‘Fight Club’ di Chuck Palahniuk: un romanzo esistenzialista ricco di svolte semantiche

L’uscita del romanzo Fight Club di Chuck Palahniuk nel 1996 ha indotto molti scrittori, critici e pubblico in generale, loro malgrado, a guardare a questo nuovo autore. Con questo libro estremamente controverso, Chuck Palahniuk ha dato un nuovo gusto al mondo letterario negli Stati Uniti, e sollevando alcuni temi importanti come, l’umiliazione e il consumismo, il romanzo, in breve tempo, ha inondato i negozi di libri di Washington DC, dando il via ad un vivace dibattito critico.

E’ impossibile restare indifferenti di fronte ad una lettura così particolare, che il giudizio sia positivo o negativo è comunque indubbia la capacità di Palahniuk di incuriosire il lettore che dopo poche pagine capisce di trovarsi davanti ad un prodotto unico nel suo genere.

La storia ha come protagonista un anonimo trentenne che nonostante disponga di un buon lavoro è passivo e sfiduciato nei confronti del genere umano, oltre a soffrire di una tremenda insonnia e stress che lo costringono a partecipare a numerosi gruppi di sostegno per malati terminali dove trova il conforto che non riesce ad avere nella vita di tutti i giorni.

Proprio in uno di questi gruppi il protagonista conosce una donna di nome Marla Singer, ma ciò che veramente cambia la sua prospettiva è l’incontro con Tyler Durden, un proiezionista e cameriere che si presenta come una sorte di guru demolitore del moderno capitalismo e di una società votata al consumismo sfrenato, indotto e non necessario. I due trovano conforto per se stessi e per molti altri uomini in incontri clandestini di lotta libera nei sotterranei di bar, cantine, garage, dove sfogare le proprie frustrazioni. Così nasce il “Fight Club”, il primo passo di un surreale disegno più ampio che mira alla distruzione della società.

La trama prende vita in modo frammentario, dal ritmo sincopato, e con diversi salti sia in avanti sia in dietro nel tempo fra una scena e l’altra, alternando immagini allucinatorie, mentre si racconta il male di vivere di un’intera generazione, orfana della cieca adesione ai valori materiali degli anni ’80, ma priva di altri in cui credere. Probabilmente il tema, letto oggi, potrebbe risultare banale: non saremo illuminati da un pensiero rivelatore, in quanto il romanzo è costruito in modo artificioso da farcelo sembrare datato. Tuttavia si potrebbe obiettare che la mente può essere molto artificiosa, visionaria, allucinata, la cui artificiosità è incrementata dal contesto in cui viviamo e da quello che subiamo passivamente senza nemmeno rendercene conto.

Una serie di studi hanno collocato il romanzo Fight Club nella sezione “oggetto di ricerca”, utilizzando la teoria del strutturalismo genetico come strumento chirurgico poi usato come riferimento metodologico riguardante l’applicazione della teoria nella ricerca letteraria.

Senza dubbio Fight Club è un romanzo esistenzialista. L’esistenzialismo è uno dei maggiori flussi di filosofia che abbia mai colorato il mondo intellettuale in Europa. Tale movimento filosofico, iniziò come critica verso la tradizione filosofica classica portata da Socrate e Platone i quali credevano che ci fosse qualcosa in questo universo chiamato “essenza universale” o “natura” che si applica universalmente a tutto ciò che esiste. L’esistenzialismo ha negato tali teorie.

“L’esistenza precede l’essenza”, sosteneva Sartre e non esiste una natura assoluta sulle cose esiste in questo universo prima di quelle cose. Questa nozione pone la situazione esistenziale umana / individuale come il suo inizio. L’esistenzialismo rimanda un individuo come soggetto alla propria esistenza. Un individuo non è “qualcosa” finché non si trasforma in “qualcosa”. Sartre lo spiega brevemente: “… prima l’uomo esiste: si materializza nel mondo, si incontra e solo dopo definisce stesso. “

Di conseguenza, l’uomo è un’entità che ha una libertà infinita. Un individuo è libero di fare tutto ciò che vuole, compreso il superamento del limite dei vari
valori, norme o morale che lo circonda, è condannato ad essere libero. E Fight Club è un libro intriso si nichilismo, sangue, violenza, crudezza. Ma come si combatte il nichilismo e il consumismo tanto criticati? Come annientarli? Ben presto, il Fight Club si evolve in qualcosa di più spaventoso ed inquietante, un movimento anarchico nettamente contrapposto alla società consumistica moderna, che vuole annientarla tout court per ricominciare da zero:

Poi sei intrappolato nel tuo bel nido e le cose che una volta possedevi, adesso possiedono te.

