‘Norwegian Wood’, il travolgente origami di Haruki Murakami

Norwegian Wood è un famosissimo romanzo di Haruki Murakami del 1987, pubblicato in Italia (1993) con il titolo di Tokyo Blues.

Nonostante sia stato riconosciuto dalla critica come un clamoroso successo della letteratura giapponese, ancora oggi Norwegian Wood rappresenta un’oasi vergine per molti giovani lettori. Tuttavia Tokyo Blues conserva la sigla di capolavoro e sembra non subire l’ombra del tempo. Norwegian Wood è anche considerato il lavoro più introspettivo di Murakami, che qui esplora in velina la sfera dei sentimenti e della solitudine. Non deve quindi stupire se Norwegian Wood resta, per molteplici e validi motivi, un grande romanzo incentrato sull’adolescenza, sul conflitto tra il desiderio di essere integrati nel mondo della vita adulta e il bisogno di restare se stessi. Come Holden o il protagonista de Il Budda delle Periferie, Toru è continuamente lacerato dal dubbio di aver sbagliato nelle sue scelte di vita e sentimentali, ma è anche guidato da una propria morale che produce in lui una radicata avversione per tutto ciò che sia artificialmente costruito. Così Toru, diviso ma anche affascinato da Naoko e Midori, può decidere stoicamente o abbandonarsi al fatalismo.

Il romanzo è un lungo flashback, narrato in prima persona proprio dal protagonista Toru. Su un aereo atterrato ad Amburgo, il suono di Norwegian Wood dei Beatles, richiama alla sua mente, in modo nitido, un episodio avvenuto diciassette anni prima e che ha segnato la sua giovinezza: l’incontro casuale con Naoko. Il ricordo di Naoko è il pretesto che consente al protagonista di ripercorrere i difficili anni dell’università e l’amore impossibile per la ragazza (poi ricoverata in un istituto psichiatrico) e quello per Midori. Anche quest’ultima, compagna di corso all’università, è annichilita a causa di lutti familiari, dal collegio e dall’amicizia con Nagasawa, ragazzo controverso e alter ego del protagonista. I tumulti nelle università forniscono solo un riferimento temporale, la narrazione è collocata alla fine degli anni Sessanta ma Murakami sembra non voler scivolare nel cliché, stereotipato oltre che abusato, che caratterizza i romanzi ambientati proprio in quegli anni. All’autore interessa indagare in una sfera meno prevedibile e più introspettiva. Toru rimarrà quindi estraneo alle occupazioni delle università, ai propositi rivoluzionari e il suo è un percorso di dolore e consapevolezza personale, che lo porterà a constatare che la morte non è l’antitesi della vita ma una sua parte intrinseca.

La narrazione e la stessa scrittura di Murakami sono impalpabili, un grazioso origami e qualsiasi cosa egli scelga di descrivere vibra di carica simbolica, solo come un certo gusto orientale riesce ad esprimere con estrema raffinatezza. Non sembri azzardata una libera associazione tra questo romanzo e alcuni celebri film come Ferro 3 o In the mood of Love; leggere e immergersi in Norwegian Wood permette al lettore, non neofita, questo tipo di parallelismi che consentono di ampliare l’orizzonte psichico sino a dilatare la pagina in una dimensione altra.

Travolgente, emozionante, puro incanto. Norwegian Wood è uno di quegli esempi letterari che esercita il fascino della parola, attraverso una forte carica evocativa, a tratti poetica. È un libro che vibra sotto pelle e avvolge il cuore, dove le immagini e le parole continuano a risuonare nella mente, dove  gli stati d’animo sono resi magistralmente. Non si può leggere questo libro senza provare una stretta al cuore per la loro malinconica bellezza.

Nonostante Norwegian Wood sia etichettato come romanzo adolescenziale (e lo è, nella sua accezione positiva), non vi è nulla di superficiale o stucchevole in esso. Adolescenziale è ben diverso da romanzo per adolescenti. È una precisazione necessaria, onde evitare grossolani errori di valutazione e odiose generalizzazioni che questo libro non merita, rientrando in una categoria superiore ad ogni libro di recente uscita.

Murakami è riuscito a dare voce, come pochi vi riescono (pensiamo a Salinger o a Tondelli), ad una fase della vita che non è affatto semplice con i suoi piccoli o insormontabili drammi. Un romanzo riuscito, perfetto perché è dolce, triste e tremendamente doloroso, come solo l’adolescenza sa essere.

-Se c’è una cosa che non mi manca è il tempo.

