Walter Pedullà. La costruzione del discorso culturale

Il giovane Walter Pedullà era assistente di Giacomo Debenedetti. Appariva già come modello di un rapporto vivo, dinamico, amoroso con i libri: veniva indicato come uno che leggeva “tutto”. Interrogando nei libri la vitalità del presente, riconoscendo in essi le persone, il gioco dei rapporti, degli intrecci, delle possibilità, facendone gli emblemi di un mondo aperto e vitale, di una realtà che tutti
allora sentivamo in movimento verso nuovi orizzonti, verso combinazioni esaltanti.

Ci muoviamo con il tempo e misuriamo il tempo con la passione ed il destino della letteratura. Con il suo lavoro di critico militante e di professore, Walter Pedullà ha saputo fondere insieme come pochi insegnamento e militanza, con la sua instancabile capacità di richiamare le giovani generazioni alla passione per il farsi della letteratura, per le sue sempre diverse e sempre vitali configurazioni.

Fornendo sempre ai suoi ascoltatori e lettori l’assicurazione che immergersi nella letteratura sia qualcosa che ha a che fare con le passioni, i piaceri, i desideri, le gioie, i disastri dell’esistenza individuale e collettiva, privata e pubblica, personale e politica. Dietro ai libri c’erano e ci sono gli scrittori, persone reali, affascinanti o bislacche, che stanno in mezzo alle cose, che si incontrano, si frequentano, si parlano, discutono, litigano, amano e odiano, cercano qualcosa nello spazio del mondo. Walter Pedullà ha saputo farlo immettendo spontaneamente dentro il suo stesso insegnare la sua capacità di essere in rapporto vivo con gli scrittori, di sentire molti scrittori contemporanei come vicini e amici, di dialogare continuamente con loro e con le loro opere.

Pedullà ha sempre vissuto i rapporti umani e intellettuali con un senso dinamico dello scambio personale: ha sempre saputo sentire la letteratura in situazione – qualcosa che chiama in causa i momenti concreti, la fisicità stessa del linguaggio e della realtà che esso interroga e cerca.

Tutti gli impegni pubblici di Pedullà non si sono posti sempre come dirette manifestazioni del suo senso della cultura come concretezza vitale, come “fare” che mette in gioco le persone, che si proietta sulla scena del mondo.

La sua partecipazione agli sviluppi della neoavanguardia, questo entusiasmo; l’aspirazione ad un mondo abitato dalla gioia e dal desiderio, un mondo collocato “più in là”, ma senza perdere le cose che anche qui, nonostante tutto, ci fanno amare la vita. Anche affacciato al “negativo” non scompare la proiezione verso qualcosa di felicemente “altro”.

Walter Pedullà ha guardato al modello del suo grande maestro Giacomo Debenedetti per la sua passione totale per la letteratura e per la sua configurazione umana. Pedullà ha saputo trovare un’affermazione, ha saputo riconoscere una scommessa per una felice configurazione del mondo. Pedullà ha ricordato come in Debenedetti l’acume intellettuale e la disponibilità di lettore si radicassero in una postura esistenziale, in un proiezione psichica e fisica dell’attenzione e del pensiero, in una sofferta interrogazione del destino della letteratura come cifra del destino esistenziale e del destino del mondo.

Walter ha fatto valere la lezione del maestro in una sua personale configurazione: la critica di Debenedetti resta avvolta nella sua distanza elegante, nella sua sofferta problematicità, come un una gestione “tragica” della propria densità stilistica, e resta in definitiva radicata nella lacerazione, nel “negativo”, quella di Walter Pedullà proietta l’orizzonte problematico della contemporaneità verso quella spinta vitale di cui tende sempre ad estrarre dal negativo e dalla contraddizione delle acquisizioni di energia, di apertura cordiale e fidente.

“Sia sempre militante il critico o lo storico letterario che voglia scoprire ciò che mette d’accordo per sempre il testo con il lettore”: Walter Pedullà, si è sempre mantenuto fedele a questa massima che coniuga il rigore del metodo e della vocazione “pedagogica” all’intervento in prima linea nelle ripetute battaglie tra gli integrati e i fautori del nuovo.

All’ampio respiro storiografico dei profili organici sulla letteratura novecentesca si accompagna, nei suoi studi, la perizia nell’arte del ritratto, spesso anamorfico e pluriprospettico, come si conviene all’habitus critico del lettore di professione e del saggista di forte temperamento, che si prende le dovute libertà e non si fa scrupolo di lasciar cadere dalla penna impertinenze.

Walter Pedullà costruisce pazientemente un discorso culturale in senso lato e lo governa di forza nella prospettiva politica che ne risulta. La letteratura del benessere non comporta licenze critiche né celebrazioni di glorie avventizie, ma si testimonia dell’onestà e della concretezza di un approfondimento verticale, incalzante e severo, forte d’antichi umanismi e appassionato del nuovo.

Anziché elaborare una teoria, e al di là dell’apparenza di un bilancio, Pedullà propone un protagonismo intellettuale che s’assume i dati sparsi di un panorama culturale, richiamati ad un confronto individualizzante che li vivifica, lo fornisce di un senso che solo parzialmente detengono, li costruisce alla fine di una esperienza complessiva di critico militante.

Il critico calabrese non vuole perdonare chi “contrabbanda per amore della poesia un pusillanime redditizio e solo incosciente disimpiego ideologico e culturale”, ma indica significativamente nella presenza politica e nell’attenzione ferma alla realtà sociale i compiti precipui dell’intellettuale.

