Dante Arfelli, lo scrittore “superfluo”, amico di Federico Fellini

Di Dante Arfelli si è detto molto. Cesenate, classe 1921, a Rimini conosce Federico Fellini a scuola. Dopo l’Università a Bologna e la guerra in Montenegro, torna in patria e fonda una scuola media dove è contemporaneamente docente e preside. Frequenta il grande Marino Moretti e nel 1949 esce con I superflui, una storia di emarginati e sconfitti, vincendo il premio Venezia (l’attuale Campiello). Il libro è un grande successo in America alla stregua dei grandi scrittori d’oltremanica. Vende 800mila copie ed è pubblicato dallo stesso editore di Hemingway. Nel 1951 bissa con La quinta generazione, una saga famigliare ambientata a Cesenatico, che non farà il botto come il precedente.

I superflui è un romanzo vicino come tematiche al neo-realismo, ma che se ne discosta per stile e per la accuratezza della forma, racconta la generazione di giovani che tenta di ricominciare dopo i disastri della guerra, tra sconforto, smarrimento e quella amara sensazione di sentirsi, appunto, superflui.

Arfelli frequenta l’amico Fellini ancora agli esordi, diventando nel frattempo docente all’istituto industriale di Forlì e dopo qualche anno viene spostato a Cesena.

Lo scrittore, di natura schiva e solitaria, come i suoi personaggi, avverte una inadeguatezza strutturale nell’affrontare l’osservanza dei miti e dei riti della società letteraria in cui individua atteggiamenti conformisti.

Arfelli soffre di nervi, si chiude in un torpore personale. Scrive, continua a farlo, ma decide di non pubblicare più nulla e di fatto esce dal mondo dell’editoria, dalla folle marea degli intellettuali dell’epoca per ritirarsi e diventare uno dei personaggi del suo romanzo d’esordio. Un superflo.

Vent’anni di oblio, di silenzio. Su di lui cala il sipario e non si hanno più notizie. Nel 1975 esce quasi in sordina, Quando c’era la pineta, raccolta di brevi racconti scritti da Arfelli tra il 1949 e il 1954 (in pieno periodo letterario) e tra l’altro già editi su giornali e riviste. Ma la depressione lo coglie in fallo, complice anche la morte dell’amata moglie. Nel 1985 ormai pensionato si sposta a casa della figlia a Ravenna e di lì a poco si trasferirà in una casa di riposo sita a Marina di Ravenna in attesa di attraversare il buio eterno.

Proprio da qui, da questo confine quasi surreale (un giovane vecchio tra i vecchi) da questo amorfo punto di osservazione Arfelli lavora e pubblica il suo testo più sincero, fuori dal comune, quasi surrealista a metà strada tra inchiesta, raccolta di racconti, diario intimo degli giorni ultimi.

Ahimè, povero me esce nel 1993. Dante Arfelli muore nel 1995.

Fogli sparsi, deliri, racconti inediti, ricordi, diari. Quello che colpisce sono soprattutto gli scritti sulle sue giornate in struttura. Dalla passeggiata struggente nella pineta o sullo stradone del mare, appena dopo piovuto, al cibo della mensa. Dalle chiacchiere con gli altri ospiti dell’ospizio alle fughe fino alla stazione di Ravenna, per bere caffè (che dimentica sempre di pagare) e leggere i quotidiani.

Ci sono momenti di puro delirio, altri di una tenerezza sconfinata. Arfelli è conscio della sua lenta decadenza. Sente che la morte sta per giungere e non è più possibile rimandare l’angoscioso viaggio. Momenti, nel suo diario, in cui apre e chiude la pagina scrivendo semplicemente che non ha voglia di scrivere. Dorme male, non dorme affatto oppure dorme troppo. Arfelli è un vecchio scrittore dimenticato. In questa ibrida raccolta vi è spazio, oltre ai deliri e al diario, anche ad una breve serie di racconti (finalmente inediti) che lo riaffermano come piccolo grande narratore minimalista.

Ahimè, povero me non è solo il grezzo diario finale di un grande uomo dimenticato. Dentro c’è molto di più. Dentro c’è tutta la decadenza, l’oblio, la tenera resa in attesa della morte.

 

Giosuè Gorinzi

‘Il mulino del Po’, l’opera monumentale di Riccardo Bacchelli

Il mulino del Po: si contano forse sulle dita, e ogni anno scemano, e per scoprirli bisogna andare apposta a cercarli, chi non percorra il fiume in barca.

Tanto pochi, nella vastità molle e potente del fiume serpeggiante, li nascondono o li lasciano appena intravedere, qua un gomito, là un ciglio d’argine, altrove un lembo di golena boscosa, o le svolte della strada rivierasca.

Mulini del Po: le parole con cui Riccardo Bacchelli apriva il suo romanzo intitolano e inaugurano anche queste pagine, ne suggeriscono il metodo di ricerca e mormorano le difficoltà incontrate.

