Intervista a Ilaria Palomba, autrice di ‘Vuoto’, presentato al Premio Strega 2023

Leggere Vuoto, il nuovo libro della scrittrice pugliese Ilaria Palomba, è come addentrarsi in vari punti indefiniti dell’io, percorrere la via incandescente della Letteratura, vivere una profonda esperienza emotiva.

Tuttavia si ha l’impressione che dietro la scrittura cruda di Palomba si celi una solida disciplina intellettuale (dovuta ai suoi studi) che contribuisce alla riuscita dell’opera, lucida e di grande impatto sul lettore. Un’opera che è fragile e abissale, in cui l’autrice fa emergere l’inconscio e il rimosso che reclamano la loro parte di vita. Come Sylvia Plath, Ilaria Palomba si sottrae alla vita, al mondo ostile impastando delicatezza, sangue e sensazioni urticanti; come Amelia Rosselli, la prosa poetica di Palomba è musicale, densa, affascinante, disturbante.

Vuoto, edito da Les Flaneurs ha per protagonista Iris, trentenne che ha da poco festeggiato il suo compleanno con Federico; entrambi hanno un disturbo di personalità e insieme parlano di vari argomenti oltre che delle loro paure. Si amano, si sposano, confliggono. Compare Giulio, presenza costante, quasi fosse un fantasma. I personaggi sono in un appartamento romano, poi in un altro luogo, poi in Salento. Iris è molte vite, passato e presente che si alternano in un flusso che trasporta il lettore in molti posti, in strade fisiche, a Conca Specchiulla, in via Accademia degli Agiati, in luoghi dell’animo che si alternano in un ciclo di stagioni: estate, fine dell’estate, autunno, inverno, fine dell’inverno, primavera, estate, senza tempo. Il vuoto, appunto.

Il Salento è un luogo interpretato da Ilaria Palomba, filtrato dall’inconscio dell’autrice che dà vita ad una scrittura cruda e diamantina, popolata di visioni, sensazioni, percezioni, che è tessuto vivo, corpo rivelatore vivente e morente, vulnerabile e miracoloso.

La vocazione di Ilaria Palomba, la quale, non sentendosi investita di un compito, scrive per se e poi per gli altri, è quella dell’artista atemporale, fisionomia che la renderà sempre attuale, a differenza di molti scrittori italiani perennemente sotto tiro dei grandi poli editoriali, malati di narcisismo e salottismo.

Vuoto dimostra che i libri possono ancora essere materia incandescente e pericolosa, che le idee comportano una scelta, e soprattutto insegna a non avere paura di niente, mostrando come il Cervello sia più ampio del Cielo, parafrasando un verso di Emily Dickinson.

Ilaria Palomba è una scrittrice, saggista e poetessa pugliese. Ha pubblicato: Fatti male (Gaffi, 2012: tradotto in tedesco), Homo homini virus (Meridiano Zero, 2015: premio Carver), Disturbi di luminosità (Gaffi, 2018), Brama (Giulio Perrone Editore, 2020), Città metafisiche (Ensemble, 2020), Microcosmi (Ensemble, 2022). Alcuni dei suoi racconti sono stati tradotti in lingua straniera, come inglese, francese e tedesco.

 

1 Come nasce “Vuoto”?

Nasce nel 2020, contemporaneamente a L’umana fragilità, che uscirà l’anno prossimo per d editore. In teoria, L’umana fragilità sarebbe dovuto essere un romanzo per il pubblico e Vuoto un testo personale di annotazioni sulla vita e sulle letture che stavo facendo. Poi, una serie di vicissitudini, non ultimo il mio incidente e la permanenza di sette mesi in ospedale tra rianimazione e unità spinale – Vuoto nel frattempo era diventato un testo molto più complesso di quanto credessi -, ho deciso di pubblicarlo al primo sì: quello di Annachiara Biancardino e Alessio Rega di Les Flaneurs.

2 Qual è la sua visione del mestiere di scrittore?

Non lo so, ho sempre tentato di fare in modo che diventasse un mestiere, ma ogni volta per me si è trattato di un esordio che non superava un certo numero di vendite per cui il libro successivo sarebbe stato un nuovo esordio. Ho compreso che il mio modo di scrivere è di nicchia, devo puntare sull’autorialità non sulle vendite. Non può essere un mestiere perché non mi permette un rientro economico sufficiente. Dunque, per me la scrittura è una vocazione, l’ascolto e la trasmissione di una voce. Non un compito. Non scrivo ogni giorno, e potrei non scrivere per anni. Senza quella sacra necessità non lo farei.

4 Qual è stata la sua ultima scoperta esistenziale, spirituale, letteraria, mentre scriveva Vuoto?

Mentre scrivevo Vuoto leggevo Musil, imparavo la lentezza, l’osservazione. Praticavo il buddismo di Nichiren, che ora ho abbandonato. Vivevo tutto come una rivelazione, un dono. Scoprivo me stessa; la scrittura del sé porta alla coscienza realtà invisibili e indicibili. È emerso il sommerso.

5 Sembra che questo suo ultimo libro rappresenti una sorta di preludio ad un nuovo lavoro che affronti che conduca il lettore in un luogo “meno sospeso”, è così?

Dopo Vuoto uscirà L’umana fragilità per d editore, che è un romanzo epistolare basato sulla storia di una donna che ho intervistato. Nel frattempo, in unità spinale, ho scritto una silloge che non so se sarà mai pubblicata, ma è stato catartico scriverla
per affrontare la lunga degenza ospedaliera e la paura di perdere l’uso delle gambe. È una silloge che racconta una rinascita, in un certo senso, un miracolo.

6 <<Dentro le cose vive ci sono le cose morte e dentro le cose morte ci sono le cose vive. Non si può prescindere dalla vita nella morte, oltre è il vuoto>>, si legge nel suo libro. E’ questo il tratto principale della realtà secondo lei? Per evitare il vuoto bisogna tuffarsi nel dolore?

