle prime voci del giornale. Collabora ai giornali “Il Giorno”, “La Stampa”, “Il Corriere della Sera”, la “Repubblica”, “Il manifesto” e a innumerevoli riviste internazionali specializzate tra cui “Semiotica” e “Poetics”.

Con il saggio Opera aperta del 1962, Eco pone le basi teoriche al Gruppo63; nel 1968 pubblica il suo primo libro di teoria semiotica La struttura assente cui seguono il Trattato di semiotica generale (1975) e Semiotica e filosofia del linguaggio (1984). Nel 1980 Eco esordisce con il suo primo romanzo Il nome della rosa, il suo grande successo, un best-seller internazionale tradotto in 47 lingue; un libro cinico e nichilista, con errori storici, volto a celebrare il vuoto e a demolire i valori cristiani, guadandosi furbamente dall’affrontare il tema della Grazia divina. Otto anni dopo esce il suo secondo romanzo Il pendolo di Foucault, noiosa satira dell’interpretazione paranoica dei fatti veri o leggendari della storia e delle sindromi del complotto. Del 1994 è L’isola del giorno prima seguita da La misteriosa fiamma della regina Loana del 2004, dal Il cimitero di Praga, un cumulo di bizzarre inverosomiglianze che ha ottenuto una serie di stroncature soprattutto in Germania (2010) e da Numero Zero uscito nel 2015.

Eco ha dedicato anche diverse opere alle teorie della narrazione e della letteratura in libri come Il superuomo di massa del 1976, Lector in fabula del 1979, Sei passeggiate nei boschi narrativi (1994) e i più recenti Sulla letteratura (2002) e Dire quasi la stessa cosa del 2003.

La faziosità di Umberto Eco

Assurto a ruolo di pensatore incontestabile della nostra cultura, peccato di lesa maestà, a Eco non è mai toccata una critica nemmeno quando a suo tempo firmò quell’infamia di “manifesto” contro il commissario Calabresi, fatto di cui molti membri dell’opinione pubblica, nemmeno quando ebbe e definire il Fascismo come entità metafisica e storica, a dispetto del capitalismo. Per Eco se la cultura di destra trovava investitori era perché asservita al Capitale e lo faceva mossa solo dal denaro, se invece ciò toccava alla cultura di sinistra, questa era finanziata dal Capitale per scopi nobili. Umberto Eco è stato un ideologo enciclopedico, un fazioso mascherato da intellettuale illuminista che in Italia è stato criticato solo dal coraggioso Alfonso Berardinelli, il quale ha affermato: «Se fosse per le mie opinioni critiche, i romanzi di Umberto Eco e il libro di filosofia di Severino potrebbero sprofondare nella pattumiera», mentre già nel 1995 lo storico  Noel Malcolm definiva Eco «l’Armani dell’Accademia». 

Edoardo Sanguineti, il “chierico organico” studioso di Dante

Esponente di spicco nonché tra dei fondatori del Gruppo ’63, Edoardo Sanguineti (Genova, 9 dicembre 1930 – Genova, 18 maggio 2010), soprannominato “chierico organico”, in quanto le sue opere avrebbero frantumato, messo in discussione il vecchio sistema, è stato docente di letteratura italiana, poeta, saggista, autore teatrale, studioso e critico di Dante.

Nato a Genova il 9 dicembre 1930, si è spento all’età di 79 anni il 18 maggio 2010. Formatosi a Torino, già da giovanissimo inizia ad interessarsi di letteratura dando origine nei primi anni cinquanta al suo poema più famoso: Laborintus (1956). Il titolo prende spunto dall’utilizzo di uno schema labirintico e secondo il critico Risso anche dalla “complessità della realtà atomica di quegli anni, i cui esiti potevano davvero essere benjaminianamente catastrofici”. Si tratta di una raccolta di poesie che poggiano su un complesso sistema narrativo articolato in ventisette componimenti, tutti privi di titolo, ma numerati progressivamente, accomunati dalle stesse caratteristiche tecniche e tematiche. In questo modo i singoli brani si intrecciano tra di loro costituendo un poema labirintico. In realtà il testo risale all’omonima opera latina, un trattato di arte poetica di Everardus Alemannus del XIII secolo. Dall’opera  di Sanguineti emerge dunque il labirintico e contraddittorio disordine e confusione della società neocapitalistica, e segna una svolta nella lirica italiana, dato il suo sperimentalismo.

