Giuseppe Gimmi ha 24 anni ed è di Fasano. L’anno scorso ha frequentato un corso di sceneggiatura presso lo “Spazio tempo” di Bari. La trama del film è la seguente.
Per le vie del Paradiso è la storia di un ragazzo pugliese nelle campagne degli anni settanta. Il ventenne Tonino Bianco è un contadino alle prese con il duro mestiere della terra. Una mattina Tonino si reca in una chiesa del territorio e mentre a passo lento si avvicina verso una tela, viene catapultato in una realtà diversa, simile al mondo dei sogni, dove immagina, di abbracciare attraverso un ricordo suo padre Tommaso, scomparso per una grave malattia.
Il chiacchiericcio sovrastante del popolo però si rivela come punto cardine nella vita di Tonino disorientando i suoi pensieri. Non si tratta di una mise en abyme, ma di una vera apertura al sogno che ricorda Ermanno Olmi (si pensi soprattutto a “Il segreto del bosco vecchio“) e Fellini (si pensi a “La voce della luna”).
La sorpresa positiva è che la sceneggiatura del film è di Gimmi. Non c’è nessuna trasposizione. Non ci sono alle spalle il romanzo di Buzzati, né il poema di Cavazzoni. È cinema di alta qualità. Da un lato abbiamo la capacità di sognare del protagonista e dall’altro invece la chiacchera impersonale heideggeriana della gente.
Heidegger in “Essere e tempo” scriveva che l’inautenticità della vita contemporanea è data dalla chiacchiera impersonale, dalla curiosità, dall’equivoco. Nel film il sogno si staglia sull’inautenticità. La via maestra è segnata. È soltanto riappropriandosi dei sogni che si può vivere veramente, soltanto sapendo mischiare realtà e finzione, quotidianità e sogno a costo anche di non saper più distinguere il reale dal sogno.
Bisogna saper tenere i piedi per terra, saper rimanere ancorati per buona parte del tempo, ma talvolta bisogna anche saperli staccare, sapersi innalzare verso il cielo come nei racconti di fantasia di Gogol. Ci sono due modi opposti di essere provinciali: 1) quello di approfondire le cose e di riuscire a guardarle in modo completamente nuovo. Ogni Recanati ha il suo piccolo Leopardi. Il provinciale in questione è un isolato che ha sete di conoscenza. Questo è un modo difficile e costruttivo di essere provinciale. 2) non discostarsi assolutamente dal conformismo e dalla mentalità comune del paese.
Questi sono i due poli opposti e Per le vie del Paradiso si gioca anche su questo discrimine. Da un lato avremo il chiacchiericcio che sfocia nel pettegolezzo maligno e dall’altro l’oggetto della calunnia.
La provincia mostra il suo lato terrificante quando l’ignoranza ha la meglio e rivela la sua vera essenza quando la solitudine sfocia nel talento, come in questo caso. Sullo sfondo una Puglia bellissima. Il film è ambientato negli anni settanta forse per prendere maggiormente le distanze, forse perché la vita è come una immagine che si può mettere a fuoco solo quando si è distanti.
Ciò che più colpisce è la visionarietà. Ma la cosa più importante è l’inafferrabilità del sogno. Qui il sogno è un mondo altro in cui può avvenire la comunione dei vivi e dei morti ma solo per poco. Non è facile lavorare con la materia onirica perché bisogna sapere far tesoro dei sogni o saperli creare dei sogni, saperli plasmare, saperli interpretare, saperli ricordare.
Ma Gimmi non si rifà a Freud, non lo cita a sproposito. Ha la lungimiranza di guardare oltre. Uno dei suoi maestri è Sorrentino ed è sulla sua buona strada, ma il suo incedere è autonomo. Dimostra già una sua personalità, una sua maturità ed una sua originalità. Il film è qualcosa di unico nel suo genere. Tutto ciò è encomiabile.
L’Italia ha bisogno di creatività giovanile. Ha bisogno anche di giovani che sappiano rimanere a raccontare le bellezze e i paradossi della penisola, pur convivendo tra mille difficoltà. La visionarietà è un modo per gettare il cuore oltre l’ostacolo, per superare le contraddizioni insanabili del paese. Gimmi si dimostra un nuovo cavaliere del secchio del cinema, tra le difficoltà riesce a volare come il protagonista del racconto di Kafka.
Come avrebbe potuto un film meraviglioso e vitale come quello diPaolo SorrentinoÈ stata la mano di Dio, battere un film, scontato e furbo, che parla di aborto diretto da una donna e con protagonista ovviamente una donna? Venezia 2021 continua a compiacere il politicamente corretto, il finto progressismo, quella infantile idea per cui se si è anti-abortisti o per meglio dire, se si vuole affrontare un argomento così spinoso, da ogni punto di vista, si è di conseguenza retrogrado, non moderno, non a passo con tempi, come si sente spesso dire. Come se il compito dell’arte fosse quello di assecondare lo spirito dei tempi.
Compagnon nel suo saggio “Gli antimoderni” dice che la modernità è puro artificio, e suscita il desiderio struggente di un altrove naturale. Ma tentare di raggiungerlo è inutile, perché ormai anche la natura coincide con questo artificio, e tutte le sue immagini edeniche scadono subito in un’arte priva di intrinseca validità. Così qualunque rivolta anche credibile contro il mostro moderno non può che ammettere di esserne complice, accettarne il contagio e mediarlo in sé.
Occorre oggi più che mai essere antimoderni, portare avanti una una controrivoluzione che sia fedele alla tradizione e che si opponga al culto del progresso, come i doveri dell’individuo o i diritti di Dio confliggono con i diritti dell’uomo”, come afferma Antoine Compagnon nella sua raccolta.
Antimoderno significa andare oltre la modernità, senza essere reazionari. Ad inventare la modernità è stata la Francia, nel suo doppio volto cartesiano e rabelaisiano, con i suoi eccessi d’ordine e con i suoi eccessi carnevaleschi. Francia che, orgogliosa di essere la detentrice per eccellenza dei diritti, culla della laicità, o meglio del laicismo, ha vinto il Leone d’oro al Festival del Cinema di Venezia edizione 2021, che passerà agli annali come una delle edizioni più trash e prevedibili degli ultimi anni, tra red carpet ridicoli e imbarazzanti e film noioso salvo qualche eccezione.
Il film che ha vinto quest’ultima edizione porta la firma registica di una donna, e questo al giorno d’oggi già significa partire vincitori: L’événement di Audrey Diwan è tratto dal racconto autobiografico di Annie Ernaux. Un po’ di senso delle proporzioni sarebbe più utile per vendere i libri. Il film racconta l’aborto clandestino di una studentessa nella Francia degli anni 60. Brava l’attrice protagonista Anamaria Vartolomei, ma è chiaro che il tema mette all’angolo ogni considerazione artistica. Anche il regista di “Parasite”Bong Joon-Ho, presidente della giuria, si è lasciato prendere dalla commozione.
