Terapia e Umanesimo. Psicologia, letteratura, mitologia

Non tutto ciò che è terapeutico diventa ufficialmente psicoterapico. Solo nel 1961 Boris Levinson definì il cane come “coterapeuta” ad esempio. Eppure i benefici degli animali domestici erano noti da millenni. Tuttavia solo con la pet therapy sono stati, per così dire, istituzionalizzati a livello psicologico.

Allo stesso modo non tutti i disturbi psichici dell’umanità sono classificati nel DSM. Ogni volta il manuale viene aggiornato e spuntano fuori nuove sindromi. D’altronde la natura umana è la stessa, ma l’ambiente, gli artefatti, il modo di ambientarsi ad essi sono sempre nuovi. Lo stesso disturbo psichico inoltre può essere diagnosticato in modi diversi a seconda della cultura di appartenenza dello psicologo.

A dirla tutta neanche tutto ciò che è psicoterapico ha proprietà terapeutica: talvolta per la scarsa ricettività del paziente, talvolta per la scarsa efficacia del curatore o della cura. Spesso le persone usano gli psicofarmaci perché come dicevano gli analisti un tempo almeno questi inibiscono il sintomo, anche se non eliminano il problema psicologico. Prima di continuare su questa falsariga espliciterò alcune mie convinzioni: tutti avremmo bisogno di uno psicologo, anche gli stessi terapeuti avrebbero tutti bisogno di un supervisore, per una buona salute mentale pubblica.

Per quanto riguarda i benefici interiori dell’umanesimo possiamo citare tre pratiche psicologiche abbastanza recenti: la biblioterapia, la psicosintesi di Assagioli, l’arteterapia. Per chi volesse approfondire la biblioterapia consiglio di leggere i due libri dello scrittore Miro Silvera, editi entrambi da Salani. In questo caso il terapeuta consiglia di leggere dei volumi per far acquisire una maggiore autoconsapevolezza ai pazienti.

Esiste catarsi e beneficio psichico sia nella fruizione di opere d’arte che nell’esprimersi artisticamente. Male che vada anche il più goffo tentativo di esprimersi artisticamente è un modo per conoscersi meglio, per una migliore esplorazione di sé. La psicosintesi di Assagioli prevede anche lo scrivere un diario interiore perché l’io raggiunga il Sé transpersonale. Scrivere per Assagioli è un modo efficace per conoscere le proprie sub-personalità, per approdare a ogni tipo di inconscio, anche quello individuale superiore, fatto di simboli, e anche quello collettivo, costituito da archetipi.

Secondo Assagioli esiste un inconscio inferiore, quello freudiano, un inconscio medio, costituito dalla razionalità, e uno superiore, sede della creatività. Secondo lo schema psichico o diagramma dell’ovoide di Assagioli tutte le istanze psichiche sono comunicanti, esiste un continuo interscambio tra conscio e inconscio:  ecco perché le linee che collegano i vari nuclei psichici sono tratteggiate nella figura. Il diagramma dell’ovoide è fondamentale perché l’individuo compia il suo percorso di individuazione. Ma ancor prima del geniale Assagioli, considerato dallo stesso Jung e ideatore di una delle più importanti scuole di psicoterapie italiane, era nota a molti la scrittura come autoterapia. Così come l’arteterapia era già nota agli antichi greci.

Le tragedie greche avevano un effetto catartico collettivo. Per quanto riguarda l’arteterapia si sono diffuse molto la musicoterapia e la teatroterapia. Fondamentale per questa scuola  è la figura carismatica dello psicoterapeuta, che dovrebbe essere anche un artista a tutti gli effetti. Invece molto spesso non lo è e conosce solo teoricamente senza averle sperimentate di persona le tappe del processo creativo. Ci sono tanti presunti professionisti che in realtà sono improvvisati.

Così facendo, i pazienti/discenti sono allo sbaraglio. Però sgombriamo il campo da ogni equivoco: i pazienti non devono avere aspettative troppo elevate e pensare di guarire completamente con queste pratiche psicologiche o di diventare artisti a tutti gli effetti. In definitiva l’arte non ha salvato tutti gli artisti. Molti hanno dovuto convivere malamente lo stesso con la loro nevrosi o psicosi. I suicidi tra gli artisti sono ricorrenti. Lo stesso psicodramma di Moreno può risultare davvero terapeutico e formativo perché è il cosiddetto teatro della spontaneità,  è un’occasione di incontro.

Con lo psicodramma avevano luogo molte trasformazioni e molte rivoluzioni interiori: questo spaventava i dittatori sudamericani che infatti lo proibirono. Anche i cosiddetti libri di filosofia pratica possono farci evolvere interiormente e aiutarci nel nostro cammino. La  consulenza filosofica può aiutare, tant’è che in America è diffusa. Un’ultima cosa: perché queste pratiche psicologiche facciano effetto bisogna che la persona creda veramente in chi la guida, in quello che sta facendo e nei benefici interiori dell’umanesimo. Una volta consigliai a un amico depresso, che era stato lasciato dalla ragazza, tre libri: Lettera alla madre sulla felicità di Alberto Bevilacqua, La conquista della felicità di Bertrand Russell, E liberaci dal male oscuro di Cassano.

I primi due libri erano umanistici. Il terzo era sulla depressione ed era scritto da uno psichiatra. Ebbene non li apprezzò.  Non stimava me né quegli autori e credeva, avendo una formazione scientifica, che l’umanesimo fosse un’enorme perdita di tempo. Invece anche i libri possono essere antidepressivi. Anche queste scuole psicoterapiche fanno parte della terapia della parola. Anche i libri possono cambiare e migliorare a lungo termine la nostra neurochimica. Per quanto riguarda esprimersi artisticamente allo stesso modo ogni sintomo può diventare un simbolo. Le recenti scuole psicoterapiche suddette comunque non hanno influenzato ancora la letteratura, come fece a suo tempo la psicoanalisi, con Virginia Woolf, Kafka, Joyce, Svevo, Moravia, Gadda.

In poesia in fondo gli automatismi psichici dei surrealisti e il paroliberismo dei futuristi scaturiscono dalle libere associazioni freudiane, così come i monologhi interiori e i flussi di coscienza di tanti scrittori derivano dalla scuola psicoanalitica. La psicosintesi, la biblioterapia, l’arteterapia non hanno fatto altro che confermare conoscenze già note agli umanisti, pur non sottovalutando l’apporto significativo di questi maestri di pensiero. Freud invece è stato un grande innovatore e grazie a lui gli artisti hanno iniziato a esplorare l’inconscio in modo mai così approfondito, anzi prima della psicoanalisi molti lo rimuovevano.

Perché un’opera sia veramente artistica, secondo il diagramma dell’ovoide di Assagioli, l’io deve approdare al Sé transpersonale, almeno in modo parziale e provvisorio, e anche all’incontro collettivo, anche esso in modo almeno parziale e provvisorio: un’opera artistica quindi si caratterizza prima di tutto per la sua universalità a livello psichico. Dispiace che la letteratura difficilmente sia mitopoietica,  ovvero non crei più miti, grazie a cui si potevano fissare degli archetipi nella psiche dei fruitori.

I greci avevano il nichilismo, ovvero la concezione secondo cui persone e cose sono nel niente, esistono nel divenire e poi ritornano nel niente, ma avevano anche una letteratura mitopoietica,  che trasmetteva dei valori perché in ogni mito c’era un principio etico e ogni favola aveva una sua morale. Questo era l’antidoto efficace al nichilismo.

Oggi solo il cinema in parte è mitopoietico, ma più che miti spesso lo show-business crea mode e idoli di cartapesta, che dopo qualche mese vengono sostituiti e fagocitati. Oltre ad avere un bombardamento pornografico e un bombardamento di notizie l’uomo contemporaneo è bombardato da miti di ogni genere di brevissima durata.

 

 

Pasolini: smettiamola di mitizzarlo e strumentalizzarlo!

2 Novembre 1975. Pasolini viene assassinato vicino ad un campetto di calcio all’idroscalo di Ostia. Riceve percosse, bastonate e agonizzante viene travolto più volte con la sua stessa auto. I capelli intrisi di sangue. Le tracce di pneumatici segnano la sua schiena. Le dita della mano sinistra fratturate.

Dieci costole fratturate. Il cuore scoppiato. E’ irriconoscibile, tant’è vero che la donna che scopre il suo cadavere ed avverte la polizia di primo acchito aveva pensato che fosse un sacco di stracci.

Muore quella notte uno dei più grandi intellettuali dell’epoca. Non solo, ma anche uno degli intellettuali più scomodi che la letteratura del ’900 possa annoverare.

Cosa rappresenta Pasolini oggi

Oggi a molti anni dalla sua scomparsa sarebbe l’ora di smettere di demonizzarlo o al contrario di mitizzarlo per cercare nel modo più obiettivo di valutare la portata del suo testamento e di analizzare il suo iter creativo.

E’ stato ammazzato e quindi potremmo mitizzarlo quanto vogliamo, diranno i più. Non sappiamo ancora chi è stato veramente e soprattutto quanti sono stati, però sappiamo sicuramente chi è stato a linciarlo quando era in vita, diranno altri: è stata quella borghesia, che secondo Pasolini non era una classe sociale, ma una vera e propria malattia, una serpe covata nel seno della società italiana.

A tal riguardo Moravia lo aveva già detto che la borghesia italiana era capace di tutto; bastava volgersi indietro e constatare le responsabilità effettive del ceto borghese nella controriforma e nel fascismo.

