“C’è chi”, la realtà secondo Wislawa Szymborska

Wisława Szymborska è stata una delle più illustri poetesse del 900′, tanto da ottenere il premio Nobel nel 1996 nonché una delle più insigni e rappresentative della sua terra, la Polonia. Nasce a Kòrnik, un piccolo paese della Polonia centrale nel 1923, all’età di otto anni, assieme alla famiglia si trasferisce a Cracovia, città che le rimarrà impressa per la vita. Riesce a sfuggire alla deportazione in Germania, e riesce a compiere studi seppure irregolari in Polonia.

Wislawa comincia a pubblicare i suoi lavori nel dopoguerra e incontra le prime difficoltà con la censura socialista dell’epoca, a cui aderisce e in cui si impegna politicamente fino al 66′. Nella sua vita pubblica opere di notevole importanza artistica e che riscossero anche un grande successo come ad esempio Dwukropek (Due punti) datato 2005, che ne fanno un autrice imperdibile per qualunque appassionato di letteratura.

La poetica di Wislawa viene spesso riassunta in poche parole: stupore, ironia, fremito e meraviglia. Inoltre nelle sue poesie è facile scovare nel linguaggio semplice e diretto, temi di carattere filosofico-esistenziale, che toccano l’umanità in ogni aspetto, collettivo o personale, facendo della poesia di Wislawa una delle più umane di questo secolo, perché comunica a tutti e comunica di tutti.

C’è chi è una poesia della raccolta postuma Basta così,  la quale si presenta come una meditazione sul carattere assolutista del determinismo e sulla pressante voglia di stilizzare e definire tutte le cose univocamente; volendo effettuare un parallelo con un altro autore del 900′, C’è chi si presenta come un’osservazione sagace sulla realtà dell’umanità come Io temo tanto la parola degli uomini di Rilke. In effetti le due poesie hanno in comune la stessa febbre e rabbia, ovvero la prepotenza degli uomini che credono di poter decidere del mondo o che credono di dover sapere come esso sia stato deciso. Ovviamente i testi nelle idee e nelle espressioni, oltre che nel fine si discostano notevolmente.

C’è chi

C’è chi meglio degli altri realizza la sua vita.
È tutto in ordine dentro e attorno a lui.
Per ogni cosa ha metodi e risposte.

La poesia comincia con un ritratto freddo e preciso. La persona o meglio l’atteggiamento di cui si parla è un atteggiamento solenne, apparentemente di libertà e di altissima risonanza interiore, è un atteggiamento di pregevole sicurezza, perché ogni cosa è al suo posto e tutto è in ordine, sembra quasi un idillio nell’odierna società divora-uomini, trovarsi a provare queste cose.

È lesto a indovinare il chi il come il dove
e a quale scopo.

La capacità e la forza di questo “uomo” è anche futura oltre che pregressa, non ha problemi ad adattarsi alle più svariate situazioni.

Appone il timbro a verità assolute,
getta i fatti superflui nel tritadocumenti,
e le persone ignote
dentro appositi schedari.

Il superfluo viene gettato via, come in una macchina perfetta, creata appositamente, e le verità non sono discutibili, non possono essere smentite e le persone ignote o quelle da non ricordare vengono sistematicamente eliminate, ma sempre con ordine.

Pensa quel tanto che serve,
non un attimo in più,
perché dietro quell’attimo sta in agguato il dubbio.

La poetessa ora comincia a delineare qual’è la debolezza di questo atteggiamento. La persona in questione pensa quel tanto che serve a non smentirsi da solo perché sa bene che la sua vita è vuota. In questo atteggiamento si svela la sua profonda fragilità: ella non può pensare, perché il pensiero diverrebbe il canale della verità e del risveglio, mentre ella preferisce un torpore onesto che dà una sottile gioia di ozio e la sottomissione a uno stile di vita assoluto e non vario, fisso e non variabile.

E quando è licenziato dalla vita,
lascia la postazione
dalla porta prescritta.

Questa persona opera un ragionamento lucido e distaccato, sa che dovrà morire e come dovrà andarsene. Non teme la morte perché la pensa come una porta obbligatoria e non la contempla più di quel che è, il licenziamento dalla vita.

A volte un po’  lo invidio
– per fortuna mi passa.

In questi ultimi versi la poesia di Wiaslawa si carica di un giudizio solenne e ironico, il marchio della poetessa, che diventa derisione e insieme canto di rivendicazione per la propria vita.
Tutta la sicurezza, la freddezza e la preparazione metodica al mondo, fanno di questa fantomatica persona l’ideale di uomo da seguire, per il coraggio che mostra ma che in fondo non sa cosa sia, per la vita che vive ma non possiede e per la sua risolutezza assoluta.

Ed è proprio qui che l’autrice polacca prende le distanze, ella preferisce il dubbio all’assolutismo che è sempre vuoto e insipido di conoscenza. Preferisce avere qualche ripensamento, tremare alla vista della morte, rimpiangere gli amici persi, preferisce vivere. E quando si ricorda di questo, ella ricorda che c’è chi, semplicemente non vive. E il giudizio che la poetessa da a queste persone è feroce: per fortuna mi passa, per fortuna non sono come loro.