Insomma la regista si è presentata con un film sull’aborto calandolo nella Francia degli anni ’60 quanto esso veniva considerato reato, cosicché chi lo guarda non può fare altro che plaudire al coraggio della protagonista, perché si sa quando si sfida la legge e si commette qualcosa di penalmente condannabile, in nome dell’autodeterminazione femminile e dei diritti, della ribellione contro il maschio prevaricatore, allora il prodotto artistico è un capolavoro meritevole del primo premio.
Se a questo aggiungiamo che il film, per conquistare un posto al sole nel parterre del cinema che conta, abbia puntato solo ed esclusivamente sul dolore della protagonista, ripresa attraverso scene molto crude quasi a voler far capire a chi sull’aborto ragiona da una prospettiva differente, che la donna soffre e non le resta nessun altra scelta, chi ne vede un’altra è un cattolico bigotto.
Non si vuole mettere in discussione la sofferenza della donna, la Chiesa peraltro non condanna le donne che hanno abortito perché conosce la loro disperazione e la presa di scelta adottata in poco tempo dettata dalla paura, dal giudizio, da innumerevoli difficoltà. Tuttavia sarebbe intellettualmente onesto parlare qualche volta anche di sindrome post-abortiva che esiste eccome, come sarebbe più interessante soprattutto dal punto di vista artistico, sganciarsi dal pensiero unico e presentare opere in grado di mettere in risalto la molteplicità degli aspetti e delle soluzioni, questo certo che è un segno deteriore di civiltà (è bene precisare tra l’altro che nessun obbliga una donna a tenere un figlio, esiste anche la possibilità di darlo in adozione) e pochezza creativa.
E allora viene da spostare l’attenzione verso il film di AlmodovarMadres Parallelas dove è racchiuso il vitale, seppur drammatico, incontro in una stanza di ospedale tra due partorienti pronte a mettere al mondo le loro inattese e, all’inizio, non desiderate, creature. Nel film Leone d’oro, c’è solo la cruda rappresentazione di una accanita ostinazione di negazione della vita, che trova il proprio abisso nella durezza di una scena di aborto clandestino. Come se, alla fine, debba sempre prevalere una mortifera e arrogante ideologia fintamente progressista, a spese dell’arte, la quale deve indagare su tutte le dimensioni della vita umana.
L’événement è un film per compiacere gli “impegnati”, il quale si serve di un’astuzia narrativa, quella di utilizzare un tema sociale, per arrivare in modo violento alla coscienza dello spettatore e di quelli che sono “dalla parte giusta” e arruolarsi nelle truppe che contano.
Tornando all’antimodernismo, l’arte ha bisogno di rinnovare e di creare miti e gerarchie, che sostituiscano le forme del passato in cui non si ha più fede; ma d’altra parte si deve anche fare i conti con l’atomizzazione socioculturale e la babelica e molle democrazia dei linguaggi e degli stili che non li lascia più sorgere.
In una civiltà dove il progresso sembra un fatale calcolo, gli antimoderni degni di questo nome devono denunciare la sparizione delle comunità ristrette, l’omologazione caotica, la confusione che si fa tra diritto e giustizia e in definitiva la distruzione di tutto quello che alla vita dà senso – il mito appunto, ossia un racconto comune, una comune credenza capace di operare tagli e di selezionare valori collettivi nel corpo brulicante del reale, votandosi ad una dimensione spirituale.
È stata un’estate all’insegna dell’arte quella di Vincenzo Bocciarelli, reduce dallo spettacolo teatrale Senza limite, nato da un’idea di Serenella Bianchini, e che ha riscosso un grande successo. Attore, pittore, conduttore e scrittore. Classe 1974, l’attore nasce il 22 febbraio a Bozzolo, Mantova. Dalla sua città natale si trasferisce a Siena per intraprendere gli studi di recitazione.
Dopo la maturità debutta al Piccolo Teatro di Milano diretto dal maestro Giorgio Strehler, iniziando la carriera come attore teatrale e recitando al fianco di grandi nomi del teatro come Valeria Moriconi, Giorgio Albertazzi, Irene Papas, Roberto Herlizkca, Riccardo Garrone.
Mentre la sua attività teatrale prosegue sul palcoscenico, il pubblico inizia ad apprezzarlo in fiction come Orgoglio, Il bello delle donne ed Incantesimo e al cinema nei film: E ridendo l’uccise di Florestano Vancini, pellicola anticonvenzionale per il cinema italiano sulla celebre congiura di Giulio d’Este, vista attraverso gli occhi del buffone di corte Moschino; L’inchiesta, Nirakazhcha Irakazhcha-La strada dei colori e recentemente nel film campioni d’incassi La scuola più bella del mondo.
Definito <<l’orgoglio del grande cinema dal Messaggero>>, Bocciarelli è da sempre un artista poliedrico, appassionato e zelante, vicino al suo pubblico. A marzo 2020, nel periodo del lockdown ha ideato “il “Bocciarelli Home Theatre” un format digitale, con cui l’attore ha portato il teatro nelle case degli italiani, infondendo loro un messaggio di speranza e di forza. Questa esperienza ha poi ispirato la sua opera prima scrittoria, intitolata Sulle ali dell’arte. L’esperienza del «Bocciarelli home theatre» per sopravvivere ad una pandemia. Ediz. illustrata.
Bocciarelli ha preso parte al cortometraggio di Anna Marcello‘Lockdown love.it’ che ha già ricevuto attenzione a livello internazionale e a Mission Possible, film d’avventura lanciato sulla piattaforma Chili con attori del calibro di John Savage (Il cacciatore, Maria’s Lovers, Il maledetto United, La sottile linea rossa, Il padrino) e James Duval (Donnie Darko), ma sembra che sia il teatro, divino anacronismo, il suo grande amore, probabilmente perché come soleva affermare il grande Vittorio Gassman, il teatro è la zona franca della vita, dove si è immortali.
Il teatro mette a nudo l’ipocrisia e le bassezze dell’animo umano e non è un caso che Bocciarelli sia un eccellente interprete di personaggi di opere shakespeariane, quali La tempesta, Re Lear, Il mercante di Venezia, nonché mitologiche come Edipo re e Antigone. Nel curriculum di Bocciarelli si annoverano numerosi riconoscimenti tra i quali il Premio alle Arti per meriti professionali, che riceverà a breve.
Vincenzo Bocciarelli è la dimostrazione che nel teatro, il visibile e l’invisibile si incontrano e la parola vive di una doppia gloria, come diceva Pasolini. Glorificazione che l’attore è riuscito a trasferire anche sul piccolo e grande schermo. La parola è al contempo, scritta e pronunciata, scritta, come la parola di Omero, e pronunciata come le parole che si scambiano le persone nella vita, nel quotidiano, che a volte restano per sempre, e altre volano via con la vita.
Bocciarelli, a differenza di alcuni che pensano che l’arte del recitare consista solo nell’imparare a memoria testi di altri, ci dice una cosa fondamentale: l’arte deve essere spudorata, sincera e scandalosa come è scandalosa ogni cosa divina e il mistero ad essa legato.
