‘Gli egoisti’: l’opera postuma di Federigo Tozzi sull’ambiente letterario romano

Lo scrittore toscano Federigo Tozzi è un classico che gode di una paradossale fortuna: sempre più studiato, ma tutt’ora poco letto; ormai da tempo assurto nel canone (soprattutto grazie a Debenedetti e Baldacci), ma in forme particolarmente mosse e dibattute. Il che, certo, dipende anche dal carattere scorciato ed ellittico delle sue narrazioni, i cui vuoti, disorientanti per il lettore ingenuo, hanno variamente sollecitato la critica. Del resto, se classico è quell’autore che «non ha mai finito di dire quel che ha da dire», Tozzi lo è in modo particolare; anche perché, con lui, più se ne sa, e meno si può concludere; più si guardano da vicino i suoi testi, e più si rivelano nuovi spessori.

In tal senso anche un romanzo breve come Gli egoisti – forse minore, e certo dalla critica meno considerato – può costituire un valido terreno di prova: un testo ricco e problematico, sul quale sono stati dati giudizi dai margini d’oscillazione anche molto ampi, ma che, appunto, non smette di interrogarci. Scopo di questo contributo sarà dunque quello di metterne in luce alcune peculiarità stilistiche e narrative, muovendo dal testo e tornando al testo. Senza pretese conclusive, ma cercando di avvalorare gli spunti interpretativi con osservazioni d’insieme e primi piani. Gli egoisti sono un’opera postuma, non licenziata dall’autore e pubblicata per la prima volta nel 1923 (in un unico volume assieme a L’incalco, per le cure di Emma Tozzi e Giuseppe Antonio Borgese), sulla base di un dattiloscritto probabilmente composto tra il 1918 e il 1919, e sostanziosamente rivisto nel gennaio del 1920 (due mesi prima della morte).

Trama e contenuti del romanzo di Tozzi

Gli egoisti, ambientato in una Roma seducente e ingannatrice, ed imperniato sull’ambiente letterario romano, ha per protagonista Dario, un musicista di Pistoia trasferitosi a Roma in cerca di fortuna. Un conflitto interiore tormenta l’animo dell’uomo che spesso viene assalito dalla solitudine: Dario ama Roma e Albertina, ma entrambe sembrano respingerlo. Il rifiuto scatena in lui impulsi contrastanti che lo portano ad allontanare e detestare ciò che in realtà desidera. Vagando per Roma con gli amici nel vano tentativo di dimenticare le proprie delusioni, Dario riuscirà a far emergere i suoi più profondi sentimenti. Un grande libro, Gli egoisti, dove arte e vita si confondono tra spine indistricabili, in poche pagine, purtroppo poco capito e grande nella misura stessa in cui esso si salda con le origini prime della vocazione tozziana: il battesimo dannunziano.

Il carattere non definitivo della versione pubblicata e la discontinuità della sua gestazione sembrano riflettersi nella struttura profonda di questa opera. E questo non tanto perché la natura desultoria e scheggiata del narrare tozziano risulta qui quasi esasperata dalla suddivisione in sedici brevi capitoli così frammentati al loro interno da apparire come unità narrative, se possibile, più labili del solito. Ma piuttosto perché, nella stesura degli Egoisti, paiono essersi alternate intenzionalità, per non dire poetiche, diverse. Da un lato, infatti, con modalità che paiono muoversi nella scia di Con gli occhi chusi, buona parte del romanzo – secondo noi, quella migliore – persegue la rappresentazione (psico)drammatica, necessariamente ondivaga e sussultante, della nevrosi e della visionarietà del protagonista, alter ego di Tozzi. Dall’altro, nel finale soprattutto, sembra emergere un’istanza etico-ideologica che subordina la rappresentazione al messaggio.

Aspetti linguistici

L’ambientazione romana del romanzo, al di là della toponomastica, non comporta nessuna nota linguistica di colore locale; ma forse è responsabile del fatto che la componente toscana è qui meno rilevata che nei precedenti romanzi. Negli Egoisti, infatti, senesismi e toscanismi sono quasi del tutto assenti anche nel dialogato. E, in definitiva, si limitano ad alcuni tratti fonomorfologici (v. bevere, escire, leticare, riescire, smovere, torbo, ma soprattutto il verbo-insegna doventare, 11 occorrenze, sempre preferito a diventare) e a poche forme più accusate: crocchiolante (‘croccante, scricchiolante’), 15 diaccio, p. 458 (‘ghiacciato’), giomella, p. 476 (‘cavità formata dalle mani giunte’), rincincignare, p. 469 (‘spiegazzare’), rincalcagnato, p. 473 (‘ammaccato’), scrinatura, p. 453 (‘scriminatura’), stroppione, p. 459 (‘scardaccione’, nome comune del ‘cirsium arvense’) e trasaltare, p. 465 (‘trasalire’).

Quanto ai consueti effetti di relativizzazione e soggettivizzazione, essi si manifestano in forme ulteriormente insistite; come segnala l’accentuato ricorrere di come (con valore approssimante), forse, parere, sembrare e, soprattutto, di quasi e come se (comparativo ipotetico). I riscontri statistici lo dimostrano,18, ma basterebbe anche una semplice rilettura del primo capitolo per convincersene. È però nella resa degli stati allucinatori e visionari del protagonista che pare di poter cogliere il nucleo più originale degli Egoisti. Qui infatti il frantumato procedere della rappresentazione tozziana non solo ha luogo entro un quadro di estrema de-realizzazione, ma contempla anche nuove forme, ancor più destabilizzanti, d’incrinatura d’una dimensione narrativa tradizionale:

Ad un tratto, gli parve che la sua anima si mettesse a suonare; ma non percepiva distintamente nessuna musica; come se fosse stato profondamente sordo. Cercò d’ascoltare meglio: attese che una nota più bella si chiarisse; per poterla ricordare. Attese con ansia acre, quasi disperata. Ma, quella larva sparì; e non ne restò nessun segno. Pure, era sicuro di averla sentita! Ora, gli pareva d’essere in una piazza; dove non era stato mai; camminava a passi cadenzati, e una specie di fanfara, anche questa inespressa, lo faceva muovere come se danzasse. La piazza era grande e non finiva più; si allargava sempre; benché restasse eguale.
(cap. II, p. 459)

la narrazione degli Egoisti è tutta un susseguirsi di microeventi e un altalenarsi di stati d’animo contrastati, che si presentano come assoluti ed effimeri insieme. Al senso di una interiorità senza saldezza, che senza sosta si sfa e si trasmuta, si somma così quello di una realtà esteriore anch’essa in continua agonia e mutamento: colta, per lo più, nei suoi scollamenti e nel suo deformarsi; percepita come sul punto di cedere, pronta a fendersi e a richiudersi, ma sempre senza possibilità di rivelazioni o incanti durevoli:

