Cosa sappiamo dell’attentato a New York

Ieri, quando in Italia erano circa le 20.30, un furgone ha colpito uno scuolabus e investito diverse persone su una pista ciclabile nella zona sud di Manhattan, New York. Nell’attacco sono state uccise 8 persone e altre 11 sono state ferite. Quello che è successo è stato trattato quasi subito come un attentato terroristico, anche se finora non c’è stata alcuna rivendicazione. L’uomo alla guida del furgone è stato ferito da colpi d’arma da fuoco sparati dalla polizia e poi arrestato. Nelle ultime ore stanno emergendo diverse informazioni sul suo conto: si chiama Sayfullo Saipov, ha 29 anni, è originario dell’Uzbekistan e lavorava come autista per Uber, il famoso servizio di auto private a noleggio con conducente. Non ha precedenti penali rilevanti. Oggi il governatore di New York, Andrew Cuomo, ha confermato una notizia che era già circolata ieri sera: cioè che dentro il furgone usato per compiere l’attacco sono stati trovati dei riferimenti allo Stato Islamico (o ISIS).

La dinamica dell’attacco è stata chiarita grazie a diverse testimonianze fornite alla polizia e ai giornali (la zona colpita è molto trafficata). Intorno alle 15.30 ora locale, l’uomo alla guida del furgone ha invaso la pista ciclabile investendo diverse persone. Dopo alcune decine di metri ha colpito uno scuolabus, e poco dopo ha abbandonato il furgone. La polizia di New York ha detto che una volta sceso, l’uomo ha mostrato un’arma da paintball (un gioco in cui ci si sparano palline di vernice) e un’altra ad aria compressa. Il New York Times dà per certo che una volta sceso dal furgone l’uomo abbia gridato Allah Akbar, “Dio è il più grande” in arabo. La polizia ha sparato ferendo l’uomo all’addome, prima di arrestarlo.

Nelle ultime ore sono emerse diverse informazioni sull’identità delle persone uccise nell’attentato. Cinque di loro erano cittadini argentini intorno ai quarant’anni. Si trovavano a New York per festeggiare l’anniversario dei 30 anni del loro diploma di liceo insieme alla loro classe. Una delle persone uccise è di nazionalità belga, era in vacanza insieme a sua madre e a sua sorella. Le altre due persone morte nell’attacco non sono ancora state identificate.
Cuomo ha detto che stando alle informazioni disponibili al momento sembra che Saipov abbia agito da solo, senza l’appoggio di una rete. Anche il presidente americano Donald Trump l’ha lasciato intendere, nel suo primo tweet dopo l’incidente. Nel suo secondo tweet, però, ha fatto esplicito riferimento allo Stato Islamico (o ISIS). In molti stanno ipotizzando che dietro l’attacco ci sia proprio l’ISIS.

Rukmini Callimachi, esperta giornalista del New York Times che si occupa di terrorismo e Medio Oriente, ha fatto notare che l’ISIS potrebbe anche decidere di non rivendicare l’attacco, se anche fosse appurato che Saipov sia stato ispirato dalla sua propaganda o fosse in contatto con una cellula del gruppo. Di solito infatti l’ISIS non rivendica attentati in cui il responsabile è stato catturato (anche se Callimachi scrive che in passato ci sono state delle eccezioni).

 

Fonte:

http://www.ilpost.it/2017/11/01/attentato-a-new-york/

La secessione catalana: un’analisi economica e finanziaria

La vicenda della secessione catalana, se osserviamo gli eventi degli ultimi anni, fa parte sicuramente di un processo di accelerazione di conflitti territoriali e politici che è un effetto diretto del crack globale del 2008.  Il referendum scozzese, la Brexit, la stessa primavera araba si possono riassumere in questo tratto unitario di spiegazione. Poi ogni vicenda ha il proprio retroterra storico ma, fatto sta, che quando la grande finanza esplode la geopolitica ne risente.

Andando nello specifico catalano, è anche vero che autonomia territoriale a Barcellona, in un processo contemporaneo di governance delle regioni, e monarchia di Madrid si tengono molto male, sia dal punto di vista giuridico, del funzionamento e delle  gerarchie dei poteri, sia degli obiettivi stessi dello stato centrale e delle autonomie locali. La crisi del 2008, con l’esplosione, in Spagna, della bolla immobiliare e di quella bancaria poco tempo dopo (e relativa disoccupazione record), ha minato questi rapporti già precari. Non è un caso che la crescita politica ed elettorale indipendentista coincida con questi fenomeni. Anche la ripresa successiva alla crisi, eloquente in termini di Pil e di lavoro (precario) prodotto, non è servita, almeno fino ad oggi, a chiudere la forbice, apertasi negli ultimi anni, tra stato centrale e Catalogna.