È solo dopo che hai perso tutto, che sei libero di fare qualunque cosa.

In generale, Fight Club è una manifestazione di un “viaggio esistenziale”, nella fattispecie, il viaggio di un individuo nella sua ricerca di una vita significativa, autentica. Nel romanzo, il Narratore — o il problematico eroe, usando il termine di Goldmann – è un individuo che deve subire il viaggio esistenziale e tale viaggio inizia con una rappresentazione della vita del narratore che si trova nell'”assurdità della vita”. Il narratore è un giovane di successo ed economicamente consolidato, ma si sente vuoto con la sua “vita meccanica” (si occupa di automobili). Odia il suo lavoro e spera sempre di lasciarlo per sempre.

In Fight Club, il problema è, come si diceva, il narratore, il cui nome è sconosciuto fino alla fine della storia. Il narratore, il suo viaggio e la sua relazione con le circostanze da sole costruiscono un aspetto della trama del romanzo che oscilla tra teorie sociali e filosofiche, tra cui spicca quella del Marxismo.

I campi semantici contenuti in questo romanzo descrivono le condizioni e circostanze che circondano la vita del Narratore, e presenti in molteplici
livelli. Quindi, da ciascuno dei livelli menzionati, il Narratore ha provato a compiere un svolta per uscirne. Fuori dal livello precedente, il Narratore si è quindi confrontato di nuovo con campi semantici che mostrano le condizioni e le situazioni a diversi livelli. Quindi il narratore tenta di nuovo  una svolta e, di nuovo, si confronta con le condizioni e circostanze su un livello diverso.

L’assunto del Narratore del romanzo la cui vita diventa via via sempre più aggressiva, ed instabile è che questa è la vita che lui ha sempre cercato, ora diventa . Ma ora odia persino tutta la bellezza che lui non aveva mai avuto. Il tratto cinico del narratore raggiunge l’apice e si manifesta nella scena in cui lui, durante una riunione del Fight Club, combatte con il personaggio di nome Faccia d’Angelo. Il personaggio di Angel’s Face è, come suggerisce il nome, descritto come un bel ragazzo. Durante il combattimento, il narratore sembra molto turbato mentre batte la faccia di Angel’Face  fino a quando il suo volto non ha più tale forma.

Il desiderio di distruggere diviene un punto di svolta per il Narratore per districare i problemi che gli si presentano lungo la strada. Vedendo che il desiderio di distruggere del Narratore nell’ultimo combattimento, crescere in varie città degli Stati Uniti, Tyler Durden, sviluppa il Fight Club nel Project Mayhem. La presenza del campo semantico Project Mayhem contrassegna nuovamente il processo del Narratore nell’entrare in un’altra condizione di vita, a diversi livelli.

Jean-Paul Sartre, dieci citazioni per ricordarlo

Molto si è scritto su Jean-Paul Sartre (Parigi, 21 Giugno 1905 – Parigi, 15 Aprile 1980), filosofo controverso, politicamente impegnato, che in tanti hanno cercato di inquadrare e collocare dove più faceva comodo. Ma perché Sartre è stato così importante questo filosofo francese, soprattutto negli anni in cui sono esplose le vere rivoluzioni culturali e sociali? Quali sono state le questioni che ha sollevato? Quale responsabilità collettiva bisognava avere a quei tempi? Che poi sono anche i nostri, quelli di oggi?

Sartre ha posto al centro della sua riflessione l’infelicità e la solitudine dell’uomo, che è profonda e non conosce tregua. Ed è la solitudine dell’uomo che si incontra e scontra con altri soggetti umani, provocando ora amore, ora odio. Una solitudine che poneva e pone delle domande. Parliamo di un uomo che, in una società moderna come quella borghese, che non ha eliminato i contrasti tra le classi, ha appoggiato la classe operaia elevandola a soggetto dell’umanità, difendendone i diritti, gli unici ad essere ritenuti giusti.  Un uomo che ha scelto la letteratura come risposta alla realtà, cercando di fuggire quanto più possibile dall’errore di porre un muro con gli altri. Il mondo sognato dal filosofo era, notoriamente, quello della conversione di ognuno, della ”rivoluzione permanente”, dell’uomo ”da fare”, che getta i fondamenti per una nuova morale da costruire.

Sartre ha inteso come un impegno l’attività di ”esprimere il mondo” perché l’uomo di cultura, il filosofo, deve porsi come funzionario dell’umanità , al servizio di essa , uscendo finalmente dall’isolamento borghese in cui era confinato.