Ma si fermò ad ascoltare un pino che si smuoveva; come se fosse stato per aprirsi quanto era largo il cielo. Allora, tremando tutto, non potendo più tenere la voce che non obbediva alla volontà, le gridò:

– Stanotte, scriverò la musica che io sento ora!
E, quando egli si fu calmato, senza che Albertina fosse riuscita a dirgli una
parola, tutta la notte era stellata, e il pino fermo e chiuso.

D’altronde la vita di un artista, di uno scrittore è anche questo. E Tozzi lo sapeva bene.

 

Fonte: https://www.academia.edu/10015153/2013_Gli_egoisti_di_Federigo_Tozzi._Appunti_per_una_rilettura

‘Il primo re’: il nostro passato mitico e primordiale nel capolavoro, recitato in protolatino, di Matteo Rovere

“Tremate, questa è Roma!”. Succede raramente e nell’odierno cinema italiano quasi mai che all’audacia di un film corrisponda quella di coloro che l’hanno realizzato. “Il primo re”, in questo senso, è un titolo inedito perché affronta una prova ad altissimo coefficiente di rischio e la vince con uno sfoggio a tutto schermo di personalità stilistica, originalità culturale e vigoria spettacolare: ambientato in un passato primordiale di cui, peraltro, riusciamo a riconoscere la matrice antropologica e culturale, sceneggiato dal regista e coproduttore Matteo Rovere con Filippo Gravino e Francesca Manieri usufruendo della consulenza di latinisti, storici, filologi e archeologi ma anche sulla base di folgoranti reinvenzioni, recitato in un oscuro linguaggio proto-latino decifrato dai sottotitoli, esaltato dalla magistrale fotografia di Daniele Ciprì e scandito dalle martellanti musiche di Andrea Farri, interpretato da un cast di prim’ordine capeggiato dallo strepitoso Borghi, il film consente, in effetti, al suo autore di conferire dignità epica moderna a raffigurazioni barbariche e pressoché pre-umane, elementi che figurano anche nelle dichiarazione del regista Rovere:

“Il nostro mito fondativo non è stato trattato dal cinema che, invece, ha costruito un filone ricchissimo sulla narrazione dell’antica Roma. È stata questa la spinta iniziale: era il momento di provare a calare lo spettatore nel Lazio dell’VIII secolo a. C. tenendoci più lontani possibile dall’estetica classica del peplum alla Ben-Hur, immaginando di raccontare, invece, la fondazione dell’Impero a partire proprio dal mito come se fosse vero. Alla pari di un film d’avventura, abbiamo reinterpretato in chiave realistica ed emotiva la leggenda dei gemelli Romolo e Remo”. 

Ma se Romolo accetta il divino, decidendo di portare  con sé nella sua fuga, insieme al fratello, la vestale del Dio Fuoco (Satnei), al contrario  Remo incarna un potere basato sulla forza fisica e sull’autorità militare, una laicità che non crede alla presenza di un divino da rispettare.

Avvincente fin dall’incipit, la ricostruzione di uno dei miti fondativi più complessi della civiltà indoeuropea –quello della città di Roma fatto risalire al 753 a. C. dall’intrico di storie e leggende mischiate alle narrazioni di Tito Livio e Plutarco- evoca non solo recenti serie tv come “Il trono di spade” e film come “300”, ma anche il filone storico-mitologico che fu uno dei vanti di Cinecittà dal kolossal del muto “Cabiria” alle saghe anni 50 degli Ercole e dei Maciste.

Più che ai classici italiani del filone mitologico ed epico, Matteo Rovere guarda a modelli naturalistici come The New World di Terrence Malick, di cui evita però la voce over con le sue infinite domande: i protagonisti di Il primo Re ci sono proposti nelle loro semplici gesta, lasciando parlare le azioni e limitando al minimo anche i dialoghi, parlati in proto-latino e sottotitolati. Il lavoro di ricostruzione linguistica ha fatto avvicinare il film anche ad Apocalypto di Mel Gibson, ma la messa in scena è meno adrenalinica e si guarda piuttosto a Revenant – Redivivo di Alejandro González Iñárritu, di cui comunque Rovere evita saggiamente di riprendere gli eccessi onirici e lirici.

Su di un piano di costante eccellenza visionaria, Nel Primo re, la lotta dei pastori reietti Romolo e Remo prima per la sopravvivenza e poi per il dominio sulle selvagge tribù insediate sulle sponde del basso Tevere non conosce un attimo di tregua sino all’acme conclusiva, quando al prezzo del sangue fraterno si fa strada il barlume di una comunità definita dalle norme sociali, politiche e religiose in parte preconizzate dalla vestale Satnei, cultrice della forza del fuoco e dei voleri imperscrutabili della Triplice Dea. Grazie al crudo realismo dei corpi nudi squassati dalle piogge, delle fughe tra boscaglie e paludi spettrali e delle battaglie inferocite dalle urla bestiali, la polvere scolastica lascia il posto, così, agli eterni dubbi sul senso e l’incidenza del divino e del sacro negli eterni duelli dell’uomo col destino e nel ricorrente scontro fra le sue civiltà.

Finalmente il nuovo cinema italiano di genere!

 

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Il primo re

‘Serotonina’: il solito Houllebecq che parla della fine dell’occidente attraverso l’impotenza del maschio

Chi non ha letto i suoi romanzi precedenti, troverà Serotonina, l’ultima fatica letteraria del controverso scrittore francese Michel Houllebecq, un pugno nello stomaco, un capolavoro. Ebbene, il tanto atteso romanzo dell’autore di Sottomissione, libro che nel 2015 generò non poche polemiche, non è un capolavoro con buona pace dei seguaci acritici di uno dei più importanti scrittori d’occidente che parla d’occidente.