Tale opera è stata pubblicata nell’anno della laurea di Sanguineti, grazie anche alla collaborazione del direttore Luciano Anceschi, che sulla rivista <<Il Verri>> nel 1960 afferma: “Accade in questi anni – e vogliamo mettere come data di inizio del movimento il 1956? – nel nostro paese qualche cosa di naturale, di prevedibile, di necessario: nasce probabilmente una nuova generazione letteraria”. Per quano riguarda il compito del critico, Sanguineti afferma:

“Compito del critico è non di ‘missione’ ma di ‘dimissione’. Il problema non è stabilire ciò che è bello o ciò che è poesia, quanto di farsi storici: uscire fuori dalla categoria giudicante dei critici, verso un’interpretazione storica concreta. La ‘missione’, insomma, è di dare le dimissioni da critico ‘puro’”

Dalla sua tesi su Dante con il professor Giovanni Getto, pubblicata poi nel 1961 con il titolo Interpretazione di Malebolge, Sanguineti getta le basi per altre sue opere critiche come Realismo di Dante e Dante reazionario. Tra il 1956 e il 1959 assistiamo ad un reale passaggio dall’intellettualismo alla concretezza della quotidianità, proseguendo con poesie di tema trattato in chiave visionaria, che vanno sotto il nome di Erotopaegnia.

Il 1963 è un anno importante per Edoardo Sanguineti: a Palermo infatti si forma il Gruppo ‘63, risultato dei legami e dei contatti degli anni precedenti ed ottiene la cattedra di letteratura italiana moderna e contemporanea presso la facoltà di lettere di Torino.
La sua attività poetica va avanti per un cinquantennio, finchè nel 1969 si assiste allo scioglimento del Gruppo 63, dando l’avvio ad un periodo pieno di impegni accademici e politici. Ricordiamo infatti che il critico è stato eletto come parlamentare indipendente nelle liste di Pci (1979-1983).

Sanguineti predilige l’aspetto satirico, clownistico ed ironico, combinando oggetti e segni tra loro sotto il segno del plurilinguismo, arrivando a definire se stesso “poeta patetico del Novecento”. Egli attua una dissoluzione delle forme linguistiche registrando la crisi ideologica e letteraria della borghesia, recuperando il linguaggio “basso” come dimostrano gli scritti: Orlando furioso, un travestimento ariostesco (1969), Faust, un travestimento (1985), Dialogo (1988), Commedia dell’Inferno (1989).

Il critico “dimissionario” ha cominciato interpretando a modo suo la lezione dei Cantos di Pound, (fatto rivoluzionario) per poi passare ad una poesia intimista, perfino crepuscolare, come dimostra l’interessante saggio su Gozzano ed infine approdare alla neoavanguardia.

Edoardo Sanguineti ha ricevuto numerosi premi letterari tra i quali la Corona d’oro di Struga, il Premio Capri dell’Enigma (1998), nel  2006 gli è stato assegnato il Premio Librex Montale, nonché candidato alle primarie dell’Unione per l’elezione del sindaco di Genova, il 4 febbraio 2007 e, nonostante non sia stato un grande poeta, a dispetto del saggista, probabilmente rimane tra i pochi scrittori davvero innovatori che ha partorito il Gruppo 63 che celebrava lo smantellamento della sintassi dell’io, l’antipoesia e l’antiromanzo, mettendo in ombra poeti come Luzi e Caproni. In un momento storico come quello, dove la cultura stava cambiando pelle, non bisogna però dimenticare che il PCI, cui ha aderito Sanguineti, aveva il proprio portafoglio a Mosca, e seguendo i diktat del COMINFORM, organizzazione internazionale di movimenti comunisti, costituita  in Polonia nel 1947, che gestiva numerose pubblicazioni, promettendo carriere impiegatizie a poeti “sbiaditi”. Non sempre la letteratura è nemica del potere, anzi può essere un valido mezzo per raggiungerlo, soprattutto quello culturale, del quale la sinistra italiana si è sempre sentita detentrice.