– Davvero ne hai tanto?

– Tanto che mi piacerebbe dartene un po’, e farti dormire lì dentro.

 

 

 

Il fenomeno Hunger Games-Il canto della rivolta

Hunger Games. La ragazza di fuoco. Il canto della rivolta. Questi i titoli della trilogia di Suzanne Collins, un fenomeno editoriale prima, cinematografico poi.
Una storia semplicemente cruda e brutale, la traiettoria di una società portata al limite della legalità, del rispetto e del senso di umanità, il disegno della democrazia distorta e dell’abuso tecnologico, la precisa descrizione dell’irrazionale senso dell’amore, l’evidenza della fragilità della vita.

Il 20 Novembre scorso, le sale cinematografiche italiane hanno iniziato la proiezione di Hunger Games – Il canto della rivolta, parte uno e nei soli primi quattro giorni di programmazione il numero di spettatori ammontava a 603.542. Una cifra che non può essere casuale, il mero frutto di trailer ben montati, battute accattivanti ed effetti speciali usati con maestria.
Tutto questo c’è, ma dietro vi è molto di più.

Nascosti dietro a quei biglietti venduti ci sono occhi che sono rimasti aperti ancora un’ora, nella penombra, ancora un’ora prima di dormire, ancora un’ora ancora rubata alla cucina, ai compiti, alle pulizie, un’ora ancora per leggere qualche pagina in più.

Perchè una ripresa può far sentire i brividi e lasciare a bocca aperta, ma le parole sulla carta, riempiono gli occhi e chiudono lo stomaco.
Perchè associare un personaggio ad un volto è istintivo, ma costruirlo lentamente, una frase alla volta, e aggiungendo una parte di se stessi ad ogni dettaglio crea un legame con la storia.
Perchè le luci spente, un grande schermo e ampie casse possono convogliare tutta l’attenzione del pubblico sulla proiezione, ma ad un libro non serve nient’altro che se stesso e tutto il resto svanisce. Ed è questa la differenza. Felici Hunger Games, e possa la fortuna sempre essere a vostro favore.

Nascosti dietro a quei biglietti venduti ci sono adolescenti che hanno cercato tra le righe le risposte ai paradossi che riflettono il reale, ci sono lavoratori che hanno scelto quelle pagine come via di uscita e come conforto, ci sono studenti che hanno sospirato e lottato credendo ancora nella via d’uscita. Se noi bruciamo, voi bruciate con noi.

Nascosti dietro a quei biglietti venduti ci sono persone che credono ancora nel peso di un libro nella borsa, nel profumo dell’inchiostro sulla carta, nel rumore sottile della pagina che viene voltata.
E ci sono le persone che leggono prima l’ultima parola della storia e aspettano, per capirla, solo dopo. Ma esistono giochi molto peggiori a cui giocare.

Hunger Games – Il canto della rivolta è un film che merita di essere visto, per la costruzione delle scene, per il ritmo dato alle riprese, per l’abilità degli attori, per le musiche scelte, per la fedeltà alla trama originale e per lo sforzo di riflettere tutto ciò che l’audiovisivo elimina, ovvero la forza indomabile delle parole, sebbene non riesca ad esprimere grande  personalità di scrittura, suspence e simbolismo. Le tessere del mosaico sono sempre le stesse: la casta e il popolo sotterraneo, i giochi sanguinari e la voglia di rivoluzione.

Nascosti dietro a quei biglietti ci sono lacrime e sorrisi sinceri, c’è la passione, la rivolta, la speranza e il desiderio di allontanarsi, di amare, di crescere e cambiare tutto partendo da se stessi. Devi occuparti di me, non è vero? Come mio mentore? Questo chiediamo ai nostri libri. Una guida, un sostegno, compagnia ed amicizia nei momenti bui ed in quelli di crescita. Chiediamo di esserci, chiediamo a chi ne ha il potere di continuare a darci storie per nutrire l’anima.

Quello di cui ho bisogno è il dente di leone che fiorisce a primavera. Il giallo brillante che significa rinascita anziché distruzione. (Da Il canto della rivolta)

Storia di chi fugge e di chi resta, di E. Ferrante

Elena Ferrante è diventata un vero e proprio caso letterario. La critica d’Oltreoceano l’ha accolta con parole entusiaste e un grande interesse aleggia anche intorno alla stessa identità dell’autrice.

