Perché “La scuola cattolica” ha conquistato lo Strega

L’8 luglio scorso, nella cornice dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, il presidente di seggio Nicola Lagioia (già vincitore del Premio Strega 2015 con La ferocia, edito da Einaudi), e Tullio De Mauro, presidente della Fondazione Bellonci, hanno proclamato vincitore del LXX Premio Strega La scuola cattolica di Edoardo Albinati, edito da Rizzoli, con 143 dei 395 voti espressi.

Perché La scuola cattolica ha “stregato” tutti

La scuola cattolica è un libro è composto dalla bellezza di 1.294 pagine. Una lettura impegnativa, ostica, difficilmente digeribile e assolutamente controcorrente rispetto alla tendenza contemporanea (non solo) italiana di puntare su scritti solitamente più agili e brevi, taglienti (anche se c’è da dire che 1.294 pagine sono tante in generale, e rari sono i casi nell’intera storia della letteratura). Allora perché La scuola cattolica è riuscita a strappare il primo posto in questa settantesima edizione del più prestigioso premio italiano, superando testi altrettanto favoriti (almeno secondo i rumors) come Il cinghiale che uccise Liberty Valance di Giordano Meacci (minimum fax) o Conforme alla gloria di Demetrio Paolin (Voland)?

Partiamo allora dalla trama per dare una prima risposta: Albinati racconta, almeno in prima battuta, delle vicende che hanno condotto al (tristemente) rinomato massacro del Circeo del 1975, durante il quale Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira hanno violentato, seviziato e massacrato Donatella Colasanti e Rosaria Lopez. Albinati parte proprio dagli ambienti in cui i tre ragazzi sono cresciuti: la scuola cattolica (appunto) maschile San Leone Magno e le strade del quartiere Trieste di Roma. Da qui, da queste vicende che l’autore/protagonista ha vissuto in prima persona in quanto compagno di scuola dei tre, il romanzo/saggio/confessione prende strade diverse, contorte e variegate, arrivando a toccare temi quali la famiglia, l’educazione cattolica, il rapporto col sesso; tutte questioni legate inestricabilmente tra loro e, al contempo, a un altro grande ceppo tematico: la società italiana del secondo dopoguerra, quella società in cui sono cresciute e si sono formate tutte le figure rilevanti che, nel bene o nel male, hanno contato e contano nell’Italia contemporanea.

L’Italia degli anni Settanta – che poi è anche l’Italia degli anni di piombo, quella in cui si formano le compagini di attività criminali come la Banda della Magliana, quella delle Brigate Rosse, quella in cui emerge con chiarezza il problema mafioso che solo uno o due decenni più tardi porterà alle stragi di Falcone e Borsellino e a Mani Pulite – è anche e ancora questa Italia, quella con cui facciamo i conti oggi. Anche se questi temi vengono solo toccati da Albinati, che ci concentra su altre vicende (quelle, appunto, legate al massacro del Circeo), è bene tenere a mente, per comprendere la grandezza e al contempo la complessità di questo testo, che tutti questi eventi così importanti nella storia del nostro Paese si sono formati nel medesimo calderone.

Al di là dei temi, poi, c’è da dire che il modo in cui Albinati ha scritto è parte integrante del “segreto” del suo successo al Premio Strega: l’autore ha scelto il metodo dialogico, e ha deciso che questo dialogo doveva essere col lettore, al quale si rivolge con maestria per dettare tempi, concessioni, pause e ricompense. Solo in un libro così strutturato l’autore può insistere quanto vuole su certe tematiche, consapevole che il lettore starà al gioco ma solo date certe premesse: «Abbiate pazienza» chiede a noi lettori «se proseguo qui per qualche pagina a parlare di famiglia. Se non scrivessi ancora qualche riga, se non ci ragionassi sopra con calma, i ragazzi di questo libro resterebbero incollati come figurine su grandi fogli bianchi».

La scuola cattolica è dunque un libro maestoso e grande; grande nel senso duplice del termine, come volume “tosto” da buttare giù ma, al contempo, che punta molto, molto in alto. Il suo obiettivo è infatti svelare al pubblico (a noi tutti) l’ossatura stessa di questa nostra società contemporanea, figlia ed erede di quel periodo storico in cui il testo è ambientato.

“Dalle rovine”di Luciano Funetta: ritratto di una società malata

Dalle rovine (Tunué) è il romanzo d’esordio di Luciano Funetta, autore classe 1986, e che fa parte del collettivo di scrittori TerraNullius nato nel 2003. Tra i finalisti del premio Strega 2016, elemento non da poco per un esordiente, Dalle rovine non si è ritrovato però tra i primi cinque.