 

Gruppo 63: tra avanguardia e sperimentalismo

Per comprendere meglio il senso della nascita del Gruppo 63, occorre ricordare cosa fosse la società letteraria italiana  verso la fine degli anni cinquanta. Come ha giustamente constatato Umberto Eco, tra i massimi esponenti del Gruppo 63,

“si trattava di una società che era vissuta in difesa e in muto sostegno, isolata dal contesto sociale, e per ovvie ragioni. C’era una dittatura, gli scrittori che non si allineavano col regime erano a mala pena tollerati. Si riunivanmo in caffè umbratili, parlavano tra loro e scrivevano per un pubblico da tiratura limitata. Vivevano male, e si aiutavano a vicenda per trovare una traduzione, una collaborazione editoriale mal pagata. Era stato ingiusto, forse, Arbasino, a domandarsi perchè non avessero mai fatto una gita a Chiasso, dove avrebbero potuto trovare tutta la letteratura europea. Magari attraverso spalloni, ma Pavese aveva pur letto Moby Dick, Montale Billy Budd, e Vittorini gli autori che aveva pubblicato in Americana. Ma, se da dentro riuscivano a ricevere tutto, o molto, essi non potevano andare fuori”.

Con gli anni sessanta del Novecento dunque il neorealismo è ormai consunto; e il Gruppo 63 è il nuovo movimento viene a sostituire il precedente. In una realtà totalmente negativa, in quello che sembra essere il caos assoluto, ancora brancolante nelle incertezze e nella disperazione del dopoguerra, la neoavanguardia vede la poesia come «mimesi critica della schizofrenia universale, rispecchiamento e contestazione di uno stato sociale e immaginativo disgregato».

Ancora una volta il concetto fondamentale è trovare un più adeguato rapporto nell’ideologia-linguaggio che darà poi luogo allo sperimentalismo senza limiti sia nella lirica che nella narrativa. Si parte nel in realtà nel 1956 con le prime e non poche esperienze istaurate dal «Verri» la rivista milanese fondata da Luciano Anceschi che aggrega i cosiddetti poeti «novissimi»: Elio Pagliarani, Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini, Antonio Porta e Alfredo Giuliani. La poesia dei novissimi è una poesia capace di agire, di una considerevole efficacia linguistica e confrontandosi con le più vivaci e svariate forme del linguaggio tradizionale non ne dava solo un meccanico rispecchiamento. La nuova poesia si propone come strumento per creare un rapporto attivo con le cose, riducendo la presenza dell’io e affidandosi ad uno schizomorfismo (dissociazione della visione e delle forme) come tappa fondamentale della nuova ricerca.

Stimolati e allo stesso tempo insoddisfatti dei nuovi passi che si stavano muovendo un gruppo di scrittori e critici, tra i quali Umberto Eco, Renato Barilli, Francesco Leonetti, Giancarlo Marmori, Lamberto Pignotti, Alberto Arbasino, Edoardo Sanguineti, Giorgio Manganelli, Luigi Malerba, in occasione di un convegno tenutosi a Palermo nel 1963, creano il «Gruppo 63» affermando il carattere provocatorio della nuova letteratura, la protesta contro il realismo e contro l’assetto della realtà, il carattere dell’opera moderna come «opera aperta», la disgregazione dei linguaggi e l’uso del plurilinguismo. Edoardo Sanguineti diventa l’organizzatore teorico della neoavanguardia, in   In libri come Erotopaegnia (1960), Triperuno (1964), Catamerone (1974), Sanguineti libera i suoi blocchi esemplari di scomposizioni che disgregati fluiscono e producono relazioni solo in modo psichico-onirico. Sanguineti infatti si esercita a scomporre e ricreare «finimondi liquido-sintattici» nella poesia come nel romanzo e nel teatro; è necessario disarticolare ogni struttura della lingua per esprimere una realtà più complessa sempre in relazione con l’onirico e il ludico.

Impegnati nella medesima ricerca e accomunati dalla stessa concezione del linguaggio gli altri componenti del «Gruppo 63» sono Balestrini che salta lasciando spazi bianchi parole e crea collages; Porta che fa l’inventario di contenuti assurdi e sadico-infernali senza speranza di liberazione; Giuliani che con lo schizofrenismo del reale rimanda tutto ad un altro luogo da cui tutto nasce. Lo stravolgimento dei modi di comunicazione è continuamente inseguito e rappresentato ogni bizzarria è significazione di una comunicazione che non può avvenire o che forse può avvenire solo non comunicando come al solito.