No, non bisogna tuffarsi nel dolore, anzi, io penso che il dolore vada quanto più possibile evitato; ma non sempre è possibile. Se vogliamo, è l’opposto: il vuoto si raggiunge dopo una involontaria eccessiva immersione nel dolore, non sempre siamo noi a decidere. Vita e morte non sono mai del tutto separate, la vita è intrisa di morte e viceversa; talvolta i morti sono più presenti dei vivi. Il vuoto non si può evitare, bisogna piuttosto attraversarlo così come si attraversa il deserto o l’abisso: la linea d’ombra oltre la quale si diventa maturi.

7 Si può annichilire il nichilismo?

Per me il nichilismo è sempre stato una via di fuga da un mondo ostile. Io vivo bene solo separata, nel mio eremo. Stare con gli altri mi è possibile solo a piccole dosi. Per superare il nichilismo bisogna potersi fidare, e per potersi fidare è necessario che l’altro si avvicini a noi con delicatezza e umanità.

8 Che rapporto ha con l’inconscio? Perlustrarlo è faticoso ma utile o è impossibile comprendere totalmente la propria psiche e raggiungere maggiore consapevolezza di se?

Sono un’eterna analizzata, quindi ho scandagliato l’inconscio in diverse sfaccettature, e lo faccio quando scrivo, mi viene spontaneo. Sì, ho raggiunto mediante la scrittura una consapevolezza che prima non avevo. Eppure, la consapevolezza non è tutto. È necessario anche il rapporto con il corpo: per me è sempre stato un problema, ora più che mai. La consapevolezza non basta, è necessario poter essere nel mondo e sentire per scrivere, soprattutto sentire.

9 La sua scrittura è visionaria, priva di retorica, cruda, a tratti sanguinante. Si tratta di una scelta deliberata, frutto di raziocino o la naturale “conseguenza stilistica” di una insofferenza nei confronti della realtà da restituire alla parola?

Non sono realistica, non sono narrativa, non sono una divulgatrice di fatti. Penso nietzscheianamente che non esistano fatti, solo interpretazioni. Tutta la mia scrittura è una scrittura di visioni e interpretazioni, un lavoro analitico, un inabissamento nell’inconscio e nell’onirico. Non esistono fatti, quindi non esistono neanche fatti miei; ciò che scrivo attinge alla sfera del profondo ma è sempre universale, uno specchio deformante della realtà, non la realtà, non la mia. La vita è solo un pretesto.

10 Vuoto è stato presentato al Premio Strega 2023. Cosa pensa in generale dei premi letterari in Italia e dell’editoria?

Per arrivare in finale bisogna essere pubblicati da un grande gruppo editoriale, per entrare nei dodici bisogna conoscere un po’ di persone. Io sono un’eremita, essere stata presentata dalla professoressa Donnarumma è per me una sorpresa e un onore. Nel 2015 vinsi il premio Carver con Homo homini virus (Meridiano Zero) senza conoscere nessuno. Quest’anno sono finalista al Nabokov con la silloge Microcosmi (Ensemble). Degli altri premi non so molto.

 

Acquista il libro qui Vuoto – Les Flâneurs Edizioni (lesflaneursedizioni.it)

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Sylvia Plath, all’asta i suoi cimeli. Uccidono la poetessa preferendole la casalinga tormentata e tradita

C’è qualcosa di morboso e mortifero riguardo a quello che sta accadendo intorno alla figura della poetessa Sylvia Plath. Il pubblico di vampiri che non si limita a succhiare la vita altrui – gargarismo infame – ma a insistere sui morti, a mordere gli spettri, a masticarli, a leccarli, in un incestuoso incrocio di crudeltà, viltà, denaro.

La notizia è stata data con fioritura di trombe dai tromboni dell’informazione: il 9 luglio prossimo Sotheby’s batte un mucchio di “oggetti intimi” di Sylvia Plath, la grande poetessa morta suicida, con la testa nel forno (particolare non trascurabile per chi smercia in agiografie), nel febbraio del 1963.

Il catalogo di Sotheby’s, allestito con un titolo ornamentale, “Your Own Sylvia”, manco fosse uno show, è ghiotto, grasso per iene. Quasi tutti gli oggetti fanno riferimento alla relazione tra Sylvia e Ted Hughes, futuro “Poet Laureate”, poeta straordinario, marito fedifrago, forse violento, sciamanico.

All’asta i cimeli di Sylvia Plath

Così, va all’asta il ritratto a penna che Sylvia ha fatto a Ted, di rude bellezza, stimato tra gli 11 e i 17mila euro; un amuleto raffigurante il dio egizio Horus che Ted ha regalato a Sylvia (base d’asta: mille euro); un ritratto fotografico di Ted & Sylvia, realizzato da David Bailey (tra i mille e i 1400 euro); naturalmente, ci sono anche alcune lettere battute a macchina da Sylvia a Dearest love Teddy… (quella del 5 ottobre 1956 ha un valore stimato tra i 17.200 e i 23.300 euro).

Chi è particolarmente famelico si può comprare gli anelli di matrimonio di Sylvia & Ted, stimati tra i 7 e i 9mila euro: emblema, invero, di una unione funestata dalla mania e dal tradimento.

Il mercimonio suo cadaveri eccellenti prosegue. Che strano mondo quello in cui si decapitano le statue e ci si installa nella biografia di un poeta, lo si pone sul piedistallo, si officia il rito agiografico, inchiodando ceri fasulli nell’ossario del caro estinto.

C’è qualcosa di sinistro, di obliquo, di insano in questo scisma del cadavere: la necessità di aspirare la tragedia altrui, di respirarla, traendone un diabolico beneficio.