Di seguito, alcune delle sue più famose citazioni che indubbiamente fanno riflettere:

1. Per molto tempo ho preso la penna per una spada.

2. Gli oggetti son cose che non dovrebbero commuovere, poiché non sono vive. Ci se ne serve, li si rimette a posto, si vive in mezzo ad essi: sono utili, niente di più. E a me, mi commuovono, è insopportabile. Ho paura di venire in contatto con essi proprio come se fossero bestie vive.
Ora me ne accorgo, mi ricordo meglio ciò che ho provato l’altro giorno, quando tenevo quel ciottolo. Era una specie di nausea dolciastra. Com’era spiacevole! E proveniva dal ciottolo, ne son sicuro, passava dal ciottolo nelle mie mani. Sì, è così, proprio così, una specie di nausea nelle mie mani.

3. L’insieme storico decide in ogni mutamento dei nostri poteri, prescrive i loro limiti al nostro campo d’azione e al nostro avvenire reale; condiziona il nostro atteggiamento nei confronti del possibile e dell’impossibile, del reale e dell’immaginario, dell’essere e del dover essere, del tempo e dello spazio. E’ a partire da esso  che decidiamo a nostra volta dei nostri rapporti con gli altri, cioè del senso della nostra vita e del valore della nostra morte.

4. È dunque questa, la Nausea: quest’accecante evidenza? Quanto mi ci son lambiccato il cervello! Quanto ne ho scritto! Ed ora lo so: io esisto — il mondo esiste — ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi è indifferente. È strano che tutto mi sia ugualmente indifferente: è una cosa che mi spaventa. È cominciato da quel famoso giorno in cui volevo giuocare a far rimbalzare i ciottoli sul mare. Stavo per lanciare quel sassolino, l’ho guardato, ed è allora che è incominciato: ho sentito che esisteva. E dopo, ci sono state altre Nausee; di quando in quando gli oggetti si mettono ad esistervi dentro la mano. C’è stata la Nausea del «Ritrovo dei ferrovieri» e poi un’altra, prima, una notte in cui guardavo dalla finestra, e poi un’altra al giardino pubblico, una domenica, e poi altre. Ma non era mai stata così forte come oggi.

5. Non ci sono bambini”innocenti”.

6. La pace non è né democratica né nazista: è la pace.

7. Mi si dia qualcosa da fare, qualsiasi cosa… È meglio che pensi ad altro, perché in questo momento sto per recitarmi la commedia. So benissimo che non voglio far niente: far qualche cosa è creare dell’esistenza — e di esistenza ce n’è già abbastanza.

8. A Napoli ho scoperto l’immonda parentela tra l’amore e il Cibo. Non è avvenuto all’improvviso, Napoli non si rivela immediatamente: è una città che si vergogna di se stessa; tenta di far credere agli stranieri che è popolata di casinò, ville e palazzi. Sono arrivato via mare, un mattino di settembre, ed essa mi ha accolto da lontano con dei bagliori scialbi; ho passeggiato tutto il giorno lungo le sue strade diritte e larghe, la Via Umberto, la Via Garibaldi e non ho saputo scorgere, dietro i belletti, le piaghe sospette che esse si portano ai fianchi. Verso sera ero capitato alla terrazza del caffè Gambrinus, davanti a una granita che guardavo malinconicamente mentre si scioglieva nella sua coppa di smalto. Ero piuttosto scoraggiato, non avevo afferrato a volo che piccoli fatti multicolori, dei coriandoli. Mi domandavo: «Ma sono a Napoli? Napoli esiste?»

9. A che serve arrotare un coltello tutti i giorni se non lo si usa mai per tagliare?

10. Il lavoro migliore non è quello che ti costerà di più, ma quello che ti riuscirà meglio.

Albert Camus e l’assurdo: quando il destino ci appartiene come le tragedie della vita

Per dibattere intorno alle ragioni dell’esistenza nel Novecento, nulla era più utile del colloquio con una delle personalità più rappresentative e attuali di una stagione irripetibile dl’Europa, quella di Albert Camus, in cui il critico piemontese Giacomo Debenedetti individua l’emblema dell’interrogazione radicale dell’uomo occidentale alla ricerca di se stesso in un contesto ostile. Nel saggio dedicato al grande scrittore francese, il discorso si struttura tra le due nozioni contrapposte di “avventura” e “destino”; la prima è essere gettati nel mondo senza punti di riferimento, senza padre, madre, Dio e trovarsi nella solitudine circondati dalla foresta di cui non si conoscono più i sentieri. La seconda consisterebbe invece nel proseguire questa ricerca fino in fondo riconoscendo ed abbracciando la dolorosa opera come propria. L’uomo occidentale ha distrutto ogni certezza, ma è nella fase dell’avventura, è solo e turbato, incapace di vivere nel mondo.