Il suo omicidio “irrisolto” è una ferita ancora aperta nella società civile, dirà il presidente dell’Arcigay. Mitizzare o sacrificare laicamente Pasolini, si perdoni l’ossimoro, significhi togliere ai più la possibilità di conoscere le sue opere, anche se certamente questo tipo di operazione lo rende maggiormente popolare.

Mitizzarlo significa considerarlo un fenomeno da baraccone e diffondere una conoscenza sempre più vaga del suo pensiero e delle sue opere ed è inutile “pubblicizzarlo” come personaggio e riempirsi la bocca di ipotesi più o meno plausibili sulla sua morte, quando invece a molti anni dalla sua morte il poeta e lo scrittore Pasolini non fanno ancora parte dei programmi ministeriali della letteratura italiana delle superiori.

Omicidio “irrisolto” si diceva. Sarà Pino Pelosi ad essere condannato per questo omicidio. Ma molte cose non saranno mai chiarite definitivamente.

Pasolini; delito politico?

Sono in molti ad ipotizzare una pista politica. Il potere perciò avrebbe ucciso il poeta friulano perché dentro di sé sentiva sempre la necessità di dire la verità o quantomeno la sua verità in un paese di intellettuali cortigiani, che stavano sempre dentro il palazzo.

Pasolini non era cortigiano e per essere cortigiani non significava necessariamente essere dei fascisti, né dei reazionari, né dei liberali in un dopoguerra in cui si registrava un’egemonia culturale della sinistra.

Pasolini era comunista, ma era stato espulso dal partito per delle accuse infondate (per i fatti di Ramuscello per cui venne assolto dal giudice) e per l’omofobia di quegli anni del partito [nota dell’agenzia Fert il 14 Luglio 1960: “La Fert apprende che l’on. Togliatti ha rivolto ai dirigenti dei settori culturali e stampa del partito l’invito ad andare cauti con il considerare Pasolini un fiancheggiatore del partito e nel prenderne le difese. L’iniziativa di Togliatti che riscontra molte contrarietà, parte da due considerazioni. Togliatti non ritiene, a suo giudizio personale, Pasolini un grande scrittore, ed anzi il suo giudizio in proposito è piuttosto duro. Infine, egli giudica una cattiva propaganda per il Pci, specialmente per la base, il considerare Pasolini un comunista, dopo che l’attenzione del pubblico, più che sui romanzi dello scrittore, è polarizzata su talune scabrose situazioni in egli si è venuto a trovare fino a provocare l’intervento del magistrato………”].

Maestro del pensiero della sinistra italiana?

Solo dopo la sua morte è stato compreso che Pasolini aveva dei meriti culturali indiscussi e che doveva essere considerato legittimamente uno dei maestri di pensiero della sinistra italiana perché come dichiarò Moravia fu il primo poeta a realizzare una poesia civile di sinistra, una poesia senza la retorica ed il trionfalismo di Foscolo, Carducci, D’Annunzio.

Pasolini aveva iniziato la sua carriera letteraria con la pubblicazione di “Poesie a Casarsa”, liriche osteggiate dal fascismo, che difendeva strenuamente l’italiano e non voleva ammettere a nessun costo l’esistenza di dialetti e particolarismi locali.

Va ricordato a tale proposito che a causa del regime il grande critico letterario Gianfranco Contini pubblicò la sua recensione sull’opera, da cui era rimasto favorevolmente colpito, non su “Primato“, ma sul “Corriere di Lugano”, giornale svizzero. Raggiunse la notorietà nell’ambito della poesia con “Le ceneri di Gramsci” [1957], costituite da undici poemetti, che dopo la “scoperta di Marx” nell’ultima sezione de “L’usignuolo della chiesa cattolica” facevano i conti con l’eredità lasciata appunto da Gramsci, le cui ceneri si trovavano nel cimitero degli inglesi a Roma.

Questa raccolta poetica testimoniava la coscienza infelice dei comunisti italiani in un periodo travagliato sia per la condanna di Stalin al XX Congresso del Partito Comunista Sovietico sia per i tristi fatti d’Ungheria. Nelle raccolte poetiche “Le ceneri di Gramsci”, “La religione del mio tempo” e “Poesia in forma di rosa” farà la sua comparsa il mondo proletario, nonostante ciò questi componimenti non desteranno nessun scandalo come la narrativa pasoliniana, perchè scritti in un italiano letterario e non nel gergo romanesco della malavita, come in “Ragazzi di vita” e in “Una vita violenta”.

Compaiono spiazzi assolati dove sciami di pischelli rincorrono un pallone, giovani sorridenti e sporchi in sella ai motorini a rincorrere disperatamente la vita, tuguri fatti di calce, autobus affollati, operai dalle canottiere intrise di sudore, garzoni che canticchiano spensierati al lavoro.

Anche nei lungometraggi pasoliniani verrà narrato il mondo sottoproletario degli anni ’50-60, però questa mondo non verrà solo descritto, ma anche trasfigurato con l’ausilio di citazioni pittoriche (Caravaggio, Mantegna, Masaccio). Intendiamoci: nonostante questa originalità del suo “cinema di poesia” [come lo definirà lui stesso in “Empirismo eretico”] la ricerca espressiva del cineasta sarà tutta tesa verso la realtà perché per l’intellettuale era l’unico ambito in cui poteva confrontarsi con le miserie e gli splendori di quel mondo, in cui poteva relazionarsi all’altro.

Per Pasolini i ragazzi di vita non hanno una coscienza di classe, non hanno una religione e sono fuori dalla storia. Non hanno nessuno che possa far valere i loro diritti perché per il poeta la chiesa è il cuore spietato dello stato ed anche i politici di nessuno schieramento vogliono rappresentarli.

Riguardo alla chiesa come cuore spietato dello stato nel 1958 scrive la poesia “A un Papa” [da “Umiliato e offeso” (epigrammi)]:

“Bastava soltanto un tuo gesto, una tua parola,/ perché quei tuoi figli avessero una casa:/ tu non hai fatto un gesto, non hai detto una parola./ Non ti si chiedeva di perdonare Marx! Un’onda/ immensa che si rifrange da millenni di vita/ ti separava da lui, dalla sua religione ma nella tua religione non si parla di pietà?/ Migliaia di uomini sotto il tuo pontificato,/davanti ai tuoi occhi, son vissuti in stabbi e porcili./ Lo sapevi, peccare non significa fare il male:/ non fare il bene, questo significa peccare./ Quanto bene tu potevi fare ! E non l’hai fatto:/ non c’è stato un peccatore più grande di te”. E riguardo ai politici Pasolini nella lirica “Terra di lavoro” [da “Le ceneri di Gramsci”] scrive: “….Gli è nemico chi rende/ grazie a Dio per la reazione del vecchio popolo, e gli è nemico/ chi perdona il sangue in nome/ del nuovo popolo…”.

L’unica consolazione della loro miseria è solo ed unicamente il sesso; solo il sesso comprato a buon mercato per un quarto d’ora può dare al giovane borgataro come al padre di famiglia l’illusione del possesso.

Il compagno scomodo del PCI

Pasolini era un compagno scomodo del Pci, sempre pronto a levare la sua voce contro un partito che a suo avviso si stava istituzionalizzando ed i cui vertici si stavano imborghesendo.

Non va dimenticato che, nonostante il poeta si dichiarasse marxista, negli ultimi anni della sua vita guardò con simpatia alla sinistra americana progressista, così come non bisogna dimenticare la sua opera “Passione ed ideologia”, in cui questi due termini mai si contrappongono, si confondono e si compenetrano, ma nella quale piuttosto è la passione ad essere conditio sine qua non dell’ideologia.

Pasolini oltre ad essere un grande poeta ed un grande scrittore era anche un intellettuale lucido e disincantato, le cui analisi e riflessioni originavano da un senso critico ineguagliabile. La sua visionarietà d’artista era tale da portarlo a prevedere con vent’anni di anticipo gli sviluppi della società italica.

Per uno come lui uniformarsi ai dettami ed alle restrizioni del partito comunista di allora sarebbe equivalso a rinnegare la sua passione ed il suo impegno politico. Non solo, ma aveva anche una onestà intellettuale esemplare. Si pensi solo al fatto che, pur essendo una star televisiva, criticava l’omologazione dovuta a suo avviso ad opera della televisione e che sapendo di entrare nelle case di tutti gli italiani nelle trasmissioni televisive a cui prendeva parte non era mai volgare né provocatorio ed addirittura si autocensurava spesso, come ebbe lui stesso modo di dire.

Ci si ricordi che più volte dichiarò -lui che era noto al grande pubblico anche per il suo presenzialismo nel piccolo schermo- che la televisione instaurava un rapporto asimmetrico tra personaggio televisivo e spettatore del tipo superiore/inferiore, ma che in un linguaggio più moderno potremmo anche definire del tipo comunicatore/ricevitore passivo.

Il suo fu sempre un marxismo critico nei confronti del comunismo ufficiale ed ortodosso. Da intellettuale marxista non si scagliava come prevedibile solo contro la piccola-borghesia, ma anche contro quel conformismo di sinistra, che giorno dopo giorno era stato fagocitato dall’egoismo, dal moralismo, dall’incultura di un benessere economico, così rapido da aver trasformato nel giro di pochi anni completamente il Paese.

Ma lo scrittore non criticava solo l’applicazione del marxismo, ma poneva l’accento anche sulle contraddizioni interiori dei marxisti e sulla crisi del marxismo. Pasolini l’aveva intuito che in un paese profondamente cattolico come l’Italia per ogni comunista la coscienza era marxista e l’esistenza invece borghese.