Stiamo parlando di una regione che produce il 20% del Pil spagnolo, il 25% delle esportazioni, quindi con un buon equilibrio di conti esteri, e con un reddito procapite superiore al resto della Spagna.
Se guardiamo questo grafico vediamo infatti che il reddito procapite catalano è sensibilmente vicino, rispetto a quello del resto della Spagna, alla media europea. Non c’è da stupirsi: già una regione che si sentiva, e lo era dal punto di vista economico, più europea delle altre del proprio paese -stiamo parlando della Slovenia– fece la secessione senza tante cerimonie (e, rispetto alla guerra civile jugoslava, un numero di morti molto minore).
E’ evidente che, dal punto di vista catalano, la Spagna è un qualcosa che tende a produrre relazioni sociali e reddito inferiori alla Catalogna. E qui l’analisi nel dettaglio della differenza tra investire in impresa in Catalogna e in Spagna chiarirebbe molto sul comportamento delle élite catalane. O sul fatto che, magari, una diversa legislazione sul reddito d’impresa, e sulle sue tassazioni, potrebbe essere giocato dal nuovo governo di Barcellona come incentivo allo sviluppo e all’attrazione di capitali. La parte business del progetto indipendentista, quello promosso dalla componente liberale di questo fronte, sembra prefigurare una sorta di Irlanda mediterranea (non certo una prospettiva di “sinistra”), con maggior forza dello Stato che la promuove e magari con capitali, visti gli investimenti a Barcellona, provenienti da fondi sovrani come quelli del Qatar (questi ultimi una certa attitudine a destabilizzare la politica ce l’hanno. Vedi primavere arabe). Quello che non è chiaro, ed è materiale esplosivo, è quale sistema bancario catalano potrebbe configurarsi. Ricordiamoci che, senza il riconoscimento della Bce, qualsiasi sistema bancario catalano potrebbe incontrare parecchie avventure e guardiamo questo grafico. Ecco il paragone tra andamento degli interessi sul bond catalano e quelli sul bond spagnolo in un grafico molto recente

Come si vede non c’è paragone, a favore del titolo emesso da Barcellona, tra il rendimento dei bond catalani e quelli spagnolo. Speculazione? Stato catalano che si indebita, perché gli interessi alti poi si pagano, per avere una massa monetaria utile per una nuova stagione politica? Investimento oculato? Costi ribassati per finanziare lo stato spagnolo con intervento Bce?

Nella risposta a queste domande vi sta anche la risposta su cosa avviene in quello che è il piano del comando, anche per la politica nelle società liberali: quello del movimento capitali.  Già perché la reazione di Rajoy è un grosso errore politico. E non è solo il riflesso nervoso di uno Stato che, nei momenti di crisi, pensa ancora in modo franchista e teme l’effetto centrifugo magari nei Paesi Baschi e in Galizia. E’ anche la reazione di qualcuno che, in Italia questo particolare è poco chiaro, ha visto sfilarsi nel 2012 il controllo di banche importanti -via Bce ma su direzione d’orchestra francese e soprattutto tedesca- e che poco potrebbe sopportare la secessione catalana. Anche perché, perdendo la quota di Pil catalano in una equa ripartizione dei debiti, il debito spagnolo andrebbe, dal 99% del Pil con un tasso di sviluppo decente (che produce però lavoro precario), a quasi quota 130%. Insomma al livello italiano ma senza la maggiore regione produttiva. Si capisce che, dopo la perdita di sovranità su parte delle banche, la secessione sarebbe un grosso problema per un paese, come quello spagnolo, costretto a reinventarsi. E per un sistema bancario che, basta leggere la stampa tedesca, è un grosso player per le imprese del paese di Angela Merkel.

Vista con la necessaria freddezza tutta questa vicenda pare sia una incompiuta che un elemento di crisi. Una incompiuta perché, senza una strada precisa, sul piano dei rapporti con Ue e Bce, la Catalogna (che vuol entrare nella Ue e nel sistema euro), corre il rischio di avere le convulsioni per poi stare nel limbo. Magari con un bond catalano che, forza delle necessità di finanziamento, diventa preda della speculazione di tutto il mondo. Un elemento di crisi, invece, perché uno stallo tra Madrid e Barcellona, legato allo status futuro della Catalogna, può avere effetti destabilizzanti in Europa ed essere importato nel continente.

Il punto, come sempre in questi casi, sta in chi è più forte nei momenti difficili tra i due contendenti. L’Ue, leggendo a modo suo il diritto internazionale, stando ben attenta agli equilibri continentali, ha detto che non appoggerà l’indipendenza catalana. Durerà questa posizione? Non lo sappiamo ma di certo ci pare curioso che una regione possa provare una secessione senza avere agganci nel continente. Ma razionalità e politica, si sa, sono sempre separate e non è detto che a Barcellona abbiano fatto i conti giusti. Come appare curioso l’errore del governo centrale di far partire la repressione, inizialmente soft (poi degenerata) ma evidente dove conta ovvero le telecamere di Rajoy, con gli indipendentisti erano indietro nei sondaggi a luglio con circa il 34% degli aventi diritto che voleva l’indipendenza. Il consenso successivo, con le mosse di questi giorni, pare averlo aggiunto la repressione di Rajoy e così la frittata è fatta e del domani non vi è certezza.
Nel frattempo una cosa sembra chiara: senza una visione chiara di quale modello economico promuovere, e quale sistema politico a supporto, a sinistra ci vuole la giusta cautela in questa vicenda.

 

Fonte:

http://www.senzasoste.it/la-secessione-catalana-unanalisi-economica-finanziaria/

Orwell e Huxley, distopie per un futuro dispotico

Le distopie sono il termometro delle paure di una società, ma oggi uno stato rigidamente controllato e ordinato non ci sembra più una minaccia credibile. Le cose stanno davvero così?

Si deve a Thomas More il termine “Utopia”, dal nome dell’opera in cui tratteggia una società ideale in un non-luogo o luogo felice (a seconda di quale etimologia si preferisca). Nel corso del ‘900 è stato codificato un genere chiamato, invece “distopia”, dove vengono rappresentati in modo grottesco i tratti più disumani e crudeli di una società immaginaria. Le distopie mostrano un mondo assolutamente antiutopico con intento polemico, per mettere in guardia i lettori contro i pericoli futuri. Le due più famose, probabilmente, sono “1984” di George Orwell e “Il Mondo Nuovo” di Aldous Huxley. Ciò che accomuna tutte queste opere, in ogni caso, è il movente delle loro rappresentazioni: la paura. Le distopie mostrano le paure dell’autore, che si fa portavoce di un sentire più grande, circa il futuro della società.