Si presentano dunque due casi distinti ed un ammonimento. La distinzione è operata tra chi vive sopravvivendo e chi sopravvive vivendo. La poetessa critica aspramente i primi, infatti essi cercheranno sempre di trovare via di fuga  al dolore, per il loro mestiere assoluto di sopravvivere e li critica nei comportamenti e nella paura, nel rifugio alla cieca certezza e nel vendersi ad un assolutismo che non muta. Mentre i secondi invece vivranno il dubbio perché esso è insito nella vita stessa degli uomini e ne rende tutte le cose più vive, perché essi vivono come tesi tra due estremi inconciliabili e seppure appariranno più turbati, più preoccupati e apparentemente meno felici, essi saranno i più vivi e saranno coloro che quando sapranno rispondere, quando avranno i metodi, sarà perché hanno cercato la risposta e non perché l’avranno solo accettata.

“I fiori vengono in dono e poi si dilatano”, viaggio nel mondo di Amelia Rosselli

Amelia Rosselli (1930-1996) è una poetessa unica nel suo genere. Aploide, disimpegnata e acattolica,  in pieno contrasto con l’Italia del suo tempo. La Rosselli nasce a Parigi nel 1930 da Carlo Rosselli, esule italiano e fervente idealista anti-fascista che viene assassinato, assieme al fratello, quando Amelia ha appena 7 anni.

Dopo la morte del padre e dello zio, per Amelia comincia una vita “nomade”, che la vede prima in Svizzera, in America e infine anche in Inghilterra, dove studia musica, letteratura e filosofia. Scopre l’Italia a sedici anni e vi si trasferisce permanentemente. Questo “ritardo” e questa vita da esule, lontana dal suo paese, danno alla donna una forte componente aploide, che resterà presente nelle sue opere successive.

In Italia collabora con varie riviste e lavora a varie traduzioni di autori stranieri, conoscendo intellettuali come Rocco Scotellaro, Carlo Levi e Pasolini. Comincia anche a pubblicare alcuni suoi lavori, come Variazioni belliche (1964), Serie ospedaliera (1969), Documento (1966-73). Nonostante questa fecondità letteraria ella in questi anni è turbata dalla morte della madre (1949) e da alcune vicissitudini biografiche che la porteranno a numerosi e continui esaurimenti nervosi. Fino alla fine della sua vita, nel 1996. Tra le sue opere ricordiamo: Sleep. Poesie in inglese (1992), La libellula (1985).

L’unicità della poetessa è da ricondursi oltre che alla sua storia e alla sua vita all’insegna della letteratura e della poesia, alla fondamentale caratteristica della sua opera. Il suo plurilinguismo e la sua voglia di infondere in ogni opera la musicalità e comporre una poesia come se si stesse componendo un opera musicale. Infatti si può cogliere il peso degli studi giovanili che ritorneranno sempre sotto vari aspetti nella sua variegata opera.

I fiori vengono in dono e poi si dilatano, è una poesia della raccolta Documento, e si presenta come un’osservazione e un’interpretazione della bellezza della vita e del mondo, con un pessimismo ed un amarezza sottile e cosmica:

I fiori vengono in dono e poi si dilatano
una sorveglianza acuta li silenzia
non stancarsi mai dei doni.

I fiori rappresentano un dono da fare, un dono semplice e immediato, che però riveste una profonda importanza. Il fiore viene dalla terra e della terra ha il sapore e la consistenza, così come l’uomo. Poi si dilatano perché sbocciano o perché appassiscono forse. E noi con la nostra sorveglianza, con il nostro contemplarli, facciamo silenzio nella loro vita e nella loro essenza, rendendoli semplici doni e scordandoci che essi sono anche esseri, così come può accadere con gli uomini.

Il mondo è un dente strappato
non chiedetemi perché
io oggi abbia tanti anni
la pioggia è sterile.

L’iniziale riflessione sull’allegria di ricevere un dono così semplice, ma prezioso, va sbiadendo nella triste constatazione del dolore del mondo, il mondo è un dente strappato, e il tempo passa senza neanche sentirlo sulla pelle, cambia i nostri volti senza nemmeno toccarci. E la pioggia diventa sterile, perché uccide i fiori e con essi la felicità.

Puntando ai semi distrutti
eri l’unione appassita che cercavo
rubare il cuore d’un altro per poi servirsene.

Qui il parallelo viene fatto per l’amore, il tempo tipico dei fiori, della felicità e della tristezza. Nella nostra fragilità, nei nostri semi distrutti che tentiamo di unire con altri semi distrutti per rinascere, si traduce il verso “rubare il cuore di un altro per servirsene”, infatti  allo scopo di ricreare quell’iniziale felicità tipica dello sbocciare, del tempo in cui si è finalmente completi, si cercano altri fiori con cui combinarsi.

La speranza è un danno forse definitivo
le monete risuonano crude nel marmo
della mano.

La speranza è un danno che segna indelebilmente l’anima, infatti nel desiderio di avere e nell’impossibilità di avere si prova un’infelicità che smorza ogni possibile risvolto positivo di cui si parla nella terza strofa e le monete, che rappresentano la materialità, suonano come vuote e crude nella freddezza della nostra mano ormai inumana, che non sa cosa farsene delle monete, di questa superficialità che non ci appartiene.

Convincevo il mostro ad appartarsi
nelle stanze pulite d’un albergo immaginario
v’erano nei boschi piccole vipere imbalsamate.

Il mostro, la paura, viene immaginato come appartato in una stanza d’albergo, e nei boschi sembrano esserci pericoli inesistenti. Quasi a delineare un contrasto tra l’apparente sicurezza di una camera d’albergo, comoda e tranquilla e i boschi, che sembrerebbero essere oscuri e pieni di mostri. Il nido del terrore, del “mostro” però è nella camera d’albergo, perché il mostro siamo noi stessi e la nostra irrefrenabile irrequietudine, la negazione della nostra ancestrale componente animale.

