“Lo sguardo di Gesù. Pagine di Misericordia” di Don Francesco Cristofaro è un saggio teologico scritto con un linguaggio semplice e immediato, accompagnato da una sentita prefazione di S.E. Card. Angelo Comastri. L’opera è divisa in tre parti: nella prima vengono presentati alcuni racconti tratti da brani dal Vangelo, nella seconda viene narrata la vita dell’autore, concentrandosi in particolar modo sulla sua esperienza con la fede, e nella terza vi sono delle preghiere da lui composte.
«Oggi, l’uomo è triste perché è senza Dio. Oggi il cuore dell’uomo è smarrito perché ha smarrito la verità del Vangelo, l’unica che lo possa salvare. Oggi l’uomo si vuole costruire senza Dio. Oggi l’uomo si vuole fare dio al posto dell’Onnipotente Signore. Grande, allora è la responsabilità del cristiano. Grande è la missione del sacerdote: costruire Dio nel cuore dell’uomo»
I brani scelti dal Vangelo sono incentrati su coloro che erano stati etichettati come peccatori, e che a un certo punto del loro cammino avevano incontrano gli occhi di Gesù, pieni di misericordia, e in questo modo si erano salvati – «Che cos’è la misericordia? È lo sguardo di Dio che ti penetra dentro fino a trasformarti totalmente perché tu ti lasci trasformare».
Per quanto riguarda la storia personale dell’autore, egli si confessa parlando della sua disabilità: Don Cristofaro è infatti nato con una paresi spastica alle gambe. Sin da bambino ha lottato per accettarsi e per farsi accettare dagli altri, subendo bullismo, pietismo ed emarginazione; poi ha compreso, grazie allo sguardo di Gesù che si è posato su di lui e che lo ha reso strumento di misericordia, che la disabilità non era un limite ma un dono, con il quale poteva manifestare le opere di Dio. È inoltre molto interessante, in questa parte dell’opera, il racconto dell’evolversi della sua vocazione, che ha conosciuto anche momenti di crisi: egli infatti si è allontanato da Gesù per paura di non essere all’altezza del suo compito, ma la chiamata ricevuta era una luce che continuava a brillare forte nel suo cuore. Ha così intrapreso la missione che da sempre lo aveva scelto, impegnandosi a mostrare al mondo il volto di Gesù – «Io mi sento un salvato, uno che è rinato, al quale viene chiesto di cantare la vita, di lodare le meraviglie del Signore. A volte, penso alle migliaia di persone che mi seguono. A me sembra di non fare nulla per loro. Poi ti scrivono e ti dicono grazie per il sorriso e, allora, capisco di essere servito a qualcosa».
SINOSSI DELL’OPERA. Leggendo le pagine del Vangelo, ci imbattiamo in tanti incontri e momenti di misericordia. La gente vede in Gesù uno che è diverso da tutti gli altri; uno che non ha timore di fermarsi, di ascoltare, di sedersi a tavola del peccatore, di toccare un lebbroso. Quando noi giudichiamo, etichettiamo, non facciamo altro che chiudere il nostro cuore alla misericordia. Guardiamo a Gesù e poi soffermiamoci per un istante a noi stessi. Che atteggiamento avremmo assunto noi dinanzi alla peccatrice colta in flagrante adulterio? Quanti sassi avremmo scagliato? E dinanzi a Zaccheo, a Matteo il pubblicano? Cosa avremmo fatto se si fosse presentato a noi il cieco mendicante, il lebbroso escluso dalla comunità o qualsiasi altro fratello bisognoso? In queste pagine scoprirete storie e volti, alcuni hanno un nome, altri sono senza volto e senza nome perché in quelle storie potreste esserci anche voi. Toccherete con mano la sofferenza, la voglia di riscatto e di cambiamento. C’è l’atteggiamento di Gesù, tutto il suo amore. Sarà un vero canto alla misericordia di Dio.
BIOGRAFIA DELL’AUTORE. Don Francesco Cristofaro è nato a Catanzaro il 10 novembre del 1979, ed è oggi parroco nella Parrocchia “Santa Maria Assunta” in Simeri Crichi. Ha conseguito la licenza in Teologia Spirituale presso la Pontificia Facoltà Teresianum in Roma. Conduce su Radio Mater la rubrica “Alla luce della fede” e su Padre Pio TV la trasmissione “Fatti per il Cielo”. Collabora inoltre con Tv2000 nella trasmissione “l’Ora Solare”. È stato opinionista nella trasmissione “Storie Italiane” di Rai 1 e contribuisce con servizi a tema alla trasmissione “Forum” di canale 5. Invitato in diverse città italiane per portare la sua testimonianza di vita, ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti. Tiene incontri di preghiera in tutta Italia e viene invitato a predicare a ritiri spirituali di carattere nazionale. È inoltre testimonial di eventi di carattere sociale, in particolare sulla disabilità. Ha scritto per il settimanale “Miracoli” e ha pubblicato diverse opere per Tau Editrice.
