Anna Magnani in mostra al Vittoriano: 18 immagini per ripercorrerla

Ha preso il via il 22 luglio scorso la mostra “Anna Magnani, la vita e il cinema”, un evento facente parte del circuito de “Il Vittoriano tra musica, letteratura, cinema e architettura”. L’estemporanea, conclusasi il 22 ottobre scorso, è stata un meraviglioso omaggio ad una delle figure centrali del cinema italiano, snodandosi attraverso un percorso culturale ricco di oggetti, fotografie, materiali audiovisivi inediti che hanno ripercorso la biografia dell’attrice romana, a partire dai suoi esordi nel teatro, fino ad arrivare ai grandi successi di Cinecittà e Hollywood. Curata da Mario Sesti, regista, giornalista e critico cinematografico, la mostra è stata realizzata con la collaborazione del Centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale e dell’Istituto Luce Cinecittà, che hanno messo a disposizione i loro archivi fotografici. (fonte: http://arte.it/calendario-arte/roma/mostra-anna-magnani-la-vita-e-il-cinema-41833)

La mostra, a cura del critico cinematografico Mario Sesti, si apre con la biografia di Anna Magnani che se per i cinefili rappresenta un vademecum per districarsi tra gli scatti, per i visitatori ancora ignari è l’occasione per conoscere l’attrice.
Procedendo, il visitatore viene attratto da questa piccola sala cinematografica: in essa vengono proiettate scene di  film della Magnani. Da qui si inaugura la sezione della mostra dedicata al mondo cinematografico.

 


(foto)1,4 La carrozza d’oro, di Jean Renoin, 1952.
2,6  Nella città l’inferno, di Renato Castellan, 1958.
3   Risate di gioia, di Mario Monicelli ,1960.
5   Made in Italy (La famiglia, III episodio), di Nanni Loy, 1965
1,4 Avanti a lui tremava tutta Roma, di Carmine Gallone,1946.
2 Camicie Rosse, di Goffredo Alessandrini, 1952.
3,5 Mamma Roma, di Pier Paolo Pasolini, 1962.
1,2,3,4 Abbasso la ricchezza, di Gennaro Righelli, 1946.
5 Il Bandito di Roberto Lattuada, 1946.
1 Vulcano, di William Dieterle, 1950.
2 Il Bandito di Roberto Lattuada, 1946.
3 Bellissima, di Luchino Visconti, 1951.
4 Teresa Venerdì, di Vittorio de Sica, 1941.
In queste foto si vede Anna Magnani al di fuori dei set.
Questa è l’unica foto della mostra che ritrae Anna Magnani con il figlio Luca, a Piazza di Siena, ad un concorso ippico.
La mostra di fotografie è arricchita dalle riflessioni  personali di Anna Magnani che, permettono al visitatore di entrare in empatia con l’attrice.
1. Anna Magnani con Roberto Rosselini
2 Con Anthony Franciosa
3. stretta a Marlon Brando
4 con Goffredo Alessandrini.
Con queste 4 foto si chiude la parte della mostra dedicata al cinema
Il visitatore dopo aver ammirato i mille volti di Anna Magnani negli innumerevoli film , ha il privilegio di  ammirarla , attraverso delle immagini inedite nell’intimità delle mura domestiche.
Qui si vede Anna Magnani in alcuni momenti della sua vita domestica.
In questa carrellata di fotografie si intravede una Anna sorridente alla sua scrivania, oppure intenta a fumare una sigaretta, durante delle interviste.  Il visitatore si appresta ad uscire da casa Magnani pensando di aver terminato il suo viaggio.
Nell’uscire il visitatore viene quasi richiamato in questa sala: sullo schermo vengono riprodotte alcuni contributi Rai ed altre parti di film che hanno visto Anna Magnani protagonista. La sua voce riecheggia al di fuori della Sala come per voler accompagnare e condurre il visitare verso l’uscita.
Il visitatore si ritrova davanti a questa sequenza di fotografie. Si tratta di una scena del film Roma città aperta, di Roberto Fellini, 1945: La ferocia dell’occupazione il cielo plumbeo della guerra su Roma, la corsa e l’urlo più famoso del cinema italiano. Alla Magnani il film deve non soltanto la leggendaria prestazione drammatica ma anche lo humor, controcanto amaro che condivide con Aldo Fabrizi. 
Proiettato per quasi due anni nel cinema di New York.
In questa trilogia fotografica è riprodotto il film Teresa Venerdì di Vittorio De Sica del 1941: in questa commedia degli equivoci che nella pasta di racconto e recitazione già, rivela la mano di un autore, c’è la prima vera messa a fuoco di ciò che la Magnani poteva dare al cinema: nel personaggio memorabile di una soubrette, Lolella, c’è già l’esperienza del varietà che catturò l’occhio, intimidito di De Sica.
In queste foto è ritratto un altro capolavoro della Magnani. Il film è Bellissima di Luchino Visconti del 1951: Maddalena sogna per la figlia il cinema che si prende gioco di lei e della bambina con disprezzo. La Magnani madre ferita e trepidante che affronta di petto ogni avversità o lusinga,prende luce anche in penombra e riempie ogni angolo dello schermo.
Questa successione di immagini ricorda un altro film di successo della Magnani: Roma di Federico Fellini del 1972. Fellini si mise in ginocchio per convincere la “pantera” a questa ultima apparizione nella quale incarna la città: il riso di scherno ,il disincanto della città eterna. L’ultima passeggiata nel cinema con la sua ombra che si allunga sui muri e il suo sorriso. Il film si chiude con Anna Magnani che rientra a Casa, a Palazzo Altieri accompagnata dalla voce di Fellini che dice”: Questa signora che rientra a casa è un’attrice romana. Anna Magnani, che potrebbe essere anche un po’ il simbolo della città.
Magnani: Che so’ io?
Fellini: Una Roma vista lupa e vestale, aristocratica e stracciona, tetra, buffonesca, potrei continuare fino a domattina.
Magnani: A Federì, va a dormire, va’.
Fellini: Posso farti una domanda?
Magnani: No, non me fido. Ciao, buonanotte!»
Qui termina la mostra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Salvador Dalí, vertigine pura, apoteosi dell’uomo e dell’artista