Passione necrofila

Già, perché di Sylvia Plath, poetessa eccellente, adoriamo quello: la vita tormentata, l’amore sbagliato con un poeta titanico, il catrame caratteriale, la sessualità ferina, lei, spuria icona femminista, un po’ Medea, un po’ Arianna, un po’ regina delle Amazzoni, di cui sappiamo tutto, abbiamo sarchiato tutto, i diari, le lettere, il fottio di pettegolezzi.

Inutile giocare alle belle statuine di sale: di Sylvia più che l’opera – l’unica cosa che interessava a lei, che della propria meridiana quotidianità scrive crocefissa dal dolore – interessa la vita, lo scempio, il fallimento, il suicidio.

Pubblico di livide iene, come quello che si accalca intorno a un incidente stradale, cellulare in mano – la fotografia-monile –, famelico di sangue, urla, morte.

Lasciamo in pace la vita privata di Sylvia Plath

Aneliamo la morte dell’altro, anulare d’argento, non c’è altro da dire, meglio se famoso; il suo oggetto intimo, il suo privato, è la cadaverica testimonianza della nostra vittoria sul regno dei morti, ammantata da studi, beneficienza, portafogli (d’altronde, solo i ricchi pacchiani e gretti si possono comprare le anime morte, e relegarle nel recinto delle regalie, nella gabbia degli spettri che non muoiono mai, condannati dai vivi a replicare in eterno la propria pena).

A forza di speculare sulla sua esistenza, hanno finito per ammazzare la Plath; a furia di scavare nei meandri della sua intimità, ficcandosi nel letto nuziale della Plath, spiando le vergogne, sgusciando tra gli umori appestati, facendo sesso col morto, rivelando l’osceno e il dolore, hanno ucciso la poetessa preferendo la casalinga tormentata.

Proponiamo invece una delle sue poesie più belle, Il colosso

 

Tu forse ti consideri un oracolo,

portavoce dei morti, o di chissà quale dio.

Sono trent’anni ormai che mi affatico

per cavarti la melma dalla gola.

E ne so quanto prima.

Mi arrampico su per scale a pioli con barattoli di colla e di lisolo,

striscio come formica in lutto

sugli acri della tua fronte invasi dalle erbacce

per riparare le immense placche del tuo cranio e ripulire

i bianchi tumuli vuoti dei tuoi occhi.

Un cielo azzurro uscito dall’Orestea

s’incurva su di noi. Oh padre mio, tutto solo

sei essenziale e storico come il Foro Romano.

Tiro fuori il mio pranzo su una collina di cipressi neri.

Le tue ossa incise e i capelli d’acanto sono sparsi

fino all’orizzonte nell’antica anarchia.

Ci vorrebbe ben altro che un fulmine

per creare tanta rovina.

Di notte mi accoccolo nella cornucopia

del tuo orecchio sinistro, al riparo dal vento,

e conto le stelle rosse e quelle color prugna.

Il sole sorge da sotto la colonna della tua lingua.

Le mie ore sono sposate all’ombra.

Non tendo più l’orecchio per sentire il raschio di una chiglia

sulle pietre nude dell’approdo.

 

Fonte Davide Brullo

Libertà, ricerca e musicalità nella poesia di Amelia Rosselli

Un linguaggio frantumato e oscuro caratterizza l’appartata esperienza poetica di Amelia Rosselli che si distingue però per un’intonazione appassionata, rara nel secondo Novecento. Non può seguire studi regolari, costretta a trasferirsi con la famiglia dalla Francia all’Inghilterra, ma acquisisce una piena padronanza di tre lingue (italiano, francese e inglese); forse anche per questa sua formazione internazionale Amelia Rosselli risulta estranea alla tradizione italiana e continua senza sosta a coltivare l’idea precisa e dichiarata di una lingua poetica universale, come universale è la musica. In tal modo punta al cuore della sua personale ricerca e ne scandaglia l’esperienza sofferta nel corpo e nella psiche.

Traumatica deve essere stata la vita da “rifugiata” che iniziò a condurre sin dall’omicidio del padre Carlo Rosselli, esule antifascista, fondatore di Giustizia e Libertà e teorico del Socialismo Liberale, e del fratello di lui, Nello, assassinati da sicari fascisti. Amelia, nata nel 1930, ha appena sette anni ed è ovvio che questa vicenda la segni in maniera indelebile, come la segna il devastante rapporto con la madre Marion Cave. Viaggia tra l’Europa e gli Stati Uniti: «Non sono “apolide”» – precisava in un’intervista rilasciata a Spagnoletti, nel 1987 – «Sono di padre italiano e se sono nata a Parigi è semplicemente perché lui era fuggito […] perché era stato condannato per aver fatto scappare Turati. Mia madre lo aiutò a fuggire e quindi lo raggiunse a Parigi. […] Cosmopolita è chi sceglie di esserlo. Noi non eravamo dei cosmopoliti; eravamo dei rifugiati» (1987/2004, p. 9). Negli anni Sessanta si iscrive al Partito Comunista Italiano, mentre i suoi testi attirano l’attenzione, tra gli altri, di Pasolini e di Zanzotto. È Pasolini a presentare nel 1963, sulla rivista letteraria “Il Menabò”, diretta da Italo Calvino, una prima scelta di Variazioni belliche della Rosselli, preparazione all’edizione in volume dell’anno successivo, edito dalla Garzanti; è sempre Pasolini a definire la sua scrittura poetica come ‘scrittura di lapsus’: versi fatti di distrazione, caratterizzati da «una grammatica di errori nell’uso delle consonanti e delle vocali».