Viviamo in un momento storico dove l’apprensione morale per i diritti di libertà e uguaglianza è fortissima e anche plausibile, da una prospettiva secolarizzata, nondimeno la minaccia contro la quale bisognerebbe esprimere maggior preoccupazione coinvolge un orizzonte millenario molto più complesso, quello giudaico-cristiano. Il senso del Cristianesimo originalesi condensa intorno al camino della promessa di Cristo, la promessa escatologica della vita eterna.
Il giovane teologo ravennate, ed ex studente di economia ed insegnante di religione Tommaso Amadei, convertitosi alla fede cattolica dopo essere stato un ateo-anarchico con una certa coerenza politica “amorale”, incarna ciò che sosteneva l’esegeta eversivo Sergio Quinzio: l’invocazione del credente che non chiede infatti ciò a cui l’uomo ha astrattamente diritto, ma ciò che Dio, stabilendo un patto con Abramo e con il suo popolo, promette come ricompensa alla fedeltà, o come immensa misericordia.
Croce con cielo stellato, Mausoleo Galla Placidia, Ravenna
Il transumanismo di cui è impregnata la cultura occidentale è un’ideologia angosciante che promette un’esistenza di natura incerta ⎼ contro la promessa cristiana del rimedio ultimo all’inquietudine corporea.
Tommaso Amadei analizza in modo lucido e appassionato lo stato della Chiesa Cattolica e la concezione che oggi si ha del Cristianesimo, non lesinando critiche alla Chiesa e ponendo l’attenzione sull’impreparazione di molti sacerdoti e pastori, sull’importanza del corpo all’interno della riflessione sul Cristianesimo, influenzato dalla cultura ellenica, e sul concetto di dolore e alle sue declinazioni e derive ad esso collegate. Il masochismo ad esempio è una storpiatura della sofferenza e della sua accettazione.
Secondo Amadei il dolore è un promemoria: richiama costantemente e con forza ciò che siamo stati e che non siamo più, ciò che abbiamo perso, ciò che non stiamo più cercando ormai. La nostra prima innocenza, infranta nel peccato d’origine.
Il dolore, se opportunamente vissuto, è anche una strada: di crescita umana e spirituale.
Essere cristiani è una grande sfida, non crede che oggi il Cristianesimo venga visto banalmente come un qualcosa che in fondo non dà fastidio e di conseguenza considerato con indifferenza?
È proprio così: il mondo odierno (inteso, secondo l’accezione giovannea, come dimensione sottomessa al dominio di Satana) cerca costantemente di marginalizzare la Fede cristiana, perché la detesta e ne è nemico in ogni modo, in maniera più o meno consapevole, più o meno surrettizia. Il depotenziamento del Cristianesimo vive di una duplice spinta: interna ed esterna.
Esternamente, poiché il mondo farebbe di tutto per distruggere la Religione cristiana e non avendo potere sulla sua origine (ossia il Dio Triunico), esso cerca di distruggerne le espressioni storiche denigrando la Chiesa, Corpo mistico di Cristo, e corrompendone le membra, ovvero il popolo di Dio ed i suoi ministri e pastori. Vengono così operati un attacco ed una ridicolizzazione della fede, ritenuta vetusta, obsoleta, oscurantista e via dicendo; le superficialità che si sentono dire ogni giorno. D’altro canto, però, questa corruzione riesce a penetrare con una certa potenza nel tessuto ecclesiale, e ciò porta grandi ferite al popolo credente ed alla sua fede. Gli esempi, tragicamente, sono sotto gli occhi ed a portata d’orecchio di tutti.
Dal lato interno si può dire, con cuore pesante, che diversi strali del mondo hanno trafitto le coscienze di molti credenti, sia tra i laici che nel clero. La crisi è generalizzata, e tante sono state le riflessioni volte a lumeggiare questa situazione di degrado spirituale, e di conseguenza intellettuale e morale. C’è chi è riuscito a vederla arrivare da lontano, questa decadenza; sta di fatto, però, che certi impulsi intraecclesiali odierni sembrano assolutamente volti ad abbracciarla in tutto e per tutto. Un esempio a mio avviso inconfutabile, specie nel Cattolicesimo, è l’abbandono della catechesi del bello, ovvero mediante il bello: guardiamo all’architettura sacra contemporanea (e il più delle volte c’è davvero da chiedersi se si possa definire “sacra”, o non piuttosto il suo contrario); guardiamo all’aspetto musicale ed estetico della liturgia, santa Messa in primis. Sembra esserci una deliberata e totalizzante scelta del brutto, dello sciatto, dello squallido. La ridicolizzazione, a questo riguardo, viene operata da dentro. Questa è una perdita atroce e spaventosa. Mi si perdoni la crudezza, ma trovo che dalla richiesta di una Chiesa povera si sia giunti alla configurazione di una Chiesa poveraccia, miseranda.
Questo non è che un sintomo eclatante di un depauperamento sconvolgente dello spirituale e dell’umano che il Cattolicesimo sta vivendo da diverso tempo a questa parte.