“L’irrinunciabile valore della ragione” si esercita sempre più torturando testi altrimenti muti, sia che scelgano di negarsi, sia che approdino a “un’inutile prevaricazione al silenzio”, negandosi di fatto, con la rinuncia alla propria storia. Il debito riconosciuto nei confronti di Debenedetti costituisce un punto di riferimento sicuro, e si rinnova quotidianamente come ossequio di un magistero irripetibile e affascinante, decisivo al punto di determinare la propria continuazione. Per Pedullà è sempre più evidente che l’opera non può acquisire i suoi significati e la sua completezza che con la collaborazione invadente del critico, il quale si trova ad essere l’unico scrittore non dimidiato, l’unico continuatore della grande letteratura, capace di reintrodurvi la passione politica e morale, la razionalità e la storia.

Probabilità, irrazionalità, microfisica, i nuovi concetti ne ‘Il romanzo del Novecento’ di Debenedetti

Il romanzo del Novecento raccoglie i Quaderni in cui il grande critico letterario Giacomo Debenedetti stendeva le sue lezioni universitarie. La presentazione è di Eugenio Montale. Alla fine del libro si possono trovare le note, in cui sono elencati tutti i riferimenti bibliografici, e il repertorio di autori, opere, personaggi e periodici citati.

Debenedetti si interroga sul concetto di contemporaneità. Analizza le epifanie di Joyce, le intermittenze del cuore e la memoria involontaria di Proust, Il fu Mattia Pascal di Pirandello.

Gli scrittori del Romanzo del Novecento

Debenedetti compara e accosta Italo Svevo a Joyce e Proust, Moravia a Pasternak. Ricorda il lavoro del critico Renato Serra. Studia le opere di Tozzi. Questi Quaderni sono un’ulteriore conferma del rigore e delle capacità analitiche di Debenedetti, che seppe per primo comprendere l’influenza delle scienze umane (la psicologia del profondo e la sociologia) e della microfisica nella letteratura moderna.

Debenedetti è un profondo conoscitore della psicanalisi di Freud, della psicologia analitica di Jung e della fisica delle particelle. Tuttavia non c’è traccia di scientismo nel suo lavoro. Non gli interessa la ricerca totale dell’oggettività, che anni dopo sarà propria della critica strutturalista e della semiologia, che cercheranno di condannare all’oblio l’intuizionismo crociano.

Debenedetti è consapevole che le intermittenze del cuore, le epifanie, l’assurdo, l’informe, il grottesco dei personaggi in sciopero degli antiromanzi non devono essere compresi tramite l’analisi delle ideologie e delle sovrastrutture. Bisogna comprendere le infrastrutture della psiche.

Lo studio della letteratura moderna non necessita di una logica positivista: Debenedetti nel suo Romanzo del Novecento, ci avverte che la scienza moderna è entrata nella letteratura, ma non per questo egli utilizza la metodologia e l’epistemologia delle scienza per comprendere la letteratura moderna. Il grande critico ci avverte che nel panorama letterario, dopo la crisi irreversibile del naturalismo, all’improvviso è presente un ospite invisibile, un’entità del sottosuolo: l’inconscio.

Un approccio interdisciplinare

Epifanie, intermittenze del cuore, illuminazioni interiori, piccole rivelazioni, conflitti interiori, dissolvenze non si possono spiegare adoprando i sillogismi. La nevrosi non si può comprendere con l’ausilio della logica deduttiva, che cercherà sempre di occultare e rimuovere l’ineffabile. Debenedetti ci insegna che i comportamenti dei personaggi dei nuovi romanzi non sono la risultante dell’ideologia. Sono sintomi di un malessere che si è impadronito dell’uomo contemporaneo.

Debenedetti per fare una disamina di tutto ciò si serve di un approccio interdisciplinare: non ha un metodo definito, ma allo stesso tempo ha molti metodi. Nella letteratura compare il personaggio-uomo perché la teoria dei quanta e il principio di indeterminazione spazzano via il meccanicismo e i rapporti di causa-effetto. Irrompe sulla scena un nuovo concetto: la probabilità.

Ecco allora che qualsiasi azione, qualsiasi comportamento, qualsiasi evento è in sé aleatorio. Non può più esistere nessuna trama, nessuna narrazione come nei secoli scorsi. L’uomo è un essere indeterminato. Si sa ciò che è più probabile e ciò che è improbabile. Ma anche l’improbabile può avverarsi e il probabile non accadere.

E se l’uomo è fatto di atomi…. allora perché la sua vita e il suo nucleo non possono essere governati dalle stesse leggi della microfisica? I conflitti sociali ed economici, gli stessi eventi storici apparentemente sembrano scaturiti dal “sovrumano”. Ma se dietro il “sovrumano” si celasse “l’infraumano”?

Si potrebbe parlare di infraumano?

La cultura e le stesse istituzioni sono forse preda dell’infra? L’illusione antropocentrica si dissolve in un istante, indipendentemente dal fatto che la microfisica sia il motivo profondo di una nuova dimensione antropologica dell’uomo oppure l’elemento per un parallelismo efficacissimo.

Il discorso di Debenedetti, che sembrava essere solo letterario, ci porta a interrogarci anche sulle dinamiche sociali ed economiche dell’epoca moderna. D’altronde Debenedetti per comprendere una realtà così frammentaria e irrazionale come quella del novecento non poteva certo servirsi dell’idealismo crociano né delle filosofie irrazionali.

Il grande critico ebbe il merito di capire che anche l’irrazionalità di quella realtà aveva una sua logica. La letteratura del’900 ha come protagonista l’inetto. Ma il romanzo non esiste più. I critici letterari lo chiameranno antiromanzo: un’opera d’arte così innovativa da trascendere sia la logica del mercato editoriale che quella del classico.

Gli studiosi scriveranno che i romanzieri vanno a caccia di epifanie delle epifanie, di “infra della psiche”. Scopriranno che le intermittenze del cuore di Proust si fermano molto più in superficie delle rivelazioni microscopiche di Joyce, Musil, Svevo e Pirandello. Mai gli scrittori hanno scandagliato così a fondo nell’animo umano. Mai come nel’900 hanno scavato così in profondità. Giacomo Debenedetti illuminerà tutti con il suo saggio sul personaggio-uomo, in cui riuscirà a conciliare Freud e principio di indeterminazione, inconscio e microfisica.