Elena Ferrante è infatti uno pseudonimo che cela, a detta di alcune indiscrezioni, non altro che Domenico Starnone. Tuttavia al di là di questa parentesi da gossip, il plauso resta meritato e le vendite lo confermano, non accadeva da illo tempore. Leggere Storia di chi fugge e di chi resta (terzo volume di una quadrilogia intitolata L’Amica Geniale) fa tirare un gran sospiro di soddisfazione e si ha l’impressione di avere tra le mani, finalmente, un romanzo all’altezza della migliore tradizione italiana in prosa. Un capolavoro che non strizza l’occhio alle mode letterarie del momento o ci proponga la solita storia messa ben a punto da un bravo editor e da una strategia di marketing destinati solo ed esclusivamente a vendere e a far parlare di sé.

L’avvincente discussione sull’identità della scrittrice, per quanto aggiunga un po’ di pepe, rischia di sminuire la portata di quello che ha scritto, declassandolo a oggetto da salotto massmediatico, senza riconoscere che questa autrice ha elevato nuovamente ad alto rango il Romanzo.

Chiunque lo abbia scritto, Storia di chi fugge e di chi resta, non è solo un bellissimo romanzo ma un punto di svolta nella letteratura contemporanea italiana. Elena Ferrante è riuscita laddove già molti altri autori si sono cimentati con scarsi esiti, ovvero scrivere l’autobiografia di una generazione e di un preciso momento storico segnato dal comunismo e dal femminismo. Il livello della microstruttura investe temi più controversi e avvincenti quali il progresso, la mobilità sociale, la speranza in un riscatto sociale affidato alle proprie capacità.
L’intelligenza, infatti, è l’unica arma di cui le protagoniste dispongono. Nate nella miseria dei rioni popolari di Napoli, Lenù e Lila tentano di cambiare le proprie vite ma adoperano i rispettivi capitali cognitivi in modo dicotomico. Lenù rispettando tutte le regole e Lila non rispettandone neanche una. Eppure anche lei, pur nei limiti del quartiere, riesce a realizzarsi nel settore dell’informatica. Lenù parte, fugge. Lila resta e prova dall’interno e con il suo carisma ad opporsi alle regole eterne delle strade di Napoli. Tuttavia finiscono entrambe sconfitte se le si rapporta al mondo che non cambia e il riscatto delle loro esistenze risulta vano.

Insomma il romanzo, popolato da personaggi le cui vite si intrecciano slegano e ricompongono, è il manifesto di una grande sconfitta collettiva. Perdono tutti: chi la vita, chi la libertà. Gli amici cresciuti con le due protagoniste seguono la medesima parabola discendente: sconfitti quelli hanno fatto carriera con il Psi di Craxi, quelli che sono ascesi con la camorra, quelli che hanno sperato in una rivoluzione. Elena Ferrante non si limita a narrare una storia privata ma intesse il romanzo epico di un pezzo di storia, la nostra, quella italiana, del boom economico e delle sue contraddizioni. La scrittrice racconta un ‘68 filtrato dall’esperienza di personaggi tutti italiani. E allora è possibile constatare quanto in quei fantastici anni, in cui tutto sembrava possibile, da L’immaginazione al potere a Il sesso è politicoqualcosa in Italia si è inceppato e ha interrotto il cammino della nostra storia, tanto da far scrivere la carta stampata di un ‘caso italiano’. Un caso che non è quello, o non solo, delle grandi città del Nord ma anche del Sud, di coloro che borghesi non lo erano  affatto e se intentavano una ‘lotta di classe’, dovevano affrontarla in primis tra le mura domestiche, poi nel quartiere sino alla fabbrica.

Il lavoro di Elena Ferrante è un romanzo popolare ma immenso poiché restituisce, attraverso personaggi frastagliati, la complessità dell’Uomo. Risulta difficile parteggiare pienamente per ciascuno di essi, così come è impossibile definire a pieno titolo i Buoni e i Cattivi. Resta su di essi un cono d’ombra che lascia indefiniti alcuni interrogativi, ogni volto che il lettore incontra è un mondo a sé e pertanto ogni ontologia resta irrisolta.

Elena Ferrante è riuscita dove tanti hanno fallito perché “Scrive”, perché sa coniugare la testa e le viscere come a pochi è concesso dal talento e forse anche per la volontà di ripercorre una parabola esistenziale dal basso. Il punto di osservazione appartiene a coloro i quali l’ascensore sociale non era una definizione sociologica ma il confine tra la vita e la sopravvivenza. E perché non la mette mai al centro della narrazione, ma la rilegge attraverso il prisma emotivo di un’amicizia al femminile. Amicizia strana, peraltro, con una simmetria troppo perfetta tra le due biografie così perfettamente opposte, una il rovescio esatto dell’altra. Due amiche, legate dal rapporto più intimo della loro vita ma forse anche due parti della stessa identità.