Albert Camus e l’esistenzialismo

I temi dell’esistenzialismo hanno raggiunto al cuore le desolazioni che gli uomini di oggi sperimentano nel loro buio, ma come ha notato Albert Camus, molti filosofi esistenziali di fronte alla ragione umiliata dal non poter dare una risposta ai perché del mondo, abdicano ad essa: in Dio o nell’essere trascendentale o nelle essenze extra-temporali. Camus no. Con grande ostinazione, egli si aggrappa all’unica certezza dell’assurdo, che non è una verità che si dimostra logicamente, ma una sensazione che si manifesta in modo evidente all’uomo e che scaturisce dall’incontro tra ciò che è umano, la ricerca di senso e di unità, con il mondo irrazionale, con cui si può convivere o da cui bisogna fuggire attraverso il suicidio. Ma fuggire significa sopprimere l’assurdo e la sola opzione possibile è quella di vivere in un mondo dove non ci sono ragioni di vita. Il discorso del Mito di Sisifo ne segnala il coraggio presentando le tre regole della rivolta, della libertà e della passione. Più cordiale risulta la considerazione di Debenedetti riguardo a Lo straniero e del suo protagonista, personaggio profondo fino a toccare “le radici di un essere predestinato alla rivelazione dell’assurdo”. Alle spalle dell’avventura assurda c’è Freud con la sua presa d’assalto della centrale dei divieti. I comportamenti di Meursault esprimono della loro apparente gratuità, un segreto che si nasconde in una zona anteriore alla rivelazione dell’assurdo. Il suo disastro è “una guarigione sbagliata , la sua malattia è la madre”, intesa come sistema di autorità e di divieti cui l’uomo continua a subordinarsi. Chiudendola in un ospizio il protagonista del romanzo, allontana la madre da sé unicamente dal punto di vista fisico e solo alla sua morte, vorrà dimostrarsi che non esistono più divieti. Come Sisifo, Meursault diviene l’autore del suo destino.

Dice infatti Albert Camus: “C’è un solo problema filosofico veramente serio: il suicidio. Giudicare se la vita vale o non vale la pena di essere vissuta significa rispondere alla questione fondamentale della filosofia”. Per lo scrittore francese gli argomenti etico-religiosi e sociali tradizionalmente invocati contro il suicidio non valgono perché la vita non ha valore intrinseco, e la realtà ” è senza ragione ” e la morte è comunque l’esito che aspetta ogni essere vivente. La dimensione costitutiva dell’esistenza umana è dunque l’assurdità: le cose e gli eventi non hanno senso, e gli atti umani sono sempre inadeguati in riferimento alle possibilità e ai desideri che ha l’uomo. Prosegue Camus: “L’assurdo è un peccato senza Dio” . Il suicidio quindi è resa all’assurdo, di cui si deve invece prendere coscienza per impegnarsi a vivere nel modo più pieno possibile. Se ci si arrende all’assurdo, allora tutto diventa possibile e giustificabile.

Infatti, in opposizione al suicidio, l’autore auspica un’etica fondata sul “vivere” più intensamente, nel senso di «trovarsi di fronte al mondo il più spesso possibile»; in questo senso la vita dell’uomo ha valore in relazione ai grandi progetti che è capace di realizzare. Non a caso Camus chiude con la figura di Sisifo felice e la felicità è l’altra faccia della medaglia dell’assurdo. Tutta la gioia di Sisifo risiede nella consapevolezza che il destino gli appartiene come le tragedie della vita.

Tale ragionamento si approfondisce nel saggio Personaggi e destino in cui si individuano nell’epica moderna due momenti: l’epica della realtà e l’epica dell’esistenza. La crisi dell’epica della realtà è segnata per Debenedetti dalla rivolta, dallo “sciopero dei personaggi”, dalla loro richiesta di nuovi diritti nei confronti dell’autore.

 

Bibliografia: Angela Borghesi, La lotta con l’angelo.

L’intellettuale dissidente

l’Idiot de la famille, di Jean Paul Sartre

Jean-Paul Sartre, prima di ogni altra cosa, è stato un intellettuale borghese, un uomo che si è occupato di letteratura, che ha fatto letteratura.