Una cosa che noto, però, è che non appena viene esposta pubblicamente un’opinione sinceramente e pienamente cristiana, la mentalità dominante nella società occidentale spinge immediatamente a prendere misure restrittive a riguardo, o quantomeno a screditare fortemente una simile espressione di dissenso. A riprova del fatto che, in fondo, l’indifferenza è solo una facciata.
La cosa più importante che ha imparato studiando Teologia?
Credo di poter dire la cosa più importante che ho imparato nel corso di questi studi sia stata la comprensione della correlazione profonda tra la mia fede, le sue fattezze, la sua struttura, le sue sfumature e la mia vita presa sia nel suo aspetto quotidiano che nella sua globalità. Io sono molto lento a leggere ed a studiare di mio, ma questo si accentua quando mi pongo di fronte alla Sacra Scrittura, ai testi dei Padri e dei Dottori della Chiesa, dei grandi teologi vissuti lungo 20 secoli, perché mi sento come sprofondare nelle parole che incontro. Mi sembra di poter percepire la carne viva e pulsante della mia fede, fili luminosi ad intrecciarsi armoniosamente con la mia storia personale, il mio peccato, le mie perdite, le mie sconfitte; ma anche con le mie felicità, i momenti sereni e massimamente quelli in cui il respiro cattura un’aria che è altra, altra da tutto, e il trascendente si lascia percepire – i momenti della grazia, dell’epifania.
I miei studi mi hanno fatto percepire come la mia miseria e la mia abiezione siano state bagnate con dolcezza potente dal Sangue dell’Agnello. Qui c’è tutto il senso del perdono e della salvezza. Essi mi hanno permesso di appoggiare gli occhi dell’anima sul gran Sacrificio della Croce. Da qui ho saputo guardare con sguardo rinnovato le vite dei santi, la loro splendida comunione, l’unità profonda che intercorre tra essere umano ed essere umano nello scoprirsi figli di un unico Padre, una volta purificati in Cristo e toccati dallo Spirito; è a questo punto che ho notato che quei fili che si sono intrecciati con la mia storia raggiungono in realtà ogni storia, di ogni luogo e tempo. A volte ci rifletto, e mi viene da pensare che questa immensa trama formi come un meraviglioso arazzo, l’imperscrutabile piano di Dio.
È con queste riflessioni, scaturite dagli studi, che ho messo a fuoco una percezione ancestrale, tante volte ignorata: la vita è un abisso. Ora capisco che solo Dio ha la capacità di scrutarlo nella totalità della sua estensione. A noi chiede di abbandonarci a Lui in questo abisso.
Questo, credo, è ciò che di più importante ho imparato. Ora si tratta di viverlo.
Che tipo di educazione ha ricevuto, in quale contesto ed in che misura ha inciso il fatto di essere nato in Romagna?
L’educazione che ho ricevuto è stata eticamente, ma non religiosamente, cristiana; mi spiego: pur avendo ricevuto tutti i Sacramenti sino alla Confermazione, in casa non sono stato educato, almeno attivamente, ad una vita religiosamente attiva (ad esempio, con preghiere, letture bibliche e via dicendo). La mia famiglia ha sempre reputato importanti la dimensione religiosa e la questione della fede; tuttavia si sono sempre sentiti come a disagio ad impartirmi un’educazione esplicitamente cattolica, fatta eccezione appunto della frequentazione del catechismo il sabato pomeriggio e della ricezione dei suddetti Sacramenti. Ricordo una volta in cui mia madre mi disse che, se avesse potuto tornare indietro, non avrebbe esitato ad educarmi anche nelle cose della Religione. Per questo dico che l’impronta cristiana si poteva ritrovare più che altro nell’etica con cui sono stato educato: solo col tempo mi accorsi che, a tante cose che mi venivano dette essere giuste o sbagliate, sottostava un’ispirazione scaturita dalla Bibbia, in particolare dai quattro vangeli.
In generale, sono cresciuto in un ambiente abbastanza asettico dal punto di vista della Fede: non ne ho mai sentito parlare né dai miei amici, né dai loro genitori. Il catechismo ha avuto un’incidenza pressoché nulla nella mia visione religiosa. La Romagna ha tante belle testimonianze di fede e di santi straordinari; tuttavia, la mia percezione è che, a meno che non si frequenti l’ambiente religioso, sia difficilissimo entrare in contatto con esse nel quotidiano. Sono sepolte dalla polvere del tempo e della dimenticanza. È qualcosa che ho percepito più che altrove, forse perché ho passato qui la maggior parte della mia vita.
Indubbiamente l’ambiente in cui sono cresciuto ha influito molto, specie nell’indifferentismo e nell’allontanamento dalla Fede stessa. L’insignificanza che il fatto religioso ha nella vita di tanti, in particolare di una gran fetta di adolescenti, spinge ovviamente a prendere le distanze da esso quando si giunge in quell’età. A questo si aggiunse la tradizione anarchica e dissacrante di questa terra, che percepivo come una sorta di eredità politico-esistenziale. Mi ha sempre affascinato molto la storia romagnola di insubordinazione e refrattarietà, e questo mi portò ad una forte avversione alla Chiesa ed alla fede cristiana e religiosa in generale.