Tuttavia sarebbe ingeneroso liquidare Serotonina come un libro trascurabile, l’ultimo atto di un finto trasgressivo depresso che ama il politicamente scorretto e sguazzare in opinioni sconvenienti ormai giunto alla senilità. La storia di Houllebecq è nota: a partire dal successo del suo secondo romanzo, Le particelle elementari (1998 in Francia, 1999 in Italia), lo scrittore francese si è affermato come uno dei tre o quattro scrittori più rilevanti nel panorama letterario occidentale, fino ad arrivare al controverso Sottomissione del 2015. Da quel momento in poi ogni suoi libro è stato annunciato come un evento, e i lettori – quei figuri che le case editrici cercano con disperazione di resuscitare – sono riapparsi ogni volta come se fossero sempre esistiti. Le cronache culturali, non senza ragione, hanno fatto risalire i motivi di questa rilevanza perlopiù a circostanze extra-letterarie: una certa forma di preveggenza (il pericolo islamico, l’ingegneria genetica) unita a una certa forma di ideologia reazionaria seducente quanto scandalosa per il lettore tipo, normalmente portatore di valori e stili di vita di sinistra, giusti e rassicuranti.

Ma Houllebecq oggi pare essere acclamato anche da chi una volta lo odiava, mentre i suoi fans si dividono tra intellettualmente onesti che non possono non riconoscere in Serotonina un affresco stanco e abbastanza noioso dell’Occidente, che l’autore descrive ormai da vent’anni, e fans che ritengono il loro beniamino letterario intoccabile.

Serotonina: trama e contenuti

Houellebecq, discendente dalla grande tradizione dell’amarezza francese (i cui massimi esponenti sono Villon, Céline, Camus, Drieu La Rochelle), ancora una volta fa analizzare in maniera spietata e scientifica la situazione sociale della Francia e della società occidentale da un disadattato, un infelice, che però, a differenza di intellettualoidi che cicalecciano nei loro salotti ovattati, vede molte più cose, e le “sente” meglio: Florent-Claude Labrouste, quarantaseienne che lavora come funzionario del ministero dell’Agricoltura, vive una relazione ormai al capolinea con una donna giapponese, più giovane di lui, dalle idee libertine, con la quale condivide un appartamento in un anonimo grattacielo alla periferia di Parigi. L’uomo si tiene vivo attraverso l’uso costante di un antidepressivo, il quale, se da un lato lo priva dell’eccitamento, dall’altro risveglia nell’uomo l’antica sete di eliminare l’avversario in amore. Labrouste è un uomo intelligente che rileva gli accadimenti della società come se fosse un robot. Tuttavia egli prova affetto come un bambino, non sa amare, complice il suo stato mentale, le persone che lo circondano ma soprattutto il suo male di vivere, di stare al mondo, di essere già caduto quando è nato, per dirla all’Anassimandro. L’incalzante depressione induce il protagonista all’assunzione in dosi sempre più massicce di Captorix, grazie al quale affronta la vita, un amore perduto che vorrebbe ritrovare, la crisi della industria agricola francese che non resiste alla globalizzazione, la deriva della classe media. Una vitalità rinnovata ogni volta grazie al Captorix, che chiede tuttavia un sacrificio, uno solo, che pochi uomini sarebbero disposti ad accettare.

Dunque sembra apparentemente riecheggiare il solito messaggio in Serotonina: è colpa della società se sono così! ma è la società stessa a configurarsi come una proiezione effettiva del nostro mondo interiore, dato che siamo noi ad averla prodotta, cambiarla e che ne facciamo parte, perdendo al contempo, paradossalmente il contatto con la realtà. D’altronde gli stessi antieroi houllebecquiani, nevrotici, psicotici, depressi, accidiosi, cinici, ossessionati, pavidi, hanno una visione distorta, nichilista, della realtà.

L’impotenza sessuale maschile come metafora della fine dell’occidente

“Una civiltà muore semplicemente per stanchezza, per disgusto di sé” e “In Occidente nessuno sarà più felice” si legge ad un certo punto nel romanzo, affermazioni che si ricollegano ad una dimensione più individuale, intima “Ero capace di essere felice nella solitudine? Pensavo di no. Ero capace di essere felice in generale? È il tipo di domanda che credo sia meglio non farsi” e che ancora una volta dimostrano come lo scrittore abbia ormai ancora ben poco da dire: si parla di donne che sembrano già lette ma questa volta virate dal filtro dell’impotenza sessuale, metafora dell’impotenza dell’occidente. Si resta poi abbastanza spiazzati da almeno un paio di episodi che sono talmente forzati da apparire ridicoli (uno di questi, un’improbabile scena di zoofilia, è addirittura il motore del dramma interiore del protagonista; l’altro è una scena di pedofilia abbastanza inspiegabile). E però ci sono poi grandi pagine, soprattutto quelle dell’incontro con il vecchio amico Aymeric, che sono una specie di discesa negli inferi dell’entroterra francese; una tristissima e verissima notte di Capodanno trascorsa dai due nel cadente castello dell’amico in Normandia; le pagine sugli agricoltori in rivolta, che hanno fatto di nuovo gridare alla preveggenza – considerati i successivi moti di protesta dei gilet gialli – così come quelle sugli allevamenti intensivi e le produzioni di origine controllata, che insieme agli excursus extra-parigini di Carrère nell’Avversario, potrebbero essere riunite in un dolente dittico sulla crisi della provincia europea.

Tuttavia nella parte finale del libro, ritorna la sensazione di mancanza di ispirazione, fino a quando, in un passaggio più saggistico in cui il protagonista si mette a riflettere su Thomas Mann, Marcel Proust e Arthur Conan Doyle da un punto di vista sessuale, riappare l’illuminazione o la suggestione di essere di fronte non solo a una specie di autoromanzo sulla carriera letteraria di Houllebecq – la storia di un fantasma che vaga tra i resti delle sue opere – ma anche quella di avere tra le mani una pietra tombale della letteratura del Novecento e dei suoi postumi; per quanto “l’esaurimento” fosse stato già prescritto dai postmodernisti più di 50 anni fa, davvero l’esistenzialismo e il nichilismo in questa specifica forma di romanzo soggettivo e confessionale, sembrano essere colti in queste pagine nell’atto di esalare l’ultimo respiro.