Sartre e la scommessa con Garaudy

Nel 1972 escono i tre volumi di un’opera, L’idiot de la famille, L’idiota della famiglia, dedicata a Gustave Flaubert; l’idea nasce da una sorta di scommessa da parte di Sartre con il suo compagno di partito Roger Garaudy che gli propone di dedicare un saggio a un personaggio della letteratura al quale egli avrebbe risposto a sua volta con un altro lavoro. Sartre avrebbe dovuto adottare il metodo esistenzialistico, Garaudy quello marxista. Questa la proposta, questi i patti. Così Sartre si mette all’opera. Lo scrittore francese ha letto da sempre Flaubert, è entusiasta di questo compito, al punto che ci suona strano sentire che detesti proprio quello scrittore del quale troviamo riscontro in tante delle sue opere. Una scelta motivata da cos’altro la sua? Sartre vuole misurarsi con Flaubert, comprendere quali sono le ragioni che lo hanno spinto a scegliere l’arte e la letteratura come rimedio a tutti i mali, perché si sia appellato all’arma della parola. La trama dell’opera ha come protagonista il piccolo Gustave durante i primi anni della sua vita, ”accusato” di essere un idiota perché affetto da una forma di autismo che gli impedisce di vivere come vorrebbe. Forse è proprio in questa condizione di emarginazione che possiamo cogliere l’interesse di Sartre per l’esistenza complessa di questo bambino di otto anni e in quella che è la lotta quotidiana contro i suoi simili, in quel rapporto con l’Altro ed il suo sguardo , quell’Altro che non ci ha mai lasciato nell’analisi del pensiero di Sartre e del suo esistenzialismo.

La letteratura come arma di riscatto sociale

Nel momento in cui Gustave conquista la parola, ha diritto a esprimersi nella società e smette di essere considerato un idiota. Flaubert combatte l’altro proprio con la scrittura, fa sì che ciò che resta di quello che era non venga ora annientato. Si tratta di un passaggio semplice per Sartre, forse troppo. La parola è un mezzo mistificatore e Sartre rimprovera allo scrittore francese la sua presa di posizione in quanto intellettuale, che si può riassumere in un aristocratico distacco dalla società, in una scelta di comodo, se vogliamo. La critica di Sartre mira a dissacrare tutti i principi su cui si erano fondate le teorie psico-sociali su cui si poggiava il pensiero di Flaubert e stende un romanzo che ha il sapore di una monografia poco obiettiva e poco concreta sulla vita dell’autore e le sue scelte. Lo stesso Sartre dichiara di volersi dedicare allo scrittore leggendolo e presentandolo sotto un’ottica nuova, riesaminandone le opere. Ciò che prova a fare è studiare il passato di Flaubert legandolo imprescindibilmente non solo alla sua posizione di borghese attuale ma anche alla sua identità di scrittore, anzi tenta di giustificarne le scelte proprio in virtù di quella che è stata la sua condizione prima di bambino e ora di uomo. L’autore francese porta avanti un’analisi psico-esistenziale della persona Flaubert e giunge alla conclusione che “l’idiot de la famille” abbia scelto la letteratura come rifugio, come momento positivo e di riscatto e rivalsa nei confronti di un passato negativo, fatto di umiliazioni profonde; quindi uno scrittore ”provato” e combattuto, incompreso nelle sue sfumature di uomo intellettuale e alla ricerca costante della sua identità, come in una nevrosi che conduce a morte certa.

Sartre sostiene che i personaggi scelti per ogni suo romanzo siano degli alter ego del piccolo idiota (la stessa Madame Bovary). Un autore, Flaubert, che si è consumato in una rabbia umana e letteraria inesauribile per le vicende che lo hanno interessato; un filosofo, Sartre, che ha dedicato il suo tempo all’analisi psicologica e allo studio a trecentosessanta gradi di un mostro sacro della letteratura come lo è stato Flaubert.

“Dingo”: il cane di Mirbeau e il post realismo

Octave Mirbeau è uno di quegli autori marchiato dal sottotitolo: “dimenticato dalla critica”. Vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, Mirbeau non ha avuto vita facile: molte sue opere e commedie teatrali sono state travisate addirittra per romanzi erotici, e quindi censurati, tanto della rottura delle stantie moralità che ha rappresentato.

Tra i grandi innovatori del romanzo, tra i più fini traghettatori verso un nuovo modo di scrivere, Mirbeau nelle sue opere riesce a far intravedere in filigrana quello che Marinetti andava teorizzando in quel periodo. Ci sono diversi livelli di lettura di questo romanzo, strano, particolare, ma che a noi lettori del duemila non deve sorprenderci: per noi che abbiamo il quadro della storia già completo e non dobbiamo far altro che voltarci indietro e guardare, magari non sorprenderà molto che lo scrittore riesce a segnare anche una tensione che decreta netta distanza dal passato balzachiano e degli echi zoliani. Non a caso sono suoi i tre capitoletti, censuratissimi all’epoca, che ha chiamato proprio “La morte di Balzac”. Per sua stessa definizione, o meglio, “autodefinizione”, Mirbeau è un espressionista, un Van Gogh dalle nervose e imprevedibili pennellate.