Ma Elena Ferrante è una narratrice e rifugge da intenti pseudo pedagogici e si astiene dall’azzardo narcisistico di fornire una qualche spiegazione. In Storia di chi fugge e di chi resta, l’autrice ha raccontato e descritto una vita, un’amicizia, un’epoca storica, una generazione e la sua catastrofe. Andare oltre e trovare una spiegazione di senso sta a chi legge, perché questo è quello che si fa con i grandi libri.

“Todo modo”: il potere secondo Leonardo Sciascia

L’attività giornalistica e letteraria di Sciascia a partire dai primi anni Settanta cominciano a suscitare polemiche sempre più grandi. In Italia e all’estero la sua è l’immagine di un intellettuale problematico e polemico. La sua figura è inquieta e controcorrente, la sua prontezza nel ribaltare concezioni e luoghi comuni, la sua sagacia nel contestare le convezioni della realtà sociale e nel rifiutare formule dominanti e poteri assassini costruisce la sagoma di un intellettuale estremamente fastidioso per tutta la politica italiana. I suoi romanzi, pur seguendo e sperimentando svariate forme narrative restano sempre un’inchiesta, attraversate da un istinto critico e contestatore che non può fare a meno di vedere e dire la verità delle cose.

In Todo modo, romanzo pubblicato nel 1974, il più ambiguo e sempre attuale, del grande scrittore siciliano, le indagini sulle oscure trame del potere che sembrano trovare chiara connivenze nel governo di quegli anni, si rivolge più direttamente e più chiaramente al sistema di potere democristiano; il nesso con la tradizione cattolica e gesuitica del partito deriva già dal titolo del romanzo ricavato da una frase degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola.

La vicenda si svolge in un eremo-albergo di lusso dove politici e notabili riuniti con il pretesto di seguire esercizi spirituali, sotto la guida di un enigmatico Don Gaetano, hanno modo di organizzare traffici e intrighi di potere. Sotto gli occhi di un pittore di successo, casualmente ospite dell’albergo, alcuni dei notabili restano vittime di misteriosi delitti, sui cui autori e sui cui moventi sembrano esserci le ipotesi più varie. La struttura del romanzo è quella di un giallo senza soluzione, che contribuisce a costruire un’atmosfera ambigua ed oscura. Questo libro si potrebbe quasi definire un giallo barocco proprio perché il gioco letterario intreccia razionalità, combinatoria e gusto per la complicazione con una linea sottile e ricercata da far pensare allo stile di Borges.

L’effetto cupo e intricato così ottenuto riflette il clima che Sciascia sente gravare sull’Italia di quel tempo. La lotta del potere e contro il potere si svolge percorrendo trame che si intrecciano l’una all’altra e che non è possibile capire e ricostruire fino in fondo. Le tradizioni si contaminano e si trasformano in usi scorretti e letali, i valori del cattolicesimo si mescolano alle forme di una modernità sempre più estranea e disumana, strumentalizzati per ottenere sudditanza e per preservare ed accrescere l’interesse di piccoli gruppi. Il gioco narrativo rimanda una visione disillusa e spregiudicata, ambigua, funesta che sembra preludere i tragici e oscuri eventi che sarebbero realmente accaduti nel corso degli anni Settanta.

Todo modo, pagina dopo pagina smarrisce le sue caratteristiche tipiche: il percorso deduttivo per giungere alla soluzione, lascia il posto ad  un’opera di denuncia politica. Lo scrittore siciliano punta la sua attenzione non tanto sui crimini, quanto invece sull’ l’ambiente in cui sono compiuti, dove tutti sono sospettabili. Il profetico Sciascia rappresenta il potere come una divinità mostruosa che sottomette l’umanità, un insieme di connessioni, corruzioni, affari in comune dei tre poteri per eccellenza, quello economico, quello politico e quello religioso. Lo scrittore lascia a noi lettori, alla nostra morale e alla nostra coscienza, la libertà di dare quantomeno una propria interpretazione del giallo, perché risolverlo pare davvero impossibile.