La frantumazione dell’io

L’io nelle pagine memorabili del romanzo del’900 non si ripiega su se stesso, ma addirittura si frantuma. Le categorie d’analisi e la logica ordinaria scompaiono, si eclissano: è il congedo del “penso, dunque sono”. Scompare il soggetto, ma non la soggettività.

Quel che resta comunque è il vuoto al centro e mille schegge di interiorità nelle immediate vicinanze, che tramite sensazioni e percezioni distorte e pensieri di pensieri sconnessi rivelano non più il volto dell’uomo, ma un uomo contemporaneo ormai senza più volto. La tesi di Ortega y Gasset, esposta nel suo saggio “La disumanizzazione dell’arte” trova più di una conferma.

La nuova letteratura è impopolare, la grande massa è distante dalle opere letterarie, non le ama perché queste fanno una radiografia dell’uomo moderno. Molti romanzi moderni si presentano spesso al primo colpo d’occhio ed alla prima lettura superficiale come una semplice finzione, come la pura e semplice rappresentazione di un gioco. In realtà svelano il malessere dell’uomo contemporaneo.

Quel che poteva sembrare inverosimile e grottesco in ultima analisi non è altro che la nuda e cruda verità umana. Ed il lettore si trova disarmato di fronte ad una descrizione così puntigliosa ed esatta delle sue conversazioni e di ciò che pensa tra sé e sé, in definitiva di se stesso.

 

Di Davide Morelli

Albert Camus e l’assurdo: quando il destino ci appartiene come le tragedie della vita

Per dibattere intorno alle ragioni dell’esistenza nel Novecento, nulla era più utile del colloquio con una delle personalità più rappresentative e attuali di una stagione irripetibile dl’Europa, quella di Albert Camus, in cui il critico piemontese Giacomo Debenedetti individua l’emblema dell’interrogazione radicale dell’uomo occidentale alla ricerca di se stesso in un contesto ostile. Nel saggio dedicato al grande scrittore francese, il discorso si struttura tra le due nozioni contrapposte di “avventura” e “destino”; la prima è essere gettati nel mondo senza punti di riferimento, senza padre, madre, Dio e trovarsi nella solitudine circondati dalla foresta di cui non si conoscono più i sentieri. La seconda consisterebbe invece nel proseguire questa ricerca fino in fondo riconoscendo ed abbracciando la dolorosa opera come propria. L’uomo occidentale ha distrutto ogni certezza, ma è nella fase dell’avventura, è solo e turbato, incapace di vivere nel mondo.

Albert Camus e l’esistenzialismo

I temi dell’esistenzialismo hanno raggiunto al cuore le desolazioni che gli uomini di oggi sperimentano nel loro buio, ma come ha notato Albert Camus, molti filosofi esistenziali di fronte alla ragione umiliata dal non poter dare una risposta ai perché del mondo, abdicano ad essa: in Dio o nell’essere trascendentale o nelle essenze extra-temporali. Camus no. Con grande ostinazione, egli si aggrappa all’unica certezza dell’assurdo, che non è una verità che si dimostra logicamente, ma una sensazione che si manifesta in modo evidente all’uomo e che scaturisce dall’incontro tra ciò che è umano, la ricerca di senso e di unità, con il mondo irrazionale, con cui si può convivere o da cui bisogna fuggire attraverso il suicidio. Ma fuggire significa sopprimere l’assurdo e la sola opzione possibile è quella di vivere in un mondo dove non ci sono ragioni di vita. Il discorso del Mito di Sisifo ne segnala il coraggio presentando le tre regole della rivolta, della libertà e della passione. Più cordiale risulta la considerazione di Debenedetti riguardo a Lo straniero e del suo protagonista, personaggio profondo fino a toccare “le radici di un essere predestinato alla rivelazione dell’assurdo”. Alle spalle dell’avventura assurda c’è Freud con la sua presa d’assalto della centrale dei divieti. I comportamenti di Meursault esprimono della loro apparente gratuità, un segreto che si nasconde in una zona anteriore alla rivelazione dell’assurdo. Il suo disastro è “una guarigione sbagliata , la sua malattia è la madre”, intesa come sistema di autorità e di divieti cui l’uomo continua a subordinarsi. Chiudendola in un ospizio il protagonista del romanzo, allontana la madre da sé unicamente dal punto di vista fisico e solo alla sua morte, vorrà dimostrarsi che non esistono più divieti. Come Sisifo, Meursault diviene l’autore del suo destino.

Dice infatti Albert Camus: “C’è un solo problema filosofico veramente serio: il suicidio. Giudicare se la vita vale o non vale la pena di essere vissuta significa rispondere alla questione fondamentale della filosofia”. Per lo scrittore francese gli argomenti etico-religiosi e sociali tradizionalmente invocati contro il suicidio non valgono perché la vita non ha valore intrinseco, e la realtà ” è senza ragione ” e la morte è comunque l’esito che aspetta ogni essere vivente. La dimensione costitutiva dell’esistenza umana è dunque l’assurdità: le cose e gli eventi non hanno senso, e gli atti umani sono sempre inadeguati in riferimento alle possibilità e ai desideri che ha l’uomo. Prosegue Camus: “L’assurdo è un peccato senza Dio” . Il suicidio quindi è resa all’assurdo, di cui si deve invece prendere coscienza per impegnarsi a vivere nel modo più pieno possibile. Se ci si arrende all’assurdo, allora tutto diventa possibile e giustificabile.

Infatti, in opposizione al suicidio, l’autore auspica un’etica fondata sul “vivere” più intensamente, nel senso di «trovarsi di fronte al mondo il più spesso possibile»; in questo senso la vita dell’uomo ha valore in relazione ai grandi progetti che è capace di realizzare. Non a caso Camus chiude con la figura di Sisifo felice e la felicità è l’altra faccia della medaglia dell’assurdo. Tutta la gioia di Sisifo risiede nella consapevolezza che il destino gli appartiene come le tragedie della vita.