Negli anni, dopo la mia conversione, sento di aver integrato nel mio vissuto di fede alcuni elementi di quell’essere terrigno, anche se l’individuarli rappresenta un lavoro che va ancora affinandosi nel tempo. Al contempo, guardo i grandi santi della mia città e ritrovo quella bella sensazione di un’eredità ricevuta, pur di segno diverso, che è da preservare in qualche modo.
Come definirebbe il rapporto tra nobiltà e clero di una volta e quello odierno?
Premetto che non sono assolutamente un esperto di questo tema, in special modo della nobiltà odierna e men che meno sui suoi attuali rapporti col clero; ad ogni modo, mi par di capire che, specialmente dalla tarda antichità in poi, i legami tra papato/curia/episcopati e nobiltà si siano stretti sempre di più. Se questo, da un lato, è comprensibile a motivo della maggior possibilità di istruzione delle classi sociali più elevate, dall’altro ha indubbiamente creato grosse problematiche con nomine fatte ad hoc, per interessi di casata e via dicendo. Questioni che la Chiesa ha dovuto affrontare a più riprese e dalle quali è stata flagellata per secoli.
Oggi viviamo in un mondo in cui, comunemente, è difficile sentir parlare di titoli nobiliari, casate e dinastie, se non sui libri di storia; ancor più raro è incontrare persone che effettivamente li posseggono. So, più per sentito dire che per altro, che alcune famiglie nobili (o alcuni dei loro membri) intrattengono ancora rapporti con alcuni vescovi e cardinali; mi pare di capire, però, che si tratta più che altro di relazioni che vertono discussioni sulla Fede e sull’attualità. Sarò sincero: non ho nemmeno mai avuto l’idea di approfondire questo ambito, pertanto sono molto ignorante a riguardo.
Quello che posso dire è che, come in tanti altri casi, il rapporto tra clero e nobiltà è stato ambivalente: se da un lato, tra il X e l’XI secolo, la Chiesa ha dovuto patire due Papi indegni come Giovanni XII e Benedetto IX (nomine frutto degli interessi di casate aristocratiche dell’epoca), d’altro canto – in tempi recenti – ci è stato donato un Papa Pio XII da una famiglia nobile. Il problema scaturisce sempre quando all’umile accettazione e preservazione della Fede cristiana subentra la superba e parossistica ricerca del proprio tornaconto e dell’affermazione della propria volontà.
Dostoevskij diceva che l’uomo è attratto dalla sofferenza? Lei cosa pensa?
Non conosco Dostoevskij al punto di metter bocca sulla sua riflessione a riguardo del dolore; di certo posso dire di essere convinto del fatto che l’uomo ha un rapporto del tutto particolare con la sofferenza. Essa è un’esperienza, potremmo dire, “peri-originale”, in qualche modo vicinissima all’oggetto di quel nucleo di nostalgia che contraddistingue, più o meno consciamente, la nostra esperienza di vita su questa terra.
In questo senso, essa ci riporta nelle profondità recondite della nostra interiorità, l’imo della nostra anima. Forse mi sbaglio, e magari è solo una suggestione mia, ma talvolta penso che il dolore riesca a riportarci a considerazioni più ampie e tendenti all’Altro ed all’Altrove proprio a motivo di questa sua prossimità con il tempo ed il luogo prelapsari, rimasti impressi nella memoria spirituale dell’essere umano.
Il cristiano ha un legame ulteriore con la sofferenza a motivo della Passione e Morte del Signore Gesù Cristo. Egli sa che le sofferenze patite da Cristo sono salvifiche per lui e per tutta l’umanità passata, presente e futura. Con “salvifiche” non si intende semplicemente liberatorie rispetto al peccato; e nemmeno ci si limita a professare una semplice reintegrazione nello stato di vita originario edenico. Esse, infatti, sono anche elevanti: non solo Cristo ha preso carne ed anima umane nell’Incarnazione e le ha redente versando il Suo sangue sulla Croce, ma le ha addirittura glorificate mediante la Risurrezione, rendendo possibile a chiunque Lo accetti e Lo custodisca nel cuore l’accesso alla vita stessa di Dio nello splendore della Sua presenza. Io sono convinto del fatto che ogni essere umano, nella sua dimensione spirituale, percepisca questa meraviglia senza eguali, e forse anche per questo vive quella tensione nei confronti della sofferenza.
Da una prospettiva meno luminosa, invece, si potrebbe forse dire che l’uomo può subire la suddetta attrazione, spogliata del suo carattere soteriologico ed amorevole, a causa del degrado morale ed esistenziale in cui versa il suo abitare la società del XXI secolo. In questo caso il rapporto uomo – tribolazione è ambiguo e contraddittorio: nel mondo odierno, si è passati dal tabù della sessualità a quello del dolore, della morte e del limite; la sofferenza viene spinta ai margini della vita sociale ed individuale, come se fosse un’esperienza da evitare a tutti i costi, dal momento che la vita dev’essere esattamente come la vogliamo noi, senza spazio possibile per le sensazioni indesiderate. È la nostra volontà a dettare legge, in quest’ottica.