Mi truccai a prete della poesia
ma ero morta alla vita
le viscere che si perdono
in un tafferuglio
ne muori spazzato via dalla scienza.

L’amarezza ora diventa personale. La bugia coltivata nelle varie strofe precedenti esce fuori e si proclama. La poesia era diventata solo un trucco per la poetessa, che si riscopre morta, falsa e le viscere vengono spazzate via da ciò che è diventato reale e non fittizio cioè la scienza.

Il mondo è sottile e piano:
pochi elefanti vi girano, ottusi.

Il giudizio finale è profondo e aspro. Il mondo è poca cosa, è banale e sono poche le grandi cose che ha e pochi i grandi ideali che vi sono, sono pochi ed anche ottusi, che non sentono ragioni, il mondo in pratica non cambierà mai.

“Io temo tanto la parola degli uomini”: la semplicità di R. M. Rilke

Dopo aver pubblicato la raccolta Nuove poesie (1907-1908), con la quale aveva dato una svolta alla sua attività di poeta, proponendo lo stile realistico ispirato dalla scultore francese Rodin, Rainer Maria Rilke si dedica alla seconda edizione delle Poesie giovanili, che uscite nel 1899, saranno ristampate nel 1909 in seguito a numerose correzioni. A questa seconda edizione delle Poesie giovanili appartengono i versi della poesia attualissima “Io temo tanto la parola degli uomini”: la loro semplicità è un’importante conquista del poeta che riflette sulla vita degli uomini e sul rapporto che hanno con ciò che li circonda. Nella poesia di Rilke è fortemente presente la figura di Nietzsche che nega all’uomo la possibilità di conoscere il reale e soprattutto la considerazione secondo la quale l’uomo deve abbandonarsi al flusso inesorabile della natura, senza pretendere di cambiarlo e dominarlo secondo le proprie categorie, in quanto è proprio nella natura che si manifesta celatamente l’intervento di Dio:

 

Io temo tanto la parola degli uomini.

Dicono sempre tutto così chiaro:

questo si chiama cane e quello casa,

e qui è l’inizio e là è la fine!

 

E mi spaura il modo, lo schernire per gioco,

che sappian tutto ciò che fu e che sarà;

non c’è montagna che li meravigli;

le loro terre e giardini confinano con Dio!

 

Vorrei ammonirli, fermarli; state lontani!

A Me piace sentire le cose cantare!

Voi le toccate diventano rigide e mute!

Voi mi uccidete le cose!

 

 

Chiamarti ascesa, chiamarti declino?

Poiché a volte il mattino mi spaura,

esito a cogliere le sue rose vermiglie 

e sento nel suo flauto il suo presagio

di giorni lunghi e vuoti di canti.

 

Ma le sere sono miti e mie,

le rischiara silente il mio guardare;

fra le mie braccia prendono sonno boschi,

io stesso sono l’eco sopra di loro,

 e al buio che si annida nei violini

sono fratello col mio esser buio.

 

Scendi, o lento canto della sera,

fluente da grandiose lontananze.

Io ti accolgo. Sono io il calice

che ti racchiude e di te non trabocca.

 

Le tre quartine sottolineano l’importanza di un rapporto limpido ed originario tra l’uomo e la natura che lo circonda e circoscrivendo l’ambito tra l’uomo e le cose. Tale rapporto porta con se un elemento divino e si pone al di fuori delle convenzioni storico-sociali ma soprattutto al di fuori di una sicurezza ostentata che ha la presunzione di collocare l’uomo sullo stesso piano della divinità. In questo senso deve esser letta la categorica affermazione del primo verso: Io temo tanto la parola degli uomini, e le considerazioni successive: Dicono tutto sempre così chiaro, sanno sempre ciò che fu e sarà, le loro terre e giardini confinano con Dio.

L’invito all’umiltà e a vivere una vita autentica significa per il poeta, ricondurre l’uomo alla sua dimensione di essere creato e inserito nel flusso di una vita che lo trascende. Ma l’uomo deve esserne consapevole, solo in questo modo può sentire le cose cantare, senza rischiare di ucciderle pretendendo di avere chissà quale autorità e potere su di loro: Voi le toccate: diventano rigide e mute.

Tuttavia Rilke con il porsi nel flusso della vita, non intende affatto aderire alla forma decadente della vita e alla sua ideologia “panica” alla D’Annunzio per il quale l’uomo deve abbandonarsi agli elementi della natura per trarne piacere estetico. Rilke attua una riflessione più profonda che riguarda il rapporto uomo-divinità e sul senso della vita umana, nonché tenta una ridefinizione del linguaggio e della funzione stessa dell’arte.

Se nei versi che chiudono Le poesie giovanili, il poeta scrive “Non devi attendere che Dio venga a te e dica: eccomi. Devi sapere che Dio soffia in te come il vento sin dagli inizi e se il cuore ti brucia e non si svela, c’è lui dentro, operante”, nelle conferenze degli stessi anni dichiara l’assunzione di una missione per fondare una nuova arte. A differenza di molti scrittori di fine Ottocento, Rilke vuole vivere una vita interiore partendo dalla percezione che gli uomini contemporanei credono di possedere la certezza e rischiano invece di distruggere tutto ciò che toccano. Basti dare uno sguardo ancora oggi alla violenza perpetrata dall’uomo nei confronti della natura e dei suoi esseri viventi.