Un romanzo fluviale di uno scrittore emarginato dal Novecento e la storia, anch’essa fluviale, delle sue riscritture per il cinema e per la televisione.

Il mulino del Po: trama e contenuti

Lazzaro Scacerni, nominato erede da Mazzacorati, un capitano dell’esercito napoleonico in Russia, tornato in Italia si costruisce un mulino. Sposa Dosolina e conserva con difficoltà i suoi beni. Il figlio Giuseppe, detto Coniglio Mannaro, riesce ad ampliare, non sempre con metodi leciti, la proprietà paterna.

Il figlio di Giuseppe, Lazzarino, raggiunto Garibaldi, muore a Mentana. Dopo una violenta inondazione Coniglio impazzisce e finisce in manicomio. La moglie Cecilia supera mille avversità per mantenere la famiglia.

Il figlio Princivalle, per difendere la sorella Berta, uccide con un pugno un giovane vicino. Un altro figlio di Cecilia, Giovanni si sposa e adotta un trovatello che morirà sul Piave nel 1918 e sarà l’ultimo Lazzaro Scacerni.

Nell’ultima parte del romanzo, intitolata Mondo vecchio sempre nuovo, l’epopea della famiglia Scacerni giunge alla fine. Cecilia, moglie di Giuseppe, fa di tutto per riuscire a sopravvivere da sola.

Una volta rimasta vedova, però, la sfortuna si accanisce di nuovo su di lei: il figlio Princivalle verrà accusato dell’incendio doloso del San Michele e finirà in carcere.

Giovanni, l’altro suo figlio, adotta un bambino e lo chiama Lazzaro. Questo verrà però ucciso sul Piave proprio mentre la vittoria italiana si stava avvicinando. Era un geniere e, quando venne colpito, stava lavorando alla costruzione di un ponte di barche.

Una trilogia sul Risorgimento italiano

La trilogia pubblicata a puntate da Riccardo Bacchelli sulla rivista «Nuova Antologia» tra il 1938 e il 1940, e poi raccolta in volumi per l’editore Garzanti, è infatti solo uno dei mulini del Po: il capostipite di una serie di mulini ridisegnati in seguito per il discorso audiovisivo sul grande e sul piccolo schermo.

Saranno questi i veri “ultimi mulini natanti, gli ultimi degli ultimi”.

Sia per il film del 1949 diretto da Alberto Lattuada sia per lo sceneggiato trasmesso in due cicli con la regia di Sandro Bolchi nel 1963 e nel 1971 sulla Rete Nazionale, il romanzo di Bacchelli rappresenta il palinsesto sul quale sono stati vergati dei sovratesti, destinati a tradursi in immagini.

Tra letteratura, cinema e televisione

Entrare nei cantieri di scrittura cinematografica e televisiva del Mulino del Po significa valutare per la prima volta un lavoro di tessitura dell’intreccio fatto di tappe e mani diverse. E significa scoprire sempre, a fianco alle tracce lasciate da illustri sceneggiatori che rispondono ai nomi di Federico Fellini, Tullio Pinelli, Mario Bonfantini, Carlo Musso e Luigi Comencini, il filo rosso tratteggiato dal pennino di Riccardo Bacchelli, coinvolto in entrambi i progetti.

Per una manciata d’anni Riccardo Bacchelli, classe 1891, nasce prima dell’invenzione del cinematografo e, rispetto a esso,
condivide con la generazione dei letterati più anziani – Giovanni Verga in testa – quell’atteggiamento ambivalente fatto di diffidenza e di sottaciuta compromissione professionale solo in ragione dell’odor di quattrini.

A differenza dei suoi predecessori, però, Bacchelli incontra anche la televisione. E la rimira. Egli è uno dei primi letterati che entra fisicamente nel tubo catodico, conduce trasmissioni culturali di un certo rilievo e spende con dovizia il suo inchiostro per la narrazione drammaturgica sul piccolo schermo.

La storia dei “piccoli” e quella dei grandi

Il mulino del Po è il racconto di diverse generazioni, uno spaccato tra la caduta di Napoleone e il primo Dopoguerra, dove la storia quotidiana si intreccia con la grande Storia.

La lettura in certi punti risulta un po’ ostica, causa i moltissimi dettagli storici, una ricca  storiografia di eventi minori. Nonostante questi aspetti, l’opera di Bacchelli rimane importantissima e purtroppo dimenticata (l’ultima edizione risale al 2013, Mondadori).

Il mulino del Po offre un’immagine vivida di come potevano svolgersi le vicende umane e sociali in un periodo movimentato come quello della lunga strada per l’unità d’Italia (il brigantaggio, i primi moti sociali).