Non c’è genio artistico senza il nome di Dalí. Confinato nella sua isola, egli osserva e re-interpreta il mondo. Irrompe pressoché in ogni avanguardia del Novecento, per portare i movimenti artistici su posizioni ancora più estreme, dilatando i confini. Dalí è vertigine pura, apoteosi dell’uomo e dell’artista. La sua storia è quella di un genio eccezionale; la straordinarietà visionaria di una vita che ha visto uno, nessuno e centomila Salvador Dalí.

Impressionista, cubista, surrealista, cineasta, sceneggiatore, vertigine sessuale, “avida dollars”; un’esistenza che ne ospita altre infinite: uno, nessuno e centomila Salvador Dalí. Siede sul trono dorato della storia dell’arte, dal suo personalissimo XX secolo contempla e analizza i classici, tirandoli sino all’interno delle sue tele. Stravolge con sprezzo e maestria lo spazio e il tempo occupati dal ‘900, temporalità del quale si impossessa, erigendola a luogo prediletto di importanti fermenti creativi. Non c’è genio artistico senza il nome di Salvador Dalí, tutto nel suo nomen omen: Salvador.
“I miei genitori mi avevano dato lo stesso nome di mio fratello: Salvador, e, come il nome indica chiaramente, ero destinato a salvare il mondo dalla vacuità dell’arte moderna, e a farlo precisamente nell’abominevole epoca di catastrofi mediocri e meccaniche, a cui abbiamo il desolante onore di appartenere”.

Dichiarazione tratta da La mia vita segreta, autobiografia minuziosa scritta all’età di trentasette anni, documento prezioso, dentro il quale si manifesta la grandiosità di un gaudente catalano, autocelebrativo – a ragione – in opposizione all’infecondo verso della modestia. Nasce nel 1904 a Figueres, città della Catalogna, che nei suoi ottantacinque anni di vita, figurerà sempre il luogo del ritorno: il rientro in casa, in se stesso e nella sua terra. Le prime manifestazioni artistiche, non slegate da una notevole dose di eccentricità, risalgono all’infanzia, momento in cui inizia la costruzione di uno sterminato edificio chiamato Isolamento. Un’isola dove il fanciullo Salvador osserva il continente da lontano: i compagni di scuola, gli insegnanti, quella compagine di umanità che dovrebbe quantomeno incuriosirlo. Trova quell’oltre se stesso, solo materia inutile, incapace di fecondarlo in alcun modo. L’edificio Isolamento si estende nella fase adolescenziale; all’interno l’artista confina anche l’amore. La precoce e approfondita conoscenza della fragilità delle sue emozioni lo incalza nella direzione di un verso costrittivo: comprimere dunque ogni possibile slancio verso l’immagine femminile. In direzione di tale segno, per cinque anni si allena al gioco, non poco doloroso per la vittima prescelta, dell’amore non consumato. Un’attività che prevede la scelta di una fidanzata, la promessa di non innamorarsene, il veto a un rapporto carnale completo, tutto nel fine di operare sottomissione e dipendenza. È lo sfoggio di un potere praticabile su qualsiasi essere umano.

“Ho imparato a riconoscere nell’amore non consumato, una mia potentissima arma. Lei si trovò a essere, come Isotta, l’eroina tipo in una tragedia di amore sterile, qualcosa che, nel campo dei sentimenti, equivale al cannibalismo ferocissimo della mantide religiosa, che divora il maschio nel giorno delle nozze, e durante lo stesso atto d’amore. Ma la chiave di volta, nella cupola di torture da me eretta per proteggere lo sterile amore della mia innamorata, era senza dubbio la nostra comune consapevolezza del mio assoluto distacco”.

L’attività che l’artista presta al certosino lavoro nella costruzione dell’isolamento è lastricata di fragilità. Debolezze che, con il passare del tempo, si fanno compulsioni, agriotimìe e ossessioni. A un’emotività eccessivamente permeabile, fa da contrappunto un visibile alcinesco quasi calamitante, fatto di abiti costosi, capelli lunghi, eleganti bastoni da passeggio e finanche un trucco agli occhi bistrati di nero.