Le due opere citate, pur mostrando due società praticamente opposte, hanno in comune l’elemento di assoluto controllo da parte dello stato. Il clima novecentesco in cui sono state scritte tali opere traspira da ogni pagina. I totalitarismi erano dilaganti negli anni di pubblicazione, l’informazione (come del resto ogni contenuto psicologico, scientifico e filosofico) perdeva la sua verità monolitica per mostrarsi più sfaccettata e – per questo, manipolabile- il mito della natura umana vista come “buona” rovinava sotto i colpi degli avvenimenti storici. La tecnica si metteva al servizio dei sistemi di polizia a fini di controllo e le ideologie avevano ancora delle forme aguzze,  non scendendo a compromessi con la realtà. La paura di finire incasellati, controllati, ridotti a macchine era l’incubo per eccellenza nei paesi liberali. Si può dire che, in generale, questi autori non avessero torto. Queste due opere sono figlie del loro tempo, la loro funzione critica era legittima ed era condivisa da molti. Si è fatto, soprattutto di “1984”, un culto vero e proprio, segno che i timori espressi non erano aria fritta (al di là della strumentalizzazione politica liberale di quest’opera).

Perché, tuttavia, molti film o libri distopico-fantascientifici di oggi non ci spaventano minimamente? Pensiamo a due celebri libri-pellicole di successo come quella di Hunger Games e Divergent. Entrambe presentano una società rigidamente organizzata, non troppo distante da quelle delle grandi distopie del novecento, in cui uno o più eroi sovvertono quest’ordine. Ovviamente l’impostazione narrativa è differente, visto che l’attenzione è concentrata molto più sulla protagonista rispetto a ciò che la circonda. Il target di pubblico è diverso, la complessità è molto inferiore. Tuttavia è lecito chiedersi il perché di queste scelte e perché questi fanta-mondi non siano più spaventosi.
La verità è che queste opere non hanno intento polemico, non denunciano un processo di controllo e incasellamento in atto, pertanto il loro sfondo distopico è più un artificio letterario per proporre una morale di sicuro successo (viva la Libertà, meglio star peggio, ma liberi, che controllati da qualcuno) che un’esasperazione di una tendenza in corso. La morale di queste opere è proprio un rafforzativo dei valori democratico-liberali che non ha quasi più bisogno dello spauracchio totalitario, ma a cui basta l’elevazione dell’individuo a valore in sé (da cui la centralità della vicenda del protagonista).

Che la verità storica stia nei termini sopra enunciati è dubbio. Quelle distopie non ci fanno paura perché noi non crediamo possibile un controllo statale assoluto, non avvertiamo questo timore all’orizzonte, ma questo non vuol dire che il problema non sussista. Grazie soprattutto al progresso tecnico, oggi il controllo può essere totale. La registrazione in un social network consegna tutte le nostre informazioni ad aziende che le sfruttano per proporci cose che potrebbero interessarci, ogni nostra conversazione può essere controllata, i telefoni che abbiamo in tasca sono dei localizzatori e la nostra identità è sparsa per dei database. Per il momento abbiamo molte “licenze”. Sono queste a darci una parvenza di libertà. Ci sono strumenti di consenso più raffinati che la violenza o la coercizione.
Una vera distopia, ad ogni modo, deve denunciare questo, deve essere coerente con il suo tempo come lo sono state in passato quella di Orwell e quella di Huxley.

La libertà è premessa indispensabile della vita intellettuale di un paese: “i filosofi, gli scrittori, gli artisti, persino gli scienziati, non hanno solo bisogno di incoraggiamento e di un pubblico: hanno anche bisogno di costante stimolo degli altri. E’ quasi impossibile pensare senza parlare. (…) se si elimina la libertà di parola, le facoltà creative inaridiscono”. (G. Orwell)

 

Fonte: l’intellettuale dissidente

Lo sgombero di Roma in Piazza Indipendenza: un’operazione giusta con buona pace della becera indignazione dei perbenisti e radical chic

Lo scorso 24 agosto a Roma, in Piazza Indipendenza, la polizia ha eseguito la sentenza di sgombero di uno stabile di proprietà privata, che era stato occupato da anni da centinaia di immigrati, quasi tutti regolari. Come al solito il Paese, sia i suoi rappresentanti ai diversi livelli istituzionali e non, sia l’opinione pubblica, si sono divisi, divisione accentuata dalla modalità di tale sgombero.
E’ il caso non solo di partire dai fatti, ma anche di finirci, e solo allora maturare un giudizio.

I fatti sono i seguenti: in Italia vige il diritto italiano. Questo vuol dire che tale diritto, al contrario di quanto pensano alcuni, sia di estrema destra che di estrema sinistra, ma soprattutto di estrema stupidità, è italiano non perché riguarda gli italiani, ma perché riguarda tutti coloro che si trovano sul territorio italiano. Dunque anche gli immigrati regolari. Questi ultimi sono pertanto persone con dei diritti e dei doveri, entrambi, non solo diritti, né solo doveri.
Immigrato regolare, nel caso in questione rifugiato, cioè immigrato riconosciuto come proveniente da un Paese (nel caso Eritrea) in cui la sua vita era in pericolo, ha diritto giuridico, cioè riconosciuto dalla legge (differente dal diritto umano in generale), di avere ospitalità, residenza e alloggio. Ovviamente ha anche i doveri connessi alla sua permanenza nel nostro territorio. Nel caso in questione tali migranti regolari non hanno ricevuto un alloggio, pur essendogli riconosciuto.