Per noi che siamo ancora abituati a studiare la storia, a scuola, sempre e solo dal punto di vista dei grandi (politici, generali e comandanti militari, alti prelati) è l’occasione di immaginare ed immedesimarsi nei punti di vista dei “piccoli” (contadini, mugnai e lavoratori in genere, soldati semplici, curati di campagna) che sono poi, in ultima analisi, quelli che la storia la fanno realmente, ma perdendosi nell’oblio, oscurati dai grandi nomi che i libri di storia annoverano.

Il moralismo di Bacchelli

Il peculiare moralismo di Bacchelli riesce, per la maggior parte del romanzo, a dare una base solida sia alla visione della vicenda che allo svolgersi dell’intreccio. Non esente da descrizioni bucoliche alle volte caricaturali, l’autore è però capace anche di far commuovere e di tenere inchiodata l’attenzione del lettore alla pagina con la sua scrittura che per lunghi tratti scorre fluida e per un romanzo  che supera le duemila pagine, l’insieme appare tuttavia di una compattezza indubbiamente da apprezzare.

Antonio Spoletini, la “faccia giusta” per il cinema: ‘il cinema è seduzione e che la seduzione ha un limite’

Il nome di Antonio Spoletini probabilmente ai più non dirà nulla, ma Spoletini, protagonista del docufilm Nessun nome nei titoli di coda, diretto da Simone Amendola, ci racconta l’indimenticabile cinema dei grandi maestri, quegli aspetti fondamentali ma che sono sconosciuti; perché dietro le grandi star e i grandi registi c’è un universo di uomini e donne indispensabili per la riuscita dello spettacolo. L’attore, che non ha rimpianti, e conserva sempre un certo spirito critico, è impegnato sui set di James Bond e su un film a episodi di Terrence Malick.

Trama

Se dici “comparse” dici Spoletini. Cinque fratelli trasteverini che a partire dal dopoguerra hanno cercato le facce giuste per il cinema italiano e internazionale passato da Roma. Dei cinque, Antonio, a ottant’anni suonati, è ancora lì, sul suo campo di battaglia, Cinecittà. All’approssimarsi dell’idea di una fine, come ogni uomo, vorrebbe lasciare un nome nei titoli di coda.

Contenuti del film

Nessun nome nei titoli di coda, prodotto dalla casa di produzione Hermes, è nato durante una cena quando a tavola Antonio Spoletini ha cominciato a raccontarci una miriade di aneddoti sui personaggi con cui aveva lavorato nel corso della sua quasi settantennale carriera: da Pasolini a Visconti alla Hollywood sul Tevere, da John Huston a Scorsese fino ai giorni nostri, passando in rassegna i loro pregi, difetti, manie, tic e passioni.

Il progetto inizialmente prevedeva un maggiore utilizzo, in percentuale, del materiale d’archivio rispetto alle riprese da effettuare: in corso d’opera ci gli addetti ai lavori si sono resi conto che per poter trasmettere al pubblico le stesse emozioni (alcune anche spiacevoli) sarebbero dovuti uscire dagli schemi non raccontando un pezzo di storia del cinema attraverso Antonio bensì la storia di Antonio stesso, invertendo le proporzioni tra girato e materiale di repertorio.

Un film che lavora sulla figura di Antonio Spoletini come passpartout per raccontare senza retorica le trasformazioni del cinema e quelle della società, di una città e di un paese, esplorando mondi invisibili eppure centrali; seguendo il corso e le azioni di Antonio (uomo vero, ma anche personaggio) l’idea è stata quella di  fare un film che inizia entrando dalla porta di servizio e che finisce uscendo dal camerino degli artisti.

Cinecittà

I ricordi di Antonio Spoletini

È venuto fuori un documentario su un uomo che attraverso i suoi ricordi dietro la macchina da presa ha permesso non solo una diversa ricostruzione dei tanti, tantissimi film a cui ha preso parte ma anche una spiegazione puntuale sulle diverse trasformazioni di Cinecittà e del Cinema che, da sempre, accompagna l’evoluzione dei costumi e della società.

Cinecittà e il Centro Sperimentale di Cinematografia – che hanno appoggiato con entusiasmo la nostra iniziativa concedendoci numerose aree per le riprese –, ha affermato il produttore Cristiano Sebastianelli occupano un peso specifico rilevante nel documentario ma i “set” scelti per raccontare la vita e le esperienze sono tanti, a partire dal cuore di Roma, Trastevere, il rione in cui Antonio è nato e da cui è partita la sua avventura. Molte eccellenze dei cinema italiano e internazionale hanno voluto partecipare al documentario, i premi Oscar Dante Ferretti e Fernando Meirelles, il vincitore della Palma d’Oro a Cannes Marcello Fonte. 

 

1) Cosa significa per lei ricordare? Evocare con un sorriso e un po’ di nostalgia il passato? Rimpiangerlo?