La perdita della madre incrina fatalmente nel giovane Dalí le sue emozioni, conosce il trauma ed è costretto all’ammissione che l’Ego non può competere in alcun modo con la morte. Trascorsi gli anni delle scuole, il padre, da sempre contrario alla carriera artistica del figlio, davanti all’evidenza di un estro non comune, finalmente acconsente alla sua volontà di entrare nell’Accademia di Belle Arti di Madrid. Luogo che rappresenta per Dalí un’ulteriore moltiplicarsi di vite: c’è lo studente ascetico, il cubista maniacale, l’insolente fomentatore, il dandy bevitore e infine il prigioniero per sbaglio. L’allievo più illustre, animato da impeti monarchico-anarchici, si ritrova accidentalmente in un momento insurrezionale catalano. Per un mese viene recluso nel carcere di Gerona. Nel 1926 viene espulso dall’Accademia, cacciata, non proprio velatamente, da tempo bramata dall’artista, che avverte già da molto il richiamo di Parigi. Nel 1929 è ne la Ville Lumière ad abbacinare, dal suo trono, i tetti che sorvegliano pennelli e tele. Subito all’interno del movimento Surrealista, prima della sua espulsione, introduce il metodo critico paranoico, un procedimento sviluppato dopo l’incontro con il filosofo e psichiatra francese Jacques Lacan. L’elaborato, muovendosi necessariamente dalla teoria surrealista che vede l’inconscio come uno strumento per creare immagini, mediante la costruzione delle stesse, afferra tonalità di patologia, opponendo all’iperrealismo lucido della figura, una forma onirica maniacale e catastrofica. Tale metodo viene altresì spiegato in un’eccezionale puntata televisiva del 1959, nel programma Incontri condotto dal giornalista Carlo Mazzarella. Il sistema, spiega l’artista, è un’operazione nel quale è possibile ottenere la massima capacità della conoscenza umana, relativa alla struttura blanda, ossia molle. La prima associazione avviene naturalmente con l’opera La persistenza della memoria.

I celebri orologi molli, giacenti in questa tela del 1931, sottolineano la deformazione operata dallo sguardo dell’artista su di essi. L’orologio si discioglie al sole su una veduta di Port Lligat, fluisce nel paesaggio dove viene ospitato. L’occhio con lunghe ciglia evoca lo sguardo di un sogno e dunque dell’inconscio. I misuratori temporali, di fatto, disegnano la foggia psicologica del tempo: il decorrere, dentro l’intuizione umana, prende una rapidità e un significato differente, intimo, che accoglie solo la dialettica della rievocazione e della disposizione d’animo. L’unico orologio non alterato è assalito dalle formiche, a indicare comunque l’azzeramento dell’elemento razionale e del tempo oggettivo e cronologico. Tutto è dominio del sogno, dove la temporalità si confonde nel prima e nel dopo, annullandosi nell’onirico.

Il verso è quello di una fenditura che si trasferisce in una vera e propria estasi visiva in perenne mutamento. Nell’arte di Dalí, tra dissoluzione e ripresa, il gesto si dispone anche nel bel mezzo di fosche e celate pulsioni sessuali.
Dopo aver scompaginato anche il movimento Surrealista, André Breton lo liquida con un marchio, un anagramma del nome: avida dollars. A ogni espulsione, il suo personalissimo edificio di isolamento, in accordo con la sua genialità, crescono all’unisono. Dalí è vertigine pura, apoteosi dell’uomo e dell’artista; nella pennellata come nella pellicola: insieme al regista Luis Buñuel è il creatore di Un Chien Andalou, pellicola impeccabilmente descritta dal politico e scrittore spagnolo Eugenio Montes:

“Buñuel e Dalí si sono risolutamente posti al di là della barriera definita buon gusto, al di là di quanto è gradevole, epidermico, frivolo, francese. Un passaggio del film è sincronizzato con la sinfonia del Tristano: sarebbe stato meglio preferire la Jota di Pilórica, di colei che non volle essere francese, ma aragonese, spagnola di Aragona, dell’Ebro, questo iberico Nilo. Barbara, elementare bellezza, la luna e il deserto dove il sangue è più dolce del miele riappaiono al cospetto del mondo. No! No, non guardate le rose di Francia! La Spagna non è un giardino, lo spagnolo non è un giardiniere! La Spagna è un pianeta e le rose del deserto sono asini imputriditi. Un Chien Andalou stabilisce una data nella storia del cinema, una data scritta col sangue secondo il gusto di Nietzsche, secondo il costume spagnolo”.

Ma il genio, l’invenzione di un metodo paranoico-critico per interpretare la realtà, l’amore per il lusso, le esaltanti visioni animalesche (da non dimenticare l’interesse per la rappresentazione del mondo animale), la glorificazione di un’esistenza gaudente, la personalità fortemente istrionica e finanche l’incontro con tutti gli artisti del periodo, non sono nulla senza la deflagrazione più squarciante: l’incontro atomico con Elena Dmitrievna D’jakonova, ossia Gala Éluard, poi Dalí. Moglie del poeta surrealista Paul Éluard, rappresenta sin dal primo istante per il pittore catalano, la rottura dell’isolamento emozionale e il crollo della sua isola, ma in un paradosso, al contempo il rafforzamento della solitudine nel congiungimento di due creature che si fanno un’unica entità artistica, carnale e umana. Gala è colei che comprende, scende nei luoghi più ameni della personalità di Dalí e ne risale illesa poiché lei è in lui e lui in lei. Gala è ancora la donna che lenisce le ferite psichiche di una mente particolarmente esposta ai richiami. Nella descrizione del Dalí finalmente abbandonato a un altro essere, il quadro più lucente:

“Un unico essere ha raggiunto un piano di vita paragonabile alle serene perfezioni del Rinascimento, e quest’essere è precisamente Gala, la moglie che per un autentico miracolo ho potuto scegliere. Gala è composta dalle divine attitudini, dalle espressioni tipo-nona-sinfonia che, traducendo i contorni architettonici di un animo perfetto, si cristallizzano nelle linee della carne, nella superficie della pelle, nelle spume marine di gerarchie privatissime e rigorose, schiarite da un delicatissimo alitare di sentimenti, e si induriscono, si organizzano, si fanno architetture umane”.