Il Gruppo 63 non ha polemizzato contro l’establishment; si è trattato in realtà di una rivolta dall’interno dell’establishment, un fenomeno  nuovo rispetto alle avanguardie storiche. Ha senza dubbio infastidito la cosiddetta cultura impegnata fondata sull’unione tra poetica del realismo socialista e marx-crocianesimo, ma non si deve confondere un movimento d’avanguardia con una letteratura sperimentale. Renato Poggioli nella sua Teoria dell’arte d’avanguardia ha fissato le caratteristiche di questi movimenti: attivismo, antagonismo, nichilismo, culto della giovinezza, ludicità, prevalenza della poetica sull’opera, autopropaganda, rivoluzionarismo e terrorismo in senso culturale, ed infine agonismo.
Lo sperimentalismo invece è amore per la singola opera, tendente ad una provocazione al suo interno. Nel Gruppo 63 sono convissute le due anime, ed è ovvio, come afferma ancora Eco, che l’anima avanguardistica abbia prevalso nel creare la sua immagine massmediatica.

Tra le scelte di chi voleva difendere la specificità dell’esperienza letteraria e il libero valore di conoscenza, di chi voleva invece politicizzare l’arte e la letteratura, di chi era preso dall’ossessione dell’attualizzazione e chi invece negava addirittura la letteratura non ci fu scampo e l’ultima occasione di lavoro del <<Gruppo63>> fu la rivista mensile <<Quindici>> durata appena due anni.

Il Gruppo 63 si è consegnato alla storia? è stata davvero un’esperienza utile? Cosa rimane di quel vortice di idee? Del Gruppo 63, rimangono soprattutto l’esempio della abilità a sollevare polemiche faziose e spesso gratuite, come quella scatenata contro Carlo Cassola e Giorgio Bassani,  e ad agguantare buona parte del potere culturale italiano, nonché un certo snobismo.

Alberto Arbasino, massimo interprete di Gadda

L’ingegnere in blu

Alberto Arbasino nasce a Voghera il 24 gennaio 1930 è scrittore, saggista, giornalista italiano, critico teatrale e musicale. Tra i protagonisti del Gruppo 63 , la sua produzione letteraria ha spaziato appunto dal romanzo alla saggistica. Definito l’enfant terrible dell’avanguardia letterario è anche giornalista di costume, critico teatrale e musicale, intellettuale. Si laurea in giurisprudenza e si specializza in diritto internazionale all’Università degli studi di Milano. Si fa conoscere al grande pubblico con alcuni scritti pubblicati su riviste importanti come <<L’illustrazione italiana>>, <<Officina e Paragone>> rivista questa che, nel 1955, pubblica uno dei suoi primi racconti, Destino d’estate” che racchiude già molto della sua tematica futura: la provincia italiana del periodo post-bellico chiusa nel suo mondo ristretto e la critica di una società pettegola e ristretta delle ville e dei salotti.

La sua carriera letteraria inizia con i reportage per il settimanale <<Il Mondo>> da Parigi e Londra, raccolti nei libri <<Parigi, o cara>> e <<Lettere da Londra>>. Importante anche la sua collaborazione con i quotidiani Il Giorno e Il corriere della sera e La Repubblica dove scrive con frequenza quasi settimanale per denunciare con lettere brevi ironiche e puntuali i mali della società italiana. Recentemente ha pubblicato con Feltrinelli Rap”! e Rap 2″ invettive poetiche e satire. Nel 2004 gli è stato assegnato il Premio Chiara alla carriera. Nel 2012 è stato insignito del Premio Scanno per la Letteratura. Nel 2013 riceve il Premio Campiello alla carriera. Nel corso del 1977 si è dedicato anche alla televisione conducendo su Rai 2 il programma Match. È stato anche deputato al Parlamento italiano come indipendente per il Partito Repubblicano Italiano fra il 1983 e il 1987.

Carlo Emilio Gadda

Grande estimatore di Emilio Gadda ne ha analizzato la scrittura in diversi saggi: Genius Loci”, in I nipotini dell’ingegnere” (1960), in Sessanta posizioni”,in L’ingegnere e i poeti”: “Colloquio con C. E. Gadda” e in L’ingegnere in blu”, con il quale ha vinto l’anti-premio Pen Club nel 2008. Contravviene ai canoni crociani e costituisce motivo di polemiche e di imbarazzo sia a destra che a sinistra come “I nipotini di Gadda” (una vera e propria categoria critica), ovvero Testori e Pasolini, che rifiutano lo status quo intellettuale e i cui personaggi delle loro opere hanno molte cose in comune gli uni con gli altri, in primis quella brama di vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo. Come Gadda, Arbasino vive un isolamento, incomprensioni; sono delle pecore nere  da snobbare o osteggiare.