Partendo dalla realtà siciliana, complicata e martire, Sciascia ha indagato le implicazioni e le complicazioni dei rapporti sociali e della scena pubblica, non perdendo mai di vista valori come libertà, giustizia e ragione. Nonostante le battaglie si avverte che questa “ragione” resta, in fondo, sempre sconfitta. Eppure Sciascia ci insegna che la “ragione” deve necessariamente continuare a dire di no al male che attanaglia il mondo.

Al romanzo si è liberamente ispirato il regista Elio Petri, che nel 1976 ne ha realizzato la versione cinematografica avente come protagonisti Gian Maria Volonté, Mariangela Melato e Marcello Mastroianni.

Irène Némirovsky: Nascita di una rivoluzione

“Qual è l’ istante esatto in cui nasce una rivo­lu­zione? Vor­rei ritro­vare nella mia memo­ria quel giorno dell’ inverno 1917, quando a un tratto diventò visi­bile, non solo per gli ini­ziati, per gli uomini al potere, ma per la folla, per un bam­bino, per me. Il giorno prima, la rivo­lu­zione era una parola uscita dalle pagine della Sto­ria di Fran­cia o dai romanzi di Dumas padre. Ed ecco che le persone grandi dice­vano (senza ancora crederci): Stiamo andando verso una rivo­lu­zione… Vedrete, tutto que­sto finirà con una rivoluzione!”. Negli ultimi anni è cominciata una riscoperta delle opere di Irène Némirovsky da parte delle case editrici italiane, come l’Adelphi con la pubblicazione di Suite Francese nel 2005, in seguito al settantesimo anniversario della morte della scrittrice ucraina deportata nel 1942 ad Auschwitz. L’opera di diffusione dei suoi scritti comprende anche opere inedite come la raccolta di racconti Nascita di una rivoluzione, edita da Castelvecchi editore nel 2012, comprendente due scritti pubblicati per la prima volta nel 1938 e l’ultimo solo postumo nel 2011. Illuminante la prefazione di Susanne Scholl a quest’edizione, dal titolo Cosa fa la rivoluzione con gli uomini e cosa fanno gli uomini con la rivoluzione, nella quale pone gli interrogativi fondamentali su cui si basa la raccolta della Némirovsky, soprattutto se sia giusto o meno anteporre un ideale alla vita e ai diritti del singolo. Le sommosse cominciano sempre con i migliori propositi, ovvero l’euforia per il futuro, una “gioiosa sensazione d’attesa”, come afferma la Scholl, dettata dal rifiuto e dal disprezzo del passato. Ma nel loro svolgersi le rivoluzioni attraversano sempre un punto di non ritorno, dopo il quale non si può che fallire, ovvero la perdita dell’umanità. Ecco le parole di Susanne Scholl in proposito:

“E ancor prima di formulare i loro obiettivi, i rivoluzionari iniziano a uccidere. (…) La lezione di tutte quelle rivoluzioni del passato che si sono concluse con la perdita di ogni valore umanitario sembra ormai essersi dissolta nella miseria morale dei sopravvissuti.”

E ciò che resta non è altro che vuoto. Il vuoto riempie la falla creatasi in seguitoalla morte di ogni ideologia. È proprio questo di cui parla il racconto che da il nome alla raccolta, Nascita di una rivoluzione, ovvero un ricordo di infanzia della stessa Irène, quando era ancora una bambina appartenente a una famiglia benestante con una tata francese. Ricorda il Febbraio del 1917, lo scoppio della rivoluzione russa. Ricorda la folla in marcia, il popolo pieno di speranza, il volto di una rivoluzione che non aveva ancora versato sangue. Eppure il momento di cui parla la Némirovsky si colloca poco dopo. Ricorda di aver assistito, affacciata alla finestra della propria casa, a una finta esecuzione ai danni del portiere del suo palazzo, un tale Ivan, davanti a tutta la sua famiglia. Un gesto insensato solo per fargli paura. La scrittrice attribuisce a questo ricordo il vero scoppio della rivoluzione: “Solo più avanti, compresi. Fu quel giorno, fu in quell’istante che vidi nascere la rivoluzione. Avevo visto il momento in cui l’uomo non si è ancora spogliato delle abitudini e della pietà umana, il momento in cui non è ancora abitato dal demonio, che già però gli si avvicina e turba la sua anima”.