Gala è la vita e la morte di Salvador Dalí, il ponte tra il genio e lo scorrere del tempo reale. Al termine della sua vita, avvenuta sette anni prima del pittore, il talento dell’amante inizia pian piano ad affogare in una lenta preparazione, che lo porti al seguito della sua Gradiva. La straordinarietà visionaria di un genio eccezionale resta impressa nelle opere di una vita che ha visto uno, nessuno e centomila Salvador Dalí.

 

Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/homines/salvador-dali/

‘Terra Madre’, la prima biennale d’arte contemporanea a Caserta, dal 1 al 21 ottobre

La Biennale d’Arte Contemporanea del Belvedere di San Leucio è in programma dal primo al 21 ottobre 2017. L’evento, organizzato dall’associazione di promozione sociale WebClub, in collaborazione con le città di Caserta e Casagiove è diretto da Gianpaolo Coronas. La Biennale si avvale della collaborazione di Sergio Gaddi presidente di giuria e curatore, nonchè di quella internazionale di Antonio Campanile editore di Inews Kunst di Zurigo. La prima inaugurazione domenica primo ottobre alle ore 17,30 nel Real Sito Borbonico di San Leucio, complesso monumentale patrimonio Unesco, ricadente nel Comune di Caserta. Il secondo opening sarà il 7 ottobre alle 18,30 al Quartiere Militare Borbonico di Casagiove, location che ospiterà gli eventi collaterali.

Sette sono le sezioni in cui è articolata la Biennale: “Tributo a Mark Kostabi”, “Omaggio al maestro del fuoco Bernard Aubertin”, “Campania Semper Felix”, “Identità”, “Passione del Colore”, “International Exhibition” e “Italian Project”. 
La Biennale nasce dalla collaborazione tra il Comune di Caserta e quello di Casagiove e rientra nell’ambito di un protocollo d’intesa siglato tra i due Comuni, avente come oggetto la realizzazione di progetti di valorizzazione turistico-culturale dei siti borbonici.

Il tema principale della Biennale d’Arte Contemporanea del Belvedere di San Leucio 2017 è “Terra Madre”, la riscoperta dell’amore per la natura e del patrimonio artistico-culturale che attraversa il fascino delle conoscenze, il confronto e l’esaltazione delle differenze, unendo passato e presente in un viaggio fatto di emozioni, bellezza e cultura. L’obiettivo è quello di promuovere le arti visive, dalla pittura alla scultura, al design, alle installazioni, alla fotografia, alla grafica digitale, alla video-art e all’arte ecosostenibile, con un’attenzione però anche alla danza, alla musica, al teatro, ai luoghi e alle eccellenze territoriali. Per questo la Biennale si articolerà in sezioni.

Il tributo dedicato a Mark Kostabi, celebre per i suoi soggetti senza volti che richiamano alla mente le opere di De Chirico, è curato da Enzo Battarra. All’artista americano è stato assegnato il Premio Belvedere, il massimo riconoscimento che la Biennale attribuirà in ogni edizione a un artista internazionale che si è impegnato per la valorizzazione del complesso monumentale di San Leucio e per il territorio casertano. Mark Kostabi ha realizzato proprio nel Belvedere una memorabile performance artistico-musicale e ha allestito una sua personale nel Museo di Arte Contemporanea della Città di Caserta.

L’omaggio riservato a Bernard Aubertin, il grande artista riconosciuto come maestro del fuoco, ha come curatore Giorgio Agnisola organizzato dalla Responsabile Claudia Grasso di Toro Arte di Sessa Aurunca.
“Campania Semper Felix”, curatore Enzo Battarra, è la sezione dedicata agli artisti campani di più generazioni che hanno dato lustro al territorio e che si sono distinti sul piano nazionale e internazionale per un lavoro di ricerca.
“Identità” è il tema della sezione di fotografia, è curata da Luca Sorbo e proporrà una rigorosa selezione degli autori più rappresentativi di Terra di Lavoro.

La sezione “Passione del Colore” è curata da Viviana Passaretti e ospiterà artisti nazionali che si connotano per la ricerca cromatica.
“International Exhibition” è il titolo della sezione di artisti stranieri, curata da Irina Machneva Mota e Antonio Campanile.
La sezione “Italian Project”, curata da Luigi Fusco, vuole essere una proposta innovativa, che nasce dalle adesioni di molti artisti nazionali al percorso progettuale messo in campo dall’associazione.
La www.biennalebelvedere.it porterà artisti stranieri e italiani nella regione incrementando il turismo fuori stagione.