Ne “Le ceneri di Gramsci” scriveva: “…e se mi accade/ di amare il mondo non è che per violento/ e ingenuo amore sensuale/ così come, confuso adolescente, un tempo/ l’odiai; se in esso mi feriva il male borghese di me borghese….”. Si noti proprio questa ultima espressione: “se in esso mi feriva il male borghese di me borghese”.

Ma se molti avevano cercato di risolvere la questione cercando di coniugare comunismo e cattolicesimo (da qui il cattocomunismo), l’intellettuale friuliano ebbe il merito di essere uno dei pochi che cercò di unire la vera essenza del cristianesimo, ovvero una religiosità che pervadeva in ogni frangente ogni suo sguardo sul mondo, ed un marxismo colto e consapevole che il neocapitalismo aveva mutato totalmente il volto alle cose, al punto che la struttura economica sembrava aver inglobato qualsiasi tipo di struttura ideologica ed essersi tramutata in una sovrastruttura anch’essa: l’unica sovrastruttura.

Tutto queste senza enfasi e senza mistificazioni di nessuna sorta. Ecco spiegato allora perché nelle analisi pasoliniane il partito comunista veniva considerato facente parte del Potere e perciò mai esentato dalle critiche.

Come ebbe modo di dire il politico comunista Edoardo D’Onofrio: “Pasolini non nasconde la verità per carità di partito…”. Il poeta però non rinunciava alla sua fede politica, pur non credendo più nella rivoluzione né in nessuna palingenesi della società.

Pasolini con tutte le sue anomalie e divergenze era un comunista e lo dimostra ad esempio il suo lavoro di critico militante nella rivista “Officina”, che diresse con Leonetti e Roversi, ed in “Nuovi argomenti”, che invece diresse con Moravia.

Almeno durante il periodo de “La scoperta di Marx” per l’intellettuale l’essere sociale determinerà la coscienza, la letteratura sarà sinonimo di prassi sociale e la coscienza verrà considerata in ottica leninista come il riflesso della realtà.

Esprimersi o morire o essere inespressi e immortali

D’altronde Pasolini non poteva che essere comunista perché in quegli anni le strade percorribili a livello filosofico erano tre: credere nel marxismo e quindi ritenere che la causa dei mali della società fossero il plusvalore e l’alienazione, schierarsi contro il nichilismo e quindi abbracciare i sistemi di pensiero di Spengler, Junger, Heidegger, oppure rivolgersi al personalismo ontologico, alla democrazia cristiana.

Pasolini per la sua aspirazione all’uguaglianza e per la sua vocazione al realismo piuttosto che allo spirito non poteva che scegliere la via marxista. Naturalmente ho scartato per ovvie ragioni l’esistenzialismo perché, laddove gli esistenzialisti vedevano l’angoscia nella scelta, il poeta vedeva la speranza e la possibilità della scelta. Infatti scrisse: “O esprimersi e morire o essere inespressi ed immortali!”; volendo dire che finchè si è in vita la nostra esistenza fortunatamente non ha soluzione di compiutezza e di continuità perché è aperta ad ogni possibilità, mentre solo la morte fa chiarezza, permette una sintesi di ciò che è stato, sceglie gli episodi significativi e memorabili di una vita umana.

Essere inespressi significa quindi avere opportunità di scelta e perciò essere vitali. Per Pasolini morte significa compiutezza e compiutezza significa morte. Questo per il nostro era vero sia nel significato letterale che nel significato metaforico. Pasolini, sebbene eretico, a tratti sarà condizionato fortemente dall’influsso dell’estetica marxista e dal fascino delle teorie del grande critico letterario G.Lukacs.

Infatti scriverà un dramma borghese solo e soltanto nel 1968, cioè “Teorema”. In questa opera un ospite di bell’aspetto getterà scompiglio in una ricca famiglia industriale milanese e scardinerà i codici borghesi del decoro, della rispettabiltà e della morigeratezza.

Riguardo al suo rapporto con il comunismo Pasolini in “Uccellacci e uccellini” farà dire al corvo: “Non piango sulla fine delle mie Idee, che certamente verrà qualcun altro a prendere la mia bandiera e a portarla avanti ! Piango su di me……”.

La pista politica

Chi ipotizza la pista del delitto politico non ha certo in mente il potere comunista di quegli anni, ma i neofascisti oppure i democristiani, che sarebbero stati mandanti dell’assassinio, utilizzando i fascisti come puri esecutori materiali. Esistono sicuramente degli elementi per avvallare questa tesi.

Era un poeta, uno scrittore, un polemista, un regista noto al grande pubblico. Possedeva una grande capacità comunicativa, non si chiudeva in una torre di avorio né si perdeva nel settarismo e nell’intellettualismo, fenomeni così diffusi tra gli intellettuali dell’epoca.

Dava fastidio non solo per la contaminazione dei generi, ma anche per il suo sperimentalismo in tutti i campi, per la frequentazione assidua di tutti i generi: dalla poesia, al romanzo, dal giornalismo al cinema, dall’inchiesta sociologica alla polemica televisiva.

Se aveva iniziato con la poesia in dialetto friulano e con la poesia civile in una forma metrica tradizionale (ci si ricordi l’uso delle terzine) si era successivamente rivelato un uomo contro in tutte le altre sue opere, tant’è che subì nel corso della sua vita ben 30 processi.

Le accuse di vilipendio e pornografia

Spesso le accuse erano di vilipendio alla religione e di pornografia. Probabilmente la difesa migliore a queste accuse è stato un intervento del poeta stesso dal titolo “La pornografia è noiosa”, nel quale sostiene che nonostante il degrado e la sottocultura di coloro che guardano opere pornografiche, tuttavia bisogna considerare che sono milioni di persone e che anche se fossero tutte persone depravate non è certo eliminando la pornografia che si eliminerebbe la loro depravazione; la loro depravazione repressa potrebbe anche sfociare in qualcosa di diverso e di più pericoloso socialmente; inoltre per il nostro il problema non è tanto nel numero più o meno consistente dei fruitori, né della repressione o meno del fenomeno, ma dell’incapacità o della malafede di coloro che non distinguono tra opera d’arte provocatoria e opera pornografica.

Se oltre a leggere le opere di Pasolini ci mettessimo anche a rileggerle e a meditare attentamente su di esse ci rendiamo conto che in ognuna ci lasci intravedere le sue potenzialità inespresse.

Salta subito all’occhio che debba ancora dare il meglio di sé e che ogni sua opera sua eternamente incompiuta, volutamente lasciata a metà. Da Pasolini molti si aspettavano un’opera folgorante, che aprisse un mondo ed invece in molti rileggendo i suoi lavori si sono accorti che la globalità ed il corpo organico dell’insieme delle sue opere erano il vero e proprio capolavoro. Da lui tutti si aspettavano un Libro Totale.

La mutazione antropologica transnazionale

La televisione, il cinema, i rotocalchi, la moda sono gli agenti primari dell’omologazione giovanile. La televisione soprattutto è la più deleteria da questo punto di vista. I giovani aderiscono biecamente e ciecamente ai modelli propinati dal piccolo schermo e dai suoi palinsesti. Pasolini aveva già intuito questo aspetto.

“La mutazione antropologica” transnazionale, i cui dettami e le cui variazioni indicano i gusti, i modelli di comportamento, gli stili di pensiero, è fissata ciclicamente dai mass media. Modelle filiformi e longilinee, attori dal corpo scultoreo, ripresi dai cineasti della pubblicità, inducono i giovani ad un confronto spietato con il proprio corpo ed il proprio volto. Sempre più frequentemente inducono i giovani ad operazioni di chirurgia estetica (lifting, silicone, etc etc) oppure a diete forzate ed ossessive.

Pasolini e i giovani

Nei casi meno preoccupanti i giovani si sottopongono a spossanti ore di body-building per avere un fisico degno di considerazione per i propri coetanei. Magari per avere lo sguardo terso e cristallino di questo o quell’attore si mettono le lenti a contatto azzurre, altri per avere un colorito mediterraneo, una tintarella estiva tutto l’anno si sottopongono ad ore di lampada.

Ma nei casi limite? E’ forse un caso che in questi anni rispetto al passato c’è stato un aumento impressionante di casi di anoressia e di bulimia tra le ragazze? Ogni giovane immagina ogni sorta di accorgimento estetico per rendersi più piacevole alla vista dei coetanei, per avere il loro consenso, per non essere “out”.

Esiste un edonismo ad immagine e somiglianza dell’omologazione (dato che tutti cercano di migliorarsi esteticamente, prendendo come modelli i protagonisti del mondo di celluloide, i personaggi televisivi, i vip che fanno tendenza). E per edonismo intendo un nuovo tipo di edonismo. Non quello di Sardanapalo, non quello dei personaggi di Rabelais né quello dei vitelloni di Fellini.

Il culmine dell’edonismo (ossia ricercare il piacere ed evitare il dolore) in questa generazione di giovani è l’apparire: il piacere di apparire belli e prestanti di fronte agli altri. Se per altre generazioni apparire belli era un mezzo per avere altri tipi di piacere (ovvero avere più opportunità ad esempio per un uomo di fare più sesso) oggi il mezzo è diventato il fine: il narcisismo fa da padrone su tutti gli altri piaceri della vita.

Piacere agli altri diventa il modo più rassicurante e confortevole di piacere a se stessi (e da ciò si desume la grande insicurezza dei giovani d’oggi), mentre la maturità consisterebbe nell’accettare prima sé stessi e poi accettare coscientemente il giudizio degli altri. Può sembrare paradossale, ma è così: se continuiamo di questo passo la bellezza non avrà più valore. La bellezza della natura viene deturpata dall’industrializzazione e dall’abusivismo edilizio, la bellezza dei monumenti dai vandali e la bellezza fisica non esisterà più. Pasolini accusava anche la Dc della distruzione paesaggistica ed urbanistica dell’Italia e di intrallazzare con industriali e banchieri.