Soffiati nuvola, come se nello
stelo arricciato in mia bocca
fosse quell’esaltazione d’una
primavera in pioggia, che è il
grigio che ora è era appeso nell’aria…
… E se paesani
zoppicanti sono questi versi è
perché siamo pronti per un’altra
storia di cui sappiamo benissimo
faremo al dunque a meno, perso
l’istinto per l’istantanea rima
perché il ritmo t’aveva al dunque
già occhieggiata da prima.
(da Impromptu, 1981)

Amelia Rosselli e la malattia

Il tema dei lapsus, Pasolini aveva comunque precisato, «è un piccolo tema secondario rispetto ai grandi temi della Nevrosi e del Mistero che percorrono il corpo di queste poesie», quindi ne ridimensiona la rilevanza e individua nello stile di Amelia Rosselli una dimensione tragica e dissacrante, che unisce registro alto e basso, lingua del passato e del presente, trasversalità e scardinamento di regole e misure. Insomma, una scrittura pericolosamente libera. Disse bene, anni dopo, il critico Pier Vincenzo Mengaldo a proposito della lingua della Rosselli, definendola: «un organismo biologico, le cui cellule proliferano incontrollatamente in un’attività riproduttiva che come nella crescita tumorale diviene patogena e mortale». Il disagio esistenziale della Rosselli si riflette nella sua opera e sarà lei stessa a raccontare in forma di prosa poetica i suoi vent’anni di vita: il solitario arrivo a Roma, l’incontro con Rocco Scotellaro, in una relazione sempre rimasta ambiguamente in bilico tra l’amore e la grande amicizia. Poi la morte di lui e l’inizio di un periodo di oscuramento progressivo della memoria e della ragione, peregrinando fino alle campagne fangose di Matera in cerca del fantasma del perduto amico/innamorato morto. Quando Amelia Rosselli morì, l’11 febbraio 1996, gettandosi dalla finestra del suo appartamento romano di via del Corallo, si pensò che quel suicidio avesse posto termine a un lungo silenzio creativo, ulteriore dolorosa ferita in una vita segnata dalla malattia mentale. Una malattia che, come ha sottolineato il cugino, Aldo Rosselli, «fa parte della sua voce, della sua voce vera, della sua voce interna, ma anche esterna, quella delle sofferenze che ha affrontato nella vita».

In realtà in quel periodo Amelia Rosselli aveva appena ricominciato a scrivere, in inglese e in italiano, con il bilinguismo tipico della sua opera matura. Molti critici infatti, valutando la quantità di elementi di disagio, malinconia, depressione, nevrosi di cui le poesie sono colme, concordano nel sostenere che quello di Amelia Rosselli sia stato un suicidio, lentamente, gradatamente preannunciato nei suoi versi, con una particolarità ulteriore e singolare: Amelia Rosselli scelse di togliersi la vita l’11 febbraio, esattamente come la poetessa Sylvia Plath, autrice da lei tanto studiata e tradotta con passione. Sul suicidio di Silvia Plath, posto in relazione al rapporto con la madre, Amelia dice: “noi possiamo anche accusare la madre, non è certo la madre che deve essere ritenuta responsabile, ma la società, una società terapeuticamente ignorante, meccanicistica e, quello che è peggio, una società incosciente nel suo matriarcato di stampo capitalistico”.

ARIEL
di Sylvia Plath

Stasis in darkness.
Then the substanceless blue
Pour of tor and distances.
God’s lioness,
How one we grow,
Pivot of heels and knees! – The furrow
Splits and passes, sister to
The brown arc
Of the neck I cannot catch,
Nigger-eye
Berries cast dark
Hook –
Black sweet blood mouthfuls,
Shadows.
Something else
Hauls me through –
Thighs, hair;
Flakes from my heels.
White
Godiva, I unpeel –
Dead hands, dead stringencies.
And now I
Foam to wheat, a glitter of seas.
The child’s cry
Melts in the wall.
And I
Am the arrow,
The dew that flies
Suicidal, at one with the drive
Into the red
Eye, the cauldron of morning.

(traduzione di Amelia Rosselli)
Stasi nell’oscurità.
Poi gli azzurri insostanziali
Versano cime e distanze.
La leonessa di Dio,
Come uniti cresciamo,
Perno di tacchi e ginocchia! – Il solco
Si spacca e passa, sorella al
Bruno arco
Del collo che non posso fermare,
More dal negro occhio
Spargono cupi
Ganci –
Boccate nere di dolce sangue,
Ombre.
Qualcos’altro
Mi tira in aria –
Cosce, capelli;
Scaglie dai miei tacchi.
Bianca
Godiva, io mi sbuccio –
Mani morte, urgenze morte.
E ora io
Schiumo come grano, uno scintillio di mari.
Lo strillo del bambino
Si fonde nel muro.
E io
Sono la freccia,
La rugiada che giace
Suicidale, una con la spinta
Nel rosso
Occhio, la fucina del mattino.

Una lingua intellettuale, espressione del privato e dell’autenticità

L’inglese è per Amelia Rosselli territorio femminile/materno come apertura a spazi del ‘sentimento’, ma è anche una lingua intellettuale, una lingua che è acquisita e che le è più familiare nelle modulazioni di padri o madri elettivi, come Donne, Shakespeare, Joyce, Thomas, Cummings, Woolf, Dickinson, Plath e tanti altri. Questa condizione plurilinguistica di base, connaturata con le difficili esperienze vissute, costituisce la radice antropologica delle poesie della Rosselli, che, in un saggio nel 1962, Spazi metrici, ha così dichiarato: «la lingua in cui scrivo di volta in volta è una sola, mentre la mia esperienza sonora logica e associativa è certamente quella di molti popoli, e riflettibile in molte lingue». Per Amelia Rosselli la poesia è il terreno su cui si scontrano due opposti aspetti del linguaggio: da un lato, il linguaggio è espressione del privato, dell’autenticità, dell’interiorità; ma dall’altro lato, non appena esso entra nel circolo della comunicazione sociale, diventa falso. Il suo punto di forza è la competenza musicale che ha favorito nella Rosselli la ricerca di una nuova metrica, dove il valore fonico delle sillabe, delle vocali e delle consonanti, il ritmo della frase finiscono per prevalere sul significato e sulle forme consuete della lingua: questo comporta l’invenzione di parole, la polivalenza del significato, la presenza di metafore oscure che dicono le cose mentre le celano, e, non ultima l’esigenza che la poesia sia detta ad alta voce, ascoltata più che letta. Musica, ritmo, suono, contaminazione delle lingue, ricerca di sempre nuovi sensi da comunicare: forma e significato sono elementi altrettanto imprescindibili e altrettanto curati nel fare poetico di Amelia Rosselli.