Il secondo racconto, Magia, parla di un gruppo di esuli, fuggiaschi russi, in Finlandia nel 1918, ragazzi e ragazze che esorcizzano la paura, nel mezzo di una foresta, organizzando una seduta spiritica, durante la quale viene scherzosamente profetizzato a uno dei giovani il nome della donna del suo destino, Doris Williams. Anni dopo il ragazzo incontrerà per un istante una donna con lo stesso nome, chiedendosi scioccamente se fosse davvero la donna della sua vita. Il destino risponderà al suo posto, dato che Doris Williams, giornalista inglese, venne trovata morta poco tempo dopo nel suo appartamento. La Némirovsky commenta:

<<Ci deve essere stato a un certo punto, nel filo che il destino tesse per noi, una maglia mancata>>.

In questo secondo racconto si evince il senso di straniamento della scrittrice nella Francia della sua fuga, quando la sua colpa era solo di non essere una vera francese. L’ultimo racconto, dal nome Émilie Plater, parla della giovane polacca che combatté nel 1831 durante la rivoluzione per liberare il suo Paese dal giogo russo e che morì per il suo ideale. Susanne Scholl riassume il racconto in questo modo:

“Ma non è proprio questo ciò che le rivoluzioni fanno agli uomini? La rivoluzione scatena in loro la speranza, la gioia, ma abbatte anche tutti quei confini di cui l’uomo ha bisogno per non abbrutirsi. E l’uomo, a sua volta, utilizza la rivoluzione per impadronirsi di ciò che altrimenti gli sarebbe sempre negato. Non per stimolare un cambiamento positivo in sé per sé. Ragion per cui, alla fine, si può solo fallire”.

Ricorda con rabbia, di John Osborne

Londra, 1956.  Un giovane di nome John Osborne finisce un’opera teatrale che da il via ud un movimento che verrà presto riconosciuto dalla critica con il nome di Angry Young Men – i Giovani Arrabbiati. Una società che non funziona, ingranaggi usciti dai cardini e nessuno che dimostri il coraggio o la voglia di riparare: sono queste le ragioni della rabbia che investe Jimmy Porter, il giovane protagonista di Look Back in Anger- Ricorda con rabbia.

Osborne, che proseguirà sulla linea degli Arrabbiati con l’opera The entertainer, già l’anno successivo alla fortunata rappresentazione di Look Back in Anger, modella alla perfezione un personaggio controverso in una situazione che esso stesso rende asfissiante. Non ci sono cambi di scena nel corso dei tre atti, la sceneggiatura non varia se non in piccoli dettagli, a sottolineare come l’immobilità apparente caratterizza i monologhi e lo scorrere dei giorni dei personaggi. Ma niente resta fermo e sotto alla superficie le vicende si intrecciano e viene soffocato un amore, si perde qualcosa, si sfrutta un’amicizia, si perde ancora qualcosa e solo alla fine il cerchio si richiude. Ma non più uguale a se stesso.

Un salotto spoglio, due uomini seduti a leggere i quotidiani della domenica e una giovane donna che stira in silenzio. Un fumo lento e pesante riempie la stanza. Jimmy l’Arrabbiato, Alison la moglie da lui etichettata come pusillanime e Cliff, il coinquilino mediatore, una sorta di valvola di sfogo e collante al tempo stesso per la coppia. Perchè la quotidianità, la realtà, i rapporti umani sono difficili da sopportare e la mancanza di comunicazione finisce sempre col distruggere tutto.

Non vi è una vera e propria conversazione in Ricorda con rabbia, ci sono solo commenti velenosi di un quasi ininterrotto monologo scagliati da Jimmy alla moglie per il suo carattere passivo, per le sue origini, per la sua famiglia, per il suo non reagire a tutta questa rabbia. Rabbia. Rabbia che il primo scarica sulla seconda, rabbia che lei si lascia piovere addosso e assorbe, o finge di assorbire, come terra secca. Ma la pioggia non può durare a lungo prima che la capacità di drenarla ceda, ed una volta che si arriva al limite, nella terra si aprono delle crepe, diventa fango e la situazione cambia.

Ma cosa c’è dietro alla rabbia? Un disperato bisogno di amore e protezione, di complicità e sicurezza. La voglia di sentirsi accettati senza riserve. Un posto dove nascondersi quando quello che c’è fuori è troppo da sopportare e la sensazione di essere sull’orlo del precipizio si fa sentire. Ed ecco che uno strano amore, incomprensibile agli occhi degli amici, della famiglia, della società e persino a quelli sbalorditi degli amanti stessi diventa l’unico posto sicuro in cui rifugiarsi ed aspettare che torni il sole. O che almeno smetta di piovere. È l’amore del grosso orso e del scoiattolo fragile che si nascondono nella loro tana e si nutrono di miele e nocciole. È questo l’amore che lega Alison e Jimmy: un amore palliativo ma ardente, che vive del fuoco della rabbia e della rassegnazione disperata.