Dalle rovine: la trama

Rivera è un collezionista di serpenti, animali a cui ha dedicato tutta la vita, e per i quali prova una passione decisamente singolare, ossia erotica. Dopo aver abbandonato moglie e figlio, infatti, Rivera si dedica a pratiche di autoerotismo, arrivando anche a filmarle. Un giorno decide di proporre in visione la registrazione al proprietario di un cinema a luci rosse: inutile dirlo, il filmato diventa subito virale e attira l’attenzione di un famoso produttore di film porno che si fa chiamare Jack Birmania, il quale propone a Rivera di girare tutto un film su questa inconsueta passione. Altri personaggi vengono coinvolti nella questione filmica: il regista alternativo Eugenio Laudata e l’attrice alle prime armi Maribel.

Tutto procede bene finché Rivera non entra in contatto con la sceneggiatura di un’artista visionario, tale Alexandre Tapia. La sceneggiatura, al limite dell’umano, ha come titolo proprio Dalle rovine. Questo evento, che si trova a circa metà del testo, trascina i personaggi della storia in una spirale discendente di follia, perversione e oscurità.

Fuoriuscire dalle rovine di una società malata

I riferimenti cinematografici e artistici sono impressionanti: alcune ambientazioni ricordano Dylan Dog, ma abbiamo scenari surreali e macabri che rimandano a Poe e Kafka, arrivando addirittura a far pensare al pittore Redon. Questo è uno degli elementi più che apprezzabili del testo, che rivela la grande cultura dell’autore. Altro elemento molto caratteristico, indicativo della sua grande capacità artistica, è lo stile: sempre adatto alla scena, sempre adeguato alla situazione. Praticamente assenti gli “scivoloni”, la scrittura è anzi coerente, coesa e solida.

Restano tuttavia molti dubbi a fine lettura. Dalle rovine è un testo che ha un incipit fortissimo, spiazzante, che cattura immediatamente l’attenzione del lettore contando su due elementi di forza: 1) la potenza espressiva evocata dalla “perversione” del protagonista; 2) l’uso di questo “noi” narrativo, che rimanda a spettatori/attori sempre presenti nella scena. Di questi due elementi, però, nel corso della lettura resta ben poco; o meglio, non si danno nel testo risposte o sviluppi ben precisi, poiché l’autore preferisce inerpicarsi – anzi, inabissarsi – nelle lande più mostruose e inumane della mente e della morale. Riguardo il primo punto, l’elemento dell’autoerotismo con i serpenti viene praticamente abbandonato: quella che sembra essere una promessa “forte” per il lettore viene delusa per tematiche diverse (tra cui alcune morti non proprio significative). Riguardo il secondo punto, invece, fino alla fine si cerca di capire chi siano questi “noi”: se inizialmente si può pensare a una mera tecnica narrativa (come l’uso della seconda persona singolare in alcuni testi sperimentali contemporanei), nel tempo questi “noi” assumono una forma un po’ più definita: «Noi ce ne stavamo in piedi, nei nostri vestiti troppo stretti, con le nostre cravatte ridicole, a osservare quella festa capovolta». Il fatto che questi “noi” si vestano con cravatte farebbe escludere elementi soprannaturali (il condizionale è d’obbligo però). Addirittura compiono azioni ben precise che intervengono nel testo, come quando, verso la fine, dicono a Rivera di gettare via una foto, e lui si rivolge direttamente a loro: «Chiudete la bocca – disse Rivera».

Ma di quella promessa/anticipazione fatta nell’incipit che subito cattura il lettore niente resta alla fine, se non un’enorme domanda: chi sono questi “noi” che sanno «cosa successe dopo a Rivera»?

“Final cut”, il marketing dei sentimenti

Final cut. L’amore non resiste (Fandango editore, 2015) è un romanzo di Vins Gallico (Portami rispetto) che è rientrato nella “dozzina” del Premio Strega 2015, piazzandosi però all’ultimo posto dietro XXI secolo di Paolo Zardi (Neo edizioni, 2015).

 

Final cut, ossia “darci un taglio” in amore

Dopo aver ereditato una cospicua somma dalla morte del nonno nel 2008, il protagonista, che resta anonimo per tutto il libro, apre la “Final Cut”, un’agenzia che si occupa di troncare le relazioni d’amore ormai terminate, di fatto sostituendosi in tutto e per tutto a chi si trova nella spiacevole posizione di dover dare spiegazioni e restituire oggetti più o meno simbolici. Dopo un lento avvio, il proprietario della “Final Cut” crea un vero e proprio prezzario, con tanto di tariffe e pacchetti differenziati: il servizio base prevede la semplice restituzione dei beni del “lasciato”; i servizi avanzati comprendono, invece, un “discorso di chiusura” e, nella versione completa, addirittura la possibilità di replica dell’altro.