Nel nostro territorio, sia per gli italiani che per gli stranieri (regolari o meno che siano), l’occupazione di una qualsiasi proprietà privata è un reato. Occupazione di proprietà privata vuol dire che a casa mia o vostra qualcuno entra con la forza (qualsiasi violazione di domicilio in quanto tale è forzosa, anche se la porta è lasciata aperta per incuria dal proprietario) e ci vive. Non conta che tipo di difficoltà spingano l’occupante ad agire così, resta il fatto che qualcosa di mio, che la legge riconosce come mio, viene rubato da un estraneo, che si giustifica con le proprie difficoltà. Cioè viola il mio domicilio e ruba il mio spazio: è un furto, così si chiama. Al danno come al solito si unisce la beffa, perché il privato in questo caso ha continuato a pagare le bollette di coloro che illegalmente e ingiustamente occupavano la sua proprietà, e ha perso sia i soldi dell’investimento lavorativo che lì voleva attuare, che i posti di lavoro che ne sarebbe conseguiti.

Il privato ricorre alla giustizia dei tribunali, che gli dà ragione: la proprietà è un diritto inalienabile, va ripristinata la proprietà del privato. Tradotto, il palazzo va sgombrato dai migranti.
Siamo in Italia, questo a quanto pare significa che una sentenza venga applicato dopo qualche anno. Cioè qualche giorno fa, nel 2017!

Lo sgombero, a detta di alcuni commenti, è stato eccessivamente violento. Qui si devono sottolineare alcuni impliciti. La violenza di base sta nell’occupazione illegale (cioè, come si diceva su, avvenuta con la forza) del palazzo. Altra violenza ancora sta nell’ammissione del comune di Roma che gli abusivi impedivano anche l’accesso ai funzionari del comune stesso per un censimento e un rapporto sulla situazione. In un tale contesto lo sgombero si attua di fatto con la forza, proprio perché è una risposta a persone che si sono imposte con la forza e che quindi presumibilmente non vogliono andarsene di propria spontanea volontà. E’ plausibile ritenere che se gli abusivi avessero obbedito immediatamente allo sgombero (perché sì, assurdamente, alla legge si obbedisce) le forze dell’ordine non avrebbero dovuto agire coattamente. Gli idranti, i manganelli e i gas lacrimogeni sono usati per spostare persone che la magistratura e la legge avevano stabilito che se ne dovessero andare e che invece facevano resistenza con sassi e bottiglie. A questo punto si inseriscono una mancanza e due episodi in particolare, che hanno suscitato scalpore nei differenti schieramenti.

La mancanza è la più grave di tutte: pare che tale sgombero fosse stato programmato senza che la politica trovasse immediatamente alloggi alternativi, rendendo più comprensibile lo spaesamento dei rifugiati e quindi la loro, pur illegale, modalità di resistenza. Alcune soluzioni stanno emergendo, due delle quali sembrano essere la disponibilità di alcune villette in provincia di Rieti, a 80 km circa da Roma, e le abitazioni sequestrate alla mafia (quindi presumibilmente dislocate soprattutto nel sud Italia). A queste possibili soluzioni i rifugiati pare abbiano risposto inizialmente, almeno stando alla interviste, con un rifiuto. Ora, lo stato dovrebbe garantire al rifugiato un alloggio, non anche la località che lui preferisce. Rieti non piace, peggio per loro: l’ospitalità, per quanto garantita dalla legge, non può permettere di diventare lo sfruttamento dei fessi. Si accampano scuse del tipo che da Rieti è difficile raggiungere Roma, o che le scuole ormai erano vicine a dove loro vivevano illegalmente. Certo, ma le scuole esistono anche a Rieti e nel sud Italia, mentre i posti di lavoro eventualmente ormai presenti a Roma, vanno, qui si deve dire purtroppo, messi in discussione, cercando di mantenere l’immigrato nel suo posto di lavoro, ma se esso confligge con la disponibilità di un alloggio, purtroppo, si ripete, l’immigrato dovrà spostarsi e cercare altro lavoro. La repubblica italiana deve garantire dunque i diritti spirituali della persona e quelli materiali, ma tra quelli materiali non esiste il diritto di vivere per forza a Roma, né il diritto di lavorare lì, invece che in altro posto, o il diritto di andare a scuola lì, piuttosto che altrove. Questi non sono diritti, ma desideri, sta alla politica decidere se soddisfarli, ma non ha il dovere di farlo, poiché non sono diritti, ma possibilità.

Il primo episodio grave invece è stato quello del funzionario di polizia che pronuncia queste parole (che chissà quante volta avrà pronunciato parole simili ad un suo connazionale): “Se non obbediscono spezzagli un braccio”. La giustificazione dello stesso è stata poi che era un frase in libertà, che non avrebbe dovuto pronunciare, mentre chi lo difende in generale afferma che in quelle situazioni come in altre lavorative, seppur differenti, escono molte frasi che esprimono più la tensione, che l’intenzione. Comprensibilissimo, ma non sufficiente. Perché? Si confrontino le due situazioni: un cittadino normale arrabbiato per il traffico, dunque in tensione, urla un romanesco “mo (adesso) t’ammazzo” ad un altro autista; seconda situazione, quella in questione: un funzionario che comanda alcuni poliziotti ordina di dover spezzare il braccio ai resistenti. La differenza è evidente: il primo non ha per legge il monopolio della forza, non ha armi con sé, non ha nessuno a cui può dare ordini, la sua è dunque una frase, terribile certo, ma priva dei mezzi, a meno che non sia un assassino, per divenire reale, la seconda frase, quella del funzionario di polizia, non è più una frase, ma un ordine nel momento stesso in cui i suoi uomini lo ascoltano, nel momento in cui la pronuncia in servizio, durante un’operazione, nel momento in cui il suo lavoro prevede, a differenza del cittadino, un addestramento alla tensione, che dovrebbe evitare che il monopolio della forza diventi un abuso della forza. Dunque l’immigrato se avesse sentito tale frase, avrebbe avuto ragione di temerne la possibile traduzione nella realtà. Tale funzionario va sanzionato, perché per lui la violazione del diritto è addirittura più grave che la violenza del privato cittadino. Inoltre ci si sta fossilizzando su questa frase e non si è rivolta l’attenzione, ad esempio, al poliziotto che invece va a confortare una donna.