 

Fonte: Exibart.segnala

 

 

Il maestro Lorenzo Chinnici espone al Grand Hotel Timeo di Taormina dal 19 settembre

Il tempo sospeso, si intitola così la mostra personale del maestro siciliano classe 1942 Lorenzo Chinnici il cui opening avrà luogo il prossimo 19 settembre e che terminerà il 24 settembre, presso il Belmond Grand Hotel Timeo di Taormina. La mostra rappresenta l’occasione per immergersi non solo nell’arte ma anche nella maestosità di una delle terrazze sul mare più belle e suggestive del mondo, in un abbraccio fra il Teatro Greco, il monumento più celebrato della Sicilia antica e il panorama mozzafiato della costa orientale siciliana, fra i riflessi del Mar Ionio e i massicci dormienti dell’Etna. È in questa location d’eccezione che Lorenzo Chinnici, che non è mai stato vittima di mode pittoriche, ben lontano dall’arte commerciale e dal successo facile, vuole inaugurare la sua nuova mostra in terra natale. Dopo una carriera espositiva dal respiro internazionale che ha toccato città come Parigi, Milano, Londra e New York, è giunto il momento per Chinnici di confrontarsi con le proprie radici, di ritornare alle origini. Scene bucoliche punteggiate da spiagge, pescatori, barche di legno, lavandaie e contadini a lavoro. Protagonisti simbolici e ‘senza volto’ che rievocano i colori e i ricordi di una Sicilia governata dagli umori del cielo e del mare, testimoni di quello che è diventato un lusso per pochi e fortunati eletti: il tempo appunto.

Lorenzo Chinnici nasce a Merì, in Sicilia, nel 1942. Dopo regolari studi artistici, diplomatosi maestro d’arte nel 1962, insegna materie artistiche presso la scuola statale dove rimarrà fino al 2006. Nella sua età giovanile, per vicissitudini ed eventi spiacevoli, la sua anima, minata da nevrosi depressiva influenzerà i suoi primi lavori artistici: tele ed acquerelli che, a detta dei critici, non rimangono esenti da “grigiori e cupezze cromatiche”. Via via, l’imperante ed ossessiva atmosfera cupa stemperandosi, darà luogo ad una visione nuova della vita che appare meno angosciosa e più aperta a nuove speranze. Ora i suoi colori sono più caldi, più comunicativi, più profondamente umani, proprio per la disponibilità di Lorenzo Chinnici ad aprirsi ad un discorso più lieto, più fiducioso con paesaggi e figure investiti da rasserenanti lampeggiamenti di colore. La maturità artistica di Lorenzo Chinnici inizia però nel 1965, quando un critico d’arte di assoluto valore: S. Pugliatti, nell’estemporanea di centinaia di concorrenti, ammirato sicuramente dalla maturità espressiva di un pensoso paesaggio siciliano, rivelato dall’esordiente da segni decisi e marcati, gli attribuisce un premio molto ambito.

In Lorenzo Chinnici le costanti della sua produzione pittorica sono: l’essenzialità, la memoria, la testimonianza di un mondo che naufraga fra le cose, ma di cui siamo partecipi, come dell’onda del tempo, del resto. Chinnici rappresenta la vita dura e lavorativa e il viver quotidiano con grande efficacia descrittiva, mettendo in rilievo soprattutto la fisicità dei suoi soggetti. Fisicità che unita allo stile realistico mediterraneo tipico degli artisti siciliani, diviene mezzo per scandagliare l’umano, il vissuto, in sintonia con i toni cromatici che sono alla base della sua cifra stilistica riconoscibilissima che ricorda quella del suo conterraneo Renato Guttuso. Si potrebbe parlare anche per Chinnici di realismo sociale, anche se molto probabilmente all’artista siciliano più che denunciare interessa raffigurare una certa essenzialità dei gesti e dell’animo dei protagonisti delle sue opere, dei suoi lavoratori muscolosi e talvolta nostalgici, che sembrano degli atleti pronti per la loro gara quotidiana (Mediterraneo, La mattanza, La fine, Pescatori, La spinta, La forza). Atleti che, pur essendo posti in scenari meravigliosi, portano con se liricamente un drammatico segreto: lavorare instancabilmente per assicurarsi la loro anima e il loro corpo. Come Guttuso anche Chinnici aspira a conciliare la verità e l’attualità delle tematiche con uno stile incisivo fruibile da tutti e come nelle opere di Guttuso, c’è la Sicilia nei suoi lavori, con i suoi profumi e i suoi colori.

Nel dipingere il passato, Chinnici non si pone come un patetico conservatore, ma ripropone quell’energia di un tempo, pura e sana, per rammentare che c’è qualcosa di prezioso e buono, fatto di duro lavoro e sacrifici, non può essere dimenticato e abbandonato. Ecco perché, in questo senso, è importante partecipare all’onda del tempo lontano, per riuscire a cogliere la profondità dell’essere umano. Come è infatti stato giustamente osservato da Nino Cacia, il reale dell’opera di Chinnici è una realtà trascesa e trascendente (verbo che m’era venuto rapido osservando dall’inizio questa sua – esibizione personale – ). Perché, per dedicargli una celebre nozione brechtiana, “il realismo non sta nel come sono le cose ma come esse sono (veramente)”. 

Il maestro Lorenzo Chinnici

La Reggia di Caserta in 50 immagini: gli appartamenti reali

La Reggia di Caserta è la più grande residenza reale del mondo, definita anche l’ultima grande realizzazione del Barocco Italiano. Patrimonio dell’UNESCO dal 1997.
Il Parco della Reggia si ispira ai giardini delle grandi residenze europee del tempo, unendo la tradizione italiana del giardino rinascimentale alle soluzioni introdotte a Versailles.