D’altro canto, però, si moltiplicano i comportamenti distruttivi ed autodistruttivi, permettendo una risacca di dolore incontrollata nella vita dell’uomo contemporaneo. Questo flusso di ritorno è però devastante, perché non risponde al summenzionato indirizzo naturale e soprannaturale della sofferenza.
Il movimento a spirale che induce un simile atteggiamento fa precipitare l’individuo in un meccanismo dal quale diventa difficile affrancarsi: il dolore, così vissuto, finisce per annientarlo. Bisogna assolutamente resistere a questa dinamica.
Studi teologici- in primo piano: numero quaderni Avallon rivista di studi sull’uomo e il sacro
La questione che pongono soprattutto gli atei esistenzialisti riguarda proprio il dolore, la sofferenza, eppure è inconcepibile per l’essere umano pensare ad un mondo privo di dolore. A cosa serve il dolore? Perché a volte ci piace essere masochisti?
Il masochismo è una storpiatura della sofferenza e della sua accettazione. Sono convinto non sia il modo autentico di vivere il dolore: il masochismo nasce quando si perde la capacità di comprenderlo, di comprenderne la natura, l’origine primaria (non tanto quella immediata, dunque), l’indirizzo, lo scopo. Questo nostro mondo, mi pare, ha l’enorme difetto di essere diventato incapace di soffrire come si deve, ovvero di vivere la sofferenza come mezzo, come transizione. Si rigetta totalmente l’idea di sacrificio, fondamentale per ogni ambito dell’esistenza umana e della sua esperienza, ed in questo modo rimane solo un dolore crudo, solitario, sperso. Forse, ci piace anche essere masochisti perché abbiamo imparato a vivere il dolore come traguardo e non come sentiero.
Personalmente, posso dire che il dolore è un promemoria: richiama costantemente e con forza ciò che siamo stati e che non siamo più, ciò che abbiamo perso, ciò che non stiamo più cercando ormai. La nostra prima innocenza, infranta nel peccato d’origine.
Il dolore, se opportunamente vissuto, è anche una strada: di crescita umana (emotiva, sentimentale, speculativa e così via), e spirituale: il dolore accettato ed offerto è croce che si integra nella Croce del Figlio amato. C’è una forte correlazione tra la sofferenza e la vita eterna in questo senso, e la prima esprime così tutta la sua potenza catartica.
Penso che il dolore serva a questo, anche se mi rendo conto che questa è una risposta assolutamente limitata.
In Memorie dal sottosuolo, sempre Dostoevskij sostiene che anche la persona più colta ed erudita possa essere abietta. Dunque la cultura, la conoscenza non bastano alla salvezza? E non è vero che chi compie il male lo fa perché non conosce il bene..
Purtroppo no, non bastano. Questa linea fu seguita con un impianto esoterico dallo gnosticismo: la conoscenza che salva, riservata a pochi. Il racconto genesiaco è qui letto al contrario: al Dio “cattivo” dell’Antico Testamento si contrapporrebbe il serpente, nel quale tutti i Padri della Chiesa riconoscono il Tentatore, il quale libererebbe l’uomo inducendolo a mangiare il frutto della conoscenza bene e del male; il frutto è dunque l’accesso ad una conoscenza celata.
Tralasciando l’aspetto esoterico-gnostico, similmente non è sufficiente avere una vasta conoscenza delle cose del mondo né per la salvezza, né per essere persone dedite alla giustizia ed alla verità, Dostoevskij ha ragione; ma nemmeno è bastevole la scienza delle cose di Dio in tal senso. Certo è che la conoscenza, qualsiasi direzione prenda, rappresenta la costruzione di un percorso privilegiato per l’affrancamento dalle spire venefiche di questo secolo; ma se essa è distaccata dalla consapevolezza di essere creature mortali e limitate e del fatto che vita terrena e vita eterna sono doni così come dono è la stessa conoscenza cui possiamo attingere e che possiamo fare nostra, allora difficilmente servirà a qualcosa di buono e di fruttuoso.
Che il male lo compia chi non conosce il bene può essere vero in parte: forse chi agisce malvagiamente non ha totale contezza di cosa sia il bene, forse la sua consapevolezza è offuscata in un determinato momento di debolezza. Non è detto però che non l’abbia mai conosciuto, mi viene da dire; sia ripensando alla mia personale esperienza, sia avendo in mente alcune storie di vita specifiche.
Forse, si potrebbe dire anche che chi compie il male difficilmente ha una piena coscienza di cosa sia il male stesso, quali le sue conseguenze ed il suo impatto sulla realtà globale della nostra persona.
Eppure, ho come il timore che ci sia chi sa riconoscere i due sentieri ed intraprende quello più buio con tutta la portata della propria volontà.