Tale ragionamento si approfondisce nel saggio Personaggi e destino in cui si individuano nell’epica moderna due momenti: l’epica della realtà e l’epica dell’esistenza. La crisi dell’epica della realtà è segnata per Debenedetti dalla rivolta, dallo “sciopero dei personaggi”, dalla loro richiesta di nuovi diritti nei confronti dell’autore.

 

Bibliografia: Angela Borghesi, La lotta con l’angelo.

L’intellettuale dissidente

“Il Dottor Zivago” e “La noia” a confronto

Il celebre romanzo Il Dottor Zivago (1957) di Boris Pasternak ci dà l’occasione di cogliere alcuni connotati sintomatici del romanzo moderno, in quanto in primis non sente affatto il bisogno di garantire che c’è qualcosa o qualcuno che conduce la fatalità. In questo romanzo si può dire che si assistiamo ad una serie di “atti gratuiti” come dice Giacomo Debenedetti, compiuti non tanto dai personaggi, quanto piuttosto dal romanziere, il quale produce scene, dialoghi, situazioni che a lui magari sembrano necessari, ma che si producono al di fuori di ogni plausibile logica e concatenamento.

Le combinazioni de “Il Dottor Zivago”

Ne Il Dottor Zivago, Pasternak non può dirci che ha forzato le normali probabilità della vita. che ha costretto ad avverarsi le combinazioni più aleatorie, perché voleva farci assistere ad una scena d’amore, ad un dibattito tra i rappresentanti di due diverse concezioni rivoluzionarie, oppure descriverci poeticamente un paesaggio cittadino, una foresta popolata di partigiani. All’autore russo l’idea di un arbitrio narrativo attuato per ragioni di comodo appare cinica e minerebbe la credibilità dei suoi personaggi e della sua storia. Egli non è in grado di darci un perché di quegli spostamenti e coincidenze, ma i romanziere tradizionali ci dicono perché determinati passaggi vanno tralasciati, perché non sono materia degna di racconto. Pasternak, anche se lo sapesse, vuole mostrarci che non gli importa di saperlo, dandoci meravigliose pagine lirico-paesistiche senza però la traiettoria di chi l’attraversa, perché questa sfugge al calcolo e ricostruirla attraverso congetture sarebbe un lavoro superfluo, che non compete a Pasternak.

“La noia” di Alberto Moravia

Prendiamo ora un altro esempio di romanzo moderno: La noia (1960) di Alberto Moravia, dove l’autore, a più riprese, enuncia in generale e quasi in astratto, una posizione, un atteggiamento dei protagonisti in una certa fase della loro vicenda, dopodiché si limita a spiegare quell’enunciato con degli esempi e dichiarando che prende dei fatti, tutti equivalenti, che valgono a far vedere in concreto ciò che accadeva nella situazione indicata. In questo senso, il protagonista, il pittore che non dipinge più, è già da un paio di mesi in rapporto con Cecilia, una ragazza di diciassette anni, per amore della quale è morto l’anziano pittore Balestrieri. Dopo aver descritto in forma saggistica , il comportamento, soprattutto quello erotico, della ragazza, la sua strana indifferenza, o meglio nullità psicologica, Moravia si chiede: “Come aveva fatto, dunque, Balestrieri ad innamorarsi perdutamente di Cecilia? O meglio, che cosa era avvenuto tra di loro perché questo carattere insignificante di Cecilia diventasse, forse appunto perché tale, un motivo di passione?”

Il protagonista, sorpreso che la droga Cecilia rivelatasi funesta per il povero Balestrieri, non abbia effetto su di lui e interroga la ragazza senza sapere lui stesso esattamente cosa vuole sapere da lei. Moravia ci ha detto quello che è un “esempio”, un altro romanziere ci avrebbe messo in condizione di credere che il fatto particolare da lui narrato è il fatto per eccellenza che riassume la situazione; il Moravia della Noia porta un esempio tanto per spiegarsi, per lui il fatto è una semplice verifica tra tutte quelle che il romanziere ha a sua disposizione.

Gli aspetti colti ne Il Dottor Zivago e ne La noia sono tra loro differenti: Moravia, prendendo qualche fatto come esempio di una situazione, non privilegia questo fatto; Pasternak invece, nella sua persuasione di prolungare la linea della narrativa tradizionale, privilegia i fatti che racconta. ma per quanto narri fatti privilegiati, lo scrittore russo non è in grado di garantirci che nel frattempo, non si siano prodotti altri fatti, che, sebbene ignorati, potrebbero essere altrettanto significativi. La differenza da Moravia è che Paternak, tanto per fissare le idee su un caso preciso, ha tutta l’aria di puntare il dito su una delle innumerevoli conflagrazioni di atomi, per usare un’espressione della fisica, che avvengono in una data fase di attività di un materiale radioattivo. Tutte e due però compiono volta per volta il prelievo di un caso, da una media statistica che autorizza a ritenere che, in una determinata situazione, sia probabile, il verificarsi di un determinato evento.

 

 

La poesia italiana del Novecento tra parola cifrata e colloquio solidale

Montale, Ungaretti, Luzi

Il critico piemontese Giacomo Debenedetti ha riflettuto a lungo sull’origine e sull’originalità dell’ermetismo italiano, sorto in un contesto europeo, occidentale; Mallarmé ne è il dato originario, fondante, insuperato che è utilissimo per comprendere al meglio i testi italiani. Debenedetti dunque uno o pochissimi brani di ogni scrittore e li sottopone ad una lettura che si basa sulla molteplicità dei riferimenti.