Il secondo episodio è il famoso lancio della bombola vuota di gas da parte di un rifugiato dal balcone del palazzo, mentre in piazza c’era la polizia. E’ stato accertato che non è stato lanciato addosso alla polizia, dunque per ferire od uccidere, ma come monito a non avvicinarsi, dunque una minaccia di violenza, più che una violenza. Questo non toglie che sia grave ugualmente. Gravissimo. Chiunque di noi usasse oggetti più o meno pesanti per esprimere una minaccia ad un poliziotto che sta agendo in nome della legge, commetterebbe un reato, le intenzioni non lo giustificano: l’atto, pur fermo al gesto simbolico e non pericoloso, rimane un atto ostile alle forze di polizia. Un reato.
Dunque, come ad ogni manifestazione, va tristemente constatato che se un reato, come lancio di oggetti contro un poliziotto, o insulti a pubblico ufficiale etc… lo si commette singolarmente, è reato, se lo commettono in tanti si chiama manifestazione, resistenza, diritto alla casa, disobbedienza civile, etc… La massa però non crea diritti, né all’occupazione abusiva, né alla violenza.

Nel ’68 Pasolini difendeva i poliziotti, veri proletari, dagli studenti che facevano le barricate, per la maggior parte figli di papà che giocavano a fare i rivoluzionari per noia. Purtroppo a distanza di cinquant’anni non è cambiato nulla. E Pasolini aveva ragione da vendere. Fra di loro c’è Mario Capanna, rivoluzionario di quegli anni che oggi difende a spada tratta i vitalizi. Oppure pensiamo al sovversivo Francesco Caruso, che è passato dalla barricate alla cattedra universitaria a Catanzaro. Il che è tutto dire. E guardacaso è abbastanza palese una certa contiguità tra alcune ONG, associazioni, convegni, premi giornalistici, finanziamenti… Solitamente chi difende a prescindere i migranti ed è per l’accoglienza senza se e senza ma, non vive i problemi quotidiani dei cittadini che sono a contatto con i migranti ed è per l’abolizione della proprietà privata e delle frontiere, idee criminogene.

Si può allora dire che c’è un colpevole solo e più vittime. Il colpevole è la politica, lo stato, che avrebbe dovuto impedire il crearsi di una tale situazione e non l’ha fatto, costringendo il diritto della legge a scontrarsi con il diritto alla casa dei rifugiati. Eschilo diceva che il diritto lotta contro il diritto, se si riferiva alla politica, si sbagliava. In una democrazia il diritto evita i conflitti, non entra in conflitto, la democrazia è (dovrebbe essere) armonia di interessi, interessi che esprimono dei diritti. Se la democrazia smette di tessere l’ordito, di essere sarta di tutti i fili, come direbbe Platone nel Politico, allora fa emergere l’anarchia, e tra democrazia e anarchia c’è e ci sarà sempre contraddizione.

Infine, se è vero che non ci può essere accoglienza vera senza sufficienti risorse – perché sì, l’accoglienza è una scelta morale, ma una scelta morale senza mezzi per farla come si deve diventa scelta immorale, cecità sulle conseguenze – è però altrettanto vero che in uno stato in cui il diritto lotta contro il diritto, la solidarietà non sarà mai possibile, perché costringe alla lotta, invece che al compromesso, costringe il vinto ad una sopravvivenza illegale e il vincitore ad un abuso, seppur legale. Se gli italiani vogliono rimanere persone morali, devono costruire insieme una democrazia dove non esista questa contraddizione, che non vuol dire accogliere tutti o nessuno, ma accogliere umanamente. Come sempre, la sfida di diventare veramente esseri umani ci ritorna addosso.

Attentato Barcellona, 13 morti. Rischio di italiani coinvolti. Ultime notizie

Barcellona, 17 agosto 2017 – Un altro attentato in Europa, un’altra strage. Questa volta il bersaglio è Barcellona: intorno alle 17 di oggi pomeriggio un furgone bianco è piombato sulla folla che passeggiava sulle Ramblas, la strada più turistica della città catalana, facendo morti e feriti. E’ stato arrestato e si chiama Driss Oukabi, nato a Marsiglia e già noto alla polizia spagnola in quanto pregiudicato, l’uomo che ha noleggiato il furgone con cui ha ucciso 13 persone. 80 i feriti, 15 dei quali gravi, di un massacro che l’Isis ha rivendicato in serata attraverso la sua ‘agenzia’ Amaq. Un altro dei due complici ricercati dalla polizia sarebbe morto in una sparatoria con gli agenti. Arrestato anche il terzo uomo. Secondo fonti della Farnesina, c’è il rischio di eventuali coinvolgimenti di italiani.

MA OUKABIR DENUNCIA IL FURTO D’IDENTITA’ – Ma in serata, secondo La Vanguardia un uomo si è presentato alla polizia catalana proprio come Driss Oukabir, e ha denunciato il furto dei propri documenti. L’uomo avrebbe spiegato agli agenti che, vedendo la sua fotografia, sui media ha capito cosa fosse successo ed è andato a denunciare il furto di identità alla polizia.

LE VITTIME – Al momento è certa l’identità di una sola vittima, di nazionalità belga. Come anticipato dalla Farnesina, è possibile che ci siano anche vittime italiane.

LA CIA – La Cia avvertì i Mossos de Esquadra che Barcellona era entrata nel mirino di un possibile attacco terroristico. L’allarme dell’intelligence americana era giunto alla polizia catalana due mesi fa. Nell’allarme si indicava, tra i luoghi di un eventuale attacco proprio le Ramblas.