Lockdown love
1 Durante il lockdown ha dato vita ad un format digitale il “Bocciarelli home theatre”, portando nelle case il teatro in un momento storico difficile. Cosa ha tratto da questa esperienza? Come ha risposto il pubblico?
Durante il primo lockdown mi è venuta l’idea di portare l’arte, la poesia, il teatro nelle case del pubblico e così è nato il Bocciarelli home theatre, programma facebook e youtube, in diretta dal soggiorno di casa mia, inizialmente tutti i giorni, poi tre volte alla settimana. Ritengo che il pubblico non sia sprovveduto e cerca cose di qualità e in un momento difficile come quello, ho capito quanto fosse importante entrare nelle case delle persone per donare creatività, e tutto il mio impegno e amore che nutro per l’arte, così da essere di sostegno e anche di compagnia. Ho capito quanto le persone avessero bisogno di sentirsi meno sole e di pensare anche ad altro, entrando in un’altra dimensione, quanto l’arte possa essere utile. Il pubblico ha risposto molto bene, ho ricevuto molti messaggi di stima e affetto; è stata un’esperienza arricchente.
2 Quale pensa sia il mezzo migliore per veicolare l’arte?
Qualunque mezzo è idoneo a divulgare la cultura e l’arte purché si tenga ben presente il significato di questo termine. Non ho pregiudizi di alcuna sorta. La televisione certamente rappresenta il mezzo più comodo, tuttavia io personalmente preferisco il teatro. A prescindere dal successo che si può avere, credo che bisogna metterci tutta la propria passione, da trasmettere a chi ci guarda e ascolta, e cercare di realizzare progetti di qualità, non indirizzare immediatamente il proprio obiettivo all’aspetto commerciale.
3 Il suo libro “Sulle ali dell’arte” in cui racconta proprio l’esperimento Bocciarelli home theatre, è stato definito da qualcuno un anti-covid. Cosa è invece per lei? Che aspettative ha?
Mi è molto piaciuta questa definizione, era il mio obiettivo. Il libro è nato soprattutto grazie al volere e al supporto del Presidente della casa editrice Accademia Edizioni ed Eventi, Giuseppe de Nicola, il quale mi ha proposto di raccontare questa esperienza che è stata sia artistica che socio-culturale. Il libro parla della funzione salvifica dell’arte e dell’importanza di riflettere e far riflettere il pubblico. L’arte possiede un qualcosa di divino e ci aiuta ad entrare nel mistero della vita e nei suoi accadimenti, ma non deve essere un modo per esibirsi in modo narcisistico; è fondamentale che avvenga uno scambio tra attore e spettatore, altrimenti non ha senso. Sono già molto soddisfatto, il libro sta andando bene e non mi aspetto nulla in particolare, quello che viene, insomma.
“Incantesimo”, con Elisabetta Pellini
4 Crede che la letteratura, il cinema e il teatro possano essere davvero una “carezza per l’anima”?
Certamente. Sono tutte discipline unite da un filo rosso e devono toccare l’anima delle persone, scuoterla, smuovere la coscienza, ma soprattutto, come amo ripetere ai miei allievi, la pancia. Credo che molto dipenda anche dal luogo in cui si fa teatro, perché un determinato luogo dà all’attore sensazioni particolari; ecco, ritengo che sia un più un fatto viscerale che mentale. Un attore non può perdersi troppo in elucubrazioni e giochi intellettualistici. “Bisogna metterci il cuore”, come la battuta che faccio ripetere a Serenella Bianchini, una delle interpreti femminili della pièce teatrale “Senza limite” per cui ho curato la regia e sono stato anche interprete, durante un momento di “metateatro”. Ci tengo a ricordare che la prima di questo spettacolo è andata in scena al Castello di Naro, sempre in Sicilia, lo scorso 24 agosto.
5 L’11 settembre 2021 sarà insignito del Premio alle Arti per meriti professionali. Cosa significa ricevere un tale riconoscimento? Cosa pensa dei premi letterari e non? Secondo lei davvero rispecchiano il talento di chi li riceve?
Sono onorato di ricevere questo premio. Credo che i premi siano una conseguenza di quello che si fa, ma non sono il mio obiettivo principale. Ritengo che in Italia ci siano, forse, troppi premi e poche produzioni importanti. Io mi concentrerei su progetti di qualità, piuttosto che sull’organizzazione di concorsi e premi. Devo dire che non sopporto nemmeno lo sciacallaggio che si attua su determinati temi, molto delicati che meriterebbero maggiore lucidità e approfondimento. La missione dell’arte è cercare, scandagliare l’animo umano. Per me conta raccontare qualcosa al pubblico e far conoscere la cultura, essere apprezzato e stimato, il successo, la fama, i soldi vengono successivamente.
Vorrei riportare un esempio: durante il primo lockdown, ho lavorato ad un cortometraggio dal titolo Lockdown love.it, che sarà presentato a festival prestigiosi, e in cui io interpreto un personaggio sui generis. Devo ringraziare tutte le persone che ci hanno creduto insieme a me, soprattutto Anna Marcello. Abbiamo preso tutte le precauzioni e rispettato le misure di sicurezza. Abbiamo lavorato in silenzio della notte, spesso più viva del giorno stesso; è stato bellissimo e suggestivo perché avevamo proprio la sensazione di creare qualcosa all’insaputa di tutti. Trovo meravigliosa la lavorazione di un film, l’atto creativo, prima ancora di vedere il risultato, noi attori, sul grande schermo.
Nel ruolo del marchese Andrea Obrofari con Mary Petruolo in “Orgoglio”
6 Anche quest’anno condurrà il concorso internazionale Musica sacra 2021 per giovani cantanti solisti. In questo periodo storico quanto è importante investire nelle nuove generazioni? Crede che a loro sia offerto il giusto spazio per emergere o si potrebbe fare di più?
Anche questa conduzione è motivo di gratificazione per me, mi piace toccare tutte le dimensioni dell’arte e l’arte sacra certamente è un viatico per avvicinarsi, o quantomeno sfiorare, il mistero divino. Certamente è importante investire nelle giovani generazioni, nei ragazzi e ragazze di talento, purché abbiano spirito di abnegazione, dedizione, amore per l’arte. Potrebbero senza dubbio essere incentivate determinate iniziative, corsi di studi, accademie.
7 L’arte in senso stretto ci dice appunto che oggi, o meglio già da un po’ di tempo, tutto può essere arte. Lei cosa ne pensa?
Non credo che tutto sia arte solo perché qualcuno la possa concepire come tale. Come può non contare la tecnica, un certo virtuosismo? Ma non bastano, bisogna saper emozionare chi ci ascolta e guarda, essere capaci di trasferire lo spirito di un testo in teatro, a cinema, in televisione.
8 Non trova che l’arte dovrebbe essere una fustigatrice del luogo comune invece di rassicurare sempre? Non crede che questo sia il modo per approdare all’eternità?