Le cause dell’oscurità di Mallarmé sono ricondotte ad una contraddizione ontologica: la poesia è il solo strumento per raggiungere l’Assoluto, che però coincide con il nulla e dunque, in questo senso, la poesia si rivela fallimentare ed è per questo che il poeta parla di naufragio. L’uomo a cui solo tocca, attraverso il linguaggio, l’arduo compito della poesia, è poi abolito da questa stessa poesia che nulla ha più di <<riconoscibilmente umano>>, contraddizione in cui è osservabile <<il tipico paradosso di tutte le imprese mistiche>>. Non a caso si parla proprio di un naufragio nel testo di Mallarmé, A la nue accablante tu, Al nudo travolgente, dove l’immagine del naufragio è costruita da elementi reali ma l’intonazione sacrale ci avverte che la poesia allude a qualcosa che compromette il senso stesso della vita per il poeta e per tutti: si tocca un tragico destino. La poesia fallisce l’impresa di impadronirsi dell’Assoluto, ma l’oscurità con cui ci è trasmessa evoca al tempo stesso il bisogno dell’Assoluto: il tormentato destino del poeta teso ad afferrare la matrice ultima è lo stesso del critico, combattuto tra volontà della ragione e la resistenza dell’evento originario, è l’arcaico destino dell’uomo.

Debenedetti prende in esame come primo poeta Eugenio Montale, cogliendo nelle Occasioni una “crisi della presenza”; la poesia di Montale diventa ermetica quando non constata più gli aspetti comuni del mondo, quando attribuisce all’apparire “una significanza emblematica dei suoi momenti individuali. Soprattutto nell’Elegia di Pico Farnese sono riscontrabili i caratteri tipici dell’ermetismo mallarméano: la chiarezza delle singole notazioni insieme all’oscurità del significato generale, un sovvertimento dei valori razionali e grammaticali del linguaggio. Dunque è lecito razionalizzare il testo montaliano e in genere tutta l’arte moderna? Se si volesse seguire la posizione di Vico “Verum ipsum factum”, la risposta è affermativa, d’altronde l’opera d’arte è creazione dell’uomo e perciò non può non essergli comprensibile.

La molteplicità dei significati in Montale implica una non garanzia e molteplicità del senso; questo progredire dell’ermetismo deriva dalla scomparsa della figura del padre nella società borghese: il poeta si sente orfano e taglia tutti i rapporti visibili e riconoscibili tra il suo Io e la sua persona storica concreta. L’Io del poeta diviene alla maniera di Rimbaud un‘opera fabuleux, una scena in cui si susseguono eventi e spettacoli senza che nessuno ne abbia stabilito il programma.

Anche la poesia di Ungaretti certifica l’estraniamento del poeta come personaggio, teorizzando la scomparsa dell’io empirico e biografico del poeta e anche del lettore. Nella poesia metafisica Lago Luna Alba Notte della raccolta Sentimento del tempo, emerge una straordinaria forza di apparizione dell’oggetto senza rapporti con un prima o un poi, rimuovendo tutti i legami logici, gli eventi annunciano un senso senza spiegarlo e si giunge all’istanza sentimentale e drammatica di una poesia dell’esperienza umana. Nel finale degli appunti ungarettiani l’analisi del linguaggio di Lago Luna Alba Notte porta ad identificare un altro debito rimbaudiano del poeta, quello con la formula “Je est un autre”, collegandosi alle riflessioni di Montale.

La stessa frantumazione dell’Io che emerge nel periodo ermetico di Ungaretti è attestata anche in Mario Luzi; nell’Imminenza dei quarant’anni è assente infatti una linea biografica. Vi sono solo attimi slegati, momenti che non hanno un perché, viene simulato il racconto di una storia  che denuncia il “rifiuto di raccontare”. In questa situazione di smarrimento, di incertezza esistenziale, il poeta di aggrappa alla religione cristiana, per trovare un senso nel mondo.

 

Bibliografia: A. Borghesi, La lotta con l’angelo.

Albert Thibaudet e gli ordinamenti della letteratura

Storia della letteratura- Thibaudet. Quale periodo si deve abbracciare per lo studio del romanzo italiano contemporaneo? Fissare i limiti di un periodo storico significa sempre accettare date convenzionali, scelte per opportunità pratica, ma è facile, come afferma Giacomo Debenedetti, che diversi osservatori possano vedere in quella convenziona un arbitrio. Ad esempio è utile oltre che comodo, far cominciare la penultima epoca storica dalla rivoluzione francese; ma quante premesse, quanti fatti dell’età borghese che si sono avverati, si lasciavano fuori con quel taglio crudo che occorreva per ristabilire il punto di inizio dell’anno 1789? Storici rigorosi, come Tocqueville hanno dimostrato quanto quella data convenzionale fosse arbitraria. Esiste inoltre una contemporaneità come sentimento personale e una come valutazione cronologica. Ma contemporaneo vuol dire anche coetaneo e ciò ci lascia concludere che, dovendo studiare un fenomeno letterario contemporaneo, la data di arrivo deve essere quella più vicina possibile.

La data di partenza è sempre problematica, non sempre si riesce a trovare un fatto peculiare, dei segni nella continuità del tempo e per il romanzo, a differenza della poesia, risulta ancora più complesso. Se accettassimo l’idea che il romanzo italiano contemporaneo rientra in un divenire letterario, ci ritroveremo di fronte ai problemi ricorrenti che si ripresentano ogni volta che si tenta di ricostruire un aspetto della storia letteraria.

Tali problemi sono stati esposti con singolare intelligenza ed ingegno dal critico francese, allievo di Henri Bergson e tra i fondatori della cosiddetta Scuola di Ginevra, Albert Thibaudet (Tournus, 1º aprile 1874 – Ginevra, 1936), nella prefazione alla sua Storia della letteratura francese dal 1789 ai nostri giorni, libro uscito postumo.