LE TESTIMONIANZE – Il furgone procedeva a zig-zag a una velocità di 80 km orari e ha percorso circa 530 metri prima di fermare la propria corsa: era arrivato sulla passeggiata della città catalana da via Pelai e si è fermato nell’area del Teatro Liceo. Secondo il racconto dei testimoni, l’autista cercava di investire più pedoni possibile. “Ho visto almeno tre o quattro persone a terra, un poliziotto con una persona in braccio e tutti che correvano, urlavano, piangevano”: ha detto uno dei testimoni Luca Terracciano, uno studente italiano che vive a Barcellona e che ha visto di persona quanto successo sulla Rambla.

Fonte: http://www.quotidiano.net/esteri/barcellona-attentato-ultime-notizie-1.3337911

I punti di vista elettorali: proporzionale e maggioritario

Si potrebbe dire, usando una metafora, che il sistema elettorale, quale esso sia, è il punto di vista, e la democrazia il paesaggio. A seconda del punto di vista il paesaggio sarà diverso. Se dunque il sistema elettorale fosse proporzionale si avrebbe un certo tipo di panorama politico, se ci fosse un sistema maggioritario, ce ne sarebbe un altro.

In sintesi cos’è il proporzionale concettualmente: esso prevede che in base ai voti che prendi, si ha proporzionalmente un numero di rappresentanti in Parlamento. Dunque per il proporzionale la rappresentatività varrebbe più della governabilità, qualora esse fossero in contraddizione. Nell’ ipotesi tuttavia di tre poli, come sembrano essercene adesso, tutti più o meno al 30%, nessuno vincerebbe. Che fare? Il maggioritario, che prevede un premio di governabilità, fa diventare maggioritario colui che vince e/o supera una certa soglia, dandogli cioè un sovrappiù di parlamentari per raggiungere la maggioranza e governare, altrimenti si potrebbe rivotare di nuovo, ma se il risultato non dovesse cambiare, si ritornerebbe al caos, quindi di nuovo al voto, quindi di nuovo al caos etc… Per il maggioritario la governabilità vale quanto e più della rappresentatività, perché il contrario, il caos, è più pericoloso di un premio aggiuntivo.

Attualmente, sia in caso di voto con i due sistemi elettorali diversi per Camera e Senato, sia in caso di una riforma omogenea tra le due camere, si sta profilando di fatto un sistema proporzionale. Va precisato che il sistema perfetto in astratto non esiste, esistono sistemi più funzionali, a seconda delle circostanze politiche, storiche, istituzionali, sociali che un certo Paese sta vivendo. Dunque non esiste il miglior sistema in assoluto, ma il migliore in un certo periodo.
Il proporzionale può essere sfruttato in due modi: può certificare la predominanza elettorale effettiva di un certo partito, può cioè saldare al potere chi di fatto è vincente, perché fa corrispondere al suo peso, già di suo maggioritario, il numero di seggi corrispondenti. In questo caso il maggioritario è nei fatti, e il proporzionale lo registra e convalida.

Il proporzionale può essere però anche la spia non di una forza, ma di tante debolezze. Si potrebbe prevedere, pur senza averne ovviamente la scientifica certezza, che in Italia il voto dimostri l’esistenza di tre poli politici, PD/centro sinistra, Centro destra, Movimento 5 stelle. Tre poli a circa il 30% l’uno. Così è difficile che uno solo possa governare. Il sistema proporzionale, cioè tot voti si traducono in tot seggi, senza premi di governabilità aggiuntivi, non permetterebbe a nessuno di vincere né di governare appunto. Allora perché sceglierlo? Perché in fondo la possibilità rimanere vivi e con la forza attuale è molto più forte della paura di ridursi tanto a causa di un vincitore unico con il maggioritario: in un sistema maggioritario infatti uno solo è destinato a superare, anche artificialmente il 50% dei seggi, e gli altri ne risulterebbero fortemente, forse enormemente ridimensionati. Essendo tutti per ora deboli alla pari, il sistema proporzionale permettere loro invece di sopravvivere alla pari. Nessuno vince, tutti vincono, cioè in un’ottica politica miope, tutti sopravvivono.

Anche il maggioritario può essere usato in due modi: può dare a chi già di suo è predominante, un premio che ne assecondi la forza elettorale conferendogli un numero aggiuntivo di seggi che traduca la sua forza in governabilità. E’ in fondo un proporzionale di sostanza, perché registra la forza effettiva di uno dei poli, e la governabilità diventa una conseguenza della sua forza, non un privilegio illegittimo e eccessivo in termini di seggi. Può però anche essere usato per far vincere forzosamente la maggiore minoranza, troppo numericamente debole per avere diritto a quel premio. In questo caso, più che un maggioritario sarebbe, giocando con le parole, uno sproporzionale.

Ora, nel nostro panorama politico si hanno effettivamente tre poli, tutti più o meno equivalenti, e un sistema elettorale doppio, uno per la Camera, uno per il Senato. Con una sintesi semplificata li si possono definire entrambi proporzionali. Alla luce di quanto detto non si possono definire i tre poli forti uguali, ma deboli uguali, e per questo più interessati a un proporzionale del secondo tipo. Non che nessuno di loro non punti, se possibile, a vincere e ottenere la maggioranza, ma è davvero probabilissimo che nessuno di loro vinca, tanto vale allora rimanere nei rapporti di forza attuali o leggermente modificati con il proporzionale.