L’omosessualità come nemico

L’omosessualità di Pasolini non poteva essere adoprata dai potenti di turno come mezzo di ricatto per zittirlo o almeno indurlo ad essere più accomodante. La sua diversità sessuale era stata origine di sensi di colpa e di angoscia nella giovane età, però successivamente Pasolini aveva accettato questa parte di sé stesso.

Nell’adolescenza e nella giovinezza certamente la scoperta della sua diversità era stata un dramma. In una lettera inviata all’amica Silvana Ottieri fine anni ’40 scriveva: “E’ una cosa scomoda, urtante e inammissibile, ma è così; e io, come te, non mi rassegno…..io ho sofferto il soffribile, non ho mai accettato il mio peccato, non sono mai venuto a patti con la mia natura e non mi ci sono neanche abituato. Io ero nato per essere sereno, equilibrato e naturale: la mia omosessualità era in più, era fuori, non c’entrava con me. Me la sono sempre vista come un nemico, non me la sono mai sentita dentro”.

Questa presa di coscienza non significava quindi che lo scrittore non si portasse con sé delle contraddizioni insanabili, come ad esempio le dinamiche interne di un complesso edipico non risolto. Infatti al sentimento ambivalente provato nei confronti del padre, prima tenente di fanteria e poi maggiore dell’esercito, contrapponeva un amore smisurato nei riguardi della madre.

Il padre secondo il nostro provava risentimento e delusione nei suoi confronti per la sua diversità. In “Ritratti su misura” dichiarò:

“Aveva puntato tutto su di me, sulla mia carriera letteraria, fin da quando ero piccolo, dato che ho scritto le mie prime poesie a sette anni: aveva intuito pover’uomo, ma non aveva previsto, con le soddisfazioni, le umiliazioni. Credeva di poter conciliare la vita di un figlio scrittore col suo conformismo”.

Il rapporto con la madre

Ed ancora in un’altra intervista ebbe modo di dire:

“La morte di mio fratello e il dolore sovrumano di mia madre; il ritorno di mio padre dalla prigionia: reduce, malato, avvelenato dalla sconfitta del fascismo, in patria, e in famiglia, della lingua italiana; distrutto, feroce, tiranno senza più potere, reso folle dal cattivo vino, sempre più innamorato di mia madre che non l’aveva mai altrettanto amato e ora era, per di più, solo intenta al suo dolore; e a questo si aggiunga il problema della mia vita e della mia carne” [“Al lettore nuovo”].

In “Supplica a mia madre” scrive:

“Sei insostituibile. Per questo è dannata/ alla solitudine la vita che mi hai data. / E non voglio essere solo. Ho un’infinita fame /d’amore, dell’amore di corpi senz’anima./ Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu/ sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù”.

Ed ancora scrive: “Il mio amore è solo/ per la donna: infante e madre”. Il poeta Dario Bellezza nel libro “Morte di Pasolini” era dell’avviso che Pasolini potesse amare le donne come uno stilnovista del trecento, ma che sessualmente era incessantemente attratto dai ragazzi delle borgate.

In Pasolini si verificò quindi una scissione drastica tra la sfera affettiva e la sfera sessuale. Sentiva una sensazione di fusione talmente profonda nei confronti della madre, da avvertire in questo tipo di affetto il sentore di qualcosa di innaturale.

Pasolini per preservare la purezza di questo sentimento nei confronti della donna che lo aveva generato e cresciuto non poteva che distogliere, spostare le sue pulsioni sessuali verso persone del suo stesso sesso. Amare una donna avrebbe significato cercare prima un’altra madre e poi avere un altro termine di paragone per la madre che lo aveva compreso e sostenuto, quando Pasolini -dopo lo scandalo in Friuli e l’espulsione dal partito- era da solo e sentiva gravare su di sè il marchio infamante di Oscar Wilde e di Rimbaud.

Il padre al contrario aveva dimenticato Pier Paolo, sconvolto com’era dalla morte del figlio partigiano Guido, ucciso a sua volta dalla Brigata Garibaldi, legata ai partigiani di Tito.

Scritti ricchi di complessità e frammentarietà

Probabilmente furono l’autoritarismo paterno, i continui spostamenti e trasferimenti a causa della sua carriera militare e le continue assenze del padre tra il 1941 ed il 1947 (perché inviato in Africa) a far crescere in lui un desiderio di identificazione con la madre.

In questo senso l’intera opera omnia di Pasolini è una continua autoterapia, una incessante automedicazione della propria interiorità ed allo stesso tempo è l’unica via per compiere un processo di individuazione, di accoglimento e di accettazione della propria Ombra per dirla alla Jung.

I suoi scritti quindi non sono mai lineari, perché comprendono ed esprimono la complessità, la multilateralità e la frammentarietà della sua personalità; e la sua personalità era sfuggente ed irrisolta e leggendo le sue pagine della sua totalità psichica è possibile percepire il senso globale, ma è controverso stabilire un’unità indissolubile perché nelle sue espressioni artistiche si avverte il continuo fluire di tutti i suoi stati psichici, mentali ed intellettuali mutevoli e temporanei.

Angosce di persecuzione, elementi fantasmatici, nuclei inconsci ed emozioni di tipo depressivo si amalgano con distinguo intellettuali sottili, con codici culturali dalla natura più disparata: si intrecciano razionalismo, illuminismo, religiosità ed un irrazionalismo, costituito da un vitalismo disperato e da una voglia costante di autodistruzione.

Realtà e razionalità

In Pasolini non tutto ciò che è reale è razionale. Se è vero che la sua poesia non possiede fortunatamente istanze metafisiche, non è mai un mezzo per questo o quel tipo di filosofia e nemmeno per un eclettismo moderno, è altrettanto vero che con l’insieme dei suoi scritti è difficile fare i conti per quella mistura di sensibilità e conoscenza, per quella contrapposizione tra classico e moderno, per quel suo far ricorso sia alla filologia che all’ermeneutica, intesa in senso lato e quindi nell’accezione più moderna del termine.

Nelle migliaia di pagine che ha lasciato ai posteri talvolta solo la sua genialità sembra agire da tessuto connettivo. Comunque il potere non poteva ventilare a Pasolini la minaccia di uno scandalo perché l’uomo Pasolini voleva lo scandalo a tutti i costi e dichiarava ed esibiva la sua diversità e mai e poi mai taceva sulle sue preferenze sessuali e sulla sua vita notturna; non solo, ma lo scrittore sosteneva a ragione che qualsiasi intellettuale che cercasse di dire la sua verità era uno scandalo vivente.

In quegli anni il poeta de “Le ceneri di Gramsci” rappresentava un autentico scandalo intellettuale. Ricordo solo che venne accusato di pornografia per il romanzo “Una vita violenta” e di vilipendio alla religione di stato per il film “Ricotta”.

 

Il piacere di provacar e di essere provocato

Il poeta senz’ombra di dubbio trovava piacere nell’essere provocato da un’opera d’arte, così come amava provocare con le sue opere, perché scandalizzare per lui era una modalità per far scaturire piacere al pubblico.

Pasolini voleva essere amato oppure odiato. Non desiderava certo l’indifferenza. Amava essere insultato per strada dai benpensanti e dalle persone di destra perchè omosessuale.

Amava che i suoi film fossero contestati dai giovani dell’estrema destra. Quando “Accattone” venne contestato dichiarò che gli italiani erano sempre stati un popolo razzista e che con quel film gli era stata data la possibilità di dimostrare quanto fossero razzisti.

E forse la ragione principale per cui stupivano la critica era il fatto che nei suoi romanzi non si poteva fare nessuna commemorazione provvisoria del personaggio-uomo, in quanto incentrati non sull’inettitudine e lo smacco esistenziale di un unico protagonista, ma sul collettivismo e la messa in scena di ragazzi, la cui psicologia era semplice.

Nei romanzi di Pasolini il personaggio-uomo non era divenuto personaggio-particella a causa del tramonto dell’occidente e del famoso principio di indeterminazione di Heisenberg. Lo scrittore friulano non volgeva lo sguardo a Proust, Joyce, Kafka, Svevo e Pirandello. Se spiazzava i più colti figuriamoci quindi lo scandalo che era avvenuto, quando fu pubblicato “Ragazzi di vita” tra il pubblico.

Non erano tanto le vicissitudini dei protagonisti, la fine tragica dei ragazzi, né il triste epilogo del romanzo che scandalizzavano, piuttosto l’utilizzo del linguaggio delle borgate.

Non erano solo i contenuti e le trame a scatenare reazioni di disapprovazione, ma erano anche e soprattutto le scelte linguistiche innovative che il poeta aveva adoprato nelle sue opere.

L’utilizzo di un linguaggio diretto senza alcuna opera di mediazione o di elaborazione critica da parte dell’autore in quel determinato periodo della narrativa italiana non potevano che scandalizzare.

Inoltre Pasolini con i suoi romanzi disorientava il pubblico perché aveva apportato delle innovazioni dal punto di vista strutturale del romanzo (in quanto nelle sue opere non c’era un vero e proprio protagonista, ma diversi personaggi; non solo ma c’era anche un contrasto forte tra il gergo delle borgate, il crudo realismo dei personaggi da una parte e dall’altra il lirismo e la sapienza descrittiva dei paesaggi).

Pasolini aveva descritto in modo dettagliato e reale le esistenze dei sottoproletari, il loro universo di codici sottoculturali amorale prima ancora che immorale. Il senatore M. Montagnana scriveva sulla rivista “Rinascita“ del Pci :

“Pasolini riserva le volgarità e le oscenità, le parolacce al mondo della povera gente; in quegli anni anche persone di sinistra abbiano travisato il senso del romanzo “Una vita violenta”.