L’opera Documento vede la luce con grande fatica nel 1976; ed è la testimonianza della crisi della poesia che non si configura più come ricerca dell’assoluto e di una forma in grado di decifrare il senso del mondo, ma come testimonianza della vita, che è il rovescio della poesia, quello che resta in assenza di poesia. Fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, Documento è del resto concepito e programmato come libro conclusivo.
Il testo che segue, profondamente attuale, appartiene alla serie Variazioni (1960-1961):

Contiamo infiniti cadaveri

Contiamo infiniti cadaveri. Siamo l’ultima specie umana.
Siamo il cadavere che flotta putrefatto su della sua passione!
La calma non mi nutriva il solleone era il mio desiderio.
Il mio pio desiderio era di vincere la battaglia, il male,
la tristezza, le fandonie, l’incoscienza, la pluralità
dei mali le fandonie le incoscienze le somministrazioni
d’ogni male, d’ogni bene, d’ogni battaglia, d’ogni dovere
d’ogni fandonia: la crudeltà a parte il gioco riposto attraverso
il filtro dell’incoscienza. Amore amore che cadi e giaci
supino la tua stella è la mia dimora.
Caduta sulla linea di battaglia. La bontà era un ritornello
che non mi fregava ma ero fregata da essa! La linea della
demarcazione tra poveri e ricchi.

La dedizione dell’autrice alle passioni forti

Qui Rosselli piange il limite umano di fronte al male. Versi liberi, che hanno però una certa costanza ritmica, per quanto estranea alla metrica italiana tradizionale. Sullo sfondo di un mondo di stragi, lotte e “fandonie”, l’autrice afferma la sua dedizione alle passioni forti e autentiche, la volontà di non piegarsi ai mali e alle mistificazioni sociali, la fedeltà a una “bontà” che la relega inevitabilmente tra i “poveri”. Questa affermazione non è affidata solo al senso delle parole, ma più alla struttura formale della poesia che si presenta come un flusso traboccante di emozioni e di idee, apparentemente incontrollato. Più che dichiarata, la passione è in atto, in un tono esclamativo, e insieme ritmato come una litania, attraverso le insistenti ripetizioni. Tutto questo sembra scaturire da un livello psichico profondo, primitivo, che non può parlare una lingua ordinaria: la Rosselli svolge continuamente le regole della comunicazione normale con le volute goffaggini della lingua (“su della”, “la crudeltà a parte il gioco”, “ero fregata da esso”), con gli scarti fra lingua letteraria (“la sua stella è la mia dimora”) e volgare (“non mi fregava”) come chi si sforzasse di balbettare una lingua mal conosciuta. Il fatto che la Rosselli fosse stata educata in francese e in inglese ha una sua rilevanza, ma nel senso che questo le dava una particolare sensibilità linguistica, non nel senso che non fosse in grado di scrivere in italiano normale.

Amelia Rosselli possiamo leggerla in tanti modi, ma sarebbe riduttivo leggerla esclusivamente come una scrittura privata, anche se non si può scindere dalla propria interiorità e dalla modalità espressiva che per lei erano fondamentali. Tema ricorrente nella lirica della Rosselli è lo scontro tra la sua sofferenza esistenziale e l’indifferenza e la superficialità altrui; è uno scontro che si riflette nella sua opera di poetessa come ricerca di continua sperimentazione formale. La scrittura si propone al tempo stesso come denuncia della propria pena, la cui violenza è trasmessa dalla forzatura della lingua, e come tentativo di trasferirla in schemi geometrici e musicali. Va perciò detto che il disagio individuale di Amelia Rosselli riflette un disagio storico di portata epocale e che la poetica, fortemente innovativa nelle forme e dai toni profondamente dolorosi della Rosselli è unica, nel panorama letterario italiano, per il senso che trasmette di un coinvolgimento emotivo totale nella parola, e perché dà vita ad alcuni dei momenti più alti della sperimentazione letteraria contemporanea.

 

Fonte:

Sulla poesia di Amelia Rosselli (di M. Allo)

“I am vertical”, la distanza geometrica dalla vita secondo Sylvia Plath

Sylvia Plath nasce a Boston nel 1932 e sin da piccola manifesta il suo talento per la poesia. La poetessa bostoniana compie gli studi superiori in America allo Smith College, ottenendo la laurea con la lode nel 1955. Successivamente ottiene una borsa di studio per Cambridge, dove conosce Ted Huges, suo futuro marito. Dopo aver sposato Huges nel 1956, nel 1960, Sylvia e Ted si trasferiscono a North Tawton, in Inghilterra, dove la poetessa pubblica la sua prima raccolta di poesie Colossus. Il matrimonio con Huges comincia a vacillare e i due decidono di separarsi nel 1961. Successivamente la poetessa va a vivere con i due figli in una casa a Londra e poco più tardi, nel 1963, tenta, con successo, il suicidio, spegnendosi all’età di trent’anni. Il periodo, che probabilmente ha segnato questa tragica svolta, viene trattato nell’opera autobiografica dell’autrice: La campana di vetro.

Sylvia Plath rappresenta uno dei più chiari esempi di poetessa del Novecento. La sua influenza è innegabile e limpida, molte altre autrici hanno preso spunto dalla sua figura o dalla sua poesia, trasformandola in un punto di riferimento per il fiorire della poesia femminile nel 900′, oltre all’uso della sua figura nei movimenti femministi degli anni 60′ e 70′.