C’è anche un altro dato di fatto, il proporzionale attuale ha una soglia di sbarramento per entrare in Parlamento al 3%, cioè facilita l’entrata in Parlamento dei piccolo partiti, e dunque anche l’entrata in gioco. I seggi di questi piccoli potrebbero essere la differenza necessaria a governare per uno dei due poli, sinistra o destra, essendo i 5 stelle una lista unica volontariamente.
Se si dovese fare un patto serio tra un grande e altri piccoli, la possibilità di raggiunger il 40% (soglia per ottenere il premio di governabilità) non sarebbe più così difficile. Ma un patto può anche essere un ricatto da parte del piccolo, rendendo sì accessibile il premio e il governo, ma poi rendendolo precario nella sua azione ed esistenza stesse.

Qui entra in gioco un ultimo fattore, i leader. Leader capaci riuscirebbero a gestire con dignità e competenza sia un sistema proporzionale che uno maggioritario. Non farebbero del proprio comando una priorità, ma cercherebbero di far funzionare il sistema, facendo patti seri, se non dovessero riuscire a superare il proporzionale, o varando un maggioritario che non storpi la rappresentanza delle opposizioni/minoranze nell’altro caso.

 

 

Dal maggioritario al proporzionale: l’intesa tramontata sulla nuova legge elettorale

Pur non riuscendo a realizzare l’accordo sulla legge elettorale, il modo in cui tale accordo era stato possibile getta luce sui suoi protagonisti, è dunque interessante analizzare i motivi profondi che hanno spinto tutti a mettersi d’accordo sulla legge proporzionale.
Nessuno vuole il proporzionale, quindi? Quindi lo fanno. L’unico accordo fattibile, si potrebbe logicamente pensare, è escludere fin dal principio il proporzionale. Le dinamiche sottese a questo cambio di rotta permettono di far vedere se una classe dirigente sia o no Politica.

In sintesi cos’è il proporzionale concettualmente: esso prevede che in base ai voti che prendi, si ha proporzionalmente un numero di rappresentanti in Parlamento. Ottimo, detto così è democrazia pura, salvo poi avere magari tutti partiti, ipotesi, al 30%, così nessuno vince, tanto da avere la maggioranza del 50 più 1 per cento e governare. Che fare? Il maggioritario, che prevede un premio di governabilità, fa diventare maggioritario colui che vince e/o supera una certa soglia, dandogli cioè un sovrappiù di parlamentari per raggiungere la maggioranza e governare, altrimenti si potrebbe rivotare di nuovo, ma se il risultato non dovesse cambiare, si ritornerebbe al caos, quindi di nuovo al voto, quindi di nuovo al caos etc… Per il maggioritario la governabilità vale quanto e più della rappresentatività, perché il contrario, il caos, è più pericoloso di un premio aggiuntivo.

Tutto inizia con la fine della Prima Repubblica (dove c’era il proporzionale) e il referendum in cui la stragrande maggioranza degli italiani vota per un sistema maggioritario. Così si formano due poli, centro destra e centro sinistra, si alternano, e questa alternanza maggioritaria, seppur limitata dai ricatti dei piccoli partiti, era uno dei pochissimi e invisibili lasciti positivi del berlusconismo. Ecco il nostro prima attore, Berlusconi e Forza Italia, da sempre schierati per il maggioritario e da esso a loro volta supportati. Quando però iniziano a perdere consensi (più del 50%!), allora, sapendo di non vincere, Berlusconi, un idealista maggioritario, inizia a dire che vuole il proporzionale. Cioè poiché non vince lui, allora non vuole vinca nessuno, per diventare poi fondamentale per offrire i proprio voti al più potente non vincitore e fare insieme un governo (larghe intese). Non c’è male per uno dei fondatori del maggioritario in Italia. Va anche detto, a favore dell’azione di Berlusconi, che qualora rinunciasse ad essere lui l’ago della bilancia, lascerebbe nel suo campo un vuoto politico colmabile da attori potenzialmente peggiori. Sopravvivere può dunque non essere solo egoismo politico, ma avere un effetto, forse non voluto ma positivo, di riaggregazione futura e moderata del centro-destra.

Renzi e il PD. Renzi, lo ricordiamo tutti, fa approvare l’italicum, probabilmente la legge elettorale più marcatamente maggioritaria che la Repubblica italiana abbia mai avuto, tanto da farsi accusare di autoritarismo implicito etc… Lui conferma questa impostazione dicendo che non avrebbe mai fatto il leader di un governo destinato a stare a galla, perché senza vera maggioranza non sarebbe stato possibile riformare il Paese. Ora il proporzionale con i tre poli attuali al 30% porterebbe proprio a questo. Ma lui si è accorto che non è in grado di ottenere la maggioranza, non lo era più neppure con l’italicum, ormai comunque parzialmente bocciato dalla corte costituzionale, non lo è sicuramente ora, dove i successi del suo governo sono, a livello costituzionale ed economico, approssimativi, momentanei, superflui, forse neppure effettivi. Ora, visto che non può vincere, ma non se ne vuole andare, preferisce comunque rimanere a galla che sparire, preferisce rinnegare il maggioritario, e fare di tutto per essere uno degli attori della futura ingovernabilità, piuttosto che andarsene dignitosamente, dopo essere stati sconfitti lui e la sua (evidentemente falsa) volontà maggioritaria. Se non può far parte dell’ordine vuole far parte del caos, in un nuova declinazione dell’importante è partecipare, proprio da chi sembrava non voler far altro che vincere. Anche per Renzi va dato atto che un tentativo maggioritario, seppur scomposto, discutibile e bocciato, è stato cercato, e che nel suo eccessivo leaderismo, ha però confermato una certa vocazione maggioritaria. Non è escluso che possa in futuro ritentare la strada di un maggioritario, accettando per ora il gioco proporzionale, perché impossibilitato a imporre il maggioritario.