Non rimpiango mai nulla. Mi sono capitate anche tante cose non fatte, ma se non l’ho fatte è perchè in quel momento doveva andare così.
Il passato quindi lo vivo come qualcosa di sereno. Forse a volte penso quella cosa l’avrei potuta fare in quest’altra maniera, ma è uno spirito critico che mi serve a migliorare sempre, a guardare avanti. La cosa fondamentale è che quello che faccio ancora mi diverte, cercare le figurazioni e le facce giuste per i film è ancora qualcosa che faccio con passione.

2) Il regista che le ha lasciato qualcosa di speciale?

Ce ne sono tanti. Federico Fellini, Gigi Magni, Monicelli, Visconti… ho lavorato con tutti i grandi e ognuno mi ha dato qualcosa, ad ognuno ho rubato qualcosa, anche fosse solo la simpatia. A volte faccio la battuta ‘faccio prima a dire con chi non ho lavorato…’
Con Federico ho tantissimi episodi! Uno molto personale non lo racconto perchè lo scoprirete guardando il film su di me, Nessun nome nei titoli di coda di Simone Amendola.
Vi posso però dire che io sono uno dei tre che ha visto Ingmar Bergman con gli occhi lucidi mentre Federico gli parlava.

3) “Il cinema: una donna nuda e un uomo con la pistola. Qualcosa a metà tra l’orologeria di precisione e la tratta delle bianche”, diiceva Dino Risi, lei che visione ha del cinema?

È una domanda difficile per me. Io dico che il cinema è seduzione e che la seduzione ha un limite.
Già il Decameron di Pasolini e I diavoli di Ken Russel rischiano di superarlo.
Per me il cinema coincide con le donne che fanno immaginare, come la Vitti, sia nei film di Antonioni sia nelle commedie.
Dino (Risi) è un provocatore intelligente. Un grande regista. Con lui già i miei fratelli fecero dei piccoli personaggi in Poveri ma belli e poi io ho lavorato con lui tante volte.
Una volta gli feci la domanda qual’è il tuo film migliore, lui rispose Il sorpasso e Una vita difficile. Io dissi ‘No, il sorpasso è simpatico, Una vita difficile è il tuo capolavoro’ Io ho lavorato anche con il figlio Marco, un bravissimo regista boicottato dopo che fece Il muro di gomma.

Backstage “La faccia giusta”

4) Come trova il cinema attuale, soprattutto quello italiano?

Io non sono mai stato pessimista, ma a fine anni ‘80 ho detto il cinema italiano sta a pezzi. Oggi ammetto di non seguire più tanto le nuove leve. Vado meno al cinema. Uno con cui mi pacerebbe lavorare è Garrone.

5) Che significato e valore attribuisce al successo in questo ambiente? Che rapporto ha avuto e ha con la popolarità?

La fama vale solo se hai le qualità. Se diventi conosciuto in un certo ambiente perchè vali.
Oggi mi dicono ‘c’è un film su di te, sei diventato famoso!’ La cosa non mi esalta, però mi fa piacere che siano contenti che si parli di me, che dicano ‘era ora!’

6) Cosa spera di trasmettere agli spettatori con questa pellicola? E cosa dovrebbero sapere sul cinema italiano del suo tempo?

Spero che sia uno stimolo per prendere rapporto con un certo mondo, un certo passato. Io ripeto spesso ai giovani: prendetevi qualche dvd, studiatevi come recitavano Marcello, Nino, Ugo, Gianmaria, Vittorio! Dal ’60 al ’90 abbiamo fatto delle cose enormi. Io dico che Leone ha superato John Ford.

7) Prossimi impegni?

Vengo ora da Matera, dai set di James Bond e del nuovo film a episodi di Terence Malick, siamo stati lì per quattro mesi.
Per me Matera è cinematograficamente una seconda casa. Ci sono tornato dopo Il Vangelo secondo Matteo e The Passion di Mel Gibson.
Vediamo il futuro cosa riserva. Ho avuto delle proposte, ma non so… Aspettiamo, ora non andiamo di fretta.

15 anni senza Alberto Sordi, fenomeno tutto italiano, intraducibile all’estero, il cui riso che suscita nello spettatore scaturisce da una deviazione dell’infantilismo

Oggi potremmo ancora ridere con Alberto Sordi? Esistono ancora, gli italiani raccontati da Albertone? Facile rispondere di no, e del resto Sordi stesso, almeno negli ultimi 25 anni di carriera, raramente era riuscito a produrre maschere potenti: l’ultima volta con i due funerali della commedia all’italiana, Un borghese piccolo piccolo e I nuovi mostri; poi, solo Monicelli lo aveva recuperato con un ruolo all’altezza, archeologico e riassuntivo, Il marchese del Grillo (1982). Oggi gli italiani alla Sordi, i finti moralisti o i commercianti d’armi, gli arrampicatori sociali e i mezzibusti è difficile ritrarli con un briciolo di simpatia. Per fare delle commedie è quasi impossibile non scantonare verso la fiaba o verso il demenziale.