Sostiene Albert Thibaudet: le Belle Lettere, i libri che si leggono e si gustano, non bastano ancora a fare una letteratura, che è uno Stato, un ordine, una gerarchia, un susseguirsi logico che si stabilisce mediante il ripensamento, la conoscenza sistemica e organizzata di opere e di autori. Lo schema, l’archetipo per eccellenza secondo il critico francese è quello di uno dei discorsi più famosi che siano mai stati scritti in Francia, Il discorso sulla storia universale di Bossuet, diviso in tre capitoli: Epoche, Concatenamento, Imperi.

La divisione per epoche letterarie contraddistingue tali epoche datandole in base ad un importante evento letterario: in Italia, ad esempio, la Divina Commedia o l’Orlando furioso; gli scrittori rivestono un’importanza quando fanno epoca. Trasferendo tale sistema al romanzo contemporaneo, dateremmo questa epoca con Gli indifferenti di Moravia o meglio ancora con Una vita, Senilità e La coscienza di Zeno di Svevo. Tuttavia il sistema delle epoche opere ad influsso ritardato, si pensi ad esempio a Verga, rivalutato solo dopo la sua morte.

L’altro sistema di ordinamento storico della letteratura è quello che si basa sul concatenamento, il quale cerca di tracciare una storia letteraria costruita in modo che le opere sembrano chiamate ad attuare una certa idea superiore lottando contro ostacoli e difficoltà; in tal senso potremmo considerare la narrativa moderna e contemporanea italiana come una storia del progressivo affermarsi del realismo. Si potrebbe dunque partire da Federigo Tozzi, o da Giuseppe Antonio Borgese con il suo Rubé, il quale, prendensosi qualche rischio, ripropone la dignità letteraria del genere romanzo.

La poetica del realismo è attualmente la più storicamente opportuna, da essa sono nate le opere di maggiore importanza; nel realismo narrativo entrano racconti e romanzi che il vulgar realismus considera astratti, si pensi al Pasticciaccio di Carlo Emilio Gadda.

Il terzo tipo di sistema proposto da Thibaudet per periodizzare una storia letteraria è quello che si fonda su un succedersi di imperi, ciascuno dei quali è rovesciato da una guerra letteraria o da una rivoluzione e al quale succede un nuovo impero. Questo tipo però si può applicare correttamente solo alle grandi estensioni temporali, seppur non privo di suggestioni: il futurismo ad esempio ha rovesciato l’impero della letteratura degli accademici, la nuova poesia quello del dannunzianesimo.

Il sistema di Albert Thibaudet ha molti punti in comune con quello italiano, ma il critico francese, nel trattare un periodo relativamente breve, poco più di un secolo e mezzo, opta per una quarta via: l’ordine per generazioni che, come afferma lui stesso, “ha il vantaggio di seguire più da vicino il procedere della natura, di coincidere con maggiore fedeltà con il cambiamento imprevedibile e la durata viva, di meglio adattare alle dimensioni ordinarie  della vita umana, la realtà e il prodotto di un’attività umana”, quale è appunto la letteratura. In questo modo, si troverà più facilmente la data di partenza del romanzo italiano contemporaneo: siamo nel 1960, sottraendo i 30 anni della presente generazione, si troverebbe come data di inizio il 1930, anno infatti che concerne il romanzo italiano. Ritroviamo intorno a questo anno fatti e opere capaci di fare epoca: la riscoperta di Svevo nel 1925, l’uscita degli Indifferenti nel 1929.

La domanda qui sorge spontanea: perché in quel momento si è potuto rivalutare il fino ad allora ignorato Italo Svevo? Semplicemente perché era nato nei critici quel gusto del romanzo che nello scrittore triestino era innato.

Bibliografia: G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento.

L’invasione dei “brutti” nel romanzo del ‘900: la bruttezza nei romanzi di Tozzi

Uno dei primi aspetti che emerge leggendo diversi romanzi del ‘900 è la bruttezza fisica, (o forse sarebbe meglio parlare di “abbrutimento” dei personaggi) inflitta dai loro autori. Si prenda ad esempio lo scrittore Federigo Tozzi sente impellente il bisogno di esprimere il ricordo, la memoria. Tale bisogno dipende dal fatto che la memoria è il luogo dove si depositano inesorabilmente, paure e angosce che chiedono di essere esorcizzate ed integrate nell’io; chiedono di oggettivare la loro fisionomia dannosa che in questo modo farà perlomeno conoscere il suo potere malefico.

Da questo punto di vista i romanzi di Tozzi sono una lista di offese, incubi e paure che si incarnano in aspetti umani; la memoria delle paure, come ha sottolineato Giacomo Debenedetti, si rapprende in figure che, con il loro solo mostrarsi, fin dai connotati, hanno qualcosa di sinistro, di inquietante, di offensivo, come se la natura e la vita avessero formulato nei tratti di quelle persone un loro desiderio di ferirci, di metterci a disagio, di farci sentire malcapitati in un mondo popolato da gente simile.

Gli esempi di tutto ciò si possono trovare ad apertura di pagina  in tutte le opere di Tozzi; prendiamone un esempio; la raccolta di novelle Giovani: in Pigionali (1917) si narra la storia di due anziane vicine di casa che si amano senza saperlo e sanno invece di odiarsi, hanno bisogno l’una dell’altra ma se lo negano reciprocamente. Si tratta di figure patetiche e Tozzi vorrebbe non odiarle e non farle odiare dal lettore. Ma eccone i ritratti: nei connotati e nel modo di esistere, si potrebbe dire che l’autore ne cerchi l’eccezione che rende sgradevole la figura:

“Marta era piccoletta, con gli occhi azzurri e taglienti; vestiva sempre di scuro con una gran rosa chiara sul cappello. Gertrude, invece, aveva una faccia liscia e un’aria tra l’idiota e il sinistro; alta, con gli occhi che bisognava dirli verdi; e i capelli gialli. Ma non era cattiva nemmeno lei”.