Promosso come libro anticipatore dei Gilet gialli, Serotonina parla semmai della guerra del latte di 10 anni fa, oscillando tra le elucubrazioni dei film della Nouvelle Vague, sprazzi che fanno sperare in una inversione di rotta che non avviene mai e saccenterie lessicali incastonate in uno stile come al solito volutamente sciatto, “grigio” e stringato, contorsionismi intellettuali, e medesima descrizione del vuoto interiore, medesime provocazioni soprattutto, sul versante di una apparente misoginia, che in verità è misantropia, tra le quali ogni tanto fa capolino qualche sussulto poetico: “Era già quell’infinità, quell’infinità gloriosa di piaceri condivisi che avevo intravisto nel suo sguardo. Era la più recente e forse anche ultima possibilità di felicità che la vita avesse messo sulla mia strada.”

Una deflagrazione senza compromessi dell’io maschile dunque (senza contare il fallimento del femminismo contro cui l’autore si è sempre scagliato), che si estende all’intero occidente che non sa generare più nulla di buono. Cosa può salvarci allora? Il volgere la propria mente e il proprio cuore verso l’assoluto che nei romanzi di Houllebecq sembra essere assente, ma in realtà quello che si è autodefinito lo “scrittore della sofferenza ordinaria”, vive un desiderio di conversione e bisogno di trascendenza, in un mondo in cui si sente estraneo e rifiutato:

Il mondo brucia, le sue promesse son fumo. Cosa rimane? La bellezza dell’amore, anche quello che non è stato, quello delle fanciulle in fiore o di Cristo irritato dall’insensibilità dei cuori.

 

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La fine di Michel Houellebecq

‘Thérèse Desqueyroux’: la solitudine di una donna scellerata secondo Mauriac

François Mauriac è uno scrittore francese oggi, purtroppo, dimenticato. Eppure è stato, per un cinquantennio, un’epoca cruciale che va dagli anni ’20 alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, uno degli intellettuali francesi più noti e influenti. Cattolico, unì all’impegno letterario quello civile: si schierò contro il franchismo in Spagna e la Repubblica di Vichy, e nel dopoguerra condannò il colonialismo francese e la repressione in Algeria. Nel 1952 gli fu attribuito il Premio Nobel. Il suo cattolicesimo “eretico” lo portò ad essere criticato sia da “destra” sia da “sinistra”: famosa al riguardo è la critica, che gli rivolse Sartre, di essere poco credibile come ricco fustigatore della classe a cui apparteneva.

Thérèse Desqueyroux, pubblicato nel 1927, è il romanzo più noto di Mauriac, da cui nel 1962 è stato tratto un omonimo film, alla cui sceneggiatura collaborò lo stesso Mauriac. La storia è quella di una moglie che tenta di avvelenare il marito, ed il romanzo, che inizia al momento della dichiarazione del non luogo a procedere da parte del giudice, ci narra, con un ampio flashback reso attraverso le riflessioni della protagonista nel suo viaggio di ritorno verso casa, la vita di Thérèse, dalla sua infanzia al matrimonio, dalla vita coniugale al tentato uxoricidio; quindi la storia riprende il suo corso e ci mostra ciò che accade in conseguenza di quel gesto. La scelta di lasciare che sia Thérèse a presentarsi, a narrarci la sua vita pregressa, è un primo elemento di indubbio fascino del romanzo: è la protagonista stessa che dovrebbe e potrebbe dirci le motivazioni del suo gesto, ed il fatto che non ce lo dica significa che non ci sia una ragione, o perlomeno non ci sia una ragione puntuale e immediatamente riconoscibile del tentato avvelenamento del marito. Thérèse decide infatti quasi casualmente di avvelenarlo, e nel colloquio finale con il marito, ad una precisa domanda di quest’ultimo, Thérèse risponde: “Stavo per risponderti. Non so perché l’ho fatto”. Ma forse lo so, figurati! Potrebbe darsi che abbia compiuto quell’azione per vedere nei tuoi occhi un’inquietudine, una curiosità, un po’ di turbamento, insomma.”

Thérèse Desqueyroux: trama e contenuti del romanzo di Mauriac

Sin dalle prime pagine del romanzo di Mauriac – quando vediamo Thérèse, il piccolo volto «livido e inespressivo», uscire dal Palazzo di Giustizia dopo essere stata prosciolta dall’accusa di omicidio premeditato – ci appare chiaro per quale ragione questo memorabile personaggio non abbia mai smesso di ossessionare Mauriac. La seguiremo, questa scellerata eppure irresistibile creatura, nel viaggio verso Argelouse. Là Thérèse ritroverà quel marito che ha tentato di avvelenare, ma che l’ha scagionata per salvare «l’onorabilità del nome»: un ragazzone di campagna amante della caccia e del buon cibo, che lei ha sposato nella speranza di trovare rifugio da se stessa e da un pericolo oscuro. I cuori puri, scrive Mauriac, non hanno storia; ma «quella dei cuori sepolti e intimamente legati a un corpo di fango» pochi hanno saputo raccontarla come lui.

Se allora non c’è un motivo contingente che spinge Thérèse, quali sono le cause profonde del suo gesto? E’ questo il grande interrogativo che Mauriac pone, ed è anche quello la cui risposta va ricercata nell’intera vicenda narrata, ed in particolare nella prima parte in cui la protagonista racconta sé stessa. La risposta risulta abbastanza sorprendente per uno scrittore profondamente cattolico come Mauriac: la causa del gesto di Thérèse è la “famiglia”, i rapporti sociali ed umani che si instaurano all’interno dell’istituzione che la chiesa cattolica (e non solo) considera il pilastro dell’ordine morale e sociale.