Sordi, si è detto, fa ridere solo in Italia. Un critico francese, guardando un suo film, chiese una volta ai colleghi italiani: “Ma come è possibile ridere del Male?” Il che, a suo modo, è un riconoscimento grandissimo. Eppure la figura di Sordi conosce una sua evoluzione, a partire da una vena più lunare verso una aderenza maggiore al proprio tempo. I suoi anni felici sono quelli del boom economico e quelli immediatamente precedenti.

Tra Un americano a Roma (1954) e il suo esordio alla regia, Fumo di Londra del 1966, ci sono oltre 50 film, di cui almeno un terzo memorabili. È l’unico momento in cui il meschino italiano di Sordi è anche un modello positivo, o trova un riscatto: e i finali di film come Tutti a casa (1960) o Una vita difficile (1961), con lui che trova la morte imbracciando le armi contro i nazisti, o prende a schiaffi il commendatore simbolo del benessere, sono esempi indimenticabili. Dopo, la sua maschera diventerà più amara che feroce, spesso declinando nella variante passiva-aggressiva della Vittima (Detenuto in attesa di giudizio, Bello onesto emigrato Australia…) che magari è anche un Mostro o può diventare tale (La più bella serata della mia vita, ancora Un borghese piccolo piccolo).

Alberto Sordi, da Nando l’americano a Roma al soldato in La grande guerra

Negli anni 80 l’attore unì i suoi personaggi in un filo unico, nella lunga trasmissione Storia di un italiano. L’idea era di porsi come personaggio esemplare dell’italiano nel ‘900: un esempio, se non integralmente positivo, almeno da guardare con indulgenza. In effetti, i film da lui interpretati sono stati proprio questo, in maniera più o meno cosciente. E va aggiunto che “Alberto Sordi” è anche l’opera collettiva di grandi sceneggiatori e registi: Rodolfo Sonego ovviamente, e poi, ognuno col suo mattoncino, Monicelli, Risi, Comencini, Age e Scarpelli, Zavattini, Steno, Scola, Fulci, Fellini.

Tutti a casa, il capolavoro restaurato di Comencini nella sezione Classici

Eppure la grandezza di Sordi non è solo nella sua forza di rispecchiamento, ma anche nel suo opposto. È la storia di un italiano, la sua, ma ancor meglio la storia di un iper-italiano, nel senso dell’ipperrealismo: un’imitazione allucinata, che diviene disturbante. Monicelli racconta che all’inizio della carriera, sul palcoscenico, Sordi lasciava tutti sconcertati, suscitava reazioni scomposte, come un autentico provocatore, che non si era mai visto prima.

Alberto Sordi, i premi e gli onori di un ‘italiano medio’

In seguito, questo comico anarcoide trova una perfetta coincidenza con l’italiano medio: ma sotto sotto continua a raccontarlo in maniera parossistica, non-realistica, inserendo una vena atroce in ogni apparizione. In un bellissimo saggio-patchwork sull’attore, Alberto Sordi. L’Italia in bianco e nero (Mondadori), Goffredo Fofi lo vede come una serie quasi caleidoscopica di influssi e di incroci, ma all’inizio, come prologo, racconta un incontro simbolico: quello, nella Roma ottocentesca, tra Nikolaj Gogol e Giuseppe Gioacchino Belli. Ecco, piace immaginare che alla nascita dell’attore trasteverino abbiano presieduto questi due astri, di umor nerissimo, conservatori e anarchici come lui.

L’opinione di Pasolini

In un intervento di Pasolini su Il Reporter del 1960, si legge a proposito di Sordi:

Vediamo un po’: in fondo il mondo della Magnani è, se non identico, simile a quello di Sordi: tutti due romani, tutti due popolani, tutti due dialettali, profondamente tinti di un modo di essere estremamente particolaristico (il modo di essere della Roma plebea ecc.). Eppure la Magnani ha avuto tanto successo, anche fuori d’Italia: il suo «particolarismo» è stato subito compreso, è diventato subito, come si usa dire, universale, patrimonio comune di infiniti pubblici. Lo sberleffo della popolana di Trastevere, la sua risata, la sua impazienza, il suo modo di alzare le spalle, il suo mettersi la mano sul collo sopra le «zinne», la sua testa «scapijata», il suo sguardo di schifo, la sua pena, la sua accoratezza: tutto è diventato assoluto, si è spogliato del colore locale ed è diventato mercé di scambio, internazionale. È qualcosa di simile a quello che succede per i canti popolari: basta trascriverli, aggiustarli un po’, toglierci la selvatichezza e l’eccessivo sentore di miseria, ed eccoli pronti per lo smercio a tutte le latitudini.
Alberto Sordi, no. Parrebbe intraducibile. Lo si direbbe un canto popolare che non si può trascrivere. Ce lo vediamo, ce lo sentiamo, ce lo godiamo noi: nel nostro mondo «particolare.