 

Rainer Maria Rilke, tormentato innovatore

Rainer Maria Rilke (Praga 1875 – Muzot, Svizzera, 1926) viene ricordato come uno dei più importanti poeti lirici del 900′ e come un innovatore nella ricerca poetica della verità dell’uomo nella società industriale. Rilke nasce a Praga il 1875. Sin da giovane viene incoraggiato a seguire la carriera militare dal padre, ma a 16 anni, egli abbandona l’accademia. Viene finanziato dallo zio Jaroslav che lo invita alla carriera giuridica. Il giovane Rilke si diploma nel 1895 e si iscrive all’università di Praga per studiare Giurisprudenza. Nel 1897 conosce Lou Andreas-Salomé, donna che segnerà la vita del giovane poeta legandosi a lui in un legame affettivo ed epistolare che durerà fino alla morte di quest’ultimo. Inoltre sono di questi anni le sue prime pubblicazioni come: Feder und Schwert. Ein Dialog (prima opera in prosa datata 1893), Larenopfer (raccolta di poesia datata 1895).

Sono importanti i viaggi che compie in questi anni, visita infatti la Toscana, la Russia, Venezia e Monaco e conosce persone che rivestiranno una funzione importante nella sua vita come il vecchio Tolstoj e comincerà anche collaborazioni letterarie, ad esempio con la rivista viennese Ver sacrum.

Sviluppa successivamente sempre di più la sua passione artistica che lo porterà nel 1899 ad iscriversi alla facoltà di storia dell’arte. Successivamente nel 1902 conosce a Brema Clara Westhoff, che diventerà poi sua moglie, anche se per breve tempo. In questi anni 1900-1903 va a Parigi per approfondire la conoscenza di Auguste Rodin, scrivendo anche una biografia su di lui, pubblicata nel 1903. Dopo il 1903 Rilke viaggia in tutta Europa, infatti visita Roma, Berlino, Duino, Napoli, Capri, Tunisi, Algeri, Monaco, Berlino, Mosca e di nuovo Parigi, componendo la maggior parte delle sue opere.
Allo scoppio della prima guerra mondiale, nel 1914 il quarantenne Rainer viene chiamato a prestare servizio nell’esercito come incaricato di un ufficio bellico, lontano dal fronte e dai rischi più immediati.

Dopo la fine della guerra e la successiva dissoluzione dell’impero Austro-ungarico il boemo diviene senza patria e comincia il tormentato declino della sua vita. Nel 1920 si trova in Svizzera dove resterà fino alla morte che lo raggiungerà nel 1926 tra patimenti e malattie che lo segneranno nel fisico e nell’anima.

Alcune delle sue più importanti opere vengono pubblicate nel periodo giovanile e se ne ricordano alcune in particolare come:

Mir zu Feier (1899, trad. Per la mia gioia), uno dei primi successi plateali di Rilke.

Das Stundenbuch (1899-1903, trad. Libro d’ore) composto da tre libri venne pubblicata completa nel 1905, questa opera in particolare gli valse la fama di poeta lirico e l’opera viene apprezzata come uno delle più importanti creazioni letterarie del 900′.

Geschichten vom lieben Gott (1900-1904, trad. Le storie del buon Dio) influenzato dai molteplici viaggi dell’autore in Russia compiuti dal 1899 con Salomé, tocca temi di profonda e quotidiana spiritualità.

L’evoluzione e la maturità del pensiero di Rilke può saggiarsi in opere successive come Neue Gedi chte, (1907 e 1908, trad. Nuove Poesie), Duineser Elegien (1911, trad.Elegie duinesi), Sonette an Orpheus (1923, trad. Sonetti ad Orfeo). In queste composizioni mature e finali dell’ audace autore boemo incontriamo un cambiamento, un inquietudine frutto di una crisi filosofica e una nuova visione dell’uomo, posto come salvatore e al contempo distruttore del mondo, staccandosi in questo modo dalla cultura della crisi di fine secolo:

E quasi una fanciulla era.

Da questa felicità di canto e lira nacque,

rifulse nella trasparente veste

primaverile e nel mio udito giacque.

E in me dormì. Tutto fu il suo dormire:

gli alberi che ammiravo, le distese

sensibili, le grandi praterie

presenti e lo stupore che mi prese.

Dormiva il mondo. O dio del canto, come

l’hai tu compiuta senza ch’ella prima

volesse essere desta? È nata e dorme.

E la sua morte? Non cadrà nel nulla

questo tuo canto, troverà una rima?

Ma da me dove inclina…? Una fanciulla…

 

Apollo primitivo

Come talvolta in mezzo ai rami

ancora spogli un mattino sorge, e in quel momento

è primavera: cosí nulla affiora

dal suo capo, che il subito portento

della poesia non ci ferisca; il muro

d’ombra è lontano dal suo sguardo incauto

troppo fresca è la fronte per il lauro,

e solo tardi all’arco delle pure

sue sopracciglia sorgerà il rosaio,

da cui foglie cadute e sparse il lieve

tremito della bocca veleranno,

quella che tace adesso e accenna solo

a un sorriso da cui nitida beve

il canto come un’acqua nella gola.

 

La poetica di Rilke è fortemente legata alla volontà di esaltare la realtà soggettiva ed individuale dell’uomo, rifiutando quindi le scelte stilistiche e tecniche che imponeva il positivismo e infatti all’inizio della sua carriera, Rilke abbraccia una posizione neo-romantica. Questa presa di posizione è possibile notarla in Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke, datata 1899.