La poesia I am Vertical, proveniente dalla raccolta Crossing the water, 1971, anche se è stata pubblicata precedentemente, nel 1961, raccoglie e sintetizza le qualità stilistiche e tematiche della poetessa. La forza onirica di una visione quasi rarefatta e asfissiante allo stesso tempo simulano la coscienza dell’imperfezione e della magnificenza umana, la persona diventa un ricettacolo dei più buoni e semplici sentimenti della terra, della sua immortalità e della sua creatività, della morte e della vita.

Io sono verticale

Ma preferirei essere orizzontale.

Il primo verso della poesia di Sylvia Plath evidenzia e mette in risalto un disagio esistenziale. Un’imperfezione che diventa il punto di lancio della poesia e che si spiegherà col procedere di questo canto di tristezza.

Non sono un albero con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà di un’aiuola
ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.

L’albero viene colto nella sua maestosità e grandezza, oltre che per la sua bellezza eterna e rinnovatrice. Diventa il simbolo della forza, della continuità nello spazio e nel tempo, qualcosa che la persona che sta parlando non è. L’autrice della poesia non è forte, non sta immobile e non sa ricrearsi le foglie perdute, le gioie passate e le cose scordate.

L’aiuola invece viene usata come simbolo della bellezza fugace e passeggera. L’autrice evidenzia anche la sua posizione nei confronti di questo simbolo di bellezza: ella non è come un aiuola di fiori che seppure appassisce in poco tempo, brilla e risplende di colori, di una bellezza rapida e sfuggente.

Confronto a me, un albero è immortale
e la cima di un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.

Il confronto viene a chiarire la posizione che la persona viene ad assumere. Un albero sembra immortale nei confronti del tempo che ci cammina addosso e questo vale anche per la cima di un fiore, che non stupisce per la sua altezza, ma per la sua bellezza, che non possiamo possedere.

Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.

Il confronto si intensifica e diventa ancora più crudele. La triade naturale: stelle, alberi e fiori evidenzia una distanza tangibile che si palesa attraverso l’indifferenza di questi tre simboli naturali nei confronti della poetessa. Tra i loro freddi profumi ella passa, ma nessuno di loro fa caso a lei, come se lei fossa priva di odore, di identità, di entità.

A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo piu’ perfetto –
con i miei pensieri andati in nebbia.

La poetessa allora cerca un elemento di comunione: la notte, il sonno. Perché nell’inattività della mente ella trova la risposta all’imperfezione della sua vita, quando i pensieri vagano annebbiati per l’esistenza, tracciando un percorso simile ai fiori o alle foglie scosse dal vento.

Stare sdraiata è per me piu’ naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.

La comunione finale per Sylvia Plath è insieme vittoria e sconfitta, tristezza e gioia. Stare sdraiata è per l’autrice più naturale, perché il cielo è a portata di sguardo e il colloquio diviene facile, così le stelle possono meglio dialogare con quei pensieri vagabondi e liberi. E così la morte diventa il momento di massima comunione con la vita e l’esistenza, sarà quello il momento in cui la bellezza dei fiori sarà anche di noi uomini, fugaci, stupendi, anche se per poco e le radici degli alberi e la loro maestosità diventeranno un sicuro rifugio per i nostri corpi.

La non-vita viene trasfigurata da Sylvia Plath in una sensazione di pace eterna. Questo a discapito del tempo presente, che con un forte senso di pessimismo viene visto il luogo geometrico dell’assenza della vita. Il posto in cui viviamo, la vita che ci rende indifferenti ai fiori e agli alberi diventa il nulla esistenziale, che viene colmato solo con la morte.

Questa visione può sembrare estremamente pessimista, se non si considera che la morte diventa il luogo della comunione e della vita esistenziale. Il riposo eterno, o procedendo per metafore, il silenzio eterno è l’unico posto in cui si può davvero capire la vita. Nell’essere orizzontale, nello sdraiarsi si nasconde una sorta di umiltà o di predisposizione per l’esistenza, perché si vive nella stessa dimensione delle stelle e dei fiori. Per essere orizzontali basta sdraiarsi, stare in silenzio e dialogare con lo specchio della proprio anima. E per vivere davvero, basta essere orizzontali. Questo è il messaggio, controverso, libero che traspare da I am vertical. Un messaggio di vita nascosto in cunicoli di morte e desolazione, un messaggio sincero.

‘Le Sacerdotesse del quotidiano’, l’omaggio di Donatella Basili a tre grandi poetesse

Le Sacerdotesse del quotidiano è un libello che non deve ingannare per le sue dimensioni. Provoca un piacere inedito leggere pagine dense di poesia, profondità e di eleganza stilistica che omaggiano dignitosamente tre grandi poetesse: Emily Dickinson, Antonia Pozzi e Sylvia Plath.

Donatella Basili, l’autrice di questo sorprendente saggio del 2005, delinea in punta di penna i momenti più significativi della vita e dell’esperienza esistenziale di queste tre donne dotate di un animo delicato e, al tempo stesso, coraggioso. Le Sacerdotesse del quotidiano lascia, senza scadere nella referenzialità saggistica, che sia il suono dei versi di queste tre sacerdotesse a toccare le corde emotive del lettore senza risultare una lezione cattedratica. Donatella Basili non si sostituisce alle poetesse, non fornisce una pedissequa parafrasi dei loro lavori e non si limita ad una fredda biografia. Al contrario ne coglie luci e ombre con la sensibilità necessaria a tracciare delle linee che possano incuriosire e coinvolgere il lettore, sia esso già un affezionato estimatore o un neofita.