Nel ruolo di Ippolito d’Este nel film “E ridendo l’uccise”
Certo, recitare vuol dire morire per poi rinascere per l’attore, guardando alla cose con meraviglia, con lo sguardo di un bambino. Io credo che l’arte debba essere spudoratamente sincera, e con questo intendo dire che essa dovrebbe anche ragionare sulla sua propria natura, sulla sua funzione, relazionarsi con le contingenze storiche, con il mito; condurre lo spettatore e il telespettatore in un viaggio sensoriale, nel tempo e nello spazio. In questo senso, ritornando allo spettacolo “Senza limite”, dove ho recitato ai piedi del tempio di Giunone, nella Valle dei Templi di Agrigento, credo sia importante dire che si è trattato di un percorso evocativo e dell’anima, che porta lo spettatore all’Alfa della nostra esistenza, ai primordi della vita, alla creazione, dove tutto è Amore.
9 Tre pellicole per lei imprescindibili?
Bocciarelli: per un addetto ai lavori, per chi fa cinema o per i telespettatori?
Domanda: Per entrambi
Bocciarelli: Direi Effetto notte di Truffaut, capolavoro del meta-cinema, Nella città l’inferno, di Castellani con la grandissima Anna Magnani, che è anche un viaggio nell’Italia del Dopoguerra con quelle tristissime palazzine che fanno da sfondo alla storia. E soprattutto per chi fa cinema o vorrebbe farlo, Birdman, di Inarritu, con uno strepitoso Micheal Keaton che si identifica nel personaggio che ha interpretato in passato e che lo ha portato al successo.
10 Quando recita già si rende conto di presentare al pubblico una cosa nota come se fosse la prima volta che la si vedesse?
Senza dubbio l’arte è questo, non conta tanto la bontà del tema, quanto il modo in cui lo si affronta, è presentare un concetto, ma soprattutto delle emozioni, stati d’animo in modo originale. Purtroppo noto che si parla poco o male, in maniera distorta e faziosa, di metafisica, di trascendenza, di Dio, quasi se ne provasse vergogna.
Corrado Oddi torna sul set: sarà Giovanni Vergane “Il filo segreto”, scritto e diretto da Modestino Di Nenna. Un nuovo personaggio intrigante per l’attore, già interprete del ruolo del Giudice Giovanni Falcone nel docufilm della Rai sul Magistrato.
L’opera cinematografica, promossa dall’Amministrazione Comunale di Altavilla Irpina e dal Sindaco Mario Vanni e nata con la finalità di mettere in evidenza le bellezze naturali e culturali dell’antico borgo, racconterà il passaggio in paese dello scrittore siciliano, che da quel contesto locale rimase talmente entusiasmato e affascinato da lasciarsi ispirare e ambientarvi “Il marito di Elena”, romanzo del 1881 pubblicato da Treves (Milano), in cui vengono abbandonati gli elementi veristici e ripresi i precedenti temi di carattere romantico e passionale.
Come ha giustamente notato Luigi Russo: “Malamente il romanzo è stato interpretato come il dramma di una Bovary verghiana: se il modello del grande artista francese è pur presente, l’interesse del Verga è per il dramma del “filius familias”, che vede crollare un suo sogno di felicità domestica, a causa della vanità e della leggerezza della sua compagna.”
Era infatti il 1882, quando Verga, allora poco più che quarantenne, pubblicò questo romanzo così singolare, sia per essere collocato in Irpinia e non in terra siciliana come la maggior parte delle sue opere sia per trattare temi di carattere romantico e passionale, ben lontani dagli elementi veristici de “I Malavoglia”, il suo capolavoro dato alle stampe soltanto un anno prima.
Nel film documentario il fantasma del giovane Giovanni Verga, interpretato da Corrado Oddi, si incontrerà nel 2021, all’interno del palazzo Baronale De Capua, nel cuore del paese campano, con quello di Costanza di Chiaromonte, che alla fine del Trecento proprio ad Altavilla aveva trovato l’amore eterno con il Conte Andrea De Capua. I due spiriti ripercorreranno le strade del paese riaccendendo in loro vecchi ricordi, in un mix di forti emozioni. Lungo il tragitto incontreranno il fantasma di un minatore che racconterà loro, attraverso la sua voce, la lunga ed interessante storia di Altavilla Irpina.
Le riprese, iniziate il 26 luglio, si svolgeranno tra Palazzo De Capua, Monastero Verginiano (l’attuale Palazzo Comunale), Santuario dei Santi Martiri Pellegrino e Alberico Crescitelli, Via San Francesco D’Assisi, Corso Giuseppe Garibaldi, centro storico, Monte Toro e miniera di zolfo.
Sul set, oltre a Corrado Oddi, ci saranno anche Stefano Masciarelli, Corrado Taranto, Antonio Fiorillo e tanti altri interpreti del panorama cinematografico italiano.
Era partito bene Cannes 2021, con “Annette” di Leos Carax, folle musical di passione e tormento, con Adam Driver e Marion Cotillard. Lui è un cabarettista, sempre di cattivo umore, che finge di strozzarsi con il microfono mentre è sul palco. E anche sul tappeto rosso era imbronciato.
Non poteva durare. Infatti era arrivato François Ozoncon “Tout c’est bien passé“. Amore e morte, qui con tanti rancori, tra un padre testardo che dopo un ictus chiede alla figlia di essere aiutato a morire.
L’attrice è Sophie Marceau. Lo svolgimento ha le sue lentezze: troppe docce, troppe palestre. Un genero che si occupa di cinema, e quindi fa la parte del idiota. Si riprende, con gusto per la commedia nera, verso il finale, quando per esempio il giovane musulmano che guida l’ambulanza verso la Svizzera si ferma a un Autogrill e rifiuta di andare avanti: il suicidio è contrario alla sua religione.
“Tra due mondi”, diretto da Emmanuel Carrère, racconta la triste sorte delle donne che puliscono a tempi da cottimo le cabine dei traghetti sulla Manica, ma non è un documentario: adatta per il cinema il libro di Florence Aubenas.
Una scrittrice francese che ha finto di essere una di loro. Dietro c’è il solito interrogativo che tormenta Emmanuel Carrère: quanto si può occupare delle vite degli altri per diventare scrittore di successo? E se poi le vere donne delle pulizie si sentono tradite da chi si è finta povera e invece firma copie in una elegante libreria di Parigi? Cinema poco. Anzi nulla.
Titane, un film tra horror e fantascienza
A vincere Cannes 2021 è Titane, pellicola di Julia Ducournau premiato come miglior film. Non accadeva dal 1993, quando Jane Campion si aggiudicò la Palma d’oro per il capolavoroLezioni di piano. Ed era la prima ed unica volta, finora. Oggi accade che per la seconda volta la Palma d’oro finisce nelle mani di una donna, Julia Ducournau, che ha portato sulla Croisette un film esplosivo, letteralmente, seppure da lei stesso definito “imperfetto”.
Si tratta di un fantasy-horror che racconta solitudini che si incontrano, un romanzo di formazione di una ragazza “diversa” tra i “diversi”, un film popolato “di mostri” come ancora la regista ha sottolineato. Titane parte come un thriller ma poi concentra tutta la sua attenzione sul controverso personaggio di Alexia attraverso la quale può esplorare i temi della metamorfosi, dell’inadeguatezza e tutto il complesso rapporto con il corpo di cui oggi tanto si parla. Un’opera cyberpunk che tuttavia strizza l’occhio a tematiche attualissime, sociali, politiche, oggetto di ddl. E naturalmente ha inciso il fatto che la regista fosse una donna. Insomma nulla di nuovo.