Dingo, insieme a La 628-E8, il romanzo che ha per protagonista una automobile, rappresenta proprio una di queste pennellate folli, ma di quella follia che serve a spingere oltre l’asticella dell’umano possibile. Pubblicato nel 1913, Dingo è un romanzo che vede come protagonista un cane. Il narratore-personaggio è coinvolto solo da spettatore nell’opera: assiste come potrebbe assistere ognuno di noi. Forse dietro questo scrittore spigoloso, che non sopporta le ipocrisie, duro e irreprensibile, c’è forse l’alter ego di Mirbeau: ma non è questo quello che di questo romanzo preoccupa più di tanto.

“Preoccupano” invece le infinite (o perlomeno molteplici) possibilità di lettura. Dingo è un cane selvaggio, che, affamato, arriva al piccolo paesino di Ponteilles-en-Barcis, nel Vexin. È affamato, ammazza le pecore, semina terrore. Si aggira e vagabonda. Una ondata di selvaggia prepotenza. Ma non fa male a nessuno: un po’ come la bella Juliette Binoche in Chocolate, che arriva vestita di rosso e apre una cioccolatteria nel bigotto paesino.

A proposito delle molteplici possibilità interpretative: <<Surtout un chien tel que Dingo, “animal réfractaire à la classification par espèces”, et qui, au lieu de n’être qu’une copie conforme fabriquée en série, est tout à la fois, selon Pierre Dufief, “un individu unique”, un “modèle esthétique” contrastant avec la laideur ambiante des humains>> (<<Soprattutto come cane Dingo “animale refrattario alla classificazione per specie” e che, invece di essere una copia fatta in serie è allo stesso tempo, secondo Pierre Dufief “, un individuo unico” un “modello estetico” in contrasto con la bruttezza della specie umana>>) È quello che dice Pierre Michel parlando di questo libro. E ancora: <<L’ennui, pour cette interprétation naturiste, c’est que Dingo n’est pas seulement un de ces  bons chiens chantés par Baudelaire, compagnons de misère des poètes et des marginaux, modèles de pitié pour les humbles et les souffrants de ce monde>>. (<<Il problema di questa interpretazione naturista è che Dingo non è solo uno di questi buoni cani raccontati da Baudelaire, compagni di poeti miseria e modelli marginali di pietà per gli umili e per la sofferenza di questo mondo>>.)

Insieme al suo padrone, attraversano la Svizzera, l’Italia, la Germania: pian piano il suo padrone si accorge delle grandi e non comuni abilità del suo cane. A volte è rabbioso, aggredisce le persone, altre è mansueto e sembra farsi carico di una umanità forse anche sconosciuta agli stessi umani.

Durante questo lungo viaggio, tra l’uomo e il cane si stabilisce un legame profondo, intimo, come se Dingo non fosse un cane: “À Paris, Dingo redevint triste. Il ne sut plus que faire. Trop de gens, trop de maisons, de rues encombrées, plus assez d’espaces et de grands horizons. Il languissait, s’étiolait, ne montrait aucun empressement à sortir, dormait presque tous les jours, roulé en boule, sur des cousins”. (“A Parigi, Dingo è diventato triste. Non sapeva cosa fare. Troppe persone, troppi case, strade affollate, sufficienti spazi e ampi orizzonti. Lui languiva, è appassito, non ha mostrato alcuna smania di uscire, dormiva quasi tutto il giorno, raggomitolato su cugini.”)

È un romanzo in cui le solitudini si incontrano: o meglio, Dingo le mette in risalto, come se le evidenziasse quando si accosta a uno dei qualsiasi personaggi: Sir Herpett,  Jules Claretie. Di questo ce ne rendiamo conto quando Dingo muore, lasciando solo il suo “compagno umano”, che tanto aveva voluto allontanarsi dai suoi simili.

Dingo è un testo di satira sociale, come molta critica francese afferma: è forse giusto non divagare troppo e dare una più o meno netta sistemazione a questo romanzo. Anche se le speculazioni filosofiche, gettate come semi in tutta l’opera letteraria e teatrale di Miabeau, non possono esimerci dal leggere anche questo romanzo con gli occhi offuscati dalla patina della satira. La tecnica di Mirbeau sembra incavarsi in quel solco di destrutturazione dell’io, quell’allontanarsi dall’essere. Con personalità come questa non bisogna essere prevenuti ed affidarsi ciecamente alla critica: è innanzitutto uno sperimentatore, uno dei primi che lascia spazio al lettore, che lo lascia libero di pensare, che non lo immobilizza in pagine di crudo realismo.