La sua penna è considerata espressionista per le descrizioni oniriche e deliranti ( si spiega la sua ammirazione nei confronti del visionario e nevrotico Gadda). Romanziere sperimentale, sofisticato costruisce infatti trame estremamente rarefatte, intermezzate da lunghe digressioni metaletterarie in diverse lingue; le  numerose opere si dividono tra romanzi nei quali vaga alla ricerca di mondi borghesi desiderosi di essere ritrovati e, i saggi nei quali la brillante vena critica e il suo pungente ritrattiamo esplode:

Giovanni Testori

Le piccole vacanze (1957) , L’Anonimo lombardo (1959), Fratelli d’Italia (1963), sono invece del 1964 La narcisata, in La narcisata e La controra: due storie romane e Certi romanzi; pubblicati nel 1966 sono: Grazie per le magnifiche rose, La maleducazione teatrale: strutturalismo e drammaturgia; Off-Off, (1968), Due orfanelle: Venezia e Firenze (1968); il romanzo Super Eliogabalo del 1969; Sessanta posizioni (1971), Il principe costante (1972), La bella di Lodi sempre del 1972, Prefazione a Franz von Bayros, Il giardino di Afrodite, Sugar (1973). Tutti del 1974 sono: Amate sponde: commedia italiana, Introduzione a Ivy Compton-Burnett, Più donne che uomini, Introduzione a Oscar Wilde, Salomé; Specchio delle mie brame;  Favole su favole: fiabe e leggende, tradotte, trascritte e trasformate da Alberto Arbasino e altri; premessa di Walter Pedullà, (1975),  Le interviste impossibili (1975) che contengono le interviste impossibili di Alberto Arbasino a Ludwig II di Baviera e Giovanni Pascoli. Dell’anno dopo sono le Nuove interviste impossibili con l’intervista immaginaria a Giacomo Puccini. E ancora Introduzione a Carlo Dossi, Vita di Alberto Pisani, Fantasmi italiani, Cooperativa scrittori (1977), In questo Stato è del 1978 come Luisa col vestito di carta. Presentazione a Jorge Luis Borges, Antologia personale (1979),  Un paese senza (1980), Trans-Pacific Express (1981), Matinee: un concerto di poesia (1983), Il meraviglioso, anzi (1985), I viaggi perduti (1986), La caduta dei tiranni (1990), Mekong (1994), Passeggiando tra i draghi addormentati (1997), Paesaggi italiani con zombi (1998); nel 1999 sono usciti Introduzione e scelta di Carlo Dossi e Saggio critico in Truman Capote; Le muse a Los Angeles (2000), Prefazione a Cesare Brandi, Budda sorride del 200 e Marescialle e libertini del 2004 con il quale vince il Premio Viareggio.  Dall’Ellade a Bisanzio (2006 ), La vita bassa e Su Correggio nel 2008. America amore nel 2011 e Pensieri selvaggi a Buenos Aires, nel 2012.

Pier Paolo Pasolini

Tra tutte le definizioni date sul critico, quella di Roberto Cotroneo è la più calzante: «Curiosissimo, poliedrico, osservatore del bel mondo, cronista mondano a suo modo, narratore incapace di pensare ai suoi libri come qualcosa di dato, di intoccabile. Ne sanno qualcosa alla Adelphi cosa voglia dire mandare in tipografia le bozze corrette da Arbasino. Vere e proprie riscritture di centinaia di pagine. Ha cancellato il tempo, avvicinando il passato e il presente, schiacciandoli in una dimensione stilistica scarnamente barocca. Continua a girare il mondo da un museo all’altro, da un concerto all’altro, come a perdersi in un tour intellettuale che non ha inizio e fine, a sublime disprezzo di un mondo di grammatiche perdute, di ignoranze indotte, di sciocchezzai ripresi ovunque. Compreso quello stracitato “signora mia”: giochetto diventato l’icona di tutte le volgarità del mondo».

Nessuno come Arbasino ha saputo raccontarci il fiammeggiante Gadda e la sua identità, il suo disagio che colmava con l’ironia, la sua angoscia esistenziale, le sue fissazioni, il suo sfuggire alla società e al mondo.

Indimenticabile il suo abbandono della cerimonia del premio letterario Boccaccio prima ancora della sua conclusione il 10 settembre 2011, affermando: “Sono qui da due giorni a sentire fanfaluche e convenevoli. Io questo premio non lo voglio, tenetevelo, me ne vado”. Abbiamo un vago motivo di credere che personalità come la sua farebbe non poca fatica in uno dei tanti  sterili e rissosi dibattiti televisivi di oggi.

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