La disamina sensibile di tre figure femminili molto diverse ma accomunate da uno sguardo che più che verso il mondo è proiettato sul proprio io interiore, fa ben comprendere perché le voci di Emily Dickinson, Sylvia Plath e Antonia Pozzi ancora oggi abbiano ancora molto da raccontare. L’autrice riesce in modo ineccepibile a dare sostanza a queste voci meravigliose, attraverso un lavoro che si inserisce in una prospettiva prettamente emotiva e che ha come punto di fuga una sorta di tragico sussurro.

Una dimensione sospesa, che non ha tempo e luogo, si delinea come un viaggio estremamente interiore. Donatella Basili indaga nel loro io, scava nelle loro emozioni e attraverso la scrittura asciutta e poetica al contempo, traccia i contorni dell’Io più nascosto. Attraverso le coordinate cartesiane riporta su di un grafico immaginario, che coincide con la coscienza di sé, le percezioni della Dickinson, della Plath e della Pozzi, nel tentativo di dare una forma razionale ad esperienze che fuggono, scivolano tra le dita e che sanciscono la caducità dell’esistere umano.

I punti di contatto con la realtà svaniscono pagina dopo pagina e predomina una poetica surrealtà. La voce narrante calibra le parole in modo che restino aggrappate sulla pagina e rintocchino nel cervello del lettore. Nulla è immediato, c’è un’urgenza che è quella del comprendere ancor prima che del sentire. Lo sguardo è disincantato, l’analisi a volte amara non è per nulla scontata.

In Le Sacerdotesse del quotidiano, uno dei protagonisti è il tempo. Quello della Basili che segue un raffinato file rouge, quello delle tre voci delle poetesse che accompagnano chi legge e quello del lettore stesso, che deve riflettere, assaporare le parole, fermarsi su di esse per comprendere un testo che non può essere divorato, come la narrativa degli ultimi tempi. Appropriarsi dei tempi della lettura per goderne appieno il piacere. Solo allora anche le emozioni comparteciperanno alla comprensione.

Lo sguardo sulla realtà è affidato alle composizioni poetiche, funzionali al testo per determinare un climax che lascia il segno.I versi raccolti con dovizia dall’autrice sono passi in punta di piedi. I movimenti cadenzati accompagnano parole sbriciolate su pagine opache ed evidenziano quanto le tre poetesse, più di altri, abbiano dedicato una ricerca personale che verte anche sulla parola. Quest’ultima è ancella e unica testimone di emozioni,  corrono il rischio di sbiadire nel tempo e la Parola salva dal vuoto di sogni.

Le sacerdotesse del quotidiano si fa necessità e vera urgenza che si manifestano nel tentativo di recuperare la virtù dell’ascolto, del non lasciarsi sopraffare dal vuoto dell’ovvietà. Lo sguardo delle tre poetesse si risolve in brevi tocchi, nel momento in cui nell’impossibilità del dialogo, anche le parole rischiano di precipitare nel nulla. Così i sensi divengono l’unico ausilio sincero, inequivocabile, per afferrare ciò che è destinato a mutare.

Emerge in queste pagine un’estetica del silenzio, il vero rumore di tre anime disabitate. Si avverte a fior di pelle l’amore, il fascino per la parola, per i suoni, sino alle sillabe. Un ulteriore difesa adottata dalle tre sacerdotesse sono i ricordi, i più quotidiani senza particolari iperbole, che appartengono ad una musa silente, la quale si aggira sonnambula tra le pagine di questo piccolo manufatto screpolato.

Gli intrecci di pensieri e i sospiri segnano i contorni di una miniatura impressionista. E in questo sbottonarsi di pensieri, di digiuni infiniti, Le Sacerdotesse del quotidiano recupera una sorta di densità che solo le attese sono in grado di provocare.

Indubbiamente quest’opera è un delicato flusso di pensieri che merita di essere goduto con un adeguato sottofondo musicale e una luce quasi crepuscolare, per valorizzare l’intensità di versi sussurrati.

‘I Diari’ di Sylvia Plath, poetessa confessionale e militante

«Forse non sarò mai felice… ma stasera sono contenta. Mi basta la casa vuota, un caldo, vago senso di stanchezza fisica per aver lavorato tutto il giorno al sole a piantare fragole rampicanti, un bicchiere di latte freddo zuccherato, una ciotola di mirtilli affogati nella panna […] in momenti come questi sarei una stupida a chiedere di più». Il modo migliore per conoscere un autore, oltre che attraverso le sue opere, probabilmente è anche mediante le proprie lettere e diari. Ebbene, i Diari di Sylvia Plath ne sono un formidabile esempio.

Sylvia Plath (1932-1963) è stata una poetessa e scrittrice statunitense. È conosciuta soprattutto per le sue poesie che appartengono al genere definito confessionale, ma ha anche scritto il romanzo La campana di vetro, fortemente autobiografico e lacerante.

A distanza di molti anni ormai, sembra che l’oblio abbia circondato le opere e il nome di Sylvia Plath. Nonostante, o purtroppo, durante l’ondata femminista tra gli anni ’60 e ’70, la poetessa bostoniana sia stata un riferimento intellettuale per numerose donne militanti, colte o radical come le definiremmo oggi. Si potrebbe ipotizzare che la produzione letteraria di Sylvia Plath paghi lo scotto riservato a quegli autori per i quali, nonostante il talento indiscusso, l’essere diventati simbolo per una generazione o di un particolare momento socio-culturale, ne abbia compromesso a lungo termine il valore letterario. Proprio per questo la poetessa è ancora un territorio inesplorato se la si ascolta con attenzione, con occhi nuovi, senza i fumi narcotici di una pagina storica.

La raccolta dei Diari di Sylvia Plath presenta al centro della copertina una magnifica foto della poetessa con la testa china mentre scrive a macchina, all’interno del volume vi sono anche altre foto che raccontano di una donna il cui destino (si suicidò a soli 31 anni) non collima con quelle immagini. A questo punto  è lecito chiedersi chi sia stata Sylvia Plath, premesso che parti del diario siano state distrutte dall’ex-marito, il poeta inglese Ted Hughes.