Il socio unico della società usa i vari casi per studiare approcci di marketing sempre più mirati: ad esempio comprende quasi subito quanto l’empatia sia un elemento di rilievo per la riuscita dell’impresa. È proprio tramite questi casi che arriva a comprendere, lui che sui disastri amorosi ha costruito un business, cosa è andato storto nella sua relazione con Anita, una ragazza (sposata e con figli) che ha segretamente frequentato per anni fino all’inevitabile epilogo.

Delegare il dolore, la sofferenza, le responsabilità

L’agenzia “Final Cut” si occupa di sbrigare le noiose e dolorose pratiche derivanti dalla chiusura di un rapporto. Come il protagonista stesso ammette durante una conversazione con la sua miglior cliente, Mery:

La mia posizione è che uomini e donne oscillano fra presunzione e debolezza. Quando sono in coppia, a volte non reggono le difficoltà per mantenere il rapporto. Così alcuni preferiscono abbattere e ricostruire. Senza capire che è sempre lo stesso gioco. Chi è in coppia vorrebbe tornare a star da solo e vede nel partner un peso, un argine. Poi una volta da solo, non ha più forze“.

Ma la verità è ben più complessa:

Chi si rivolge alla Final Cut non lo fa solo per vigliaccheria, come credevo quando l’ho fondata, ma anche per incapacità a contenere la sofferenza, ad accettarla. Alcuni hanno bisogno di un’eutanasia, altri richiedono l’autopsia sul cadavere della loro storia d’amore“.

In una società consumistica, dove si può speculare su tutto, anche i sentimenti sembrano diventare quindi un oggetto di marketing, su cui fare studi e, soprattutto, affari. Come ogni oggetto in vendita, anche la “delega sentimentale” della “Final Cut” subisce gli alti e i bassi del mercato, e nella fattispecie questo elemento si mischia con l’ipocrisia tipica della società borghese più classica:

Avevo notato nei consuntivi aziendali che si verificava sempre un calo nelle due settimane precedenti al Natale. Probabilmente la gente non vuole trascorrere le festività in solitudine, oppure preferisce posticipare le separazioni a dopo l’Epifania per non rovinarsi o rovinare le ferie. Una simile tendenza a procrastinare l’avevo notata anche nel caso di compleanni o di impegni istituzionali“.

L’immersione del protagonista nello squallido mondo della “Final Cut” e della delega sentimentale lo ha portato ad alienarsi dai sentimenti. Durante tutta la storia non lo si vede mai socializzare ed empatizzare veramente con qualcuno: i clienti restano sempre tali, poiché è deontologicamente corretto essere scostanti, gelidi, aridi. Tutto ciò si nota anche quando Mattia, uno studente di marketing, si propone di studiare la “Final Cut” come progetto per la tesi: a fronte delle reazioni normali del ragazzo davanti al dolore dei clienti, il protagonista resta indifferente, e anzi lo redarguisce severamente, al punto di costringerlo ad allontanarsi definitivamente. Lo spiraglio verso un’umanizzazione del protagonista, dunque, si chiude con un naufragio totale.

È solo tramite la già menzionata Mery che il narratore riesce ad aprirsi un po’, sia verso se stesso sia verso la sua storia con Anita, conclusa solo in apparenza; questo aspetto lo si vede anche nell’uso dei tempi, su cui Gallico fa leva in una sorta di gioco metanarrativo: “Mi domando se Mery sia consapevole della netta separazione che esercita: quando cita Zeno coniuga i verbi al passato, mentre se parla di Nina il tempo torna al presente“.

Allo stesso modo, la storia viene narrata al passato quando si parla di altri clienti o della fondazione di “Final Cut”, mentre si passa al presente quando Mery è al centro della scena; questo a significare, probabilmente, la connessione fra Mery e Anita, ossia fra una cliente che non riesce mai a chiudere una storia d’amore, e la storia d’amore stessa vissuta dal protagonista.

Vins Gallico tratteggia con leggerezza, precisione e una notevole dose di nichilismo una società fortemente abituata a non affrontare le scelte e a non farsi carico delle conseguenze delle proprie azioni. “Final Cut” risulta un ambasciatore dei sentimenti, poiché è molto più semplice pagare qualcuno piuttosto che fare i conti con un viso colmo di dolore, il cui ricordo probabilmente ci perseguiterebbe nei sogni per gli anni a venire.