 

Jean-Paul Sartre: dalla Melancholia di Dürer a “La nausea”

La nausea è un romanzo di Jean-Paul Sartre, scritto nel 1932 e pubblicato nel 1938. In origine l’opera prendeva il nome di Melancholia, in onore dell’incisione del 1514 di Albrecht Dürer. Sartre usa gli oggetti come espressione dell’esistenzialismo dell’uomo e probabilmente scelse quest’opera per la rappresentazione di alcuni oggetti: una bilancia, un cane scheletrico, attrezzi da falegname, una clessidra, un solido geometrico (un “troncato romboedrico” o “poliedro Dürer”), un putto, una campana, un coltello, una scala a pioli, che rappresentano alchemicamente la difficoltà di tramutare il piombo in oro. È possibile compararli con il protagonista Antoine Roquentin che non riesce a portare a termine una tesi di storia su un avventuriero del XVIII secolo, il signor de Rollebon.

Altri simboli all’interno dell’incisione, quali l’arcobaleno e la cometa ci rimandano al sentimento di malinconia che Sartre probabilmente tramutò in nausea: un malessere che scava nella dimensione psicologica nei confronti dell’esistenza dell’uomo, in relazione all’ambiente circostante. Gli oggetti quindi diventano claustrofobici, castrano l’io e rappresentano quel “troppo” che non ci fa vivere serenamente, ma con un peso allo stomaco, tipico della nausea. Non sono solo gli oggetti che opprimono l’io sartriano, ma anche la società, che stabilisce con le sue regole fisse che un individuo esiste solo se un altro sa della sua esistenza. In accezione pirandelliana, anche Sartre compie riflessioni sull’io:

Forse è impossibile comprendere il proprio viso. O forse è perché sono solo? Le persone che vivono in società hanno imparato a vedersi, negli specchi, esattamente come appaiono ai loro amici. Io non ho amici: che sia per questo che la mia carne è così nuda? Si direbbe… sì, si direbbe la natura senza gli uomini.

È evidente come l’assenza di persone che possono ben identificarlo, in questo caso gli amici, comporta il sentirsi solo carne, per giunta nuda, che sottintende l’esistenza umana, ma senza umanità.

Albrecht Dürer, Melancholia

Soffermiamoci su un altro oggetto: le chiavi che rappresentano la conoscenza in grado di liberare l’uomo dal suo stato melanconico, e, insieme al pipistrello, simbolo della luce che spazza le tenebre, forniscono una soluzione all’esistenza umana. Sartre ci offre una soluzione al suo stato di nausea, nel finale del romanzo che, più propriamente, chiamerei diario filosofico: attraverso un costante richiamo alla canzone Some of these days (indelebile capolavoro), ci offre la possibilità di giustificare la propria esistenza.

Non resta che svincolarsi dalle logiche sociali precostruite dalla società e produrre un’opera indimenticabile, così da lasciare una traccia di sé che perduri ab eterno. Superando l’assenza di una donna, Anny, che contribuisce ad acuire il vuoto esistenziale, Sartre ci offre la soluzione per non avere ripugnanza del proprio passato e dell’esistenza vissuta in solitaria:

Forse un giorno, pensando precisamente a quest’ora, a quest’ora malinconica in cui attendo, con le spalle curve, che sia ora di salire sul treno, sentirei il mio cuore battere più in fretta e mi direi: quel giorno a quell’ora è cominciato tutto. E arriverei – al passato, soltanto al passato – ad accettare me stesso.

Non è l’amore, né la condizione sociale di accettazione dell’io che appaga Antionio Roquentin, bensì l’autoerotismo derivato dalla produzione di un’opera d’arte.

“La Metamorfosi”, il romanzo-confessione di Kafka

Protagonista de La Metamorfosi è Gregor Samsa, commesso viaggiatore, vive una notte piena di incubi e, come d’improvviso, si risveglia trasformato in scarafaggio. Gregor crede di sognare ma l’impatto che segue è traumatico, il racconto che ne fa ripugnante. Questo è l’esordio: Gregor fa tardi a lavoro. I familiari, essendosi accorti del suo strano ritardo,  giungono ma nessuno immagina, nessuno comprende. Arriva poi anche il suo capo-ufficio, preoccupato per l’assenza.  Gregor è lì, dietro la porta ma è inerme, non riesce ad alzarsi dal letto, ad aprire la porta, vorrebbe spiegarsi, muoversi,  ma risultano tutti disperati tentativi. Quando la porta si apre, la madre sviene e tutti assistono alla più terribile delle scoperte. L’orribile scarafaggio viene costretto a rintanarsi nella sua stanza, troppa è la vergogna, bisogna nasconderlo.