La vicenda è ambientata nella profonda provincia francese, le lande rimboschite con pini neri a sud di Bordeaux, uno dei paesaggi più monotoni di tutta la Francia. Thérèse è figlia di un notabile locale, è sin da piccola uno spirito indipendente, è agnostica, le piace leggere e stare sola, ma il suo destino è già segnato: sposerà Bernard Desqueyroux, perché questo permetterà di riunire due grandi proprietà fondiarie. L’interesse supremo della famiglia, che è essenzialmente basato sull’accumulazione e sul mantenimento del prestigio sociale, non può essere messo in discussione, e Thérèse vi si sottomette docile, anche se il coniuge si rivela da subito gretto, più interessato alla caccia che a lei, e prevaricatore – se non violento – anche nei momenti di intimità. L’interesse della famiglia prevale anche nel caso di Anne, sorellastra di Bernard, che si invaghisce di un giovane ebreo che ha il torto di non avere un patrimonio: contro questa possibile unione si mobilitano tutti, facendo emergere anche un gretto antisemitismo, ed anche Thérèse accetta di giocare una parte non piccola nel ricondurre la pecorella smarrita all’ovile. Thérèse vive comunque i suoi ruoli di figlia, di moglie, e presto anche quello di madre, con indifferenza, perché questo è l’unico atteggiamento che le consente di non far esplodere le sue contraddizioni interne, di sopportare lo iato tra le sue nebulose aspirazioni di emancipazione e i binari sociali entro cui è costretta.

Subisce il fascino del giovane innamorato di Anne, figura di pseudo-intellettuale cinico e fintamente libero dalle convenzioni sociali, ma senza tradire il marito e capendone presto la personalità ipocrita. Il tentato avvelenamento del marito non è gesto che segnala la rottura di un equilibrio interiore, ma è pienamente inscritto in quell’equilibrio dell’indifferenza che la caratterizza e che le consente di andare avanti.

La famiglia determina anche le conseguenze del gesto: il marito può immaginare che la causa del gesto di Thérèse sia stata solamente il tentativo di lei di essere l’unica proprietaria delle terre e dei pini, depone a suo favore solo perché è necessario salvare le apparenze nei confronti della società, e costruisce la terribile punizione di Thérèse facendo in modo che “la gente” continui a crederli una coppia felice. Nel bel finale, sembra per un attimo che Bernard si metta in discussione, che cerchi di spogliarsi del suo ruolo, di capire perché, ma subito rientra nei ranghi, ed a Thérèse non resta che andare incontro ad una nuova vita, sottomettendosi ancora una volta con indifferenza alla volontà altrui. Non c’è redenzione, non c’è speranza, non c’è una mano tesa veramente ma solo un abbozzo di mano tesa da parte del marito. C’è solo altra sicura solitudine per Therese.

“Che importa amare questo o quel paese, i pini o gli aceri, l’oceano o la pianura? Degli esseri viventi la interessavano solo quelli di carne e sangue. “Quello che amo non è la città con le sue pietre, né le conferenze, né i musei, ma è la foresta viva che vi si agita, attraversata da qualsiasi tempesta. Il lamento dei pini di Argelouse, la notte, era emozionante solo perché si sarebbe detto umano. Therese aveva bevuto un po’ e fumato molto. Rideva da sola beata. Si passò del fard sulle guance e si ritoccò le labbra, con cura meticolosa; poi raggiunta la strada, camminò senza meta.”

 

https://www.qlibri.it/narrativa-straniera/romanzi/thérèse-desqueyroux/

‘Io sarò qualcuno’: L’America ai margini di Willy Vlautin

Tra tutti gli spettri in giro per il mondo, ce n’è uno che affiora di tanto in tanto in superficie, per essere subito ricacciato sotto nel magma ribollente dove stanno assieme umanità considerate periferiche e fenomeni buoni per saltuarie indagini sociologiche; il fantasma è quello della cosiddetta America profonda, piantata lì dentro nella vastità degli Stati Uniti. Ne avrete sentito parlare: è quello scenario che emerge in certi film-documentari indipendenti; o dai capolavori letterari di Raymond Carver o nei romanzi di Kent Haruf e Chris Offutt.

È il grembo discontinuo e frastagliato che s’allunga distante dalle grandi metropoli sulle due coste, o dagli agglomerati urbani che punteggiano la mappa degli USA: sono quelle zone che tendono a essere utilizzate nel dibattito socio-politico per spiegare fenomeni come il senso religioso che caratterizza un preciso aspetto del sentire americano; oppure per provare a capire com’è possibile che un tetro figuro come Donald Trump sia da qualche tempo l’inquilino principale della Casa Bianca – ammesso che esista una spiegazione valida.

Ecco: forse uno dei modi migliori per provare a penetrare la superficie e addentrarsi in quelle terre e tra i sogni e le speranze e le disillusioni di quella gente, non potendo concedersi complicate indagini sul campo, è stare dentro le storie che arrivano da lì. Storie come quella che racconta Willy Vlautin nel romanzo Io sarò qualcuno, uscito da poco per Jimenez nella traduzione di Gianluca Testani. Con Vlautin – originario di Portland, nell’Oregon – non siamo certo dalle parti dello scrittore improvvisato, o peggio, di un parvenu; il suo The Motel Life, l’esordio pubblicato più o meno dieci anni fa (in Italia da Fazi come Motel Life), venne notato dalle pagine critiche di giornali come il New York Times o l’Independent. E nella vita parallela a quella da scrittore, Vlautin è stato il leader dei Richmond Fontaine, una band che merita di essere rivalutata da chi non ha fatto in tempo a notarla a tempo debito – siamo sempre in tempo; dare un ascolto a un pezzo come Casino Lights per credere, tra Tom Waits e Bill Callahan.

Io sarò qualcuno racconta di un aspirante pugile, un ragazzo di nome Horace Hopper, sangue metà irlandese e metà indiano, abbandonato dai genitori quando era un bambino. È cresciuto nel ranch della famiglia Reese, un uomo e una donna che gli hanno dato amore, affetto, e una roulotte-depandance dove coltivare la propria libertà, ma che non hanno potuto dargli l’identità di cui è a caccia; quella, puoi dartela soltanto da solo, tanto che Horace, per tentare la carriera agonistica, decide di cambiare nome e cognome, assumendo le fattezze messicane di Hector Hidalgo («Perché i pugili messicani sono i più forti. Lo sanno tutti. Affrontano chiunque. Sono dei veri guerrieri che non si tirano mai indietro, non mollano mai, non hanno mai paura», spiega Horace).

Per inseguire sé stesso, Horace/Hector lascia il Nevada per spostarsi in Arizona, nella bollente Tucson, dove trova un lavoro come gommista e prende lezioni di boxe da un ex pugile messicano, Alberto Ruiz. Nel romanzo di Vlautin sfilano personaggi e paesaggi – baracche desolate, supermercati dai cui scaffali traboccano tortillas, riso, salse piccanti; centri commerciali, sale piene di frastornanti slot machine – che riescono a comporre un racconto estremamente visivo; le azioni si svolgono rapide, sono i verbi a dettare il tempo della storia, in un’alternanza febbrile, quasi nervosa.