Premio Strega 2016: i dodici finalisti

Premio Strega 2016:i finalisti

Come ogni anno il Comitato direttivo del Premio Strega 2016 ha selezionato, tra i ventisette segnalati, i dodici libri presentati lo scorso 1° aprile dagli “Amici della domenica”. La Fondazione Maria e Goffredo Bellonci promossa da Liquore Strega con il patrocinio di Roma Capitale e il sostegno di Unindustria – Unione degli Industriali e delle Imprese Roma Frosinone Latina Rieti Viterbo, lavorano a questa nuova edizione del celebre Premio Strega. Il Comitato del Premio che ha selezionato i dodici libri, presieduto come sempre da Tullio De Mauro, è composto da Melania Mazzucco, Valeria Della Valle, Enzo Golino, Giuseppe D’Avino, Simonetta Fiori, Paolo Giordano, Alberto Foschini, Giuseppe Gori, Luca Serianni e Maurizio Stirpe. Come da tradizione ogni libro è presentato da due autori i libri in gara per questa settantesima edizione sono:

L’uomo del futuro edito da Mondadori di Eraldo Affinati presentato da Giorgio Ficara e Igiaba Scego.
La scuola cattolica edito da Rizzoli di Edoardo Albinata presentato da Raffaele La Capria e Sandro Veronesi
Dove troverete un altro padre come il mio edizioni Ponte alle Grazie di Rossana Campo
presentato da Valeria Parrella e Antonio Riccardi
Dalle rovine edizione Tunué di Luciano Funetta presentato da Lorenzo Pavolini e Luca Ricci
Le streghe di Lenzavacche di Simona Lo Iacono presentato da Paolo Di Stefano e Romana Petri
La reliquia di Costantinopoli edito da Neri Pozza di Paolo Malaguti presentato da Marcello Fois e Alberto Galla
Il cinghiale che uccise Liberty Valance edizioni minimum fax di Giordano Meacci presentato Giuseppe Antonelli e Diego de Silva
L’addio edito da Giunti di Antonio Moresco presentato da Daria Bignardi e Tiziano Scarpa
Conforme alla gloria edizione Voland di Demetrio Paolin presentato da Maria Rosa Cutrufelli e Elisabetta Mondello
La figlia sbagliata edizoni Frassinelli di Raffaella Romagnolo presentato da Fabio Geda e Giuseppe Patota
Se avessero edito da Garzanti di Vittorio Sermonti presentato da Franco Marcoaldi e Serena Vitale
La femmina nuda edizione La nave di Teseo di Elena Stancanelli presentato da Francesco Piccolo e Silvia Ronchey

Le presentazioni ufficiali dei 12 candidati si terranno sabato 30 aprile a Sanremo e il 5 maggio a Benevento. Non sfugge la presenza, anche quest’anno di una buona partecipazione di editori indipendenti. La prima votazione per selezionare la cinquina dei finalisti si terrà come tradizione a Casa Bellonci. Mercoledì 15 giugno ci sarà lo spoglio dei voti degli Amici della Domenica ai quali si aggiungono i voti di quaranta lettori forti selezionati da librerie indipendenti italiane associate all’ALI e i voti di venti collettivi espressi da scuole, università e Istituti Italiani di Cultura all’estero. La seconda votazione e la proclamazione del vincitore avverranno invece venerdì 8 luglio presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma.
La dozzina selezionata dal Comitato direttivo concorre inoltre alla terza edizione del Premio Strega Giovani. La giuria dello Strega giovani è composta da circa 500 ragazze e ragazzi, di età compresa tra i 16 e i 18 anni in rappresentanza di 50 licei e istituti tecnici italiani ed esteri. Il vincitore sarà annunciato lunedì 13 giugno alla Camera dei Deputati.

Come ogni anno auguriamo a tutti buona fortuna e, nell’attesa di scoprire il vincitore del Premio Strega 2016, iniziamo la lettura di questi dodici autori!

Premio Strega 2015: vince Nicola Lagioia

Ieri sera, nel suggestivo e oramai consueto scenario del Ninfeo di Villa Giulia, si è svolta la sessantanovesima edizione del Premio Strega. A presiedere il premio tra gli altri erano presenti il presidente della Fondazione Bellonci, Tullio De Mauro e Alberto Foschini, presidente di Strega Alberti Benevento. Il Comitato direttivo del Premio – presieduto da Tullio De Mauro e composto da Valeria Della Valle, Giuseppe D’Avino, Simonetta Fiori, Alberto Foschini, Paolo Giordano, Enzo Golino, Giuseppe Gori, Giovanna Marinelli, Melania G. Mazzucco, Edoardo Nesi, Luca Serianni, Maurizio Stirpe, aveva precedentemente selezionato dodici libri; nella la cinquina dei finalisti di ieri sera figuravano:

La sposa di Mauro Covacich (ed.Bompiani)
Storia della bambina perduta di Elena Ferrante (edizioni e/o)
Chi manda le onde di Fabio Genovesi (ed. Mondadori)
La ferocia di Nicola Lagioia (edizioni Einaudi)
Come donna innamorata di Marco Santagata (ed. Guanda)

“Constatiamo che in molti libri emerge in maniera originale ed efficace la drammaticità delle nostre vite e dei tempi in cui viviamo. E’ stato difficile scegliere e lasciare fuori autori e libri interessanti” ha dichiarato Tullio De Mauro.