E la giuria guidata dal coloratissimo e pasticcione Spike Lee, si è mostrata decisamente divisa nell’attribuzione dei premi a giudicare anzitutto da un doppio ex-aequo: sia per il Gran Prix, andato allo splendido Ghahreman (A Hero) di Asghar Farhadi e al buon Hytti n. 6 (Compartment n. 6) del finlandese Juho Kuosmanen, sia per il Prix du Jury, assegnato sia al deludente Ha’Berech (Ahed’s Knee) dell’israeliano Navid Lapid che al magnifico Memoria di Apichatpong Weerasethakul, il quale ha approfittato del premio per tributare un un saluto speciale alla sua nuova musa Tilda Swinton, protagonista e produttrice esecutiva di questo suo nuovo lavoro.
Cannes 2021: tutti i premiati
La Palma d’oro per la miglior regia è andata a Leos Carax per il musical Annette, l’opera che ha aperto questa edizione del Festival di Cannes.
Il premio alla sceneggiatura è andato al film più bello del concorso, e che forse meritava la Palma d’oro, ovvero Drive My Car di Ryusuke Hamaguchi, ispirato a una novella di Murakami.
Ultimi ma non di importanza, i riconoscimenti alle interpretazioni: quello femminile assegnato alla norvegese Renate Reinsve, protagonista di Verdens verste menneske (The Worst Person in the World) di Joachim Trier e quello maschile al giovane statunitense Caleb Landry Jones, protagonista di Nitram dell’australiano Justin Kurzel.
Andrej Rublev è il film più lungo e più ostico del cineasta russo Andreij Tarkovskij, una vera e propria epopea che abbraccia 23 anni di storia dell’antica Russia. Per l’Occidente corrisponde al periodo del Basso Medioevo, a pochi anni alla scoperta dell’America.
La Russia è un popolo unito costruito su aristocrazia e ortodossia. Manca solo lo zar.
Struttura di Andrej Rublev
Il film è strutturato in otto episodi, oltre ad un prologo e un epilogo a colori, un documentario sull’opera del protagonista, il pittore Andrej Rublev (Anatolij Solonicyn).
In mezzo otto episodi nei quali la figura di Andrej è impressa da diversi punti di vista: spettatore in alcuni, solo evocato nel capitolo “Teofane il greco”; protagonista nei restanti cinque.
Gli otto episodi sono legati sul piano temporale, consecutivo, e ci mostrano il giovane Andrej che, dopo le intermittenti crisi spirituali, diventa il vecchio Andrej finché, Vanitas Vanitatum, diventando polvere ci restano di lui solo le splendide icone dell’epilogo.
Fede e Male
Il secondo grado del racconto è il vero e proprio rompicapo: perché, nonostante tutto, il Male continua a regnare?
Questo è un dilemma tipicamente russo e proviamo adesso a ricomporne la sciarada:
– la Fede salverà il mondo
– la bellezza è il linguaggio della Fede
– la bellezza salverà il mondo.
E allora perché, tuona Andrej Rublev, devo dipingere il Giudizio Universale con tutto il suo corollario di dannati immersi nella pece bollente?
Non c’è risposta.
Il Giudizio Universale
Andrej si rifiuta di dipingere il Giudizio Universale ma, quasi in epilogo di vita, correrà entusiasta a dipingere il mistero della santissima Trinità. Dice Teofane il greco, suo maestro: “Io dipingo velocemente, dieci giorni al massimo, e ho le idee chiare: il popolo è ignorante e capace solo di peccare. Deve vivere nel terrore e scontare i suoi peccati che partono da Giuda che ha tradito Cristo e da Pietro che l’ha rinnegato”.
Andrej la pensa diversamente e una soluzione la trova: si rifiuta di raffigurare il male, accetterà di dipingere il bene.
La divinità greca, molto prossima al pensiero russo è il vero convitato di pietra del film e spiegherebbe il prologo, in apparenza totalmente gratuito: una proto-mongofiera si invola con un certo Yefim (Nikolay Glazkov) a bordo; sulle prime l’uomo è estasiato, cullato dalle panoramiche di Tarkovskij, dalla vertigine dell’ascesa.
Poco dopo, la mongolfiera si schianta al suolo. Lo stato di estasi ci dà l’idea dell’ordine divino e dell’amore verso tutte le cose del creato, così piccolo e indifeso visto dall’alto ma, non appena fa capolino l’ebbrezza di Icaro, quando Yefim prende coscienza, “Io volo…” dice tra sé e sé, è punito della superbia e si schianta al suolo.
Tra mito e religione
Così il prologo del film è anche il prologo delle innumerevoli facce dell’ambiguo Dioniso: il buffone che si prende gioco di tutti ed è arrestato.
A questo punto Tarkovskij interviene e se non può dimostrare che la bellezza salverà il mondo, fa il suo mestiere e mostra, mostra la bellezza.
E dove sta la bellezza? Innanzitutto nel movimento: tutto il film è un’unica vertigine di travelling laterali e panoramici che segnano l’incedere dei personaggi, l’irruenza dei cavalli, l’esplorazione degli spazi sacri, il lavoro degli artigiani.
In secondo luogo nei bambini, immortalati in splendidi primi piani, biondi e paffuti, maschi e femmine, che sorridono avulsi dall’azione in cui sono contestualizzati, purificati dall’ambiguità delle azioni e dei pensieri dei “grandi”, innocenti e perciò “cari a Dio”.
È nell’acqua, in cui si scioglie gran parte dell’ambiguità del film: acqua, fonte di vita ma anche di annegamento; di cultura, via di fuga e di salvezza, sempre popolata da esseri viventi.
Il Male contiene il Bene?
Alla fine, il dubbio resta: l’assassino è catturato ma il Male continua a imperare; Andrej Rublev è il più grande pittore di icone della Cristianità ma noi rimaniamo lo stesso con i piedi a mollo nel Limbo e ciò che ci resta, come sempre, è il fatto compiuto, le sue icone.
Rublëv, dopo essersi lamentato con il suo allievo, distratto e pigro, per la sua attitudine a mentire, e quindi per la sua incapacità alla preghiera, unica strada «per lanciare uno sguardo verso cose che l’occhio non vede», si trova a discutere con Teofane riguardo il rapporto di Cristo con l’umanità.
Le sequenze di Tarkovskij
Si muovono nella sequenza guardando in direzioni opposte, l’uno (Teofane) con le gambe piene di formiche, l’altro preso dell’osservazione della natura (il ruscello, il tronco di un albero). Teofane e Rublëv nel loro dialogo portano al punto di rottura la riflessione sulla duplice natura del Cristo, l’uno esaltando la sua unicità («Solo Uno può fare il bene»).