Ad ogni modo, su una cosa non ci sono dubbi: la carne è sempre debole, qualsiasi sia il peccato al quale si lascia andare. Viviamo avviluppati in un rovo di concupiscenza dal quale dobbiamo emanciparci, e questo non può che essere fatto con l’aiuto dello Spirito Santo. La conoscenza, che è compresa in uno dei Suoi 7 doni, è una conseguenza della potenza divina che può soffiare sull’uomo, se questi apre la porta del proprio cuore. Essa aiuta ad amare ancor più profondamente ciò che viene conosciuto e riconosciuto come buono, ed a respingere e detestare ciò che viene individuato come malvagio. Questa è la conoscenza che salva: la Sapienza di Dio.
“A ciascuno Dio ha concesso una certa misura di fede, cioè una convinzione di cose invisibili”, diceva il teologo e matematico Pavel Florenskij. Come si pone di fronte a tale affermazione?
Florenskij conosceva le Scritture e le scrutava seriamente. Mi chiedo se, nel dire ciò, avesse in mente anche la parabola dei talenti del vangelo di Matteo (Mt 25, 14-30), parallela a quella delle mine del vangelo di Luca (Lc 19, 11-27). Il Signore non dà lo stesso numero di talenti/mine a ciascuno dei servi, ma ne dà più ad uno e meno agli altri. Io penso che Dio abbia fin dall’eternità un piano perfetto per ciascuno di noi, benché uno possa essere meno eclatante di un altro.
Sebbene una simile idea possa sembrare ingiusta agli occhi dell’uomo (oggi forse qualcuno direbbe anche “discriminatoria”), non bisogna dimenticarsi che a sondare ogni cosa nella sua profondità più remota è solo Dio, e solo Lui capisce quale sia l’importanza, la centralità, la risonanza di ogni azione e di ogni storia. Pertanto, non dovrebbe stupire nessuno se a qualcuno è chiesto di credere fino a dove Dio ha voluto, più o meno che sia rispetto al suo prossimo. Solo il Signore conosce l’equilibrio perfetto di ogni cosa.
Inoltre, è interessante riflettere sulla fede come “convinzione di cose invisibili”. È oggi mentalità diffusa quella che fa corrispondere il non-visto al non-esistente, l’immateriale al non-essere. Questa prospettiva sta impoverendo e facendo appassire l’intelligenza umana del reale, troncando l’esperienza nella sua prospettiva più abissale: quella significata dal simbolo. La vita svuotata di questo oceano di senso finisce per risultare insensata e, di conseguenza, manipolabile.
Dio tutto ha disposto nella Sua sapienza. Bisogna imparare quindi ad accettarla, ad accettare la misura che ha voluto donarci: essa è la sola giusta per noi. Fuori di questo, c’è solo infelicità e disumanizzazione.
La scienza è la nuova religione nell’Occidente secolarizzato?
Più che la nuova religione di questo Occidente moribondo, direi che la scienza odiernamente intesa è uno dei suoi volti. Detta nuova fede si può forse definire come la religione dell’uomo: l’uomo che si autodivinizza, che si erge a “dio” con le sole proprie forze.
La storia di salvezza del Cristianesimo è la storia di come Dio Si è fatto carne per redimerci e permetterci di partecipare alla vita divina, in seno alla Santissima Trinità. Che l’uomo odierno cerchi di divinizzarsi da sé, più o meno consapevolmente, è la risposta satanica ed ingrata che egli restituisce al suo Creatore e Salvatore.
La scienza, oggi spacciata come unico sapere certo e definitivo (ciò che non è), diventa una delle bandiere sotto le quali sbraitare slogan preconfezionati e giustificare ideologie in modo assolutamente arbitrario. La cosa divertente è che lo scientismo ed il positivismo sono filosofie morte alla loro nascita; purtroppo, però, vengono ancora proposte popolarmente ed hanno grande presa. Questa non è una scienza al servizio dell’essere umano e della comunità. Piuttosto, essa è una scienza “antropoclasta”, un altare eretto alla religione umana sul quale sacrificare l’uomo all’ideale autodivinizzato dell’uomo, cosa che si configura concretamente nei modi più disparati.
Essa diventa dunque funzionale a questo nuovo credo, facendosi carico di fondare con un linguaggio rigoroso i suoi articoli di fede, i suoi dogmi. Forse parlo a sproposito, ma mi chiedo se non si possa equiparare al linguaggio metafisico usato dalla Chiesa fino a metà ‘900 per esporre la propria dottrina, almeno per quanto concerne questa sua funzione peculiare.
Non pensa che concepire la sofferenza come prova di fede, rappresenti una visione troppo limitata se non addirittura ingenua della presenza del male nel mondo? D’altronde nemmeno nel Libro di Giobbe non si dà una spiegazione alla questione..