Con un risultato quasi imprevisto e inaspettato ha vinto La ferocia di Nicola Lagioia. Lo scrittore barese si è aggiudicato il premio Strega con ben 145 voti . Al secondo posto si è classificato La sposa di Mauro Covacich, con 89 voti. Al terzo Storia della bambina perduta di Elena Ferrante, con 59 voti. Ed infine il quarto posto a pari merito, con 37 voti ciascuno è andato a Chi manda le onde di Fabio Genovesi che ha vinto lo Strega Giovani e Come donna innamorata di Marco Santagata. A presiedere lo spoglio dei voti è stato Francesco Piccolo, il vincitore dello scorso anno.

Lagioia ha esordito nel 2001 con Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj edito da minimum fax. Con il romanzo Riportando tutto a casa edito da Einaudi ha vinto nel 2010 il premio Vittorini, il premio Volponi e il Premio Viareggio.
L’autore racconta impietosamente con uno stile cinico ed elegante, da pellicola noir, ascesa e decadenza di una famiglia del Sud, e attraverso quest’ultima più in generale la violenza della nostra contemporaneità; il David Lynch del Meridione, come è stato definito, denuncia malaffare e corruzione, con precisione verosimile e sensibilità. Tra gioia e commozione Lagioia ha affermato di essersi ispirato a Twin Peaks, rievocando atmosfere di lynchiana memoria e ha aggiunto: «per scrivere La Ferocia mi ci sono voluti cinque anni. Non sono esistiti capodanni, né sabati o domeniche». Lo scrittore barese ha poi affermato di aver raccontato un Sud verticale dove la Puglia rappresenta l’Italia. «La Ferocia per me è un ritorno allo stato di natura, la legge della giungla da cui credevamo esserci affrancati, ma che riemerge in questo periodo di crisi. L’importante è fidarsi della letteratura – ha aggiunto – fai quel che devi, succeda quel che può, come ha detto Goffredo Fofi».

Ecco la sinossi del romanzo:

In una calda notte di primavera, una giovane donna cammina nel centro esatto della strada provinciale. È nuda e coperta di sangue. A stagliarla nel buio, i fari di un camion sparati su di lei. Quando, poche ore dopo, verrà ritrovata morta ai piedi di un autosilo, la sua identità verrà finalmente alla luce: è Clara Salvemini, prima figlia della più influente famiglia di costruttori locali. Per tutti è un suicidio. Ma le cose sono davvero andate cosi? Cosa legava Clara agli affari di suo padre? E il rapporto che la unisce ai tre fratelli – in particolare quello con Michele, l’ombroso, il diverso, il ribelle – può aver giocato un ruolo determinante nella sua morte? Le ville della ricca periferia barese, i declivi di ogni rapida ascesa sociale, una galleria di personaggi indimenticabili, le tensioni di una famiglia in bilico tra splendore e disastro: utilizzando le forme del noir, del gotico, del racconto familiare, scandite da un ritmo serrato e da una galleria di personaggi e di sguardi che spostano continuamente il cuore dell’azione, Nicola Lagioia mette in scena il grande dramma degli anni che stiamo vivendo.

Piero Chiara, narratore della vita di provincia

Pierino Angelo Carmelo Chiara, meglio conosciuto semplicemente come Piero Chiara (Luino, 23 marzo 1913) è considerato il poeta delle piccole cose, delle storie del “grande lago” che spesso funge da scenario per i suoi brevi e ben congegnati racconti. Narra la vita di provincia, i suoi sentimenti e le sue disillusioni senza confini, con uno stile venato di arguzia, di ironia, e a tratti di un  malinconico umorismo, sempre capace di cogliere l’essenza e il senso profondo nel quotidiano.

Piero Chiara ritrae la vita dell’alta Lombardia e dei cantoni svizzeri: una vita di frontiera, fatta di contrabbandieri, briganti e fuggiaschi, ma soprattutto della piccola borghesia, evidenziando non solo l’ambiente circostante attraverso accurate descrizioni, ma anche il carattere psicologico dei suoi personaggi.

Dopo aver trascorso l’infanzia in una casa situata nei pressi del porto di Luino, durante la quale manifesta presto gravi difficoltà in ambito scolastico, che hanno portato ad una bocciatura in terza elementare, l’anno successivo ottiene la promozione a patto che si ritiri dalla scuola pubblica. Nell’autunno del 1923 entra nel collegio salesiano S. Luigi di Intra, dove resiste fino alla quinta, quando i genitori lo trasferiscono al collegio De Filippi di Arona. Di nuovo respinto in seconda ginnasio, si impiega come apprendista nella bottega di un fotografo luinese. Fallito anche quest’ultimo, si iscrive all’istituto Omar di Novara, per diplomarsi perito meccanico. Prepara da privatista gli esami per la licenza complementare, che ottiene nel giugno 1929. Matura intanto una grande passione per la letteratura, che lo spinge a frequentare le biblioteche.