Probabilmente erano arrabbiati anche per il tipo di rapporto tra il Tommaso di “Una vita violenta” ed il Pci, perché costui muore. Questa morte venne forse letta in chiave metaforica, come a dire che, nonostante l’avvicinamento del personaggio sottoproletario il Pci non poteva stabilire con esso nessun rapporto stabile e costruttivo.

Pietas

La coscienza di Pasolini era al contrario permeata da una vera pietas, che non scadeva mai nel melenso. Se alcuni hanno ravvisato nei suoi lavori una rappresentazione negativa del sottoproletariato non hanno considerato in film come Accattone che Pasolini aveva come referente il neorealista Rossellini, così come nei suoi romanzi non hanno colto che ogni testo letterario è criticamente ricostruito e che lo scrittore non poteva abbellire la realtà perché sarebbe venuto meno al suo principio di mimesi del reale, al suo intendimento di compiere una semiologia della realtà.

Era senz’ombra di dubbio un elemento perturbante nei fruitori di queste sue opere l’impossibilità di distinguere nettamente il suo sguardo poetico al documentarismo sociologico del sottoproletariato degli anni ’50-60.

Ma forse una cosa molto semplice che disturbava era la mancanza di un finale idilliaco ed invece nei due romanzi di Pasolini nessun personaggio riesce a compiere una maturazione, se non culturale, quantomeno psicologica, a causa di una chiusura e di una frattura insanabile tra l’universo statico del sottoproletariato ed il mondo delle persone già integrate.

Se i suoi ragazzi di vita ammazzano per avere la grana a tutti i costi per spassarsela ciò non implica che i loro coetanei più ricchi non possano fare altrettanto. Pasolini non svolge l’equazione delinquenza uguale povertà più sfortuna né tantomeno il poeta vuole emendare da colpe o giustificare i suoi ragazzi che compiono azioni criminose.

Allo stesso tempo non fa della sociologia marxista a buon mercato quando avviene il massacro del Circeo. Pasolini lo sa bene che non essere pariolini non  può preservare dal compiere delitti orrendi e sevizie. L’agiatezza economica non causa necessariamente il nichilismo, che porta a compiere mostruosità all’arancia meccanica. Lo scrittore guarda tutto ciò da un punto di vista meramente antropologico.

I giovani sono omologati. Tutti i giovani di qualsiasi classe sociale. L’amoralità giovanile li accomuna e li unisce in un tutto indistinto. Infatti come ha notato il critico letterario G. Scalia l’omologazione della società neocapitalista secondo Pasolini non ci aveva fatti divenire uguali in quanto uguali nei diritti, ma simili nella degradazione.

Lo scrittore di “Ragazzi di vita” non si prefigurava nel futuro una società fondata sulla vera libertà, ma su una parvenza di libertà o per meglio dire su una libertà negativa. La stessa evoluzione dei costumi dal poeta non era vista di buon occhio. La libertà sessuale della maggioranza era stata regalata dal Potere per distrarla dai reali problemi del Paese. Era quindi una nuova libertà, tuttavia una tolleranza imposta, che non poteva che causare nevrosi.

Pasolini non si era mai riconosciuto in questo tipo di società ed allora aveva sentito la necessità di creare il mito contadino, il mito del sottoproletariato ed il mito terzomondista. Nel mondo contadino la vita di ognuno era scandita dall’avvicendarsi delle stagioni, ma con l’avvento della società capitalistica il ciclo della natura era stato soppiantato dal ciclo della produzione industriale.

La simbiosi tra Vangelo e civiltà contadina era finita bruscamente. Per Pasolini il mondo contadino simboleggiava la vera essenza del tradizionalismo del Passato, che era latore di universali ed archetipi davvero cristiani. Il mito del mondo contadino per il poeta andava a costituire il nucleo più profondo del cristianesimo.

Pasolini e Tolstoj

Pasolini a tratti sembra un novello Tolstoj, che scrivendo metaforicamente del carro rovesciato della società russa, che grava sui contadini, non si mette a disquisire su quante persone salgono sul carro o su come devono essere posizionate le ruote, ma che evocando con nostalgia il passato invita quasi gli sfruttati a vivere secondo i comandamenti di Dio.

Fuor di metafora: l’impostazione marxista è evidente, il consumismo crea nuovi bisogni, ma non soddisfa quelli elementari dei più, la merce diviene feticcio, però non bisogna fare la rivoluzione, ma abbracciare Marx e Cristo.

Una volta giunto a Roma lo scrittore aveva bisogno anche del mito del sottoproletariato, cioè di un macrocosmo di individui non ancora contaminati dal Neocapitale. Entrambi i miti pasoliniani possedevano dei caratteri intrinseci e dei significati intimi, che trascendevano la morfologia e la metafisica di un sistema di pensiero.

Prima veniva il cuore, poi Pasolini metteva in moto il pensiero, infine ritornava al cuore.

Al poeta friulano non restava che attaccarsi con tutta la sua forza e la sua energia creativa al mito del sottoproletariato per cercare di aggrapparsi disperatamente ad un’umanità altra, che non appartenesse a quella massa collettivizzata ed amorfa del proletariato e della borghesia, così come non restava che sperare nel mito terzomondista per pensare ad un altro tipo di sviluppo possibile della società.

Ne “La religione del mio tempo” scriveva “Africa! unica mia/ alternativa…..”. Se il mito contadino rappresentava il passato ed il mito del sottoproletariato il presente, il mito del terzomondismo invece simboleggiava l’avvenire.

 

Di Davide Morelli

 

Donne ed erotismo nei racconti degli anni settanta di Moravia

Egemone è il ruolo dei personaggi in tutta la letteratura moraviana. Nell’intervento C’è un crisi del romanzo?, pubblicato su “La fiera letteraria” del 1927 e unico articolo firmato dall’autore con il nome di battesimo Alberto Pincherle, lo scrittore avverte come causa prima della crisi del romanzo novecentesco la frattura che si è originata tra narratore e personaggio, tra commento psicologico e azione. L’antidoto, per il romanziere, sta nel restaurare la funzione dell’eroe, affinché possa riacquistare autonomia nel dialogo con gli altri e con il narratore: «tornare indietro vuol dire, in questo caso, andare avanti, lasciando da parte l’inutile zavorra psico-analitica». Moravia, in quanto scrittore esistenzialista e perciò interessato al fatto individuale, interiore e psicologico, intrattiene anche con i propri personaggi un rapporto fondamentalmente esistenziale:

Il mio approccio […] è dunque esistenziale, cioè premorale, prerazionale, presociale: o i fati sociali incidono sull’emotività e la psicologia dell’individuo, e possono essere visti e analizzati in funzione del suo divenire interiore, o non mi interessano; voglio dire non mi interessano come narratore.

Ed proprio in virtù del ruolo fondamentale dei personaggi che risulta utile analizzare tutte le figure che compaiono nelle tre raccolte di racconti al femminile, scritte e pubblicate da Moravia nel corso degli anni Settanta: Il paradiso, Un’altra vita e Boh.
Per caratterizzazione dei personaggi si considera, rifacendoci alle parole di Tomasevskij, quel procedimento che ha come fine il riconoscimento del personaggio, nonché l’insieme di tutti quei motivi che lo compongono, tanto psicologici quanto estetici: «intendendo con ciò il sistema dei motivi indissolubilmente legati ad esso».

Le donne moraviane: una esteriorità a misura della loro psicologia

Le tre raccolte, Il Paradiso, Un’altra vita e Boh, abbracciano un totale di novantacinque racconti, ciascuno caratterizzato da un numeroso sistema di personaggi; perciò, per districarsi con maggiore agilità, in questa sede è stata attuata una suddivisione sistematica, inevitabilmente un po’ rigida ma giustificabile con il fine di rendere il lavoro più chiaro. Tutti i personaggi principali sono figure femminili, donne o ragazze , che parlano in prima persona e attorno alle quali è costruito ogni racconto.

Incessantemente la figura femminile ha incuriosito e interessato Alberto Moravia, tant’è che i personaggi femminili risultano sempre rilevanti e centrali in tutta la sua opera narrativa, a partire da Carla del romanzo d’esordio Gli Indifferenti fino a Nora dell’ultimo romanzo incompiuto, La donna leopardo. Questo interesse dello scrittore verso il genere femminile non solo rimane intatto anche nella sua ultima stagione, dagli anni Settanta in poi, ma sembra anzi essersi rinforzato; basti pensare al romanzo La vita interiore del 1978, costruito come un’immaginaria intervista rilasciata dalla giovane Desideria all’autore. Nei racconti in questione, tutti in prima persona con focalizzazione interna fissa, Moravia lascia la parola, e il timone, alle figure femminili. Per la prima volta tutti i personaggi principali sono solo ed esclusivamente donne: novantacinque storie con novantacinque protagoniste.

Nella triade Il paradiso, Un’altra vita e Boh i personaggi femminili principali sono gli unici a godere di una descrizione a tutto tondo: figure mutevoli che nel corso del racconto evolvono, o per lo meno tentano di evolvere, acquistando progressivamente una maggiore coscienza di sé e della propria situazione. Per lo più la loro caratterizzazione è diretta: sono loro stesse a descriversi, a fornirci un loro dettagliato identikit, tanto estetico quanto psicologico. In altri casi, più rari, la caratterizzazione prende forma da informazioni che il lettore trae dai dialoghi e da allusioni messe in bocca ai coprotagonisti. Tomasevskij, in La costruzione dell’intreccio, si sofferma su un particolare tipo di caratterizzazione «il procedimento delle maschere», metodo molto caro e, come emergerà in seguito, spesso usato da Moravia. Il procedimento delle maschere consiste nell’elaborazione di descrizioni esteriori costruite su misura del carattere psicologico del personaggio. In questa categoria Tomasevskij fa rientrare le descrizioni dell’aspetto estetico, dell’abbigliamento, dell’arredamento delle abitazioni e i nomi propri.