L’altro invece ricordando la sofferenza dei popoli, la cui ignoranza e la cui tendenza alla malvagità non è irredimibile.
L’umanità ripete sempre i suoi errori, e la sua tragedia storica vive un circolo vizioso, dove anche il ritorno di Cristo significherebbe un’altra volta la sua crocifissione, come vuole Teofane, o piuttosto va ricordato che nessuno ha testimoniato contro l’innocente, come nota Rublëv?
E quindi la pittura deve porsi a gloria del Dio unico, dimenticando la vanità delle lodi e degli interessi umani, o piuttosto deve essere rivolta a quell’umanità che Cristo, con la sua sofferenza, con la sua croce, è venuto a riconciliare con Dio Padre?
La Rivelazione secondo Rublev
Rublëv, nel descrivere la sofferenza comune dell’uomo e di Cristo, immagina Gesù trasportare la croce e liberamente lasciarsi inchiodare a
essa, all’interno di un paesaggio nevoso, tipicamente russo, accompagnato nel suo martirio da alcune persone del popolo che piangono per
la sua sorte.
La croce è stata per il volere di Dio, sottolinea Rublëv, anche se la sofferenza di Cristo è stata forse crudele e ingiusta. La deificazione dell’uomo implicava l’umanizzazione di Dio, voluta da Dio stesso, e non causata dalla malvagità umana. Se l’umanità non fosse redimibile, significherebbe il fallimento della creazione divina.
Ma, appunto, la divinizzazione ha comportato lo scandalo della croce, ossia il sacrificio creatore, la kenosi, dell’amore divino. «La ragione profonda dell’incarnazione non dipende dall’uomo ma da Dio; essa ha le sue radici nel suo desiderio pre-eterno e ineffabile di divenire uomo e di fare della sua umanità una Teofania, la sua dimora […] il Verbo fatto carne non è condizionato dal mondo ma da Dio soltanto».
Il testo fondamentale sulla kenosi è Fil 2, 6-8:
«Egli (Gesù Cristo) essendo nella forma di Dio non considerò una rapina essere uguale a Dio ma annientò se stesso (vuotò), prendendo la forma di schiavo, divenuto in similitudine di uomo e, essendo apparso nell’aspetto come un uomo, umiliò se stesso, divenuto obbediente anche fino alla morte, e alla morte di croce».
Così il teologo ortodosso Sergej Bulgakov, in Svet nevecˇernij (1917):
«Il Golgota non è stato solo eternamente prestabilito al momento della creazione del mondo come evento temporale, ma esso costituisce anche la sostanza metafisica della creazione […] Il sacrificio volontario dell’amore sacrificale, il Golgota dell’Assoluto, è il fondamento della creazione.
Infatti Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, e lo ha mandato “non a giudicare il mondo, perché si salvi per mezzo di Lui” (Gv 3, 16-17). Il mondo è stato creato dalla croce, eretta da Dio su di sé per amore».
Pulsioni di un naturalismo cristiano
Nella sofiologia trovano quindi spazio le pulsioni di un naturalismo cristiano che, comunque, se Tarkovskij ravvisa esemplarmente in Leonardo, attraversano i secoli successivi, trovando particolare attenzione nel romanticismo tedesco.
Trova altresì voce, in Andrej Rublev, grazie alla divinizzazione della natura, quell’attenzione al corpo, all’elemento sensuale, se non addirittura sessuale, che l’ascetismo bizantino conduceva al silenzio.
L’unità tra Dio e l’uomo non è più concentrata nella figura di Cristo, ma si realizza nella bellezza della natura, e più in generale nell’aspetto femminile del creato.
Decadente, nostalgico, melodrammatico. È Luchino Visconti, maestro del cinema italiano tra neorealismo e decadentismo, autore di capolavori immortali tra Tomasi di Lampedusa e Proust
Il neorealismo di Luchino Visconti
Il cinema italiano ha ospitato grandi registi che hanno reso noto il neorealismo in tutto il mondo. Attraverso opere come Roma città aperta o Ladri di biciclette.
Raccontando un’Italia semidistrutta, ma capace di grandi speranze sociali, tra lo squallore del secondo dopoguerra. Ogni regista diede un suo contributo alla creazione di un canone neorealista, con i suoi attori presi dalla strada, i set nelle strade della città e non solo negli studi, l’adesione a principi politici come il marxismo e l’antifascismo.
Ossessione e La terra trema
A questo canone appartiene anche Luchino Visconti, regista di estrazione aristocratica, che nel 1943 dirige il primo vero film neorealista: Ossessione.
In esso si mostrano i temi del movimento di De Sica e Rossellini, dalla rottura con la correttezza del cinema dei telefoni bianchi all’attenzione per la resa dei contesti sociali. Riprendendo i temi del naturalismo francese e del verismo, stravolgendoli e attualizzandoli.
Non è un caso che La terra trema, secondo film di Visconti, finanziato dal PCI, si rifaccia ai Malavoglia di Verga, stravolgendone la sceneggiatura, introducendo il dialetto siciliano, che nell’opera letteraria era solo accennato.
Nostalgia e decadentismo
Poi, a partire dagli anni ’50-’60, il neorealismo si decompone, proiettando i suoi registi verso altri filoni. De Sica verso il cinema nazional-popolare di ieri oggi e domani, Fellini (che pur era stato neorealista a modo tutto suo) verso un cinema onirico e magico.
Visconti, che chiude i conti col neorealismo con il film Bellissima, aspra critica sociale e constatazione del fallimento degli ideali neorealisti, si cimenta in un cinema fatto di nostalgia e intimismo.
Senso
Il primo punto di rottura è Senso, tratto da una novella di Camillo Boito (fratello del più noto Arrigo), del 1954. L’opera descrive l’amore tra un ufficiale austriaco, Franz Mahler, e una nobildonna italiana, di ideali risorgimentali, sullo sfondo di una Venezia decadente durante il risorgimento.
Il film è la constatazione del risorgimento come rivoluzione tradita, della critica alla guerra, ma soprattutto la presa di coscienza del la fine di un mondo. Il mondo aristocratico e antico schiacciato dalla borghesia e dalla storia.
La grandezza di senso sta proprio nell’introduzione di temi marcatamente decadenti. La fine del mondo ottocentesco e l’avanzata della società di massa, il culto del melodramma e della bellezza, reso tramite fuori campo che creano omaggi al mondo del melodramma e del teatro.
Mostrando in ogni inquadratura riferimenti alla pittura ottocentesca, soprattutto ad Hayez, rendendo la scenografia come un perenne teatro dell’opera. Impreziosendo il film di elementi aristocratici ed estetizzanti.
Il Gattopardo
Estetizzazione del mondo aristocratico e nostalgico che è il centro di uno dei capolavori del cineasta milanese: Il gattopardo (1963), tratto dall’omonimo romanzo del principeGiuseppe Tomasi di Lampedusa.
Si tratta di un film che, secondo la volontà di Visconti, voleva trovare la perfetta sintesi tra Mastro Don Gesualdo di Verga e Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust.