Sherlock a Shanghai, di Cheng Xiaoqing

Cheng Xiaoqing (1893-1976) è il più famoso autore di detective stories cinesi della prima metà del Novecento. La sua notorietà è determinata non solo dalla vasta produzione letteraria, decisamente prolifica (oltre 30 volumi), ma anche dall’interesse che continua a suscitare in ambito critico e storiografico. Le opere di Xiaoqing infatti offrono un prezioso contributo agli studi letterari comparativi e postcoloniali.

L’autore cinese è stato uno fra gli esponenti più brillanti di quella corrente letteraria meglio nota come ‘Mandarin Ducks and Butterflies’. Il termine rimanda a quella forma di letteratura popolare che caratterizzò la scena cinese nei primi anni del Novecento e che ha indicato il romanzo popolare dai contorni rosa e poco pretenziosi, diffuso soprattutto tra le classi meno abbienti. Tuttavia a cominciare dal 1920 una nuova generazione di giovani scrittori ‘The May Fourth movement’ adottò il termine per tutti i romanzi popolari vecchio stile e che, oltre all’amore, puntavano a provocare il pubblico ben pensante, moralista e convenzionale con trame audaci, d’avventura o poliziesche. Questi romanzi erano ad ogni modo destinati ad un pubblico di massa non certo elitàrio o accademico. La corrente letteraria finì col ricalcare il meno ambizioso stile da soap opera o pulp e pertanto gli autori del ‘May Fourth movement’ furono etichettati, a torto o ragione, come commerciali.

Questa stessa letteratura ben si prestò all’arte cinematografica per il Mingxing Studio che tra gli anni ‘20 e ‘30 costituì un nodo importante per la diffusione di una cultura massificata e che allo stesso tempo fosse in antitesi al cinema americano. Tuttavia Xiaoqing è l’esponente più noto e tradotto all’estero per la capacità di aver dato vita al genere Western detective alla Sherlock Holmes. Il protagonista di Sherlock a Shangai è ben inserito nel contesto orientale che l’autore non tradisce, creando una sinestesia tra Oriente e Occidente, ne evidenzia le tensioni e le atmosfere con un andamento narrativo che è proprio di quello orientale. Un microcosmo meraviglioso, tra due tradizioni importanti che si incontrano e dialogano, offre al lettore una di quelle magie che a volte si concretizzano sulle pagine migliori della letteratura.

Leggere un poliziesco ambientato in Cina, per di più negli anni Venti, rappresenta un inedito piacere per il lettore occidentale, avvezzo a ben altri canoni.

Nei sette racconti che compongono il lavoro di Xiaoqing, il detective Huo Sang e il suo assistente si misurano con altrettanti casi in cui deduzioni affrettate, per quanto logiche, potrebbero ingannare anche la mente più acuta. Il confronto con Conan Doyle è voluto, in quanto l’autore è un grande estimatore del padre di Sherlock Homes. La veste gialla, così, è un’opportunità, quasi un pretesto per mostrare limiti e contraddizioni della natura umana; il tutto inserito in un preciso momento storico, segnato da grandi cambiamenti: la tradizione si scontra con la modernizzazione e Shanghi diviene il teatro ideale per i misteriosi delitti.

Quello che più affascina è proprio la descrizione della metropoli e della sua élite raffinata e al contempo cinica. Nonostante gli episodi siano ricalcati sui misteri holmesiani, le azioni sono ridotte al minimo e alla lunga la prosa, minuziosa e disseminata di dettagli che non aggiungono nulla alla trama, si fa pesante.

Diverte, invece, confrontare il divergente punto di vista dei due investigatori, l’uno analitico e l’altro grossolano, vittima di intuizioni scontate e perciò erronee.

Xiaoqing coniuga l’intento narrativo con uno più prettamente didascalico, tipico di molta letteratura orientale, ed è proprio questo a nuocere alla buona riuscita dei racconti. Se da un lato l’autore vuole infatti stimolare un pensiero critico, dall’altro l’agire del suo alter ego desta perplessità e spesso appare fastidioso e saccente.

Il ritmo cadenzato sostiene l’approccio speculativo, ma richiede un po’ di tempo affinché si possa apprezzare in modo adeguato il testo. Per godere appieno di questo libro davvero singolare può quindi risultare opportuna una seconda lettura, contrassegnata da un atteggiamento differente verso una mentalità che non ci appartiene, ma che senza dubbio affascina.