La serie delle vaste anticamere comincia con quella degli Alabardieri per proseguire con quella delle Guardie del Corpo, molto più ricca di stucchi della precedente, per terminare con l’anticamera dedicata ad Alessandro il Grande che subì nel tempo diverse modifiche; infatti dopo aver dato seguito alla prima idea di Luigi Vanvitelli, e successivamente alla fuga di Ferdinando I in Sicilia, fu sotto il regno di Murat che proseguirono i lavori; infatti egli fece eseguire sei bassorilievi in stucco rappresentanti episodi della sua vita.


Successivamente quando Ferdinando I si riprese il regno, fece immediatamente rimuovere tutto ciò che riconduceva ai predecessori, fatta eccezione per alcuni mobili che Giuseppe Bonaparte aveva portato da Parigi, dove furono coperti tutti i monogrammi di Bonaparte cucendo su di essi il monogramma di Ferdinando, conservando così buona parte degli arredi.
Le sale sono quasi tutte in stile Luigi XVI mentre le pitture sulle volte furono sensibilmente influenzate dall’arte locale, che sin dal XV secolo seguiva con molta lentezza le nuove tendenze europee. (fonte: http://www.reggiacaserta.com/appartamenti-reali/).

489.343 ducati fu la spesa che Carlo III di Borbone, il 29 agosto del 1750, sostenne per l’acquisto dello Stato di Caserta.
Un così cospicuo esborso per le regie casse della Casa Borbone sicuramente doveva essere giustificato da un corrispondente valido motivo di stato; infatti il tutto era finalizzato ad un vasto e complesso piano riorganizzativo del Regno che il giovane Re intendeva mettere in atto. Vengono attribuite al Borbone, dagli storici informati, doti di spiccata spiritualità religiosa, oltre che di bontà e pietà che lo portavano a trascurare spesso le cure amministrative del Regno, in quanto preferiva dedicare i suoi entusiasmi alle attività che maggiormente gratificavano il suo temperamento tendente a migliorare il decoro ed il prestigio dei Borboni nella assai dimessa Napoli di quei tempi.

Appartamenti reali-presepe borbonico-biblioteca-veduta del parco

I programmi architettonici ed urbanistici sulla Reggia di Caserta impegnavano molto Carlo di Borbone in quanto erano parte essenziale e predominante del rinnovamento economico cui era finalizzata la sua politica innovativa.
Il Teatro San Carlo realizzato in soli otto mesi dall’architetto Medrano, l’ampliamento del Palazzo Reale, il Reale Albergo dei Poveri, non finito, commissionato a Ferdinando Fuga, l’ampliamento del porto e la costruzione di altri importanti edifici e Chiese, arricchirono in quegli anni Napoli dando un forte impulso all’edilizia cittadina.

appartamenti reali-quadrerie

 

Fonte testo: http://www.italiadonna.it/public/percorsi/02014/3reggiacaserta.htm

 

L’immaginario di Fernando Botero in mostra al Vittoriano fino al 27 agosto

C’è tempo fino al 27 agosto per ammirare il talento artistico di Fernando Botero (Medellìn, 1932), pittore e scultore colombiano noto in tutto il mondo per le sue impareggiabili donne formose, ospite nella prima grande retrospettiva in Italia allestita nelle sale dell’Ala Bransini al Complesso del Vittoriano di Roma.

La visione artistica di Botero “alta”, libera dalla realtà e anticonformista, sebbene tra le critiche che non mancano mai nella vita, ha conquistato il vasto pubblico fino a meritarsi  la realizzazione di una grande mostra biografica a lui dedicata, in occasione della suo compleanno, ben 85 anni, oltre che in arrivo dei primi cinquant’anni di carriera. Cinquanta capolavori sono stati selezionati e installati in modo sublime per creare un percorso espositivo che mette a fuoco tutta la vita del Maestro essenzialmente legato alla cultura della sua terra natale, l’America Latina, ma, al contempo, profondo ammiratore del Rinascimento Italiano; così come raccontato dalle opere di pittura nonché scultura attualmente presenti nella mostra romana, le quali opere appartengono al periodo della sua lunga e instancabile produzione che va dal 1958 al 2016.

Curata da Rudy Chiappini in collaborazione con l’artista, l’esposizione si presenta suddivisa in sezione tematiche per ripercorrere, dunque, volume dopo volume le tappe dell’evoluzione artistica di Botero alla luce del panorama contemporaneo. Alla base della sua pittura vi è l’amore per il passato: gli artisti del ‘300, ‘400 e ‘500 italiano, che hanno influenzato e hanno plasmato le sue opere in una chiave contemporanea, e, poi, le nature morte, i temi religiosi e sociali della cultura locale in cui è nato: la violenza in Colombia, trasformando l’arte popolare in una forma diversa, una forma di manifesto e di denuncia di torture come nei due dipinti tratti dalla nota serie Abu Grahib, datata tra il 2006 e il 2007, oppure la sorprendente serie dei dipinti sulla Via Crucis, realizzata tra il 2010 e il 2011, ed infine, nell’ultima sezione, i famosi nudi femminili prendono il posto in un ciclo di immagini senza tempo e senza una dimensione morale e psicologica, perché la forma occupa uno spazio in una realtà senza tempo per essere eternamente liberi.