I luoghi comuni “fisici” di Moravia

In gran parte dell’opera di Alberto Moravia, a partire da Gli Indifferenti, i personaggi sono delineati con descrizioni plastiche, attente ai dettagli esteriori. Niente è lasciato all’immaginazione del lettore, niente è solo alluso. Moravia, o i suoi personaggi per lui, ci propongono di continuo ritratti immediati e concreti.

Nella prima raccolta, Il Paradiso, la maggioranza delle protagoniste è snella, slanciata e bella («flessuosa e snella come un serpente», «per me, che sono bruna e slanciata», «sono bella, molto bella», «Sono una donna grande e bella, forse troppo grande, e, in certo senso troppo bella»). Per esempi di altre donne che si presentano come belle e slanciate si rimanda ad altri due racconti del Paradiso: L’orgia e La chimera. In opposizione a queste figure energiche e vitali, compaiono alcune donne dalla corporatura assai magra, quasi scheletrica, come le protagoniste dei racconti I consumi e I prodotti; oppure donne piccole, di bassa statura. Nel racconto L’immaginazione la protagonista ci fornisce subito una sua descrizione, definendosi «piccola, ma con un corpo ben tornito, solido ed energico. Questa sproporzione tra la mia testa e il mio corpo è indicativa. Allude alla analoga sproporzione tra la mia immaginazione e la realtà».

La grottesca disparità tra una testa troppo grossa e un corpo troppo piccolo, come asserisce Fausto Curi in Moravia e la filosofia europea, è un leit-motiv presente in tutta l’opera moraviana, a partire dal romanzo d’esordio Gli Indifferenti.
Superfluo osservare che le “spalle strette” e la “grossa testa” del corpo femminile sono, in Moravia, una sorta di locus communis o di leit-motiv di cui il narratore si giova non per collegare il personaggio di un’opera a quello di un’altra opera, ma per creare un ‘tipo’ di donna, o meglio un corpo femminile paradigmatico, di cui è importante mettere subito in luce le imperfezioni, le ”disparità”, le disarmonie fisiche.

All’interno della raccolta Un’altra vita la maggioranza delle donne ha un corpo giovane, robusto, con gambe slanciate e per lo più dotate di un seno vistoso e preponderante. Alcune di esse presenta la già vista caratteristica di una testa piccola su un corpo grande: «Bisogna sapere che sono grande, robusta, ben fatta e persino formosa; ma con una testolina come di scimmietta». Così si descrive Tilde nel racconto che dà nome alla raccolta, ed è proprio da questa sua «testolina di scimmietta» che le deriva il soprannome di Scimmia.

Un corpo non è mai soltanto un corpo, tanto nella realtà quanto in un’opera letteraria. I corpi umani sono la concretizzazione dell’esistenza umana e perciò portatori di significati che oltrepassano l’immediata sfera anatomica, affermandosi come costrutti simbolici.
La concrezione umana in carne e ossa non è pensabile, non è percepibile al di fuori di modalità di pensiero e percezione culturali e culturalmente condizionate. Tutto ciò che sappiamo sul corpo esiste per noi in una qualche specie di discorso esplicito o implicito.

Erotismo e sessualizzazione della letteratura come strumento conoscitivo della realtà

La tematica erotico-sessuale ha lontana origine e lunga vita nella letteratura europea, a iniziare dai classici greci e latini. In particolare nel Novecento si è assistito a una progressiva accettazione di tale argomento in primis in campo scientifico, grazie alla psicoanalisi e alle ricerche di Freud – disciplina e autore centrali nella formazione di Alberto Moravia – che hanno esteso la nozione di sessualità ben oltre i limiti della tradizione.

Addentrandosi nel ventesimo secolo, con l’eredità freudiana appena alle spalle e i sempre più radicati presupposti di un’imminente rivoluzione e liberalizzazione sessuale, tra gli anni Sessanta e Ottanta, la dimensione erotica diviene centrale non solo a livello sociale e culturale, ma inizia a trovare spazio e attenzione anche sul piano narrativo.

Nell’Introduzione a Verba tremula, Catelli, Iacoli e Rinoldi considerano, da un punto di vista stilistico-letterario, il Novecento come un secolo portatore di aperture e novità, «che irrompe nella storia delle forme erotiche con il suo carico di rappresentazioni esplicite e controverse». Si aprono così nuove possibilità di ampliamento del poetabile, con la proliferazione di immagini erotiche in svariate opere. Anche Pasolini, nell’intervento Tetis contenuto in Erotismo, versione, merce del 1973, si interroga su quali siano i confini del rappresentabile, in particolare in ambito erotico, dopo aver rappresentato nelle sue opere gesti e atti sessuali fino al dettaglio: «in un momento di profonda crisi culturale (gli ultimi anni Sessanta) […] mi è sembrato che la sola realtà preservata fosse quella del corpo. […] Era in tale realtà fisica – il proprio corpo – che l’uomo viveva la propria cultura», laddove «il simbolo della realtà corporea è il corpo nudo: e, in modo ancora più sintetico, il sesso». Ma questa non è la sola motivazione che Pasolini adduce. Aggiunge inoltre che, se è stato spinto a rendere il sesso protagonista della sua intera produzione tanto letteraria quanto cinematografica, ciò è dipeso da una parte per la sempre maggiore importanza che esso ricopre nella vita quotidiana.

L’erotismo come argomento fondante dei romanzi di Moravia

Anche Marco Antonio Bazzocchi nell’Introduzione a Il codice del corpo, sulla base di alcuni testi scelti di autori del panorama letterario italiano novecentesco, si interroga se sia possibile un legame tra sessualità e letteratura e se concetti e immagini sessuali possano essere usati per interpretare una struttura linguistica complessa. Diverse sono le domande di partenza che si pone il critico: «perché la sessualità, e in generale il tema della rappresentazione corporea, possono diventare utili nell’analisi dei testi letterari?»; oppure «possiamo ricondurre al corpo e in particolare alla sessualità un discorso intorno alla “verità” su cui si impostano le strutture retoriche del testo?»; e ancora «può un meccanismo retorico essere indagato sulla base di un dato sessuale? È lecito “sessualizzare” la letteratura?». L’obiettivo di Bazzocchi è quello di rileggere i testi selezionati in base a questa nuova prospettiva, tenendo conto delle pratiche discorsive di diversa origine che si generano alla luce dell’inedito rapporto tra corpo, sessualità e verità che si insinua nel discorso letterario.

«Tu hai descritto molti personaggi erotici, anzi l’erotismo nella tua scrittura, che alcuni hanno definito invece pornografia, è l’elemento principale dei tuoi romanzi, da cui scaturiscono le storie, l’intreccio». Così Dina D’Isa classifica l’erotismo come l’argomento fondante di tutti i romanzi di Alberto Moravia. La tematica sessuale ricopre un ruolo centrale in tutta la produzione moraviana: sesso, potere, famiglia e danaro sono i fili conduttori di tutte le sue opere. In Alberto Moravia e la filosofia europea Fausto Curi giustifica la presenza della tematica erotica nei testi dell’autore romano come radicata e propria della nuova visione del mondo di cui gli stessi libri si fanno promotori:
occorre infatti guardarsi dal credere che il corpo e il sesso, così presenti e rilevanti, siano solo il prodotto di una vocazione personale (qualcuno forse direbbe “ossessiva”), quando invece costituiscono gli elementi portanti di una visione del mondo.

Moravia considera il sesso come argomento di giusta pertinenza di uno scrittore nel momento in cui egli affronta tale tematica senza alcun tabù. L’autore attribuisce un valore cognitivo e ermeneutico all’erotismo – valore spesso ribadito in svariate dichiarazioni – che si configura come uno dei tanti strumenti umani di conoscenza del reale, in virtù della sua matrice sia naturale che culturale: «l’erotismo è un elemento indispensabile, di qualsiasi operazione conoscitiva». Nella scrittura esistono diverse chiavi per aprire le porte del reale e Moravia ha scelto quelle della sessualità, un mezzo per conoscere il mondo, l’altro e se stessi: «il rapporto sessuale diventa l’unico, disperato appiglio con la realtà: l’unica corda che lanciata in tempo, salvi dall’incomunicabilità e dalla estraneità».

È questo, secondo Fausto Curi, il valore che acquista il sesso per il personaggio di Cecilia in La Noia: per Cecilia l’attività sessuale costituisce il solo momento in cui diventa consapevole di sé e del mondo. Cecilia conosce concretamente la realtà attraverso il sesso, e solo attraverso il sesso. Il sesso, per Cecilia, […] è soprattutto conoscenza. […] Diventa veramente partecipe della vita.
La ragazza, impermeabile al mondo esterno perché invasa dalla noia, da un’indifferenza esistenziale, riesce a costruire un rapporto con la realtà, a rinnovare la conoscenza delle cose esterne solamente attraverso nuovi coiti.