Col passare del tempo nella sua poetica assume grande importanza la filosofia di Nietzsche che porta il poeta boemo allo sviluppo di una nuova idea di Dio e ad elaborare un modo di rapportarsi con Dio del tutto nuovo e lontano da quello statico e sterile della Chiesa, questo tipo di rapporto e questa necessità di un nuovo rapporto con Dio si può riscontrare in: Geschichten vom lieben Gott e in Das Stundenbuch, dove l’autore coglie l’essenza di una spiritualità fortemente terrena e viva nell’esistenza dell’uomo che non deve aspettare di morire per cominciare a viverla pienamente, un Dio presente nella vita di ogni giorno e che si esprime anche nelle espressioni artistiche tipiche dell’uomo.

Ma la componente più attiva della poetica di Rilke è senza dubbio quella individualista che si va accentuando sempre di più verso la fine della vita del poeta. Nella sua visione matura, il poeta esalta sopratutto le esperienze soggettive del mondo, per cui una cosa ha significato solo se l’uomo le dà un significato soggettivo e vissuto, in pratica un oggetto esprime il solo significato che ha per noi. Per questa sua poetica di matrice relativistica egli viene spesso accostato alla corrente simbolista.

Tale concezione viene soprattutto a crearsi nelle ultime opere (dalle Elegie duinesi ai Sonetti ad Orfeo e alle poesie estreme) dove si raggiunge picchi di alto lirismo in cui elogia i sensi e la parte più bella della realtà che può essere colta solo da coloro il cui cuore è puro ed in pace con se stesso, un invito alla più profonda ed intima conoscenza di sé stessi, che è la sola chiave che può aprire le porte del futuro che al poeta sembra incerto e impuro, contaminato dall’ormai avvenuto arrivo della società industriale e dalla mercificazione dell’individuo:

Egli è terreno? No, dai reami

diversi prese la vasta natura.

Piú esperto piega del salice i rami

chi le radici del salice cura.

Qunado fa buio sul desco non resti

pane né latte: attirano i morti –.

Ma egli, evocatore, li desti

e nello sguardo mite li esorti

a mescolarsi a ogni cosa veduta;

a lui l’incanto di erica e ruta

sia vero come il rapporto piú chiaro.

Niente l’immagine salda cancella;

sia della casa, sia della bara,

celebri l’urna, il fermaglio o l’anello.

Rilke, dunque, può essere visto come un precursore dei grandi temi del 900′ che sono, tra gli altri: la perdita di importanza dell’individuo, la società industriale e borghese e le sue false innovazioni. Alla fine della sua vita, Rilke conclude la sua storia con una forte fiducia nell’uomo che è al contempo il creatore di tutto questo male e paradossalmente anche il salvatore, l’unico che può liberarsene e fornisce anche un metodo: rifugiarsi dentro sé stessi e riscoprire il grande mondo interiore che non può essere paragonato a quello esteriore, che non ci basterà mai.

Ma oggi è possibile restituire alla realtà la pienezza del senso e del significato, andati perduti grazie al processo di mercificazione che ha investito la società industriale? Rilke ci ha lasciato, tra i tanti, questo grande interrogativo che tutti noi dovremmo porci.

Ugo Betti, poeta, giudice e drammaturgo

Nato a Camerino nel 1892, Ugo Betti trascorre l’infanzia a Parma, dove si laurea in legge nel 1914 con una tesi di filosofia del diritto, La rivoluzione e il diritto. Allo scoppio della guerra, Betti si arruola volontario come ufficiale di artiglieria di campagna. Nel 1920 Betti torna in patria e scrive per il concorso di avvocato delle Ferrovie dello Stato, un’opera di carattere giuridico, Considerazioni sulla forza maggiore come limite di responsabilità del vettore ferroviario. Contemporaneamente si prepara per il concorso nella magistratura, che vince e nel 1921 viene nominato pretore a Bedonia (Parma). Nel frattempo si fa conoscere nel mondo delle lettere con la pubblicazione, nel 1922, della raccolta di liriche Il re pensieroso, e nel 1925 si cimenta nel teatro con dramma di impianto realistico in tre atti, La padrona, vincendo il concorso drammatico bandito dalla rivista teatrale Le scimmie e lo specchio.

Con Frana allo scalo Nord (1932), tra le più riuscite opere dello scrittore, Ugo Betti approda a moduli drammatici più aperti. Il tema tipicamente bettiano della Legge che non riesce a farsi Giustizia è calato in’un’atmosfera sospesa, per sottolineare l’inappagatezza della legge, ottenuta per mezzo della forma del dramma-processo dove i personaggi si confessano. Nel 1938, con Notte in casa del ricco,”tragedia moderna in un prologo e tre atti”. Betti torna, dopo la parentesi della commedia commerciale, al tema  dell’inestricabile miscuglio di bene e di male che è nel cuore dell’uomo e a quello della pietà come unica forma di giustizia.

Nel 1944 lo scrittore parmense ottiene la nomina a bibliotecario del ministero di Grazia e Giustizia  e nello stesso anno scrive Corruzione al Palazzo di Giustizia, il suo dramma più famoso in Italia e all’estero che gli consente di vincere  il premio dell’Istituto Nazionale del Dramma (1949) ed il Premio Roma (1950).  Nel 1950, Ugo Betti è nominato consigliere di Corte d’Appello e passa a far parte dell’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio e nel frattempo si riaccosta alla pratica cattolica, fatto che avrà delle ripercussioni anche sulla sua produzione drammaturgica, con l’opera Il giocatore.