Ha ragione Pasolini, Sordi è un fenomeno tutto italiano, comprensibile solo a noi italiani perché il genere di riso che suscita Sordi un po’ ci fa vergognare, in quando ridiamo dei nostri vizi, delle nostre viltà, del nostro qualunquismo e delle nostre ipocrisie. Ma lo comprendiamo perché è un tipo di riso che scaturisce da una deviazione dell’infantilismo come sostiene il grande intellettuale e che invece di produrre bontà come in Anna Magnani o in Charlot, produce vigliaccheria, egoismo ed opportunismo. Tuttavia questa cattiveria commuove noi italiani perché in fondo sappiamo cosa si cela dietro: una necessità improrogabile, il doversi adattare a questo mondo, che non consente di vedere i bisogni e i sentimenti degli altri. Ecco perché l’italiano piccolo-borghese perdona i personaggi di Sordi. Conclude Pasolini:

Questa comicità di Sordi piccolo-borghese e cattolica, fondamentalmente senza nessuna fede, senza nessun ideale, non urta e non urterà mai la censura italiana: urta e urterà sempre chi possiede una sensibilità civica e morale, cioè la media dei pubblici francesi e anglosassoni. Non vorrei che questa potesse parere una eccessiva «stroncatura» di Sordi: in fondo, probabilmente senza rendersene conto, il tipo che egli così intelligentemente e vividamente ha inventato, era necessitato fuori da lui, dalla società in cui egli vive in assoluta acribia. Per diventare un vero grande comico, «universale» (come si dice) gli ci vuole un po’ di senso critico: un po’ di cattiveria intellettuale, finalmente, dopo tanta cattiveria viscerale! C’è infatti la possibilità di inserire nel suo personaggio quel tanto di pietà, cioè di conoscenza di sé e del mondo, sia pure irrazionale e sentimentale, che gli manca. Egli deve essere meno ellittico, meno ammiccante: noi, che ci siamo in mezzo, lo capiamo subito, gli stranieri (cioè il mondo, cioè lo spettatore in assoluto), no. Egli deve rendere esplicita quell’estrema ombra di pietà che nel suo infantilismo pure permane e può commuovere, malgrado le mostruosità di cui è capace.
E dico che tutto questo è possibile perché due volte Sordi c’è riuscito: una volta per merito del dialogo, una volta per merito del regista. Intendo riferirmi a una particina indimenticabile, a una specie di «a solo» che Sordi ha eseguito nel Medico e lo stregone; e, soprattutto, alla Grande guerra. In questi due casi, finalmente, Sordi vive di due elementi, entrambi operanti: il Sordi bebé antropofago, cattivo, amorale, e il Sordi poveraccio morto di fame sostenuto suo malgrado da una forza morale, dalla pietà che in infinitesima parte sente e per il resto incute.
Se in Sordi entrasse definitivamente questa contraddizione, se egli capisse che non si può ridere se al fondo del riso non c’è della bontà – pur esercitata o repressa in un mondo nemico – la sua comicità finirebbe di essere uno dei tristi fenomeni della brutta Italia di questi anni, e potrebbe, nei suoi modesti limiti, contribuire almeno a una lotta riformistica e morale.

 

 

http://www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2018/02/23/news/15_anni_senza_alberto_sordi-189475632/

Anna Magnani in mostra al Vittoriano: 18 immagini per ripercorrerla

Ha preso il via il 22 luglio scorso la mostra “Anna Magnani, la vita e il cinema”, un evento facente parte del circuito de “Il Vittoriano tra musica, letteratura, cinema e architettura”. L’estemporanea, conclusasi il 22 ottobre scorso, è stata un meraviglioso omaggio ad una delle figure centrali del cinema italiano, snodandosi attraverso un percorso culturale ricco di oggetti, fotografie, materiali audiovisivi inediti che hanno ripercorso la biografia dell’attrice romana, a partire dai suoi esordi nel teatro, fino ad arrivare ai grandi successi di Cinecittà e Hollywood. Curata da Mario Sesti, regista, giornalista e critico cinematografico, la mostra è stata realizzata con la collaborazione del Centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale e dell’Istituto Luce Cinecittà, che hanno messo a disposizione i loro archivi fotografici. (fonte: http://arte.it/calendario-arte/roma/mostra-anna-magnani-la-vita-e-il-cinema-41833)

La mostra, a cura del critico cinematografico Mario Sesti, si apre con la biografia di Anna Magnani che se per i cinefili rappresenta un vademecum per districarsi tra gli scatti, per i visitatori ancora ignari è l’occasione per conoscere l’attrice.
Procedendo, il visitatore viene attratto da questa piccola sala cinematografica: in essa vengono proiettate scene di  film della Magnani. Da qui si inaugura la sezione della mostra dedicata al mondo cinematografico.