Dopo aver soggiornato a Roma e a Napoli, Piero Chiara decide di emigrare in Francia. Abita prima a Nizza e poi a Parigi, esercitando svariati mestieri. Rientrato nel 1931 a Luino, viene esentato dal servizio militare a causa della forte miopia. Si dà al biliardo, con lunghi soggiorni a Milano, dove frequenta le sale di lettura dell’Ambrosiana e di Brera.

Negli anni ’30 approfondisce la sua preparazione culturale: legge Charles Baudelaire, Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, i romanzieri francesi e russi dell’Ottocento, Boccaccio e il Lazarillo de Tormes e avvia qualche collaborazione con periodici locali, scrivendo soprattutto di arte.

Nell’aprile 1940 è richiamato alle armi. Qui abbozza la prima prova narrativa: Monte Solitario, un racconto fiabesco sulle peripezie di due fratellini orfani. Assegnato come scritturale al distretto di Varese, ai primi di agosto viene congedato e torna in cancelleria. Vicino ad ambienti antifascisti, viene accusato d’essere un ‘mormoratore’, deferito alla commissione per il confino ed espulso dal Partito nazionale fascista.

Dopo l’8 settembre il tribunale speciale provinciale fascista spicca un mandato di cattura nei suoi confronti. Il 23 gennaio 1944  Chiara passa il confine nei pressi di Luino e inizia un lungo pellegrinaggio nei campi di raccolta elvetici. Nel frattempo viene condannato in contumacia a 15 anni di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici. Da Büsserach, viene inviato a Tramelan, nel Giura bernese, e di qui finisce al campo disciplinare di Crête-Longue, nel Vallese. Rimesso in libertà nell’agosto, è destinato alle mansioni di bibliotecario nel Canton Ticino, dove collabora con lo spionaggio americano.

Nel febbraio 1945 l’istituto Montana di Zugerberg lo chiama alla cattedra di italiano, storia e filosofia grazie a Giancarlo Vigorelli. Attivo come mercante d’arte, instaura uno stretto sodalizio con l’artista pisano Giuseppe Viviani.

Piero Chiara diviene un conferenziere molto richiesto. Giornalista pubblicista, collabora con La Prealpina, Stagione, Costellazione, Ausonia e vari periodici di matrice cattolica. Poco dopo, dall’amicizia con Luciano Erba nasce l’idea di un’antologia in cui selezionare il meglio della giovane poesia italiana: Quarta generazione vede la luce nel 1954 nelle edizioni Magenta di Varese.

Per Chiara è arrivato il momento di approdare alla narrativa: raccoglie in memoria della madre da poco scomparsa, una serie di elzeviri e racconti pubblicati nel decennio precedente. Nel 1960 consegue a Pisa il premio Rustichello, per un elzeviro dedicato a Viviani uscito nel Gazzettino sera. Chiara compone Il piatto piange, che usce a Milano nella primavera del 1962 nella collana del «Tornasole». Il romanzo riscuote un grande successo presso pubblico e critica, conquistati dall’abilità dell’autore nel restituire abitudini e mentalità del Ventennio.

Inizia una stagione di riconoscimenti  per lo scrittore: al premio Internazionale Silver Caffè, segue nel 1964 il premio Alpi Apuane, vinto dal secondo romanzo, La spartizione, pubblicato sempre nel «Tornasole». Nello stesso 1964 Chiara si aggiudica il concorso indetto dall’Accademia del Ceppo di Pistoia, grazie a Il povero Turati. A consolidare la fama dello scrittore lombardo contribuisce «Mi fo coragio da me» (Milano 1963), una strenna stampata da Scheiwiller in cui riunisce alcuni racconti ispirati dalla figura del padre defunto. Nel 1965 esce un resoconto amaro, Con la faccia per terra con cui vince il premio Veillon.

Il terzo romanzo, il grottesco Il Balordo esce nella primavera del 1967, suscitando reazioni discordanti, compensate dalla vittoria al premio Bagutta e dal grande successo. In questo periodo giunge nelle sale cinematografiche Venga a prendere il caffè… da noi, il film con Ugo Tognazzi che Alberto Lattuada aveva ricavato da La spartizione.

Nel 1973 il nuovo romanzo, Il pretore di Cuvio viene sconfitto contro le previsioni al premio Strega. Balza tuttavia ai vertici delle classifiche di vendita, come La stanza del Vescovo (1976), premio Napoli. Chiara scrive per Dino Risi soggetto e sceneggiatura del film tratto dal romanzo, interpretato da Ornella Muti e Ugo Tognazzi.