Soffermandoci in particolare sulla poetica di Ugo Betti, possiamo notare come il fiabesco e il drammatico sono stati i principali temi intorno ai quali ha ruotato la poesia del giudice e drammaturgo. Fiabesco era infatti il tema del Re pensieroso, il suo primo libro in versi, degli ultimi racconti del Caino, dell’Isola meravigliosa fino ad arrivare alle Canzonette; drammatico, quello della Padrona, delle novelle di Case e della seconda parte di Canzonette, La Morte. Tuttavia un tema sorge dall’altro, sono due facce della stessa medaglia, e lo stesso tema fiabesco del Re pensieroso, le cui favole sono state scritte durante la prigionia di Betti dopo Caporetto (e internato a Rastatt con gli scrittori Gadda e Tecchi), presume quello drammatico. Si parte dunque da uno slancio fantastico dietro al quale si avverte una realtà amara.

Ugo Betti ha compiuto un grande passo dal punto di vista letterario con Re pensieroso, opera che sente ancora l’influsso della poesia crepuscolare e impressionista, nel quale alterna squisitezze letterarie a cadute di tono, parole d’uso comune e parlato a parole eleganti. Per quanto riguarda le Canzonette, bisogna sottolineare come il loro significato, il simbolo, diviene più chiaro; ad esempio nella Canzonetta del pescatore senza conforto prevale maggiormente una visione notturna piuttosto che il senso di questo che si concentra nella domanda:

Da chi, perché, padre Priore,

fu formato tanto dolore,

fu creato tanto male?

Qui l’elemento drammatico cede il posto al pittoresco: come in altre canzonette, alla pena della solitudine o dell’amore si sovrappone il gusto per l’idillio o il tratto descrittivo. Al contrario, a volte, il senso drammatico rimane enunciazione: la sintesi non viene raggiunta:

Di qua risse, laggiù balli

là bisbigli di mezzane,

bocche, occhi, fiati caldi,

bave, urli. Nel carname

l’uomo arraffa. Dà in baratto

quel denaro suo scarlatto.

Da questi pochi versi si capisce subito quali sono stati i lati della poesia di Betti: gusto del pittoresco, appunto, e l’idillio, talvolta leggermente manierato (come dimostrano Caterinella, Selvaggia e il Cantastorie), enunciazione di dati elementari che non giungono alla sintesi poetica. Nella Canzonetta degli Amanti addormentati, ad esempio, gli ultimi quattro versi ci danno la visione del mondo resa con parole quasi immateriali. Ma dopo queste poesie, viene il gruppo che Betti raccoglie sotto il titolo La Terra e in esse il secondo titolo del libro La morte, le quali trovano un significato ed espressioni maggiori; nelle Case, ad esempio, quell’enunciazione di dati elementari fa blocco: è poetica perché diventa visione. E se i quattro ultimi versi sono derivati con qualche freddezza, le prime tre strofe danno il senso cosmico della terra e del fatale destino dell’uomo:

In ogni casa, come in un orto,

ogni tanto matura un morto…

Il poeta contempla da un’altezza serena il mondo, il peccato di Adamo, la vanità, le passioni, il dolore. E proprio questi sono i temi delle sue poesie più belle, tra le quali spicca anche Canto di operai, poesia molto ispirata dove la visione umana e cosmica di Betti, severa, lucida, ma non disperata, appare realizzata al meglio.

Per quanto riguarda il Betti drammaturgo, attività letteraria alla quale è stata rivolta, giustamente, maggiore attenzione rispetto a quella di poeta, è importante dire che essa non si può spiegare se non si tiene conto della sua opera in versi; il teatro di Ugo Betti è, come in Pirandello, una proiezione del poeta e del narratore con la sua visione angosciosa del mondo.

Bibliografia: G. Titta Rosa, Vita letteraria del Novecento, V. III.

Floriana Porta: “Dove si posa il bianco”

Contemplazione, silenzio, interiorità; parole, queste, dalle quali spesso fuggiamo, ne abbiamo quasi timore e la nostra vita è troppo frenetica per fermarci a riflettere, a metterci in contatto con la parte più profonda di noi stessi, magari attraverso la lettura di una raccolta di poesie. Già, la poesia, quel tempio della parola nel quale si attinge ad aspetti della vita sconosciuti alla maggior parte della gente, e capaci di suscitare emozioni. Una forma di comunicazione emotiva ed evocativa dunque che presuppone una forte sensibilità da parte di chi scrive versi, ma purtroppo bisogna ammettere che chi scrive, spesso, considera la poesia un accessorio nell’epoca della comunicazione di massa; scrivono tutti ormai, magari per scaricare lo stress, per narcisismo, per passatempo, rifiutando ogni aulicità, considerata fuori moda e gli editori che pubblicano hanno ovviamente bisogno di vendere su larga scala, come accade per qualsiasi merce, cultura compresa, e la poesia per la sua natura stessa, più cerebrale e riflessiva, mal si presta a diventare prodotto di consumo, per le masse.

Ma in questo triste e desolante scenario poetico, che latita di talenti, si muove delicatamente un’autrice emergente che non teme di esprimere le proprie percezioni, la propria visione delle cose, restituendo alla poesia la sua aura originaria, il suo scintillio, la sua dignità. La torinese autrice, fotografa e pittrice Floriana Porta, classe 1975 ha già avuto diversi riconoscimenti in premi letterari nazionali, pubblicando due sillogi di poesie e haiku: Verso altri cieli (Digital Book -Edizioni REI, 2013), e Quando sorride il mare (AG Book Publishing, 2014). Dal 2011 è membro della giuria del prestigioso Concorso Internazionale di Poesia Haiku promosso dall’Associazione culturale Cascina Macondo.