 

 

Il gioco segreto del tempo, di P. S. Garnica

 

Giunse con tre ferite:
dell’amore,
della morte,
della vita.

Con tre ferite viene:
della vita,
dell’amore,
della morte.

Con tre ferite io:
Della vita,
della morte,
dell’amore

Con queste tre strofe del poeta Miguel Hernàndez viene introdotto Il gioco segreto del tempo, l’ultimo romanzo della scrittrice spagnola Paloma Sànchez-Garnica, che ha raggiunto il successo nel 2012 con la pubblicazione del suo terzo romanzo storico, La cattedrale ai confini del mondo, grazie al quale ha scalato le classifiche spagnole e italiane. Il gioco segreto del tempo narra la storia di due generazioni di uomini: coloro che sono vissuti in un periodo di grande sofferenza per tutta la Spagna, durante la guerra civile, e chi, ai giorni nostri, cerca di scavare in quel passato non troppo lontano per scoprirne i segreti e cercare di dare un senso a ciò che è accaduto.

“Quando tutto finirà… quando tutto finirà…” Queste sono le parole che nel 1936 Andrés Abad Rodrìguez imprime come un mantra nella sua mente, mentre guarda la fotografia ormai sgualcita della moglie, sdraiato sulla sua sudicia branda insieme al resto del battaglione, pensando a ciò che ha perduto e che forse prima o poi riuscirà a recuperare. La storia di Andrès e della moglie Mercedes Manrique Sànchez viene riesumata dalla polvere dei ricordi nel ventunesimo secolo da Ernesto Santamaria, aspirante scrittore squattrinato, per quella strana tautologia che vede il genio incompreso sempre relegato dentro una cornice modesta fatta di loft sporchi e disordinati e vite al limite. Ernesto, girovagando fra i mercatini dell’usato, trova una vecchia scatola dentro la quale vede la fotografia di Andrès e Mercedes, scattata nel 1936 nel piccolo paese di Mostoles. Da quel momento Ernesto comincia a scavare dentro al passato di quei due sconosciuti, intuendo la scintilla che può dargli l’ispirazione a scrivere il suo romanzo.

La narrazione de Il gioco segreto del tempo alterna passato e presente, le vicende di Mercedes che scappa dal suo paese dopo l’arresto del marito per andare a Madrid a nascondersi in casa del medico benestante Eusebio Cifuentes, e le indagini di Ernesto a ritroso nel tempo. Essenziale per lo svolgimento della trama è l’incontro e l’amicizia nata da subito fra Mercedes e Teresa Cifuentes, figlia di Eusebio, entrambe innamorate e tenute lontane dai loro uomini dalla guerra civile. Mercedes, incinta del marito, e Teresa, pecora nera della famiglia perché parteggiante per i “rossi” e fidanzata con uno di loro, Arturo, vivono una vita parallela alla famiglia Cifuentes, composta per il resto da avidi nazionalisti, arrivisti e sottomessi al regime, per cercare di ritrovare Andrès e uscire tutti indenni dal conflitto. Il desiderio di ricominciare e lasciarsi alle spalle il proprio passato si evince da questo passo del libro:

Il mio spirito ribelle, quello spirito che ho saputo assecondare solo quando sono riuscita a lasciarmi alle spalle tutto ciò che ostacolava la mia vita, e ho deciso di correre dei rischi per cercare qualcosa di meglio, per andare avanti, per guadagnare e anche per perdere perché la vittoria di ciascuno di noi si costruisce sulle rovine delle proprie sconfitte.

La storia di Ernesto si snoda fra indizi e intuizioni, nella migliore tradizione di Arthur Conan Doyle, con l’inserimento anche di elementi paranormali, mentre la storia di Mercedes e Teresa rientra nella migliore tradizione del dramma storico, genere molto diffuso in Spagna con Ildefonso Falcones, Maria Duenas e Carlos Ruiz Zafòn, quest’ultimo amante anche del mistero e dell’indagine a ritroso nella storia. I temi trattati sono molteplici: dalla condanna della guerra al tradimento e agli accordi sottobanco per sopravvivere nelle condizioni più difficili, dall’amore e i rapporti coniugali di quel periodo alla condizione della donna, non solo all’interno del matrimonio ma anche nelle gerarchie sociali. Le due linee temporali si uniranno con l’incontro fra Ernesto Santamaria e un personaggio principale della storia da lui narrata, e con la scoperta che la chiave del mistero sta proprio nella gravidanza portata avanti da Mercedes.

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