L’umorismo di Piero Chiara non è di testa, né tantomeno intellettualistico e astratto, in quanto gli proviene da una natura congeniale alla materia della sua osservazione e alla realtà del costume. Per questo la sua Luino con la sua gente, i suoi preti, artigiani e operai e con le sue strade e viuzze brulicanti di un’umanità meschina e con il suo lago, le sue passeggiate e la trasparenza dei suoi stessi colori.

Natalia Ginzburg, “l’antifemminista”

(Palermo, 14 luglio 1916 – Roma, 7 ottobre 1991)

Natalia Ginzburg nasce a Palermo, il 14 Luglio del 1916 da una famiglia ebrea. Dopo aver trascorso il periodo della sua giovinezza a Torino, a soli 17 anni pubblica i suoi primi lavori sulla rivista fiorentina Solaria, uscendo così dallo quello stato di emarginazione in cui era vissuta per tutta la sua infanzia. Nel 1938 sposa Leone Ginzburg, professore di letteratura russa ed esponente dell’antifascismo clandestino. Vissuta con lui ed i figli in Abruzzo, al confino di polizia per antifascismo. Dopo aver tradotto Proust, nel 1942 pubblica il suo primo romanzo La strada che va in città, servendosi di uno pseudonimo per questioni di carattere razziale, rinunciando così alla sua identità. Da sempre vicina ai temi dell’antifascismo, sarà segnata profondamente dalla morte del marito avvenuta nel ’43, dopo atroci torture, a Regina Coeli,  a Roma, dove si era trasferita poco dopo la caduta del fascismo. Negli anni del dopoguerra, il suo lavoro come redattrice della casa editrice Einaudi a Torino, di cui era stata fondatrice, risulterà fondamentale per la sua formazione di donna, perché la Ginzburg era una donna dalla personalità controversa ma sempre attenta ai cambiamenti vissuti sulla propria pelle e a quelli di cui si faceva interprete la stessa società in cui si trovava immersa. Un donna sicuramente non convenzionale, senza abbellimenti, moglie e madre ma, prima di ogni altra cosa, sempre in prima linea in fatto di lotte e diritti, lei che desiderava “scrivere come un uomo”.

Frutto di riflessioni più mature, sarà, pochi anni dopo la morte del marito, il suo romanzo breve E’stato così;  anche se il suo lavoro più ambizioso resta Tutti i nostri ieri, scritto durante il suo matrimonio con Gabriele Baldini, quando si trasferisce nuovamente a Roma. Questo è anche uno dei suoi periodi più produttivi. La Ginzburg infatti è stata una scrittrice in grado di tenere il passo, capace di immedesimarsi nella vita di tutti i giorni, attraverso una minuziosa analisi psicologica collettiva, pur senza sentirsi affatto una psicologa. Una donna con una sua tristezza, legata agli ovvi motivi che noi tutti conosciamo ed una donna, senza dubbio, forte anche se, a volte, imperscrutabile. Ma cos’era, in fondo, per lei, il femminismo? Essere donna significava denunciare la drammaticità del ruolo femminile svincolandosi, però, da ogni differenza di genere. Posizione che per molti appariva forse anomala. Voleva scrivere e basta, senza essere né donna né uomo, stringere un patto esclusivo con la scrittura.

Una scrittura, quella della Ginzburg, che è una voce libera e fuori campo, con uno stile, invece, lineare e comprensibile che spiega e racconta l’impossibilità di salvarsi dai tormenti che affliggono l’uomo, costantemente inseguito dai fantasmi del passato e dal pensiero ossessivo della morte. Con lei potremmo dire che l’elegia si trasforma in tragedia e non lascia più spazio alle pause e alle tregue, un continuum del lamento che sempre accompagna i suoi personaggi e le vicende in cui sono implicati. Su questo sentimento corrosivo e malinconico nasce anche Lessico familiare, nel 1963, con cui vince il Premio Strega. Pensato come un “album di famiglia” in cui viene convogliato ognuno di questi suoi lamenti, qui Leone Ginzburg viene celebrato attraverso un suo ritratto appeso nell’ufficio di Giulio Einaudi e Natalia mostra il suo esplicito rifiuto verso le forme sterili dell’autobiografia ed i memoriali, dato che spesso se ne abusava. Nei suoi ultimi anni si dedica al teatro, ricordiamo infatti Ti ho sposato per allegria, collabora con il Corriere della Sera e si occupa definitivamente di politica, tant’è vero che viene eletta alla Camera dei Deputati, con il Partito Comunista Italiano, prima nel 1983 e poi nel 1987. Risale al 1984 la sua ultima opera La città e la casa. Una coerente scelta di vita la sua, fino alla fine. Muore a Roma il 7 Ottobre del 1991, da attivista,  lasciandoci il ricordo incommensurabile di una delle più grandi scrittrici del Novecento.