Tozzi si danna nell’avvilire i suoi personaggi i quali sono sempre torvi, sinistri messaggeri di vita, quella vita che per Tozzi corrisponde alla classica allegoria del traditore e quanto più la storia diventa autobiografica, è quasi immancabile che i personaggi, anche quelli che a prima vista si presentano amabili e dolci, vittime della vita, svelino qualche aspetto che li imbruttisce.

Nel racconto Un’osteria (1914), certamente autobiografico perché portato su un’episodio di uno di quei chilometrici viaggi in bicicletta, grande passione di Tozzi, Borgese ci ricorda “quale robustezza barbarica di gaudente fosse in lui accanto alla forza di soffrire e quanto fosse la sua bravura davanti ad una strada polverosa da percorrere di corsa o a un fiasco di Chianti da vuotare a gara”.

Questo racconto narra di una locanda a Crespino, in una diluviale sera di novembre, al termine di un giro di dieci giorni per l’Emilia, con un amico impiegato delle Poste, il quale all’indomani deve tornare all’ufficio di Firenze, i due perciò sono partiti da Faenza nonostante il maltempo il quale però obbliga i due viaggiatori a cercare caldo, riparo e cibo. A tavola, si siede accanto a loro, zitta e riservata, la maestrina del villaggio perché non ha altro posto dove sedersi. L’apparizione di questa maestrina “non brutta” (Tozzi non ce la fa proprio a dire che è bella), in quella sera e in quel luogo sperduto, dovrebbe risultare allietante per i due giovani ma la prima cosa che il protagonista nota quando la donna saluta è che “la sua voce ci fece l’effetto di uno che parli dal fondo di una grotta”.

Nella novella Tre giovani (1918), si direbbe che è la mano, dopo il viso, ad attirare l’attenzione di Tozzi, in cerca di un nuovo particolare che sveli la natura malefica della vita: il ritratto del giovane prete Don Vincenzo Ciurini, uno dei giovani che si è avviato allo studio della pittura. Il prete è un artista fallito, nonché malato di cuore, prossimo alla morte come un altro dei tre giovani protagonisti, del resto. Che Tozzi sia qui pervaso da un senso di pietà e decida di perdonare i tratti non piacevoli del personaggio? Viceversa lo scrittore trasforma quella povera vittima in un aguzzino; proprio per la sua bruttezza, sproporzione  dei suoi tratti che non possono non colpire negativamente chi li guarda:

“Era un giovine prete venuto da Asciano, magro e ossuto, con gli occhi celesti e talmente limpidi come se fosse sempre contento. Erano già cinque anni che studiava pittura ma non faceva nessun progresso […]. Le punte delle sue dita erano più grosse che all’attaccatura, e tonde. Aveva piedi enormi e pesanti; mentre tutta la sua persona pareva che dovesse essere leggera come un pezzetto di sambuco. Camminava a testa alta e dietro il collo gli si vedevano le pieghe della pelle rasata. Sembrava fatto senza carne: soltanto di pelle e d’ossi”.

Questo non pare un ritratto ma una diffamazione fisica del suo modello, la vendetta del suo autore che si rivolta contro la malattia e il fallimento.

 

Bibliografia: G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento.

Personaggi e destino nel romanzo del ‘900

“Un divorzio si è consumato tra il protagonista e ciò che gli succede. Si è rotto il rapporto di pertinenza, di legalità tra personaggio e vicenda. Come dire: tra l’uomo e il suo destino”. Queste parole del critico Giacomo Debenedetti registrano acutamente i mutamenti dell’assetto del romanzo del ‘900, muovendosi in quella terra di nessuno nella quale pare essersi lacerato il ruolo storico dell’“epica della realtà” senza che vi abbia trovato spazio l’“epica dell’esistenza”.

Debenedetti ha indicato in Proust, Pirandello, Kafka, Svevo, Joyce i testimoni esemplari di una crisi dell’epica della realtà, epica che ha caratterizzato il romanzo ottocentesco con il suo naturalismo e che nel ‘900 si risolve in “rivolta dei personaggi“, non più disposti ad accettare i loro precedenti rapporti con l’autore. I personaggi “scioperano”, desiderano l’autonomia letteraria. Tale tema, già analizzato da Debenedetti nel saggio L’avventura dell’uomo d’occidente (1946), è oggetto in Personaggi e destino, “di un ripensamento non neutrale alla luce delle risposte successivamente offerte dalla psicoanalisi e dall’esistenzialismo: la ratifica dello scarto che separa l’ottimismo progressivo di Freud dalle diverse filosofie dell’assurdo è compiuta da Debenedetti opponendo alla distruzione di ogni nesso tra personaggio e vicenda prodotta dalla morale provvisoria degli esistenzialisti” (F. Contorbia).

Nell’epica moderna quindi vi sono due specie di romanzo, la prima è rappresentata dall’epica della realtà, la seconda dall’epica dell’esistenza. Nella prima vediamo il personaggio muoversi in un mondo con il quale c’è ancora una possibilità di intesa reciproca, l’uomo è fiducioso, riesce a concepire un collegamento tra se e il mondo, riuscendo a dare delle spiegazioni ai problemi che gli si presentano. Nell’epica dell’esistenza invece il personaggio è abbandonato da tutto e ciò che gli succede è visto come qualcosa di assurdo e inspiegabile. Non c’è più un collegamento, una possibile intesa tra uomo e mondo. Ma la stessa epica della realtà, è davvero riuscita a trovare le favole giuste per i propri personaggi? Per un po’ di tempo era sembrato che l’America avesse inventato un nuovo repertorio di queste favole, ma anche quel tipo di mitologia moderna ha accusato i colpi del tempo e appare stanca, usurata. L’epica della realtà ha trovato i suoi più validi protagonisti in Zola, Vittorini, Pavese, Flaubert e ha vinto ma come le è accaduto di morire?