Ai tratti fisici delicati si contrappone una scrittura forte, capace di suscitare subito reazioni nel lettore. La Plath non adopera orpelli retorici ma una scrittura diretta, un bisturi che allo stesso tempo pesta la pagina e quest’ultima sembra riempirsi subito del suo Io più irruento fino a perdersi nelle sue stesse parole.

Le poesie di Sylvia Plath non sono da meno, basti pensare alla profonda e celebre poesia Lady Lazarus: parole forti e crude. Il continuo parlare di morte della Plath potrebbe ingannare il lettore superficiale; altro non è che un disperato bisogno di vivere. Tuttavia ritengo che la lettura in lingua originale consenta una maggiore resa introspettiva e di apprezzare la pienezza di ogni singola parola. Ogni parola, ogni verso pesano sul cuore come un macigno, lacerano la pagina e catturano il lettore in un abbraccio che è tormento, estasi e annichilimento.

L’emotività e allo stesso tempo la personalità complessa della scrittrice americana, emergono pagina dopo pagina. Ma ciò che mi ha conquistata e appassionata è poter constare come chiunque possa cogliere diverse sfaccettature dell’animo della poetessa, a seconda della propria sensibilità. Così è inevitabile lasciarsi conquistare da parole dense di emozioni, dal conflitto interiore che l’ha attraversata, anche in modo drammatico, nel corso della propria vita. Anche a chi il nome di Sylvia Plath non dice nulla, i Diari costituiscono un buon inizio per avviare una conoscenza emotiva, ancor prima che letteraria e che, proprio per questo, può tradursi in un personalissimo viaggio interiore.

Sarebbe difficile rintracciare note negative in una storia dove un’artista mette a nudo il proprio essere, attraverso la propria voce, senza la mediazione degli “addetti ai lavori” (ovvero critici e quant’altro), è un’esperienza talmente diretta e autentica che non può lasciare indifferenti.

‘Dimentico sempre di dare l’acqua ai sogni’, di Francesca Pellegrino

 

“Tanto che andrò di ruspa / e sangue / sul disordine dei fiori / pestati”. Dimentico sempre di dare l’acqua ai sogni è una piccola raccolta di poesie reca la firma di Francesca Pellegrino. Nonostante sia stata pubblicata nel  2009  resta ancora oggi un esempio positivo su quanto la poesia contemporanea possa ancora considerarsi un luogo vivo e in grado di significare. Si scrive sempre meno intorno alla poesia e si potrebbe pensare che interessi pochi estimatori. Tuttavia le parole, se adoperate non come slogan pubblicitari, conservano un intenso grado di suggestione tale da riuscire a raccontare in un solo colpo un intero mondo o squarciarne di nuovi.

La cornice che circonda l’io poetico, in Dimentico sempre di dare l’acqua ai sogni, appartiene alla quotidianità. Quest’ultima è fortemente interiorizzata da Francesca Pellegrino e le consente di conferire concretezza ad uno scenario emotivo fatto di macerie. Eppure da un animo tormentato, apparentemente arido, scorgano versi vibranti (“Ci sono cose trasparenti e / fragili / tra me e il mondo”). Più le emozioni sono dolorose più la pagina e la scrittura divengono il mezzo per esprimere in un grido autentico quel che più volte la poetessa fa sentire come strozzato in gola.

I componimenti non sono forgiati da una bocca muta ma capace di comunicare al lettore lo strazio destabilizzante di una sofferenza lacerante. Il risultato è ammirevole, merito anche di un labor limae accurato intorno alla parola, alla punteggiatura e alla combinazione surreale tra le parole stesse. Francesca Pellegrino si configura come una nuova artigiana della parola, mossa dal desiderio di ricostruire, come in mosaico, i tasselli della propria anima spezzata.

Questa raccolta dimostra quale affabulazione ancora oggi la poesia possa esercitare sul lettore. La poesia, forma d’espressione che nasce dalle frontiere del proprio io,  è in grado di elevarsi al di sopra della mediocrità da cui è affetta molta della nostra letteratura, vittima della banalità più disarmante e nauseante. Un cuore in decomposizione che infetta la pagina e vibra ad ogni rilettura.

Il testamento d’amore, di un amore travagliato, corrotto, si infrange contro i limiti della realtà e la portata devastante caratterizza ogni singola pagina. Dopotutto quello che sopravvive sono il dolore e i ricordi di una identità che si è fusa con un’altra nell’ebbrezza di un sentimento caduco e a quel punto restano solo cumuli di macerie a cielo aperto. Ed è da questa contingenza inopinabile che la poetessa mette insieme i cocci, consapevole di dovere riaprire vecchie cicatrici. Si ritrovano la carne, le lacrime, i rancori, il bisogno di perdersi nell’altro, di afferrare quell’ebbrezza pur di dimenticare la realtà. E cos’è quest’ultima se non un odioso compromesso dai volti anonimi? Ritrovare un attimo autentico appare vitale, anche se fugace e tra lenzuola di oblii restano amare solitudini. L’amore, il più ipocrita dei sentimenti, può diventare dunque una trappola, una forma di tradimento verso se stessi che si esaurisce lentamente e non senza cognizione del dolore che esso contempli.

Il risultato è un acrilico sentimentale. Francesca Pellegrino è una voce sincera che sa raccontare ma che è anche in grado di mormorare sulla pagina parole che restano incise sotto la pelle del lettore. Notevoli sono i punti di contatto con la poetica di Sylvia Plath che conferiscono a questa raccolta in versi un raffinato valore.

Un lavoro originale che conferma che un buon ‘romanzo’ non può misurarsi dal numero di pagine ma dalla densità con cui è forgiata ogni singola riga. Un’opera d’arte che sorprende e toglie meravigliosamente il fiato.

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