«Era il tramonto quando Horace fece ritorno al campo insieme a Little Roy. Pedro aveva acceso il fuoco ed era seduto per terra davanti al fornello Coleman intento a mescolare qualcosa dentro una padella. Horace si sedette di fronte a lui, mangiò l’interno dei due panini della signora Reese e buttò il pane in mezzo al fuoco. Pedro prese una casseruola dal fornello, versò dello stufato in una scodella e la diede a Horace. Non parlarono mentre mangiavano, e poi Horace srotolò il materassino e il sacco a pelo. Ci si sedette sopra e rimase ad osservare il fuoco. Pedro entrò nel suo letto e in breve cominciò a russare. Tiny e Wally dormivano vicino a lui e Little Roy si sistemò accanto a Horace. Alimentò il fuoco un’ultima volta e si infilò nel suo sacco a pelo».

Al centro, fino alla fine del romanzo, resta Horace, con le sue passioni – la musica furiosamente heavy di band come Pantera o Slayer, ad esempio – e le sue debolezze e fragilità, a cui si espone dando battaglia cavalcando i ring di Tucson, incassando colpi che lo scuotono nell’anima più che nel corpo, collezionando scatti in avanti e arresti improvvisi, come già gli preconizza Alberto Ruiz durante la primissima lezione di pugilato: «Attento, Hector: ho visto che ti sei bloccato almeno mezza dozzina di volte […] Ci proviamo, ma è difficile correggere qualcosa che è dentro di te. Faremo un tentativo, comunque. Quantomeno proveremo a migliorarlo».

«Sono cresciuto guardando i combattimenti, e ho sempre amato la tragedia che li contraddistingue», ha raccontato Vlautin in un’intervista al Guardian. E ancora: «Se da bambino non sei sicuro d’essere amato, penso che questa cosa possa deviarti». Io sarò qualcuno è un viaggio doloroso dentro questa mancanza, una lotta che va ben oltre i ring di un’America ai margini.

 

Fonte: MinimaetMoralia

‘La vita degna’, l’ultimo romanzo di Dario Buzzolan sui desideri dell’individuo

Quando Leonardo Bolina, impiegato comunale con un breve ma intenso passato da drammaturgo, va finalmente in pensione, decide di investire l’intera liquidazione nel sogno di una vita: mettere in scena uno spettacolo teatrale. La scelta, economicamente folle, getta l’intera famiglia nello sgomento, che diventa crisi allorché lo spettacolo si trasforma in un colossale e umiliante fallimento. Rimasto solo, Leonardo finisce a vivere in una casa di studenti, con la ventenne Lis innamorata di lui, e di cui lui si innamorerebbe volentieri se solo non si sentisse ridicolo; ritrova Adele, il grande amore di gioventù, che continua ad essere donna ideale e inafferrabile; incappa in un produttore truffaldino, in un lavoro sottopagato di fattorino, deve fare i conti con i figli – l’intransigente Matteo e la rassegnata Maddalena -, con un capetto nevrotico, un coinquilino geloso… È lungo l’elenco di persone giocate che Leonardo crede di dover cancellare dalla sua esistenza – un’esistenza che deve tuttavia, ancora, essere degna. Forse, si domanda a un tratto, può bastare a sé stesso? Magari sulla cima di una montagna, tanto isolata da sembrare irreale? O ciò che cerca è una soluzione ancora più radicale?

Questa la sinossi dell’ultimo romanzo dello scrittore torinese Dario Buzzolan (Dall’altra parte degli occhi, Non dimenticarti di respirare, Tutto brucia, Favola dei due che divennero uno, I nostri occhi sporchi di terra, Se trovo il coraggio, Malapianta), La vita degna (Manni editore) un libro che appare “pirandelliano” sociologico perché racconta come i desideri, le aspirazioni dell’individuo siano ostacolate dalla società, dalla realtà, sulla scia di quanto affermava Stuart Mill, ovvero che l’uomo moderno nella sua quotidianità avverte si essere sempre davanti a qualche trappola che gli tende la società.

Il protagonista del romanzo ricerca la felicità attraverso la realizzazione dei suoi sogni, decidendo di vivere per la felicità, naturale aspirazione dell’uomo. Nella Vita degna, è l’autore del libro ad ascoltare quello che ha da raccontare Bollina a cui sin da bambino avevano pronosticato un futuro scintillante, nato per stare sul palcoscenico. Bollina se ne convince e davvero imbocca la strada del teatro, riuscendo anche a raggiungere un risultato importante. Per il suo testo messo in scena in sale off, i critici impazziscono e gridano alla nuova promessa della drammaturgia italiana. Ma il sogno si infrange presto e Bollina deve lasciar perdere la “carriera” di drammaturgo. Fino ad arrivare a sessanta, ormai pensionato, ma sempre pronto a  riprovarci, ben sapendo che le probabilità di successo sono nulle. Il lettore si chiederà più volte: ma perché questo tizio è tanto cocciuto, forse è masochista, ama andare incontro alle delusioni?
Il nocciolo della questione infatti è proprio questo: perché pur mettendoci tutta la nostra buona volontà, il nostro impegno, la vita ci viene contro invece di accompagnarci con dolcezza? Perché è la vita stessa a renderci infelici?

La vita degna è un romanzo vero, tragi-comico, incisivo, costruito acutamente sulla psicologia dei personaggi, che ci mostra come non possiamo nulla contro il destino con il suo sistema di variabili infinite che ha il potere di renderci felici o meno. Tesi certamente opinabile, in fondo la faccenda è molto più semplice: Bollina non ha abbastanza talento e la sua voglia di essere quello che ha sempre agognato è più forte della consapevolezza dei propri limiti, che probabilmente non sono solo suoi ma anche di chi ha gridato al fenomeno troppo presto. Come venirne fuori però se non si può addomesticare la realtà? Cercare di rendere la propria vita degna di essere vissuta comunque. In che modo? Facendosi beffa del sistema che ci impone di raggiungere a tutti i costi i nostri obiettivi, capovolgere la visione, rendendo vincente quello che si considera comunemente da perdente. La via d’uscita consiste del non prendere sul serio le nostre aspirazioni sia che li imponiamo noi piuttosto che gli altri. Soltanto percorrendo questa via potremmo, di conseguenza, essere felici.