Come ultimo partito del vecchio sistema troviamo la Lega, la vecchia maggioritaria Lega. Salvini, suo leader, esperto di complessità, di fronte al problema del futuro probabilissimo caos con il proporzionale, invece di cercare di spingere per il maggioritario, ha detto di accettare qualsiasi cosa pur di andare a votare. Convinto che gli italiani apprezzino le risposte semplici (semplicistiche) e chiare rispetto ai problemi. Da un lato questa determinazione può dargli l’immagine di una determinazione e un orientamento al risultato che non pochi italiani potrebbero apprezzare, ma è anche vero che se dietro tale semplicità, non ci fosse la chiarezza ma piuttosto l’assenza di una visione complessa, il problema tornerebbe nel momento in cui dovesse governare. E’ pur vero che Salvini è il più piccolo degli attori parlamentari per ora in gioco, sa di non poter influire su quale sistema varare, ma solo assecondarlo, quale che sia, e velocizzare il voto. E’ una strategia, forse pragmatica, forse miope. Si deve attendere per capire.

Si arriva ora al Movimento 5 stelle. Non si deve pensare ai 5 stelle del 2013-15 per capire cosa vogliono dalla legge elettorale. Bisogna pensare ai 5 stelle dopo la vittoria di Virginia Raggi come sindaco di Roma. A prescindere dai meriti e/o demeriti effettivi di questa giunta, è emerso tuttavia ai leader dei 5 stelle la consapevolezza che una maggiore preparazione in vista di un possibile futuro loro governo nazionale sarebbe necessaria. Certo hanno, soprattutto la base, un’idea della rappresentanza che si sposa molto meglio con il proporzionale che con il maggioritario, ma alla luce di quanto appena detto, è anche vero che la possibilità di non vincere li aiuterebbe ad avere altri anni a disposizione per formarsi come forza di governo preparata e sicura di sé. Poco credibile appare la formula d’emergenza da loro proposta: il governo di minoranza parlamentare. Per definizione un governo non è della minoranza, perché per governare gli serve la maggioranza, così, ammesso che riescano a vararlo in Parlamento (dove avrebbero solo la minoranza dei voti per la fiducia) su ogni legge dovrebbero chiedere il voto a qualcuno (ma loro non li chiedono) e per averli dovrebbero trattare (ma loro non trattano) e scambiare qualcosa nella scrittura delle leggi, perché coloro a cui si chiedono i voti vorranno giustamente partecipare alla stesura (ma loro non scambiano). E’ chiaramente emerso un problema di selezione della loro classe dirigente. Tra loro sono infatti emersi, grazie ad un sistema piuttosto precario, sia leader capaci che pessimi, ma è un difetto che una forza di governo deve limitare al massimo. La selezione è la base della futura azione di chi sarà selezionato. Per ora il rischio è di sprecare le intenzioni e le energie positive con leader che forse non sanno esprimerle. E’ tuttavia vero che il movimento è forte, al contrario degli altri partiti, a prescindere dai suoi leader, escluso Grillo, ma per l’idea di innovazione che è riuscito a trasmettere.

Questa è la nostra classe politica, che non ha classe, non è Politica, ma purtroppo sì, è la nostra. Nostra vuol dire che viene da noi, fa parte di noi, e finché gli italiani saranno quello che saranno, lo sarà anche la classe politica e viceversa. Non è un circolo irreversibile, ma è il circolo che c’è ora.

Un mondo che odia la scienza è destinato a soccombere

Anche l’America odia la scienza, è questa la deduzione che possiamo fare dopo il varo ufficiale dell’ordine esecutivo dell’Amministrazione Trump sulla politica energetica. Quella che il vicepresidente Mike Pence ha definito “La fine della guerra al carbone” ha un significato storico senza precedenti.

Per la prima volta si torna indietro, vengono cancellate tutte le dimostrazioni scientifiche sulla correlazione tra riscaldamento globale e inquinamento, in ragione di uno sviluppo economico che si regge ormai su basi molto fragili. Una scelta scellerata che mette in discussione il già precario risultato ottenuto a Parigi nel 2016 e che pone il mondo davanti ad un pericolo più che concreto di autodistruzione.

Quello che sorprende è ormai la diffusa diffidenza, che sembra aver invaso le classi dirigenti di mezzo globo, verso la scienza sempre più ridotta ad ancella della politica economica. Eppure le riconversioni ed il cambio di paradigma energetico progettati da Obama promettevano nel lungo periodo risultati molto incoraggianti anche dal punto di vista economico. Come detto, però, la politica continua a navigare solo nel brevissimo e ci condanna ad un futuro sempre più fosco.

Il rapporto tra capitalismo sfrenato e ambiente ha radici profonde che hanno visto sinora soccombere sempre e comunque la natura. Considerazione banale è che all’interno di quell’ambiente ci vive anche l’uomo e se le condizioni vitali sono messe in discussione lo è anche la sopravvivenza della razza umana.

Se in America si piange, in Italia certamente non si ride. Le ferite già inferte al nostro Paese sono innumerevoli, ma in compenso se ne stanno preparando di nuovissime. Il recente referendum sulle trivelle, la TAP (si leggano gli articoli di Alessandro Cannavale sul Fatto Quotidiano) e la questione del petrolio lucano, dimostrano come si continui a ritenere l’ambiente esclusivamente come un bene di consumo.

Costruire un giusto rapporto tra la scienza e la politica è un passo fondamentale, perché ciò possa avvenire ci deve essere una spinta dal basso. Tale spinta è possibile solo istillando nell’elettorato le giuste priorità per lo sviluppo e la crescita rendendo popolare il metodo scientifico. Per fare ciò occorre investire sull’informazione corretta e sulla formazione.

È vitale invertire la tendenza perché il baratro è ad un passo.

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