Forme sensuali, volumi colorati in versione moderna prendono atto nell’originale creazione di quello stile che diviene plastico dalla mente di Botero. Lo stesso artista ha affermato che crede molto nel volume fino ad assumere valore all’immagine e che i suoi personaggi vescovi, animali, nudi femminili, tutti dalle forme generose – le amate donne curvy nel dibattito attuale sul versante della società di costume –  non sono da ritenere personaggi grassi semplicemente perché lui non ha rappresentato la realtà ma un mondo in cui le forme appaiono diverse.

Promossa dall‘Assesorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Cultrali di Roma Capitale e prodotta dal Gruppo Arthemisia e MondoMostreSkira, la mostra di Botero al Vittoriano offre l’occasione di esplorare il punto di vista dell’artista colombiano dal virtuosismo simbolico e immaginario.

Mostra Botero

Complesso del Vittoriano -Ala Bransini, via di San Pietro in Carcere

Dal lunedì al giovedì 9,30 – 19,30

Venerdì e sabato 9,30 -22,00

Domenica 9,30- 20,30

Intero € 12,00

Ridotto € 10, 00

Il mondo colorato di Marc Chagall in mostra a Sorrento

Il colore blu, le figure umane senza contorno che sembrano fluttuare all’interno di quel colore in un spazio sospeso fra il reale e il fiabesco, immagini poetiche e sognanti permeano la genialità artistica di Marc Chagall, il grande pittore franco-bielorusso più amato del XX secolo, ospite nelle 10 sale di Villa Fiorentino, la splendida dimora storica in corso Italia, sede della Fondazione Sorrento, nell’ambito di una mostra che si presenta ricca e travolgente con una vera sorpresa per i visitatori per il connubio sempre più stretto tra arte e tecnologia.

Intitolata “I colori dell’anima”, l’importante iniziativa espositiva è stata realizzata dalla Fondazione Sorrento fortemente voluta dal presidente Gianluigi Aponte e diretta da Gaetano Milano con il Comune guidato dal sindaco Giuseppe Cuomo ed in collaborazione con la Imago Art Gallery di Lugano.

Ben 120 lavori ripercorrono l’intera produzione artistica del maestro tra figure umane, animali, oggetti, paesaggi e sottili temi religiosi che si fondono nei capolavori pittorici e grafici in esposizione nel gioiello della costiera sorrentina, a seguito di un’accurata selezione destinata a raccontare uno dei maggiori artisti del secolo scorso, artefice di sé stesso nella creazione di uno stile personale e riconoscibile, il quale modus pingendi affonda le sue radici nella tradizione poetica e religiosa ebraica e russa per la scelta delle tematiche, attingendo, senza condizione, i modi e i colori delle avanguardie: il fauvismo, il cubismo e il surrealismo nel terreno fertile della stagione culturale del suo tempo.

“Le Coq Violet”, 1966-1972

Aprivo solamente le finestre della mia camera ed entravano l’aria color blu, l’amore e i fiori”, era solito affermare Marc Chagall (Vitebsk, 1887-  Saint Paul- de- Vence, Nizza, 1985), artista dall’essenza sensibile e romantica la cui poetica artistica fu espressione di una trascendentale visione onirica e illusoria realtà del tempo in cui visse: prima la rivoluzione russa alla quale egli prese parte attiva poi il primo conflitto mondiale quando egli, nel 1923, si trasferì a Parigi, dove, dopo aver raggiunto la notorietà a San Pietroburgo, il pittore realizzò per l’Opera di Parigi (1963-64) le opere monumentali della sua lunga carriera.

Una vera fuga o semplice evasione dalla realtà del paese natale di Chagall difesa con la fantasia in una dimensione che sembra appartenere a quella fase insita in ciascuno di noi: l’infanzia, felice dell’artista russo di origine ebraica nonostante le tristi condizioni in cui viveva sotto il dominio degli zar, la quale spesso ritorna nelle sue opere sotto la forma di energia e vitalità a caratterizare i lavori della sua attività che ebbe inizio a Pietroburgo per poi irrompere in una pittura in cui la solitudine si mescola ai dolci ricordi di un amore che non c’è più, la moglie Bella Rosenfeld, sua amatissima compagna di vita nonché musa.

 

Tra le opere in esposizione 20 capolavori assoluti più rappresentativi della maturità artistica di Chagall, opere realizzate mediante varie tecniche, dall’olio su tela alle gouache su carta, passando dai disegni a matita colorata fino agli inchiostri di china su masonite circoscrivono il culmine della sua parabola artistica segnata essenzialmente da opere come “La cruche aux fleurs” (1925), “Russian village” (1929), “Le Coq Violet” risalente al periodo 1966 – 1972, “L’homme rouge à la casquette” (1976) disposte nelle sale del primo piano di Villa Fiorentino. Al secondo piano, invece, il viaggio all’interno del mondo colorato di Marc Chagall continua con il potere della tecnologia nella sala multimediale appositamente realizzata attraverso la proiezione di alcune delle magnifiche vetrate che Chagall ha realizzato per le cattedrali di Metz (1959-1968) e Reims (1974). Come un gioco di prestigio, poi, il visitatore, infilando la mano nella cornice virtuale posta al centro della sala, vedrà le vetrate così proiettate sulle pareti andare in frantumi per poi apparire le vedute panoramiche della costiera sorrentina.