Sono stati tentati dei prestiti di linguaggio, innesti di vite americane, per sollecitare il punto di intesa tra romanzo nostrano e quello d’oltreoceano. Pensiamo ad esempio a Paesi tuoi di Pavese: il passo all’americana impresso ad alcuni contadini piemontesi consente che il loro muoversi risuoni come qualcosa di straniero, ma la persuasione è più nell’autore che nei personaggi. Il Vittorini della Conversazione in Sicilia ha vinto la sua partita sfogando nel surreale la carica che il linguaggio aveva addensato nel protagonista. L’epica della realtà dunque ha avuto una scossa. Ma poi ha fatto capolino il problema dell’assurdo: l‘epica della realtà e dell’esistenza possono apparentemente influenzarsi, ma sostanzialmente si escludono. Si giunge inevitabilmente a Proust, tra gli scrittori più amati da Debenedetti: ci aiuta infatti la piccola lapide in memoriam che l’autore de La Recherche ha posto all’epica della realtà in uno dei saloni della Marchesa di St. Euverte, mentre si svolge la scena dei monocoli. M. de Breauté domanda: “Come, caro, voi qui? Ma che potete aver da fare voi qui?” ad un romanziere mondano da poco installatosi all’angolo dell’occhio di un monocolo e che risponde con aria misteriosa: “Osservo”. I personaggi di Dalla parte di Swann appartengono all’ultimo ventennio del secolo scorso ma Proust scriveva nel primo ventennio del nostro ed è palese che proietta su quel passato le opinioni del suo presente. E allora cosa è accaduto in meno di quarant’anni? Quel fatto, dice il critico piemontese, che si chiama Proust, Pirandello, Joyce nelle cui opere si pronuncia una rivolta dei personaggi i quali non sono più disposti ad accettare i loro precedenti rapporti con l’autore. Il personaggio reclama i propri diritti, non vuole più essere trattato come un fenomeno di fisica; Proust seguita a dichiarare che sta cercando delle leggi, ma in lui si è potuto vedere quasi immediatamente il cosiddetto“sciopero dei personaggi”. In effetti i personaggi di Proust, vivi come sono, finiscono col fare coro per testimoniare una finalità, una destinazione del vivere che non vale per essi, ma per il loro autore. Proust conduce l’autore ad una delle più alte esperienze religiose del ventesimo secolo.

Pirandello invece è lui ad esigere la rivolta dei personaggi, animato da profondo dolore e passione per le sue creature troppo smaniose e vive, che, pur di stare nel mondo, accettano di contraddirsi e si sa quale sentenza di patimento il grande scrittore siciliano pronunciava contro quella smania di vivere. Joyce invece, nel suo Ulisse, usa il metodo opposto: cerca di lenire il male dei personaggi che hanno perso il mondo della sicurezza, i destini a chiusura garantita, di cui godevano al tempo di Zola e di Maupassant, ed esprimono la loro sofferenza, appunto, con la rivolta. E cosa propone Joyce ai suoi personaggi? Di identificarsi psicologicamente con gli eroi dell’Odissea; sulle ermetiche pagine dell’Ulisse, questa soluzione “magica” dello scrittore irlandese può apparire complicata ma in realtà è molto semplice. Nel punto stesso che constata la crisi dei personaggi, Joyce offre anche una via di accomodamento, perlomeno provvisoria. La soluzione provvisoria di Joyce è stata ripresa anche dai nostri contemporanei, nota Debenedetti, ogni volta che la crisi dei personaggi diventava sempre più aggrovigliata.

Una grande stagione di epica della realtà era morta di questa crisi, probabilmente, solo Zola, distinguendo un tempo dell’immaginazione e un tempo di senso della realtà, segnava i corsi e ricorsi della storia dell’epica. Tocca infatti all’immaginazione prestare i suoi servizi, inventando storie piacevoli affinché l’homo sapiens, accetti l’invasione nello spazio della propria vita, dell’homo fictus, nato da una massa di parole. Ma se il personaggio è tornato uno sconosciuto e il patto è rotto, è necessario riconciliarsi nuovamente. L’epica della realtà cerca di prolungare i suoi giorni guardando stupita le risposte dei suoi personaggi, mentre l’epica dell’esistenza approfitta della condizione di “sconosciuto” dei propri personaggi, compiendo il lavoro che toccherebbe all’immaginazione.

Vi è una sola famiglia di nuovi personaggi che consolida l’epica della propria realtà ma probabilmente Kafka è riuscito proprio per le ragioni per le quali altri hanno fallito. Egli ha obbedito con grande zelo al dettame dell’Antico Testamento: “Non ti farai simulacri del dio ignoto”. Ha avuto il coraggio di rinunciare a ogni garanzia e aiuto della realtà prestabilita; dietro la materia opaca e invisibile, il personaggio di Kafka somiglia solo all’invisibile delle proprie angoscie e conflitti. La differenza tra Kafka e i romanzieri esistenzialisti italiani, è che lui, arrivato sugli orli dove si apre lo spazio non più euclideo,, ha guardato senza soffrire di vertigini e non ha più chiesto riferimenti alle forme della buona geometria che misurava la Terra. In parole povere, e qui entra in gioca la psicoanalisi di Freud (“Tu soffri, ti incolpi e ti umilii del tuo male di vivere. Danne invece la colpa al padre; è stato lui a fabbricare il coperchio di divieti, con cui reprime il naturale, sacro ribollire dei tuoi istinti e lo ricaccia nel fondo a fare da corpo estraneo”. Non è vero che il padre se ne sia andato, è stato più maligno. Si è nascosto nell’angolo buio per continuare a farti soffrire con i suoi divieti, senza più aiutarti con la sua presenza”), è il figlio che ha perso il padre e della propria orfanezza e degli squallori della solitudine, fa la sua nuova condizione umana, con uno spietato coraggio che non scende a compromessi con la nostalgia.

 

Bibliografia: G. Debenedetti, Saggi, a cura di F. Contorbia.

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