La vita degna risulterà ostico a chi è totalmente immerso nelle logiche contemporanee, in una società che ci vuole vincenti, forti, competitivi. In tal senso, la figura nebulosa di Bollina può insegnarci ad essere in un certo senso dei “perdenti di successo”, felici proprio perché non ci curiamo e non facciamo parte di questi meccanismi spietati.

 

‘L’amica geniale’: il romanzo del ricordo sulle età della vita, di Elena Ferrante

Due bambine si tengono la mano su per la scala buia e polverosa della vita. Il loro mondo è quello di un rione povero di Napoli, pare un paese sperduto, la città è appena dietro la collina ma sembra già un’altra realtà. Nelle strade, fra i palazzi la voce della violenza impesta l’aria, memorie di tempi lontani che affondano le radici ben prima della nascita delle due protagoniste di quest’ultimo libro di Elena Ferrante, L’amica geniale (edizioni e/o, pp. 329).

L’amica geniale: trama e contenuti

L’infanzia di Lila e Lenù è un’infanzia di brutalità, di pietre in faccia, di sangue, di urla contro i genitori, di voli fuori dalla finestra scaraventate da padri imbufaliti. I bambini riproducono i comportamenti degli adulti, delle proprie famiglie, l’odio si rigenera nei figli eppure una strada alternativa sembra spalancarsi di fronte alle due ragazzine: la scuola, se sei bravo, se brilli la maestra ti apprezzerà e così l’intero rione, e chissà, forse potrai andare via, scrivere un romanzo e diventare ricco e famoso. E Lila era bravissima, aveva imparato a leggere da sola, sapeva fare i conti a mente a una velocità fulminea, pur essendo ribelle e fastidiosa in classe. Noi la guardiamo crescere attraverso gli occhi dell’amica Lenù, voce narrante, che la trova talmente intelligente che i suoi sentimenti d’affetto si mescolano spesso all’invidia e a un senso d’inferiorità e d’impotenza. Lenù è la ragazzina buona e diligente che non ha nulla di quel demone geniale che scorge così potente nella sua amica. Tenta di starle dietro, studia solo per cercare di superarla. Tutto inutile, Lila è troppo. Almeno Lenù si sente bella, è bionda e paffuta, Lila invece no, è così magra che sembra rachitica, con quei capelli neri sempre arruffati.

Ma l’infanzia finisce e l’adolescenza stravolge tutto, Lila non può proseguire gli studi perché i genitori sono troppo poveri. Solo Lenù continuerà la scuola e sarà l’unica sua ricchezza, l’unica forza. E se per un po’ Lila tenta di starle dietro studiando latino e greco sulla panchina del giardino pubblico, e divorando romanzi presi in prestito nella biblioteca della scuola, ben presto comincerà a infuocarsi per altro, ad esempio per la politica che sembra finalmente dare “motivazioni concrete, facce comuni al clima di astratta tensione” che avevano respirato nel quartiere. “Il fascismo, il nazismo, la guerra, gli Alleati, la monarchia, la repubblica, lei li fece diventare strade, case, facce, don Achille e la borsa nera, Peluso il comunista, il nonno camorrista dei Solara, il padre Silvio, fascista peggio ancora di Marcello e Michele, e suo padre Fernando lo Scarparo, e mio padre, tutti tutti tutti ai suoi occhi macchiati fin nelle midolla da colpe tenebrose”. Quelle di Lila sono passioni brucianti che si consumano in un baleno. Ma se la scuola non è più per lei un modo per mostrare al mondo quel suo stile da fuoriclasse nel frattempo Lila è diventata bella, sensuale e corteggiatissima, sempre al centro dell’attenzione, immischiata più che mai nei meccanismi violenti del rione, tra spasimanti, fidanzati, fratelli, progetti imprenditoriali per arricchire la famiglia e un matrimonio ambiguo tra amore e convenienza.

Questa è la storia dell’evolversi della vita attorno a quella stretta di mano nata durante l’infanzia. Le bambine crescono, cambiano, si osservano, si invidiano, si stimano, si amano. Sono l’una l’amica geniale dell’altra, lo specchio dentro cui osservare se stesse e la povertà di Napoli. Contro ogni aspettativa Lila, ribelle e fulminante, sembra affondare sempre più le sue radici tra i palazzi del quartiere, Lenù invece, nella sua insicura pacatezza comincia a desiderare di diventare altro, volare via.

L’inizio di una saga moderna sulle età della vita

L’amica geniale è forse la più famosa saga italiana moderna sulle età della vita e dal suo primo capitolo, dedicato alle età dell’infanzia e dell’adolescenza, dove emerge la dimensione del ricordo e della memoria. Elena Ferrante non scrive una storia romanzata, fa romanzo della vita, perciò ciascuno è indotto, attraverso il racconto dell’esistenza più spesso misera ma sempre accesa di speranza di Lila e Lenù, a riconsiderare le proprie miserie e i propri agi, le proprie scelte e i propri pensieri, a rievocare i sogni realizzatisi o no, a fare racconto di sé, raccontarsi e redimersi, se si vuole, o semplicemente riconsiderarsi.

Facendo i conti con se stessi, con quello che, in effetti, siamo e quello che invece mostriamo, considerando con interezza il nostro genio interiore e non confondendoci con la nostra doppiezza.  La vita si svolge sempre su un binario doppio, bianco e nero, bene e male, sì e no, la vita ha sempre una valenza binaria; per questo, le ragazze protagoniste sono due, Lila e Lenù, ciascuna di lei ha, come tutti noi, il desiderio, la voglia, la volontà di crescere e cambiare, affrancarsi dal degrado morale e materiale in cui per caso o per volere degli dei si sono trovate a vivere, con metodi e scelte differenti, adeguati al proprio io, o semplicemente ritenute le più efficaci e opportune da seguire.