Le poche sterili parole della nostra epoca vengono strappate dolorosamente al silenzio. Abbiamo cominciato a tacere da ragazzi, a tavola, di fronte ai nostri genitori. Noi stavamo zitti per protesta e per sdegno. Eravamo ricchi del nostro silenzio. Adesso ne siamo vergognosi e disperati e ne conosciamo tutta la miseria, ma il silenzio può essere universale e profondo. Il silenzio può raggiungere una forma di infelicità chiusa, mostruosa, avvizzire i giorni della giovinezza, fare amaro il pane. Può portare alla morte. Perché il silenzio è un peccato, un peccato comune a tanti nostri simili nella nostra epoca, è il frutto amaro della nostra epoca malsana. (N. Ginzburg)

Guido Piovene, indagatore del declino umano

                                                              (Vicenza, 27 luglio 1907 – Londra, 12 novembre 1974)

Scrittore e giornalista italiano, Guido Piovene nasce a Vicenza nel 1907 da una famiglia di nobili. Si avvia senza indugi alla carriera giornalistica, incominciando a collaborare con <<Il Convegno>> e <<Pegaso>>. Nel 1935 entra a far parte de <<Il Corriere della sera>> (per il quale lavora come corrispondente estero a Parigi e Londra) per poi passare a <<La Stampa>>, del quale è collaboratore fino alla fondazione, con Indro Montanelli e altri, del quotidiano milanese <<Il Giornale>> (1974). Collabora più avanti anche con <<Solaria>>, <<Pan>>, <<Il Tempo>>.

Nel 1931 pubblica i suoi primi racconti: “La vedova allegra” e dieci anni dopo “Lettere di una novizia”.L’opera di Piovene varia dalla corrispondenza e dai servizi di giornalismo d’alto livello alle pagine di viaggio e di riflessione (in un secondo momento della sua produzione infatti, la sua attenzione si rivolge ai reportage di viaggio; ricordiamo a tal proposito il “De America” del 1953 e “Viaggio in Italia” nel 1957, una delle sue opere più famose), al racconto, al romanzo, è quella di uno scrittore- saggista formatosi a metà strada tra un cattolicesimo sensuale, dal sapore fogazzariana, e un illuminismo che si ispira ai moralisti e ai romanzieri francesi del Sei-Settecento; e fondendo queste due peculiarità in un suggestivo freudismo esistenzialista (riferendosi specialmente a Nietzsche).

Nel 1968 è presidente della giuria della Mostra internazionale del cinema di Venezia, ma la massima riuscita della mai dimenticata introspezione psicologica dei personaggi la ottiene grazie al romanzo del 1970 “Le stelle fredde”, dove una trama asciutta, ridotta all’osso fa da cornice ad un’acutissima analisi della morale.“Le stelle fredde”è stato insignito del premio Strega nello stesso anno, ricevendo consensi positivi anche dal pubblico.
Al centro delle riflessioni di Piovene, come si è accennato, vi sono il declino morale e quindi anche umano, l’aspetto psicologico,i costumi della provincia, un’ ambigua e repressa sensualità che nasce dal sentimento religioso. Sono tutti elementi che danno consistenza alla complessità del personaggio-io proposto dallo scrittore vicentino.

Tuttavia “Le stelle fredde” che insieme a “Lettere di una novizia” costituisce l’opera più nota di Piovene, offre diverse chiavi di lettura da quella psicoanalitica (sebbene in questo romanzo Piovene cerca di “purificare” la narrazione da risvolti psicoanalitici) a quella semiologica ed intertestuale, entrando a pieno titolo nell’incandescente territorio della postmodernità. Piovene riflette anche sulla condizione della mitografia occidentale che ha eseguito ormai il suo ultimo canto: il grande mondo umano non c’è più, al suo posto c’è il mondo della finzione e dei simulacri. Questa è l’amara constatazione del conservatore Piovene che dimostra tutta la sua sensibilità nell’indagare intorno al declino della morale i cui protagonisti hanno paura di conoscersi fino in fondo, preferendo condurre una vita misera basta su rapporti di convenienza.

Sottrattosi alle istanze ottocentesche dove il realismo la faceva da padrone, Guido Piovene riserva un posto ristrettissimo al suo anti-personaggio (protagonista assoluto del romanzo novecentesco) che descrive con uno stile essenziale, scarnificato, quasi a voler fare terra bruciata di tutti i generi letterari, per poterne creare di nuovi, in fondo solo distruggendo si può creare nuove forme. Lo scrittore è dissacratorio, ironico, sottile, mimetico, quando entra nel cuore delle situazioni, dei personaggi, delle storie, consapevole di appartenere ad un mondo culturale ormai sull’orlo della fine e di essere vittima anch’egli di quel declino umano. Questa presa di coscienza è soprattutto supportata dalla sofferenza di Piovene dovuta alla sua malattia che ne avrebbe causato la morte.

Di Ilaria Formisano.

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