Lo Scarafaggio passeggia per le pareti, cerca di far sentire la sua presenza ma tutti ignorano. La famiglia, di stampo piccolo-borghese, venuto meno il lavoro di Gregor che si occupava del sostentamento di tutti, vive in ristrettezze economiche. Si hanno dei capovolgimenti devastanti che rompono ogni equilibrio. Il padre non è più quell’uomo severo che trascorreva la sua vita osservando, a distanza,  quella del figlio. Il figlio-scarafaggio ed il padre-padrone adesso giocano a rincorrersi. La sfida è nella fuga di Gregor, perché essere un insetto costitutiva una colpa imperdonabile. La madre e la sorella Grete sono figure onnipresenti ma emotivamente imperscrutabili. La famiglia, che dovrebbe proteggerlo, lo evita e lo isola. Continuare ad esistere, per Gregor, è il gesto più coraggioso e rivoluzionario che possa compiere. Nella nuova vita del commesso viaggiatore, c’è pietà e c’è orrore. I ruoli cambiano ma restano ingombranti. Gregor vorrebbe controllare tutto, ma i suoi pensieri restano intrappolati nella testa incastrata in un corpo repellente con cui dovrà necessariamente convivere. La dimensione umana e quella naturale coesistono. Il nostro protagonista  non  puo’ evadere, la regressione ha inizio proprio con la metamorfosi. E vi è tutta l’angoscia di chi conserva sentimenti umani istinti, possiede ricordi ma è diventato animale.

Ne La Metamorfosi, accanto alla trascrizione di una situazione autobiografica che riguarda il suo rapporto conflittuale con il padre, (al quale scriverà anche la famosa Lettera al Padre),  troviamo il tema della solitudine dell’uomo che viene rifiutato dalla società (con un’attenzione particolare, per forza di cose, alla quella praghese). Forte è senso di pietà che prima emerge e poi si annienta,  tipico dell’angoscia esistenziale di Kafka, considerato uno dei precursori dellesistenzialismo.

Kafka mostra come la vita senza saper vedere le cose,possa essere una condanna ( il riferimento al romanzo Con gli occhi chiusi di Tozzi viene spontaneo). Ma cosa ambisce a vedere il personaggio di Kafka? A questa domanda risponde acutamente il critico Giacomo Debenedetti nel suo Il romanzo del Novecento. Il personaggio kafkiano, secondo Debenedetti, cerca Dio in una delle immagini più consuete, severe e dolci al tempo stesso, ovvero il padre. Nell’opera di Kafka vi è la confessione di un complesso edipico, la forza dello scrittore sta anche  nella lucidità con cui analizza sul versante del visibile ciò che proviene dalle spinte e dai travagli inconsci. Il fenomenale paradosso di Kafka, come nota ancora Debenedetti, è che egli ha tutta l’aria di portare alla propria e alla nostra coscienza qualcosa che continua ad operare con l’intatta forza dell’inconscio. In parole povere Kafka riesce a farci toccare con mano l’invisibile.

In un lasso di tempo davvero brevissimo Gregor si trova a dover fare i conti con la nuova realtà che gli si prospetta. Non puo’ reagire, è impotente, preda, vittima, è l’uomo di oggi. Dall’inizio alla fine, constatiamo l’annullarsi di ogni sentimento, come in un percorso discendente. Di peggio puo’ esserci solo la perdita di ogni contatto con se stessi. Perché la nostra voce somiglia a quella di qualcun’altro? Qualcuno che però non conosciamo?  Perché il corpo che ci faceva da scudo e ci conteneva ora è corazza, guscio, limite?
La vicenda di quest’uomo solo che, rassegnato,  finisce per rifiutare il cibo e deprimersi ogni giorno di più, si conclude con la sua morte. Una morte voluta, che non causa dispiacere, come se fosse quasi meritata, attesa da padre, madre e sorella per porre fine ad una serie di incubi. In questo atteso epilogo, c’è la riconciliazione, la speranza di una nuova vita,  il mostro è finalmente esiliato e il cerchio si chiude.
LaMetamorfosi pubblicato nel 1912, ci racconta la vicenda dell’uomo immerso nella tragedia del suo tempo : un essere alienato che, però,  non si rassegna.
Ci sembra opportuno chiudere proprio con una confessione del grande scrittore:
Un’immagine della mia esistenza sarebbe una pertica inutile, incrostata di brina e neve, infilata obliquamente nel terreno, in un campo profondamente sconvolto, al margine di una grande pianura, in una buia notte invernale. (dai Diari).
 


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