Il risultato è un kolossal unico che riesce a condensare il meglio della poetica e dello stile del regista. La storia è ambientata nella Sicilia dell’ottocento a cavallo tra la fine del regno delle Due Sicilie e l’inizio del neonato regno d’Italia.
I protagonisti sono i membri di una famiglia nobile siciliana, implicata con i Borbone, che vive una vita rigida e lussuosa, affascinante e anacronistica.
Trama e contenuti del film
Rappresentante di questo mondo è il principe Salina (Burt Lancaster), nobile pessimista e disilluso, conscio della fine del dominio del mondo aristocratico meridionale che di fronte all’avanzare delle nuove generazioni, spregiudicate e tessitrici, rappresentate dal giovane Tancredi (Alain Delon), e all’ascesa della ricca borghesia, è amareggiato per un mondo che vede sgretolarsi.
Un mondo fatto di ritualità, di convenzioni sociali, di una routine immobile e fuori dal tempo. Proprio nella resa di questo contesto Visconti mostra il suo stile decadente ed estetizzante.
Le pose, le abitudini, le formalità di questo ambente vengono raccontate e approfondite immergendo lo spettatore in scenari fastosi ed affascinanti. Attraverso una cura maniacale del dettaglio, l’utilizzo frequente di campi lunghi per creare una atmosfera da melodramma. Teatrale e magnifica, ma anche immobile e decadente.
Il principe Salina
Di questa epoca finita il principe Salina è l’ultimo rappresentante, che mostra la propria incompatibilità con la spregiudicatezza e l’ambizione di Tancredi e del mondo borghese (“Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica in quattro e quattr’otto. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”).
Che però asseconda spingendo Tancredi verso la figlia del ricco borghese don Calogero (Claudia Cardinale), interrompendo la continuazione della tradizione nobiliare.
È il vinto della storia che di fronte ad un mondo che muore verso cui sente simpatia e affetto sceglie la via del ritorno, chiudendosi pessimisticamente nella propria oasi di raffinatezza:
“Sono un esponente della vecchia classe, fatalmente compromesso con il passato regime, e a questo legato da vincoli di decenza, se non di affetto. La mia è un’infelice generazione, a cavallo tra due mondi e a disagio in tutti e due. E per di più, io sono completamente senza illusioni.
Che se ne farebbe il Senato di me, di un inesperto legislatore cui manca la capacità di ingannare se stesso, essenziale requisito per chi voglia guidare gli altri?
No Chevalley, in politica non porgerei un dito, me lo morderebbero. Siamo vecchi, Chevalley. Molto vecchi. Sono almeno venticinque secoli che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche ed eterogenee civiltà. Tutte venute da fuori, nessuna fatta da noi, nessuna che sia germogliata qui.
Da duemilacinquecento anni non siamo altro che una colonia. Oh, non lo dico per lagnarmi, è colpa nostra. Ma siamo molto stanchi, svuotati, spenti.”
Gruppo di famiglia in interno
Temi quelli del Gattopardo che verranno poi ripresi ben undici anni dopo nel 1974 con la pellicola Gruppo di famiglia in interno (1974), in cui il protagonista (Burt Lancaster), interpreta un anziano professore universitario che, ritirato dalla vita, si dedica allo studio e alla cultura in uno splendido palazzo-biblioteca.
La residenza del professore è un appartamento ricercatissimo in cui i quadri, i manoscritti antichi, i pizzi e le porcellane, creano una atmosfera sospesa e ricercata, in cui il suo protagonista si specchia e confonde, in una quiete dottissima.
Quiete turbata dall’arrivo della marchesa Brumonti, di sua figlia col compagno, e di Konrad, giovane amante dal passato extraparlamentare e una vita dissoluta.
Il film, girato solo tra le mura domestiche, racconta l’intromissione di questi personaggi nella vita del professore, allegoria dell’intromissione del mondo moderno, con cui il protagonista inizia a dialogare, finendone deluso e disgustato.
Un film allegorico
Diventando involontariamente padre di questa assurda famiglia. Famiglia in cui si inscenano le finzioni e i pregiudizi del mondo borghese degli anni 70. Colpito dalle spinte pseudorivoluzionarie del ’68, da una borghesia ancora più cinica e spregiudicata, involutasi col consumismo.
Mostrando la totale idiosincrasia dell’intellettuale con la società consumista e turbolenta. Anche il professore è un vinto, come il principe salina, è il ritratto malinconico di relitto di un mondo passato, che plasmato sulla vita solitaria e claustrofobica dell’anglista Mario Praz, mostra un lato ancora più intimista e nostalgico.
Affidandosi proustianamente alla memoria, alla letteratura, la forma fisica dei ricordi. Sentendosi fuori posto oppresso dalla presenza annientante della morte:
“C’è uno scrittore del quale tengo i libri in camera mia e che rileggo continuamente, racconta di un inquilino che un giorno si insedia nell’appartamento sopra il suo, lo scrittore lo sente muoversi, camminare, aggirarsi, poi tutt’a un tratto sparisce e per lungo tempo c’è solo il silenzio. Ma all’improvviso ritorna, in seguito le sue assenze si fanno più rare e la sua presenza più costante: è la morte”.
L’anacronismo di Luchino Visconti
In questi film Visconti mostra il suo lato più nostalgico e decadente, reazionario e anacronistico. Profondamente critico verso la borghesia (verrà infatti considerato sempre un compagno di strada del Pci) e nostalgico di un mondo che sa in rovina, oppresso dalla figura opprimente della morte.
In cui si riconosce la grande trazione decadente, un fascino aristocratico e raffinato. Cullato in quel mondo morto, reso magnifico dalla convinzione proustiana che crede che ogni paradiso è paradiso perduto.
Un gattopardo milanese che nonostante le stroncature della critica comunista, si affianca al partito, che si confronta col mondo moderno , rimanendone deluso e disgustato, ritornando all’arte. Lui, un gattopardo imperfetto.
I registi del Nuovo Cinema Tedesco appartengono a quella generazione che, pur non essendo stata direttamente coinvolta nella Seconda Guerra Mondiale, ha subito le conseguenze della sconfitta della Germania ed è stata costretta a sopportare l’onta degli eccidi di
massa compiuti dal Terzo Reich.
Nei loro film, come nelle dichiarazioni di poetica, si manifesta un rapporto contrastato con il passato, sia in relazione alla produzione cinematografica postbellica, legata soprattutto ai melodrammi e agli Heimatfilme, sia nei confronti dei padri, ossia quella generazione che era stata connivente con il progetto nazionalsocialista e la cui eredità aveva sgretolato l’identità tedesca provocando un diffuso e sottaciuto senso di colpa.