Moravia reputa la libertà di affrontare l’argomento erotico-sessuale una conquista dell’epoca moderna, il risultato di un processo di liberazione da divieti e tabù secolari. Nella Prefazione a La storia dell’occhio di Bataille Moravia si sofferma sul rapporto tra cultura e erotismo, dove quest’ultimo, inizialmente inconscio, viene riconosciuto e riscoperto dal crescente sviluppo della cultura, la cui fine coincide proprio con la totale scoperta e il pieno riconoscimento dell’erotismo:

in fondo dunque, la forma di conoscenza propria dell’erotismo riguarda unicamente l’erotismo. […] Così le culture nascono dalla soppressione, ignoranza e incoscienza del fatto erotico; e si sviluppano e muoiono secondo il progresso di una scoperta che è contemporaneamente distruzione.

Il sesso dunque diviene narrativamente interessante per l’autore romano nel momento in cui diventa insignificante, nel senso letterario del termine, cioè nel momento in cui risulta privato di tutti quei significati aggiunti e traslati imposti dalla società nel corso della storia.

Un giudizio di stile nel trattamento dell’argomento sessuale viene dato anche da Guido Anselmi in Il fallo parlante e altre voci in riferimento al romanzo Io e lui. Nella critica di Anselmi è rimarcato il carattere analitico e impersonale della scrittura dell’autore romano. Il critico sottolinea la necessità, mancata, di dare al fallo moraviano un linguaggio particolare, che lo detonasse e lo distinguesse da tutti gli altri personaggi. Anselmi lamenta «il solito linguaggio omogeneizzato e indifferenziato», una «lingua franca tecnologica e problematica, ugualmente condivisa dal campionario di personaggi dello scrittore», e ancora «lingua sterilizzata e totalmente significante, intollerabilmente informativa». Questo linguaggio, secondo il critico, risulta banale e fuori luogo messo in bocca a un personaggio grottesco come un fallo parlante, meritevole di un linguaggio di gran lunga più originale.

 

Camilla Longo Giordani

Carla Vasio: “Ho fatto la guerra del Gruppo ’63, ora vivo per dimenticare tutto”

E poi c’era lei. Carina. Molto carina. In quel Gruppo ’63. In quella foto affollata di teste che sarebbero diventate note e con il vecchio Ungaretti davanti alla torta: “Eravamo nati a un giorno di distanza l’uno dall’altra. Festeggiammo insieme i compleanni. Ungaretti era lì. Con l’immancabile basco. Non spaesato. Sordo e inguaribilmente incazzato. Mio Dio, pensai, ora prende la torta e la lancia contro qualcuno”, ricorda Carla Vasio. Sì, Ungaretti poteva essere imprevedibile.

Quello che non si capisce è perché delle donne che hanno partecipato al Gruppo ’63 non si parla mai. La Vasio è una signora fine, con un bel libro di memorie pubblicato da poco ( Vita privata di una cultura, Nottetempo) – e ci si aspetta una risposta risentita, rancorosa. E invece è ironica: “Forse non gliela davamo. O forse pensavano di essere solo loro i protagonisti di questa scena che è durata alcuni anni e molto ha svecchiato nella cultura italiana”.

Erano maschilisti incalliti?
“Si sentivano tutti dei geni. E alcuni forse lo furono anche. Sicuramente Edoardo Sanguineti. Il più sorprendente. Paradossale”.

C’è una foto in cui ballate avvinghiati.
“Avvinghiati? È di una castità dopolavoristica. Del resto Edoardo era sposato e io avevo le mie storie, rigorosamente fuori dal gruppo”.

Di tutta la combriccola fu molto presente Giorgio Manganelli.
“Adorabile nevrotico. Fu un’amicizia vera con lui. Fatta di intesa e di confidenza. Ma senza complicazioni sessuali. A volte reagiva con indignazione alle ingiustizie culturali”.

A cosa si riferisce?
“Accadde un episodio, proprio nel 1963. Nella sede milanese di Garzanti fu presentato Accoppiamenti giudiziosi di Gadda. Aprì Ungaretti. A un certo punto Pasolini lo interruppe accennando, provocatoriamente, ad alcuni versi di una poesia piuttosto sconcia da dedicare allo scrittore. Il pubblico rumoreggiava. Gadda in prima fila era rosso come un peperone e in preda a un’angoscia terribile”.

E Manganelli?
“Soffriva. Mi trascinò fuori in preda all’ira. Reagì alla provocazione pasoliniana allontanandosi”.

Ma il Gruppo ’63 non amava Pasolini.
“Non condivideva nulla della sua impostazione anacronistica. Non lo amava, ma non ne parlava. Il vero grande nemico che temevamo non erano neppure Cassola o Bassani, facili bersagli. No. Era Alberto Moravia. Lui, soprattutto. Non gli altri”.

La racconta come fosse una guerra.
“E in un certo senso lo è stata. Con morti e feriti. Roma e Milano furono i due grandi campi di battaglia. Preceduti da Palermo che fece da detonatore. Per me che ero veneziana fu un bel divertimento “.

Quanto è rimasta a Venezia?
“Fino all’adolescenza. Con i miei abitammo prima in un angolo di un vecchio palazzo gotico. Poi andammo a vivere al Lido. Feci lì le elementari. Tra le mie compagne di classe c’era Rossana Rossanda”.

E com’era?
“Bella, elegante e molto intelligente. Quando ci rivedemmo, molti anni dopo, mi propose di collaborare al Manifesto . Ringraziai e poi dissi che i miei interessi erano troppo frivoli per le loro esigenze”.

Frivoli?
“Diciamo leggeri, impolitici. Ero stata per un periodo a Parigi nei primi anni Sessanta. Mi ero laureata in storia della musica e facevo le mie brave ricerche su Debussy. Poi conobbi Henri Michaux, un bel tipo. Continuava a parlarmi dei grandi effetti letterari che l’uso della mescalina produceva. Lo guardavo affascinata e inorridita al tempo stesso”.

Tornerei ancora un momento a Venezia. Quando la lasciò?
“Durante la guerra. Mio padre, che era un giornalista del Gazzettino, partecipò alla Resistenza. Si trasferì a Roma e noi con lui. Poi sparì e restammo io e mia madre. Il 1943 fu il nostro inverno della fame. Fu terribile. Il padre di due mie compagne ebree notando la mia denutrizione ricordo che mi diede due scatolette di vitamine americane”.

Come fu il dopoguerra a Roma?
“Eccitante. Avevo fatto il liceo al Mamiani, l’università a Lettere. La vera Roma, quella straordinariamente reattiva capace di diventare un assoluto centro internazionale, si realizzò nella seconda metà degli anni Cinquanta. Non si può avere un’idea di che cosa fosse la sua vitalità: artistica e culturale. La cosa più strabiliante fu anche un certo lato esoterico che in seguito la città, sotterraneamente, sviluppò”.

Cosa intende per esoterico?
“Una certa predilezione per le dottrine orientali e in particolare indiane. Era facile nei primi anni Sessanta incontrare Krishnamurti nel salotto di Vanda Scaravelli. Lei grande esperta di yoga ed entrambi appassionati di automobili. Oppure, in casa del compositore Giacinto Scelsi, trovarsi al cospetto di qualche affascinante lama tibetano. Lì ci si poteva imbattere in Patrizia Norelli- Bachelet. Aveva sposato un diplomatico e si era trasferita in America. Di punto in bianco, così raccontò, sentì la chiamata mentale dall’Ashram di Aurobindo”.

Il santone indiano?
“Lui. Patrizia abbandonò tutto. E senza soldi, né un programma, con un bambino di sei anni, si mise in viaggio per raggiungere l’India. Si incamminò verso l’India come fosse il posto più vicino a casa. E fece una lunga tappa a Roma”.

E qui cosa accadde?
“Incontrò una giovane pianista, allieva prediletta di Arturo Benedetti Michelangeli, su cui il maestro riponeva grandi speranze. Ma la giovane donna sorprese un po’ tutti quando, all’inizio di un concerto, disse che non avrebbe più suonato in pubblico. Da quel momento si dedicò a mettere a punto una terapia musicale per bambini difficili e down”.

E lei in tutto questo che c’entrava?
“Eravamo diventate amiche. Io mi occupavo di musica, Patrizia di astrologia e Maura Cova, insieme ad Alberto Neuman, altro allievo straordinario di Michelangeli, fondò una scuola musicale in cui insegnava il nuovo metodo. Il mio compito era trascrivere quello che accadeva. Poi mi accorsi di un fatto abbastanza curioso”.

Quale?
“A Roma si era formata una enclave di junghiani”.

Lo dice come fosse una setta.
“In un certo senso lo era. Ne fui ammessa andando, per diverso tempo, in analisi da Ernst Bernhard. Alla fine Bernhard, che aveva avuto in cura Manganelli e Fellini, voleva che diventassi analista e mi spedì da un personaggio meraviglioso che viveva ad Ascona”.

Chi era?
“Aline Valangin. Non saprei come definirla: una specie di drago mitologico. Era già molto anziana. Era stata una pianista mancata, dopo un incidente alla mano sinistra. Allieva e paziente di Jung. Sposò un avvocato ebreo e la sua casa durante la dittatura fu un punto di riferimento per gli antifascisti. Ebbe anche una storia con Ignazio Silone. Insomma, mi presentai a lei con una lettera di Bernhard. Fu premurosa. Mi disse che avrei dovuto studiare qualche anno a Zurigo, prima di intraprendere la professione di analista”.

E cosa decise?
“Ero tentata e lusingata. Ma alla fine prevalse il desiderio di occuparmi di musica e di arte. E poi volevo scrivere. Ma intendevo farlo in forma originale. Passò qualche anno quando realizzai un curioso “romanzo storico”, scritto su di un solo grande foglio da appendere alla parete. Enzo Mari ideò la gabbia grafica. E quando il libro uscì ricevetti una telefonata da Italo Calvino”.