Lila e Lena sono diverse, e complementari; in realtà, non sono come due sorelle, o come due amiche intime e intensamente vicine e compartecipi, tutt’altro, tra loro c’è anche astio, livore, disagio, timori, litigi, rivalità, ci sono slanci di affetto e periodi di distacco, non per forza vanno sempre d’amore e d’accordo, spesso sono separate per tempi lunghi dalle distanze e dai casi squisitamente personali, nemmeno si dicono e si confidano completamente tutto di sé, molte sono le zone d’ombra che ciascuna cela volutamente all’altra.
Il romanzo non è, infatti, come molti credono, un’elegia dell’amicizia, è un di più: Lena e Lila sono due metà dello stesso essere, le famose metà di un’unica mela, ma con qualche distinguo. Non sono propriamente complementari, sono intimamente parecchio contrapposte:

L’amica geniale non è un romanzo dalle grandi rivelazioni, di quella violenza del sud incancrenita e tramandata di generazione in generazione s’è già parlato molto, da Sciascia fino a Saviano. Eppure la scrittura luminosa di Elena Ferrante imbriglia la lettura e la trascina. E la storia è viva più che mai, le due ragazzine crescono sotto i nostri occhi con tutte quelle sfumature psicologiche che danno un’impronta profonda alla narrazione. La casa editrice e/o ha annunciato per i prossimi mesi altri volumi di Elena Ferrante sulla giovinezza, la maturità e la vecchiaia delle due amiche ‘geniali’. Sarà un raro esempio di romanzo di formazione italiano?

“L’attimo in cui ci rendiamo conto, per la prima volta, che a nessuno importa davvero di noi è quello in cui smettiamo di essere bambini! Aveva percepito la freddezza che nascondono i cuori più vicini ai nostri. In superficie si sente la compassione e l’amore, ma basta che si scenda un po’ e si scoprono profondità in cui la nostra immagine non riesce a penetrare che racchiudono dei segreti a noi sconosciuti e ai nostri occhi degli oceani, degli abissi di indifferenza.”

 

Fonte: Redazione Doppiozero-Claudia Zunino

‘Belka’: la storia dei cani soldato delle Aleutine di Furukawa

Un romanzo davvero particolare e unico quello dello scrittore Furukawa intitolato Belka. I protagonisti indiscussi di questa vicenda sono cani, con qualche debita comparsa umana che lega i vari frammenti della trama. Tutto ha iniziato durante la Seconda guerra mondiale, quando un contingente giapponese conquista e prende possesso di un’isola americana. Trattasi di un isolotto appartenente alle Aleutine, nell’Oceano Pacifico. Le truppe nipponiche portano con sé tre cani da guerra, Katsu, Kita e Seiyu, mentre un quarto lo adotteranno sul posto, Explosion. Questi quattro animali saranno i capostipiti di una lunghissima genealogia di cani straordinari, militari e non. Veniamo così a scoprire che durante i conflitti del XX secolo i cani furono usati moltissimi dalle varie nazioni e per i più svariati compiti, durante la guerra in Vietnam, in Corea, in Afghanistan ecc. In questo libro è difficile ricostruire i confini precisi della finzione e quelli della veridicità storica, fantasia e realtà si confondono a piacimento dell’autore e per il lettore tutto questo si trasforma in un viaggio a dir poco avventuroso nella storia della seconda metà del ‘900.

Alla vicenda dei figli dei figli di questi quattro primi cani soldato si intreccia la storia particolare di un russo, un killer soprannominato l’Arcivescovo, ricercato e braccato dalle mafie di diversi paesi. L’esistenza dell’uomo è fittamente legata a quella dei cani e la loro vita insieme è destinata ad essere stravolta da una giovanissima ragazza giapponese, figlia di un capo yakuza in visita a Mosca.

Belka è fitta di intrecci narrativi, sorprese e personaggi dalle indubbie doti. I cani, però, rimangono i fili conduttori di queste vicende. I protagonisti a quattro zampe saranno moltissimi e ci accompagneranno in un giro infinito intorno al mondo: Belka e Strelka (cani astronauti sovietici), Ice (una mamma selvatica), Sumer (pastore tedesco di immemore bellezza), Anubi (mezzo cane mezzo lupo), Guitar (un cucciolo dai sensi acuti), Good Night (cane navigatore) e tantissimi altri discendenti. I due umani della storia presenti nel romanzo sono: il vecchio, addestratore di cani d’elitè, ex dei servizi segreti russi, ora disertore e deciso a mettere a ferro e fuoco la scala gerarchica mafiosa della Russia. L’uomo dichiara guerra al capo yakuza e gli rapisce la figlia, una ragazzina dalla strana fisicità e i modi burberi tipici di un’adolescente. Sarà lei la vera e ultima chiave per il successo della straordinaria, e pazza, impresa dell’uomo. Soprannominata Belka, come la mitica cagnolina sovietica a cui il ricordo del vecchio è ancora molto legato, si affezionerà con empatia e indipendenza ai cani. Tutti rinchiusi in una vecchia città abbandonata della Siberia, la bambina e gli ultimi nati della grandiosa genealogia canina, diventeranno una cosa sola, pronti a conquistare il mondo.

Lo stile di Furukawa è molto particolare, non disdegna né ha timore di dilungarsi in ampi capitoli dedicati a spiegazioni e fatti storici. Il tutto, naturalmente, utile allo scopo di raccontarci cosa accade ai discendenti dei cani soldato delle Aleutine. Il linguaggio, come si addice agli ambienti che descrive, è crudo e grezzo, non lascia spazio all’immaginazione. I personaggi sono fittamente delineati e nelle loro vite non c’è spazio per buonismo, sorrisi di troppo o perdite di tempo. La scrittura di questo autore è diretta, veloce, analitica, molto descrittiva.

Kita non lo sa, ma un giovane uomo ha deciso di occuparsi di lui. Ha ventidue anni e appartiene al personale di terra dell’aviazione americana. E’ stato reclutato ne 1942. E’ un grande amante dei cani. L’aspetto di Kita, in particolare, ha destato la sua attenzione. Nella sua terra d’origine non ha mai visto cani di questa specie. Kita non è un esemplare delle razze nordiche che lui conosce, non è un samoiedo, né tanto meno un alaskan malamute. E’ la prima volta che si imbatte in un cane di razza giapponese. Orecchie dritte e coda attorcigliata come quelle di uno spitz. In particolare, i cani di razza Hokkaido sono dotati di coraggio e un’energia davvero formidabili, e non a caso sono utilizzati nella caccia all’orso. Si tratta di un animale decisamente fuori dal comune. Di che cane si tratterà mai?, si chiede il giovane soldato ogniqualvolta rende visita a Kita, due volte al giorno. 

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