 


(foto)1,4 La carrozza d’oro, di Jean Renoin, 1952.
2,6  Nella città l’inferno, di Renato Castellan, 1958.
3   Risate di gioia, di Mario Monicelli ,1960.
5   Made in Italy (La famiglia, III episodio), di Nanni Loy, 1965
1,4 Avanti a lui tremava tutta Roma, di Carmine Gallone,1946.
2 Camicie Rosse, di Goffredo Alessandrini, 1952.
3,5 Mamma Roma, di Pier Paolo Pasolini, 1962.
1,2,3,4 Abbasso la ricchezza, di Gennaro Righelli, 1946.
5 Il Bandito di Roberto Lattuada, 1946.
1 Vulcano, di William Dieterle, 1950.
2 Il Bandito di Roberto Lattuada, 1946.
3 Bellissima, di Luchino Visconti, 1951.
4 Teresa Venerdì, di Vittorio de Sica, 1941.
In queste foto si vede Anna Magnani al di fuori dei set.
Questa è l’unica foto della mostra che ritrae Anna Magnani con il figlio Luca, a Piazza di Siena, ad un concorso ippico.
La mostra di fotografie è arricchita dalle riflessioni  personali di Anna Magnani che, permettono al visitatore di entrare in empatia con l’attrice.
1. Anna Magnani con Roberto Rosselini
2 Con Anthony Franciosa
3. stretta a Marlon Brando
4 con Goffredo Alessandrini.
Con queste 4 foto si chiude la parte della mostra dedicata al cinema
Il visitatore dopo aver ammirato i mille volti di Anna Magnani negli innumerevoli film , ha il privilegio di  ammirarla , attraverso delle immagini inedite nell’intimità delle mura domestiche.
Qui si vede Anna Magnani in alcuni momenti della sua vita domestica.
In questa carrellata di fotografie si intravede una Anna sorridente alla sua scrivania, oppure intenta a fumare una sigaretta, durante delle interviste.  Il visitatore si appresta ad uscire da casa Magnani pensando di aver terminato il suo viaggio.
Nell’uscire il visitatore viene quasi richiamato in questa sala: sullo schermo vengono riprodotte alcuni contributi Rai ed altre parti di film che hanno visto Anna Magnani protagonista. La sua voce riecheggia al di fuori della Sala come per voler accompagnare e condurre il visitare verso l’uscita.
Il visitatore si ritrova davanti a questa sequenza di fotografie. Si tratta di una scena del film Roma città aperta, di Roberto Fellini, 1945: La ferocia dell’occupazione il cielo plumbeo della guerra su Roma, la corsa e l’urlo più famoso del cinema italiano. Alla Magnani il film deve non soltanto la leggendaria prestazione drammatica ma anche lo humor, controcanto amaro che condivide con Aldo Fabrizi. 
Proiettato per quasi due anni nel cinema di New York.
In questa trilogia fotografica è riprodotto il film Teresa Venerdì di Vittorio De Sica del 1941: in questa commedia degli equivoci che nella pasta di racconto e recitazione già, rivela la mano di un autore, c’è la prima vera messa a fuoco di ciò che la Magnani poteva dare al cinema: nel personaggio memorabile di una soubrette, Lolella, c’è già l’esperienza del varietà che catturò l’occhio, intimidito di De Sica.
In queste foto è ritratto un altro capolavoro della Magnani. Il film è Bellissima di Luchino Visconti del 1951: Maddalena sogna per la figlia il cinema che si prende gioco di lei e della bambina con disprezzo. La Magnani madre ferita e trepidante che affronta di petto ogni avversità o lusinga,prende luce anche in penombra e riempie ogni angolo dello schermo.
Questa successione di immagini ricorda un altro film di successo della Magnani: Roma di Federico Fellini del 1972. Fellini si mise in ginocchio per convincere la “pantera” a questa ultima apparizione nella quale incarna la città: il riso di scherno ,il disincanto della città eterna. L’ultima passeggiata nel cinema con la sua ombra che si allunga sui muri e il suo sorriso. Il film si chiude con Anna Magnani che rientra a Casa, a Palazzo Altieri accompagnata dalla voce di Fellini che dice”: Questa signora che rientra a casa è un’attrice romana. Anna Magnani, che potrebbe essere anche un po’ il simbolo della città.
Magnani: Che so’ io?
Fellini: Una Roma vista lupa e vestale, aristocratica e stracciona, tetra, buffonesca, potrei continuare fino a domattina.
Magnani: A Federì, va a dormire, va’.
Fellini: Posso farti una domanda?
Magnani: No, non me fido. Ciao, buonanotte!»
Qui termina la mostra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Perché il film “La grande bellezza” non può esserci estraneo