Nella splendida cornice di un luogo paradisiaco come Sorrento, dunque, in pieno centro storico, la Fondazione Sorrento in Villa Fiorentino accoglierà fino al 15 novembre prossimo “Marc Chagall – I colori dell’anima”, occasione estiva di un tuffo nel blu non solo del mare ma nel blu del mondo sensibile di Chagall per vivere attraverso i brillanti colori un momento di eterno come i personaggi che spuntano nelle opere di questo eccezionale ed emozionante artista navigatore profondo di emozioni.

Mostra “Marc Chagall- I colori dell’anima”

Villa Fiorentino, corso Italia, 53, Sorrento (Napoli)

Orari:

Dal 16 luglio al 31 agosto dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 13 e dalle 17 alle 21; sabato, domenica e festivi dalle 10 alle 13 e dalle 17 alle 22; dal 1° al 30 settembre dalle 10 alle 13 e dalle 17 alle 21; dal 1° ottobre al 15 novembre dalle 10 alle 13 e dalle 16 alle 20.

Costi: biglietto intero € 5; biglietto ridotto di € 3 per gruppi superiori a 10 persone.

 

Da Roma a Torino: l’eleganza di Giovanni Boldini in arrivo alla Reggia di Venaria

Fascino misterioso, raffinatezza, eleganza e mondanità accendono i corpi e i volti delle sontuose signore nei ritratti di Giovanni Boldini, il grande pittore ferrarese dallo stile unico noto come cantore del lato più salottiero della Parigi fin de siècle, le quali opere saranno in mostra a partire dal prossimo 28 luglio accolte nell’incantevole cornice della Reggia di Venaria a Torino.

Nata dalla grande retrospettiva romana al Complesso del Vittoriano ancora in mostra fino al 16 luglio, prodotta e organizzata da Arthemsia e la Venaria Reale, l’esposizione torinese accoglierà oltre cento capolavori tra olii e pastelli provenienti da importanti collezioni private e dai musei di tutto il mondo per dare gioia all’occhio di chi guarda negli olii e pastelli in un percorso che analizza una lunga e brillante carriera artistica che affonda le sue premesse culturali negli anni Cinquanta dell’Ottocento a Firenze, una delle capitali più libere e attive d’Italia, sotto l’algida di Diego Martelli, l’anima del gruppo di quella schiera di artisti che amava ritrovarsi nel Caffè Michelangelo e teorizzava l’uso semplice della pittura di macchia nella rivolta all’accademismo e nella volontà di ripristinare il senso del vero in opposizione alla forma.

Uno stile elegante quello di Giovanni Boldini (Ferrara, 1847- Parigi, 1931) preceduto dal contatto con i pittori di “macchia” nello studio della ricerca dal vero e dal dipingere per masse di colore contrapposte per poi evolversi sulla scia della rivoluzione del realismo pittorico francese rappresentato dalla messa a nudo operata da Gustave Courbet, le cui opere furono viste da vicino a Parigi da Boldini quando, in occasione dell’Exposition Universalle, nel 1867, egli si trasferì nella capitale francese conoscendovi anche i pittori impressionisti Èdouard Manet, Alfred Sisley ed Edgar Degas. Fondamentale, inoltre, per la sua fortuna artistica si presentò il trasferimento a Londra nel 1870, ove, grazie all’amico Cornwalliswer, il pittore ferrarese entrò nei salotti buoni europei. Fu così che l’attenzione dell’artista si concentrò soprattutto sulle nobili donne dell’alta società borghese fino a diventare uno dei ritrattisti più richiesti della capitale mondiale dell’arte grazie al suo abile pennello dall’uso di colori accesi e densi servendosi della tela come specchio per riflettere l’esagerazione del lusso, del divertimento e della mondanità dei salotti parigini, un mondo annebbiato dal fumo delle sigarette, dal profumo dolce delle signore sofisticate dai volti annoiati nascosti sotto il velo di cipria, dame dai guanti e dai cappellini eleganti che vestono i panni della società del benessere economico dell’Europa a cavallo tra ‘800 e ‘900, la cosiddetta Belle Èpoque.

La mostra torinese, curata da Tiziano Panconi e Sergio Gaddi, offre l’occasione di conoscere e approfondire lo straordinario talento di un grande interprete del ‘900 attraverso le forme, le concezioni pittoriche e i modi delle sue folgoranti donne nei ritratti simbolo dell’elegante Parigi. Opere note come La tenda rossa (1904), Signora che legge (1875), Ritratto di signora in bianco con guanti e ventaglio (1889), Signora bruna in abito da sera (1892 ca.) e il pezzo forte dell’esposizione: la grande tela con il Ritratto di Donna Franca Florio, uno dei capolavori più ammirati e richiesti di sempre. Questo staordinario dipinto, infatti, ha vissuto vicende amministrative e burocratiche da parte delle istituzioni siciliane che lo hanno condotto a una momentanea vendita all’asta sottraendo l’opera, simbolo dei siciliani, al patrimonio artistico da far conoscere e preservare.

 

 

Dove: Reggia di Venaria Reale, Piazza della Repubblica, 4- Venaria Reale

Sala delle Arti

Quando: dal 28 luglio 2017 al 28 gennaio 2018

Orari: da martedì a venerdì dalle ore 09:00 alle 17:00

sabato, domenica e festivi dalle ore 9:00 alle 18:30

Biglietti: intero 14€

ridotto 12€

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