Il Nuovo cinema tedesco
Già nel Manifesto di Oberhausen – reso pubblico nel febbraio del 1962, durante la conferenza stampa dell’ottavo Festival del Cortometraggio – le richieste di rinnovamento dei modelli di finanziamento e degli investimenti economici si affiancano alle per un radicale mutamento dell’estetica e del linguaggio cinematografico: «Il futuro del cinema tedesco è in chi ha mostrato di parlare una nuova lingua cinematografica. […] Il vecchio cinema è morto, crediamo in quello nuovo»
Decisi a tracciare una cesura con chi li aveva preceduti per affondare le proprie radici in una tradizione che aveva in Fritz Lange Friedrich Wilhelm Murnau i propri maestri, capaci di instaurare un dialogo con le innovazioni narrative ed estetiche introdotte dal neorealismo e dalla Nouvelle Vague, i giovani cineasti tedeschi girano dei film in grado di problematizzare la ricostruzione della Germania e della sua identità, provando a confrontarsi con le colpe dei padri e con le macerie della guerra.
La memoria delle macerie
Sono i resti, le rovine degli edifici nazisti a Norimberga ad essere il soggetto principale di quella che viene considerata una tappa fondamentale verso l’avvento del Giovane Cinema Tedesco, il cortometraggio documentario Brutalität in Stein [1961; Brutalità nella pietra] di Alexander Kluge e Peter Schamoni.
Il montaggio audiovisivo affianca le immagini d’archivio delle macerie di Norimberga dopo i bombardamenti degli anglo-americani, alle memorie di Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz, in cui sono descritte le tecniche burocratiche della soluzione finale.
A vent’anni di distanza da Brutalität in Stein, le macerie ritornano nel film di Helma Sanders-Brahms Germania, pallida madre, un affresco ispirato alle vicende familiari della regista che attraversa la storia della Germania, dall’avvento del secondo conflitto mondiale alla devastazione delle città tedesche, fino alla loro ricostruzione.
Il titolo del film coincide con il primo verso della poesia Germania scritta da Bertolt Brechtnel 1933, anno in cui il poeta e drammaturgo lascia Berlino. Nei titoli di testa, su sfondo nero, compare la poesia che viene letta dalla voce fuoricampo di Hanne Hiob, la figlia di Brecht.
Nella sua Storia naturale della distruzione, Winfried Sebald spiega l’importanza dell’operazione di recupero di una memoria delle macerie:
La ricostruzione tedesca, divenuta ormai leggendaria e da un certo punto di vista davvero ammirevole, equivalse per la Germania – dopo le devastazioni operate dai nemici durante la guerra – a una seconda liquidazione, per tappe successive, della sua storia precedente: infatti, con il grande lavoro che essa richiese e con la nuova anonima realtà che riuscì a creare, impedì fin da principio che si volgesse lo sguardo al passato e orientando la popolazione esclusivamente verso il futuro la costrinse a tacere su quanto aveva vissuto.
Sanders-Brahms
La prospettiva aerea con cui è stata girata la gran parte delle immagini di repertorio utilizzate da Sanders-Brahms ha consentito la registrazione puntuale di quanto accaduto: il fumo e i lampi delle esplosioni, il disfacimento delle architetture urbane e dei simboli del
potere nazista a Berlino, il brulicare della vita tra le rovine.
Tracce di distruzione
Mentre nei confronti del nazismo e dello sterminio degli ebrei il Nuovo Cinema Tedesco ha lavorato “intempestivamente”, mostrando
le tracce della distruzione o sottolineandone l’assenza, con il dilagare del terrorismo il cinema diventa uno degli strumenti di denuncia e riflessione sulla violenza diffusa, sull’imperversare della paura e, al contempo, sull’applicazione e l’accettazione da parte del corpo sociale di
leggi che limitano la libertà individuale e ledono i principi democratici.
Film come Die verlorene Ehre der Katharina Blum (1975; Il caso Katharina Blum) di Volker Schlöndorff e di Margarethe von Trotta – alla prima prova da regista – e Die dritte Generation (1979; La terza generazione) di Rainer Werner Fassbinder hanno saputo raccontare il clima di terrore diffuso – intriso di ironia nel caso del film di Fassbinder – e la “caccia alle streghe” scatenatasi contro i presunti sostenitori del movimento.
Helma Sanders Brahms
Margarethe von Trotta
Ma è attraverso il film collettivo Deutschland im Herbst (1978; Germania in autunno) che i fatti di cronaca dell’autunno del
1977 (il sequestro e l’uccisione dell’ex-ufficiale delle SS e capo della confindustria tedesca Hanns-Martin Schleyer, il dirottamento del Boeing della Lufthansa “Landshut” a Mogadiscio, la successiva liberazione degli ostaggi e, infine, la morte nel carcere di Stammheim) entrano in risonanza con i crimini nazisti, producendo sfasature tra il tempo della storia e quello della memoria e mostrando come il passato possa essere compreso a partire da una sua rielaborazione – che immancabilmente è anche un atto di selezione – nel presente.
A questo proposito, è emblematico l’episodio diretto da Fassbinder e nel quale egli stesso è il protagonista. Girato all’interno di un appartamento, l’episodio narra il difficile confronto con il compagno Armin Meier e i litigi scatenati dalle differenti interpretazioni dell’attualità.
Anni di piombo
Fondato sul rapporto contrastato tra due sorelle, Anni di piombo di von Trotta riprende, a soli due anni da Germania in autunno, la riflessione sui legami tra l’esercizio della violenza terroristica, le misure politiche adottate per reprimerla e il nazismo.
A differenza de Il caso Katharina Blum, in cui Schlöndorff e von Trotta scelgono di raccontare principalmente la nevrosi collettiva, alimentata dai giornali scandalistici e dai metodi di polizia, costruitasi attorno ai terroristi e ai loro presunti fiancheggiatori, Anni di piombo concede poco spazio alla messa in scena della dimensione pubblica e si concentra sul rapporto tra Juliane giornalista presso una rivista femminista, e Marianne (Barbara Sukowa), membro della RAF.
Il film racconta il percorso di Marianne, dall’ingresso nella clandestinità alla morte in carcere, ed è ispirato alla storia della terrorista Gudrun Ensslin. Ma il punto di vista dal quale sono narrate le vicende è principalmente quello di Juliane che, pur non condividendo le scelte della sorella, si ostina a cercare e a denunciare la verità sulla sua morte.
Violenza e non violenza
Le divergenze sulle modalità di attuazione del cambiamento politico – per Marianne occorre agire rapidamente e anche attraverso la violenza
mentre Juliane è convinta che la trasformazione sociale possa avvenire attraverso la sensibilizzazione e la critica non violenta – non affievoliscono il legame affettivo tra le due sorelle e, al contrario, sottolineano la profonda complementarità che le lega17
Fin dalla sequenza iniziale, il montaggio filmico è teso a scandagliare le origini e le trasformazioni di questo legame e, attraverso molteplici flashback, fa in modo che il passato emerga e irrompa nel presente.
All’operazione di rievocazione, fondata sulla raccolta e sulla conservazione del materiale del passato, Juliane affianca la comparazione
che, sottoponendo i documenti del passato ad un’ipotesi interpretativa, permette di esercitare uno sguardo critico sul presente.
I primi piani di fotografie dell’epoca nazista scorrono sullo schermo: il Führer ritratto assieme ai bambini e alle loro madri, il conferimento di medaglie alle madri più prolifiche, lunghe file di ragazze intente a compiere esercizi musicali, ginnici e militari.