Dipende dall’idea che abbiamo della prova di fede, mi verrebbe da dire. Se la si intende come un “test” fine a se stesso somministrato dalla Divinità per valutare le proprie creature, assolutamente sì. Se, invece, per prova di fede intendiamo prova d’amore, non la trovo una prospettiva limitata, seppur da comprendere ed integrare. Il dolore è conseguenza della nostra complicità col demonio, della nostra insubordinazione a Dio. La nostra vita non era pensata per essere sofferenza e tribolazione. Dal momento, però, che la nostra situazione è diventata questa, allora vedere nella sofferenza una prova di fede significa trovarle un indirizzo ed un significato profondo.
Il libro di Giobbe non ci scioglie la domanda sull’origine del male in maniera diretta, ma di certo ne sottintende la risposta (che è disseminata lungo tutta la Bibbia e, successivamente, nelle espressioni del Magistero della Chiesa attraverso la storia): la presenza di una misura di non-amore. Ecco la scintilla del grande sconvolgimento metastorico della ribellione luciferina contro Dio: la presenza del male nel mondo è comprensibile solo nell’ottica in cui all’amore sconfinato di Dio non si corrisponde con un amore caricato di tutta la forza ed estensione di cui si è capaci.
Ciò che ci insegna il libro di Giobbe è che, come detto poc’anzi, l’abisso di questa vita è scrutabile nella sua totalità solo da Dio. Pertanto, il dolore non va né ricercato, né respinto: quando arriva, va vissuto affidandolo ed affidandosi al Signore, offrendo tutto a Lui. Ciò non significa evitare le domande e le ambasce, e nemmeno significa arrendersi e crogiolare nel dolore che arriva; ma vuol dire accoglierlo da un’altra prospettiva. È così che Giobbe venne ristabilito nella sua fortuna, la quale viene addirittura raddoppiata rispetto al passato.
Qual è secondo lei il più grande problema che attanaglia la Chiesa? E quale dovrebbe affrontare in modo più deciso?
Mi sembra che, in assoluto, il maggior problema a soffocare la Chiesa oggi sia la gigantesca crisi di fede che sta vivendo. Non si tratta di una decadenza spirituale circoscritta a pochi preti; purtroppo oggi, in maniera più o meno velata, si vedono molti pastori e figure di riferimento ecclesiale esprimersi in modo imprudente ed impreciso, quando non mondano o addirittura eretico. Non è solo questione di impreparazione teologica ed umana; sembra che molti vogliano contraddire a priori la Tradizione della Chiesa e correre incontro al mondo a braccia aperte: si cercano costantemente punti di contatto e di vicinanza, di stima e di amicizia, ricerca che viene puntualmente disattesa. Non potrebbe essere altrimenti: lo spirito di questo mondo è tenebroso, rifugge la luce. Ce lo dice il Prologo di Giovanni: il mondo non lo ha riconosciuto, i suoi non l’hanno accolto. Il Signore che viene per distruggere le catene del nostro peccato e permetterci di accedere ad una comunione di vita con Lui trova resistenza, sempre l’ha trovata e così continua ad essere, oggi più che in altre epoche. Questa continua rincorsa dietro al mondo sta lacerando la fede del popolo credente, clero e laici. Si sentono dire cose inaudite. Quando la mentalità mondana entra nel Tempio di Dio, si rende necessaria una grande, tremenda purificazione.
A corollario, discende una serie di conseguenze devastanti dal punto di vista morale e sociale; quell’argine che la Chiesa ha rappresentato per secoli alle spinte demoniache nella società sembra cedere di proposito in alcuni punti. Il mondo guadagna metri, e con essi le anime che vi abitano. Questa è una tragedia immane.
Tutto questo relativismo nella fede crea terreno fertile per quella corruzione intraecclesiale di cui sopra, che oggi sembra serpeggiare con una potenza che si è vista raramente in altri momenti della storia.
Questa è la piaga che la Chiesa dovrebbe affrontare con maggior decisione. Così facendo, risanerebbe tanti sintomi che si manifestano a motivo di questa situazione.
Se parliamo di sintomi da contrastare, invece, sono convinto che il primo da eliminare con tutta la forza possibile, in quanto più disgustoso e disumano e distruttivo per il corpo e nocivo per l’anima, sia la questione degli abusi sessuali. Non è concepibile in nessun modo un fenomeno così assolutamente satanico; diventa ancor più inconcepibile se i colpevoli di una simile mostruosità sono sacerdoti o comunque esseri umani vicini agli ambienti di Chiesa, ovverosia quei luoghi in cui ogni persona dovrebbe trovare rifugio, conforto, riparo, comprensione, cura.