L’ultima raccolta di poesie dell’autrice torinese si intitola Dove si posa il bianco (Sillabe di Sale Editore, Novembre 2014), un inno alle immagini e alle parole stesse che compongono le poesie che ci fanno (ri)scoprire il silenzio appartenente a luoghi senza tempo; un inno alla contemplazione e all’interiorità, aspetti che Floriana Porta tocca attraverso la dimensione surrealista ed ermetica per cogliere l’essenzialità delle cose:

Sovrapporsi,
immaginando parole
perdendoci nel nulla.
Respirandone l’odore
e il piacere taciturno
fuori campo, abbracciandosi
a perpendicolare sul vento
e più oltre.

Come si arriva a questo oltre? Perdendosi nel silenzio dopo aver immaginato parole.

E ancora:

È soltanto
l’inizio del viaggio.
Una calma profonda,
più in alto del cielo,
dell’aria, del buio inabitato.
Là dove la tua pelle trema.
Là dove l’anima
ha la voce del vento
e del mare.

La ricerca è un viaggio dell’anima, un viaggio metafisico che coinvolge le nostre paure, poiché tocca anche le tenebre, tale passaggio è necessario per approdare ad una dimensione spirituale ed eterna; ed ecco che la poesia, con le sue illuminazioni e i suoi attimi, riassume il suo “scintillio” originario e diviene “il punto culminante della fusione tra l’esprimibile e l’inesprimibile, tra la realtà e l’irrealtà, tra spiritualità e materialità. Oltre il razionale, oltre la comune percezione dello spazio e del tempo”.

Le liriche di Floriana Porta tendono ad una sorta di astrattismo poetico, scandite da un ritmo di chiusura e apertura; sono versi ermetici, da decifrare, ma che senza dubbio ci parlano di misticismo e di coscienza e non è un caso infatti che la poetessa abbia dedicato una poesia al “gesuita proibito,” il teologo, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin e una a Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi.

Soffermandoci sul misticismo, è importante sottolineare come il linguaggio adottato dall’autrice sia spesso di un’ineffabilità assoluta, come dimostrano la seguenti poesie:

Il proprio io s’offre
a chi raggiunge a ritroso
il centro d’ogni luogo.
A chi è proteso
a tastare nel buio
scie luminose.
A chi nell’orma del fango
si fa sentiero
da luogo a luogo.

 

Ricordati che
il dissetare
è un risalire
obliquo
in un qualsiasi luogo
come in nessun luogo.
Un resistere,
attendendo
di ritornare fossili.

 

Cammino
sul bordo delle origini
fino agli occhi
sigillati
che mi sognano.
Nessun punto
alla fine del viaggio.

Sull’illimite screziato

un mondo vuoto, sconfinato,

nasconde le albe e le notti
di pensieri inconsci,
in sospensione sul nulla
nelle terre dell’esilio.
Cicli cosmici
sviscerano parole
e ogni mia cellula
disobbedisce agli dèi.

Se quindi da un lato è impossibile esprimere ciò l’anima cattura, d’altro la nostra natura terrena non può fare a meno di cercare di spiegare e descrivere con parole ciò che prova. A tal proposito ci è utile l’affermazione di Massimo Baldini secondo il quale “il linguaggio della poesia, come quello della mistica, è un linguaggio intessuto di paradossi. La paradossia risveglia l’attenzione della mente dalla letargia delle comode abitudini linguistiche, crea stupore, sorpresa, pone in nuova luce ciò che il linguaggio ordinario (o quello teologico) avevano opacizzato”.

Non è dunque possibile cercare di esprimere l’ineffabile e l’eternità dello spazio, che scompare nel bianco del foglio di carta, se non attraverso le rivelazioni dei quattro elementi, terra, aria, acqua, fuoco; in questo senso la poetessa piemontese scava nel pensiero, nel “logos”, immergendolo tra immagini e simboli, per descrivere la realtà, per svelare l’occulto. Ed è proprio il bianco che getta luce su questa profonda indagine, come si evince da una poesia stessa che porta il titolo Il bianco e il suo spazio:

Il bianco

racchiude in sé
le cicatrici dell’isolamento,
tra il passeggero
e il permanente,
in questo spazio
di materia specchiante
dai mille sguardi.
Nelle sue cavità:
il continuo sovrapporsi
di qualcosa di intimo.

 

Fossili, lacrime, universi ingarbugliati, memoria, anima, fantasia: questi sono gli elementi che abitano tra i versi liberi di questa talentuosa autrice che sperimenta romanticamente (nel senso letterario del termine) l’infinito e il mistero della vita attraverso l’interiorità:

Tu sei il primo sole
di ruggiti e sguardi
al loro primo viaggio.
Tu sei il corpo e il sogno
appena ritmato da ritrovare.
Tu sei lo sguardo
di fiabe e leggende
oltre i confini.
Tu sei il temporale
nel suo respirare
la vera pioggia.
Tu sei il mare e l’aria
nonostante lo svanire
per mano del vento.