Paolo Sorrentino

Molti si chiederanno perché  Novecento Letterario  abbia deciso di trattare un film invece  di un romanzo, seppur non si tratti di un film qualsiasi ma del  film italiano che ha trionfato nella notte degli Oscar lo scorso 2 marzo 2014, “La grande bellezza” del regista napoletano Paolo Sorrentino. La risposta è molto semplice:  crediamo che  questa vittoria possa essere da sprone per riuscire sempre di più, con impegno e passione, in questo progetto culturale. Già, la cultura, la tanto osannata cultura che tutti menzionano ma  sulla quale in pochi vogliono puntare davvero, Novecento Letterario cerca di fare proprio questo: valorizzare la cultura e i talenti, far conoscere giovani scrittori, i romanzi del ‘900 ( celebri e meno celebri),  i loro autori, i più grandi critici letterari,  e tanto altro  ai nostri  lettori. Sorrentino ha portato sul podio più alto la nostra cultura, il nostro Paese invitandoci ad essere ottimisti e a mettere la cultura al primo posto con un film dall’altissimo valore tecnico-artistico, fotografando una città che pullula di cultura, di storia, di arte, quale è Roma. E proprio grazie al film di Sorrentino, Roma è presa d’assalto dai turisti che vogliono ripercorrere le tappe del protagonista del film, scoprendo luoghi meno conosciuti. Fare cinema è produrre cultura,  proprio  come scrivere un libro.

“La grande bellezza” è un film ambiguo, fluido, controverso che non può non dividere e far discutere. Ma quello che sorprende negativamente sono certe prese di posizione a prescindere, soprattutto di chi non ha mai visto un film di Sorrentino e lo ha stroncato gratuitamente e di chi non perde occasione per far valere il detto”l’erba del vicino è sempre più verde”. Dovremmo essere più nazionalistici, sbarazzandoci dell’eccessiva esterofilia che ci contraddistingue ed  essere capaci di gioire se un film italiano dopo 15 anni torna a vincere un Oscar. Ma non solo perché è made in Italy. “La grande  bellezza” è un film bellissimo, potentissimo dal punto di vista visivo che ricorda il miglior Fellini (non tanto “La dolce vita” come si è spesso detto e scritto, ma “Otto e mezzo”). Un affresco umanistico megalomane, dilatato, fatto di rilanci narrativi, e  soprattutto lungo; è stato liquidato da alcuni come “noioso” (e lo ha dichiarato lo stesso Sorrentino)ma come non può essere a tratti noioso un film che parla della noia e della decadenza? Sorrentino ha osato, nel raccontare il nostro smarrimento, tralasciando la politica (scandalizzando i più radical chic) e concentrandosi soprattutto su certe categorie sociali (ricordando la crisi dell’intellettualismo che Ettore Scola ha raccontato nel film “La terrazza”); onore al merito. Tra canti gregoriani che si mescolano con Antonello Venditti e Raffaella Carrà, e aforismi che ci vengono propinati con cinismo dallo scrittore e giornalista fallito Jep Gambardella (uno strepitoso Tony Servillo), l’autenticità e una certa consapevolezza di quello che siamo diventati è facilmente trovabile in spogliarelliste in crisi piuttosto che in cardinali evasivi e che prediligono l’arte culinaria alle questioni spirituali. E come non può essere trasfigurata anche Roma stessa, che sembra una diva morta ma affascinante e suggestiva, attraverso gli occhi disincantati del protagonista?

Non bisogna smarrire la strada che conduce alla grande bellezza che per Sorrentino è rappresentata, secondo me, dalla giovinezza e dalla purezza perdute, da un tempo che non torna più (ma il regista napoletano racconta giù un tempo che non c’è più) e dalla spiritualità e dalla tenerezza incarnata dalla commovente suora in ciabatte che verso la fine della pellicola dirà “che le radici sono importanti”.

A dispetto di chi sostiene che gli Oscar sono una cafonata mercificante e che non contano nulla, a dispetto di chi pensa che sia stato un successo dato dal marketing  (e non è un reato) per compiacere un pubblico becero, poiché un prodotto targato Medusa (con la  Indigo Film) di Berlusconi non può risultare “artistico” e “culturale”,  il successo  e la vittoria de “La grande bellezza”è dovuto in primis dalla straordinaria capacità da parte del suo autore di saper puntare sullo shock emotivo (lontano dalla pietas che Fellini aveva per i suoi personaggi) concetto cinematografico per eccellenza e di assemblare metapersonaggi (Verdone e Ferilli), il grande e il piccolo, il gusto per il  cafonal e la fustigazione dei suoi costumi, ossessione e autocompiacimento. E in fondo Sorrentino ha parlato proprio di quelli che criticano il suo film.Tuttavia all’interno di questo grande e variegato “arsenale”, pare che tutti abbiano ragione.

Ripartiamo dalla bellezza.

 

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