Cosa le disse Calvino?
“Cominciò a imprecare. Sembrava arrabbiato. Poi di punto in bianco cambiò tono: ti devo parlare. Stasera vediamoci a cena, disse. Eravamo amici. Spesso si mangiava insieme in trattoria e si scherzava su tutto. Sentirlo così rancoroso mi preoccupò. Quando ci vedemmo mi sembrò freddo: come ti sei permessa di scrivere il libro che volevo fare io? Restai sconcertata. Poi capii che era il suo modo di esprimere consenso. Qualche mese dopo uscì una sua recensione in cui definì Romanzo storico uno dei più straordinari libri degli ultimi anni”.

Che anno era?
“Mi pare fosse il 1976. Si avvicinava una nuova fase di contestazione che non avrebbe portato a niente. Poi ci fu la tragedia di Aldo Moro. Il Paese allo sbando. Roma da tempo aveva smesso di essere la città straordinaria che era stata. Credo che l’ultimo sussulto lo ebbe con l’estate dei poeti nel luglio del 1979”.

Fu un evento che alcuni ancora oggi considerano memorabile.
“Si realizzò grazie alla fantasia e al coraggio di Renato Nicolini e a circostanze fortuite. Fu Fernanda Pivano a portare a Roma i poeti americani. Una sera mi telefonò. Domani arrivo con Allen Ginsberg. Devi condurci con la tua macchina a Ostia. Partimmo in tre. Ginsberg sembrava inquieto. Arrivammo che c’era già una quantità pazzesca di gente. Dal palco qualcuno leggeva poesie”.

E cosa accadde?
“Peter Orlovsky fu coinvolto in una rissa. Ginsberg vedendo il fidanzato in difficoltà reagì in modo sublime. Salì sul palco. Afferrò il microfono. Si sedette in terra. E cominciò a cantilenare, con la sua voce bellissima, un mantra. Improvvisamente si fece silenzio. La rissa finì. E l’evento poté finalmente decollare”.

Fu un canto del cigno.
“Fu la cosa più bella e gratuita che ci potesse accadere. Ricordo che Nanda era divisa tra lo stupore per quella serata imprevedibile e il racconto che mi fece di un tentativo da parte di Gregory Corso, totalmente drogato, di farsela. Senza riuscirci”.

Come reagì la Pivano?
“Non lo so. Sembrava divertita al racconto. C’era nell’aria una strana eccitazione. Tutto poi rientrò con un misto di stanchezza e di quiete. La festa era finita. Quell’estate andai in Puglia e poi, per una decina di anni, ho vissuto in Giappone”.

Al quale in seguito ha dedicato un libro.
“Sì, lo pubblicò Einaudi nel 1996. Come la luna dietro le nuvole fu il titolo. Raccontavo attraverso gli occhi di una scrittrice giapponese della fine dell’Ottocento le percezioni che avevo avuto di un mondo capovolto rispetto al nostro. Mi servì anche per prendere le distanze da tutto quello che ero stata. Dal mondo che avevo conosciuto e che era finito”.

Lasciando qualche trauma?
“No, in me non ha prodotto ferite. Semmai, resta il rimpianto per coloro che sono scomparsi e che qualche volta vorrei rivedere”.??Chi per esempio??”La mia amica Amelia Rosselli, anche lei a suo modo fece parte del Gruppo ’63. Fu una poetessa bravissima. Deformata dalla schizofrenia che non le diede mai pace. Per tutta la vita provò a combattere l’oscurità. Ho dentro, sconsolata, la sua sofferenza. Mi telefonò una notte. Era l’inverno del 1996. Mi chiese di portarle da mangiare. E quando giunsi, e non aprì la porta, capii che era troppo tardi”.

Come giudica la sua vita, la sua bellezza di allora?
“Non mi sono mai addomesticata, né ammansita. Della mia bellezza non me ne sono fatta uno strumento, anche quando avrei potuto servirmene. Il succo della vita è di viverla. Possibilmente al di là delle transenne. Continuo a farlo. Con le forze che restano in una signora di 91 anni. Ho finito di scrivere un libro, il cui titolo dovrà ruotare attorno all’arte di dimenticare”.

Curioso per una donna che ricorda tutto.
“Sono d’accordo, ma considero quell’arte suprema”.??Perché?? “Via via che il tempo ci passa addosso occorre spogliarsi di ciò che siamo stati. Mi soccorre un’immagine che ricavo dal Libro egizio dei morti. C’è la dea Maat che sta sulla soglia dell’aldilà, per esaminare lo spirito dei morti, e decidere chi potrà varcarla e chi no”.

E come conosce l’anima dei defunti?
“Maat ha in una mano la bilancia. Su un piatto mette il cuore del defunto; sull’altro depone una piuma della sua acconciatura. Ecco: il proprio cuore deve essere leggero come una piuma, deve aver dimenticato tutto per poter entrare nell’aldilà”.

Lei crede nell’aldilà?
“Non si sa mai, mi verrebbe da dire. E poi via via che mi avvicino alla fine sento che mi seccherebbe oltremodo pensare che non ci sia nulla. Che tutto finisca su quella soglia. No, quanto meno mi sembrerebbe una triste svalutazione della vita”.

 

La Repubblica

“Il Dottor Zivago” e “La noia” a confronto

Il celebre romanzo Il Dottor Zivago (1957) di Boris Pasternak ci dà l’occasione di cogliere alcuni connotati sintomatici del romanzo moderno, in quanto in primis non sente affatto il bisogno di garantire che c’è qualcosa o qualcuno che conduce la fatalità. In questo romanzo si può dire che si assistiamo ad una serie di “atti gratuiti” come dice Giacomo Debenedetti, compiuti non tanto dai personaggi, quanto piuttosto dal romanziere, il quale produce scene, dialoghi, situazioni che a lui magari sembrano necessari, ma che si producono al di fuori di ogni plausibile logica e concatenamento.

Le combinazioni de “Il Dottor Zivago”

Ne Il Dottor Zivago, Pasternak non può dirci che ha forzato le normali probabilità della vita. che ha costretto ad avverarsi le combinazioni più aleatorie, perché voleva farci assistere ad una scena d’amore, ad un dibattito tra i rappresentanti di due diverse concezioni rivoluzionarie, oppure descriverci poeticamente un paesaggio cittadino, una foresta popolata di partigiani. All’autore russo l’idea di un arbitrio narrativo attuato per ragioni di comodo appare cinica e minerebbe la credibilità dei suoi personaggi e della sua storia. Egli non è in grado di darci un perché di quegli spostamenti e coincidenze, ma i romanziere tradizionali ci dicono perché determinati passaggi vanno tralasciati, perché non sono materia degna di racconto. Pasternak, anche se lo sapesse, vuole mostrarci che non gli importa di saperlo, dandoci meravigliose pagine lirico-paesistiche senza però la traiettoria di chi l’attraversa, perché questa sfugge al calcolo e ricostruirla attraverso congetture sarebbe un lavoro superfluo, che non compete a Pasternak.

“La noia” di Alberto Moravia

Prendiamo ora un altro esempio di romanzo moderno: La noia (1960) di Alberto Moravia, dove l’autore, a più riprese, enuncia in generale e quasi in astratto, una posizione, un atteggiamento dei protagonisti in una certa fase della loro vicenda, dopodiché si limita a spiegare quell’enunciato con degli esempi e dichiarando che prende dei fatti, tutti equivalenti, che valgono a far vedere in concreto ciò che accadeva nella situazione indicata. In questo senso, il protagonista, il pittore che non dipinge più, è già da un paio di mesi in rapporto con Cecilia, una ragazza di diciassette anni, per amore della quale è morto l’anziano pittore Balestrieri. Dopo aver descritto in forma saggistica , il comportamento, soprattutto quello erotico, della ragazza, la sua strana indifferenza, o meglio nullità psicologica, Moravia si chiede: “Come aveva fatto, dunque, Balestrieri ad innamorarsi perdutamente di Cecilia? O meglio, che cosa era avvenuto tra di loro perché questo carattere insignificante di Cecilia diventasse, forse appunto perché tale, un motivo di passione?”

Il protagonista, sorpreso che la droga Cecilia rivelatasi funesta per il povero Balestrieri, non abbia effetto su di lui e interroga la ragazza senza sapere lui stesso esattamente cosa vuole sapere da lei. Moravia ci ha detto quello che è un “esempio”, un altro romanziere ci avrebbe messo in condizione di credere che il fatto particolare da lui narrato è il fatto per eccellenza che riassume la situazione; il Moravia della Noia porta un esempio tanto per spiegarsi, per lui il fatto è una semplice verifica tra tutte quelle che il romanziere ha a sua disposizione.

Gli aspetti colti ne Il Dottor Zivago e ne La noia sono tra loro differenti: Moravia, prendendo qualche fatto come esempio di una situazione, non privilegia questo fatto; Pasternak invece, nella sua persuasione di prolungare la linea della narrativa tradizionale, privilegia i fatti che racconta. ma per quanto narri fatti privilegiati, lo scrittore russo non è in grado di garantirci che nel frattempo, non si siano prodotti altri fatti, che, sebbene ignorati, potrebbero essere altrettanto significativi. La differenza da Moravia è che Paternak, tanto per fissare le idee su un caso preciso, ha tutta l’aria di puntare il dito su una delle innumerevoli conflagrazioni di atomi, per usare un’espressione della fisica, che avvengono in una data fase di attività di un materiale radioattivo. Tutte e due però compiono volta per volta il prelievo di un caso, da una media statistica che autorizza a ritenere che, in una determinata situazione, sia probabile, il verificarsi di un determinato evento.

 

 

Exit mobile version