Al via la prima edizione di “Specialmente quando si scrive”

“Il linguaggio parlato è per sua natura sciatto e impreciso. Non dà tempo di riflettere, di usar le parole con eleganza e raziocinio, induce a giudizi avventati e non fa compagnia perché richiede la presenza di altri. Il linguaggio scritto, al contrario, dà tempo di riflettere e di scegliere le parole. Facilita l’esercizio della logica, costringe a giudizi ponderati, e fa compagnia perché lo si esercita in solitudine. Specialmente quando si scrive, la solitudine è una gran compagnia”. (Oriana Fallaci)

La Casa Editrice OCTOPUS EDIZIONI promuove e organizza la prima edizione del Concorso Letterario di Poesia “Specialmente quando si scrive”; il concorso di rivolge a tutti gli autori, sia esordienti che professionisti che desiderano visibilità e il confronto con altri artisti. Al vincitore assoluto del Concorso sarà pubblicato, a cura e a totale spesa della Casa Editrice, un libro di massimo 100 pagine con 100 copie che saranno messe gratuitamente a disposizione del vincitore. Il premio letterario si articola in unica sezione A di partecipazione in cui si concorre con poesia a tema libero e con haiku. Chiunque fosse interessato può scaricare il bando completo sul sito www.cirucumnavigarte.it.

Il concorso rientra tra le tante iniziative promesse dalla casa Editrice OCTOPUS e dall’associazione artistica, ricreativa e culturale CircumnavigArte. L’associazione fondata nel 2009, riunisce appassionati di letteratura, arte, fotografia, poesia, pittura, che dedicano il loro tempo ad organizzare eventi e a promuovere e divulgare progetti culturali. Intense sono anche le collaborazioni con associazioni sociali e di volontariato che vengono costantemente coinvolte nelle iniziative culturali dell’associazione.

Il premio letterario si articola in unica sezione A di partecipazione in cui si concorre con poesia a tema libero e con haiku. Saranno ammessi a partecipare autori di qualsiasi nazionalità e provenienza, esordienti o professionisti, residenti in Italia e all’estero, maggiorenni e minorenni. Ogni autore potrà proporre un massimo di 5 opere inedite  in lingua italiana, oppure 10 haiku inediti. Al vincitore assoluto del Concorso sarà pubblicato, a cura e a totale spesa della Casa Editrice, un libro di massimo 100 pagine con 100 copie che saranno messe gratuitamente a disposizione del vincitore.

Gaetano Profenna: ‘Senza maschera’, un complesso viaggio emotivo

Gaetano Profenna nasce a Napoli il 30 gennaio 1966. È responsabile nel settore della ristorazione presso un noto ristorante al Vomero, Napoli. La sua prima raccolta Senza maschera, pubblicata per il gruppo Albratros il filo, è un complesso viaggio emotivo tra le pieghe dolorose del suo cuore. Egli utilizza la poesia come arma contro le ingiustizie sociali, il dolore e la miseria umana. I suoi versi richiamano un mondo musicato tipicamente napoletano e rispettano a pieno le tradizioni e il folklore di un popolo a cui restituisce dignità.

La raccolta non rispetta l’ordine cronologico di composizione: si apre con una poesia del ’98 A’ maschera, che si pone come chiave di lettura di tutta la raccolta, attraversando un arco temporale che va dal 1993 al 2013. La presenza della maschera nel titolo crea un gioco di doppi e di rimandi costanti con la prima poesia della raccolta, manifesto della sua poetica. Con un forte gioco di contrapposizione legato alla presenza e all’assenza della maschera, Profenna (mutuando l’altisonante denominazione da Salvatore Bova) vuole denudarsi, liberarsi dalle oppressioni dei ricordi dolorosi, dalle ingiustizie della vita, cercando una soluzione nelle profetiche e divine risposte dell’amore.

L’autore alterna versi in italiano e napoletano, dimostrando di onorare la terra da cui proviene. È proprio l’utilizzo della lingua napoletana che dà il via libera, fa scrivere senza filtro (come direbbe l’autore senza maschera), ma solo con la voce dell’anima. Un’eco che non si dissolve nel tempo moderno malato di distrazione, ma resterà per sempre padrone dei suoi ricordi e dell’amore. Di questo si parla, dell’amore come motrice dirompente che spezza gli inganni del nostro tempo.

Il leitmotiv amoroso crea un filo rosso che in punta di piedi passa nella cruna dell’ago, ridestando i ricordi per una madre ormai scomparsa. Il dolore è una costante che sfiora ora con violenza le strade di Napoli con la poesia Napule:

Napule cara… napule mia/ che tristezze pè stì vvie/ Si turnasse Masaniello, e guardasse stà città/ addò mettess’e mmane po’ mmale ca cè stà? […] Napule cara… Napule mia… Adderizzele stì vvie […] Napule cara… Napule bella… Turnammo à cantà à tarantella!

Ora si ricongiunge al ricordo di una madre addolorata, per un figlio che invoca il suo perdono:

Ho visto quello che ogni uomo/ non vorrebbe mai vedere/ ho visto piangere una madre […] piangi ancora dolce madre ma/ Perdona chi ha colpito/ perché tu fosti perdonata/ Da chi al silenzio e al dolore/ La morte ha preferito! (Da Dolce madre)

Profenna non mette in scena solo esperienze personali, ma è in grado di oggettivarle, creando un collegamento tra testi con rimandi spesso molto forti. Da Madre natura leggiamo:

Nun à facimme murì, essa nun cè hà fatto/ niente, anzi… ce ha dat’à vita, e nun è poco.

Dolce madre e Madre natura sono indiscutibilmente collegate dalla volontà di esprimere, attraverso i dolorosi ricordi, l’universalizzazione del concetto madre ed elevarla a una visione eterea (perché impressa nella memoria) e ultraterrena, ovvero cristallizzata in un tempo eterno, ma che sia anche emblema dell’universalizzazione del dolore.

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