Un altro sintomo della crisi nella Chiesa, grave in maniera decisamente diversa rispetto a quello precedente, è la presentazione della vita come gioia, a tratti spensierata. Mi ha colpito molto la critica che Romano Amerio muove nella sua opera Iota Unum esattamente a questo riguardo (che fu per me, in adolescenza, motivo di allontanamento dalla Chiesa). Egli nota accortamente la descrizione che si fa della vita in orazioni antiche (si prenda l’esempio del Salve Regina: “valle di lacrime”), e come questa concezione sia tramutata ultimamente a causa di un atteggiamento che ha i tratti della superficialità e del distacco dalla realtà. La visione edulcorata del mondo tratteggiata da una certa omiletica e da un certo filone comunicativo cattolico (e mi pare di capire che la cosa non si limiti all’ambito cattolico) mi sembra sia stata veramente deleteria per la nostra società. Credo che sia molto più onesto e fedele allo stato delle cose in questa dimensione immanente dipingere l’esistenza così come risalta, tanto per menzionarlo nuovamente, nel libro di Giobbe, al capitolo 7: «Non ha forse un duro lavoro l’uomo sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario?».
La vita è soprattutto affanno, guerra. Le potenze infernali ci muovono costantemente battaglia in molti modi diversi ed in innumerevoli circostanze differenti, e questo per guadagnarsi la nostra rovina ed il nostro distacco eterno da Dio. Dovremmo parlarne ogni giorno, per non scordarcelo mai. Invece si fa l’esatto contrario, ed è così che si diffonde l’idea che la vita debba essere costantemente piacevole e che le difficoltà siano da estirpare alla radice, e non piuttosto da vivere in Cristo per la nostra santificazione.
In questo contesto, nemmeno la morte viene più presa sul serio. Sembra quasi che l’Inferno quale estrema conseguenza del peccato e massima espressione tragica del libero arbitrio abbia cessato di esistere nella predicazione di tanti preti, a discapito della salute di molte anime.
Ad ogni modo, è ovvio che nessun cristiano può ignorare la promessa fatta dal Signore Gesù Cristo e che leggiamo alla fine del vangelo di Matteo: Egli sarà con noi fino alla fine del mondo. Per fede sappiamo che la Chiesa non può finire, per quanto sia estesa e buia la sua crisi.
Quali sono secondo lei le più grandi contraddizioni del nostro tempo che solo la fede può risolvere?
È una domanda molto bella e gigantesca, pertanto la risposta non potrà che essere parziale. Io credo che l’uomo, privato della fede, e ancor più mutilato nella sua dimensione spirituale (negata oggi dalla mentalità dominante), si ritrovi disorientato e nudo di fronte ai baratri della vita, ovvero quei momenti nei quali il quotidiano collassa su se stesso e ci si accorge più facilmente dello spessore della nostra esistenza. Corriamo sempre il rischio di ridurre il quotidiano a banalità: così non è. Intravedere e leggere in ogni cosa la presenza di Dio polverizzerebbe l’insensatezza nella quale la concezione occidentale della vita sta sprofondando a causa dell’assenza di Dio nella società. Questa forse è, a mio avviso, la più grande contraddizione: l’impegno profuso per costruire qualche cosa nella mancanza di un senso oggettivo e trascendente, con la prospettiva di un annullamento totale di ogni slancio ed azione nel vuoto annientatore della morte. Che senso avrebbe quindi prodigarsi nel rincorrere un successo sfrenato, costruire un’immagine di sé piena di mondanità, ricercare il divertimento perpetuo e fine a se stesso? Ma allo stesso modo, che senso avrebbe impegnarsi a costruire una famiglia, relazioni di senso, stabilità ed equilibrio? Che senso avrebbe la ricerca, sia essa scientifica o filosofica? A che pro lasciare un’impronta nella storia, quando questa non diventa che una scatola chiusa, una grande prigione che non lascia sperare in prospettive ulteriori?
Con l’estromissione di Dio dalla vita dell’uomo, quest’ultima diventa un giochino senza valore che tentiamo disperatamente di imbastire ed adornare, pretendendo di conferirle un senso che possa sussistere in qualche modo. E come potrebbe? Noi siamo mortali, limitati nello spazio e nel tempo, finiti, corruttibili. Ogni cosa che tentiamo di creare da noi stessi ha le medesime nostre fattezze, ed ogni senso che possiamo provare ad approntare, se slegato da Dio, non sarà che un angosciante tentativo di scaricarci del peso insostenibile di un’esistenza che ha così perso direzione e consistenza propria, divenuta soltanto cieco ripetersi di giornate fini a loro stesse, di gesti e pensieri fini a loro stessi, intrappolati in questo vortice di vuoto che proviamo invano a riempire. Questo è il nichilismo che oggi ci divora, e l’aspetto peggiore è che, in larga parte, esso sta diventando sempre più meccanismo inconsapevole. Non è più una scelta oppositiva attiva ai valori diffusi come poteva esserlo una volta, ma è assurto ormai ad atteggiamento dominante nell’Occidente contemporaneo. Nietzsche non sbagliò nel suo ammonimento: ciò che andava dicendo non era che la “profezia” sui due secoli che sarebbero seguiti.
Perciò l’ateismo propositivo che oggi viviamo e vediamo diffuso in ogni dove è pura follia ed incoerenza. È fondamentale che il cristiano segnali le anomalie del presente, che renda onore al suo compito profetico nella società.
Lei insegna religione, quali sono le domande che le fanno più spesso e qualcuna l’ha messa in difficoltà?
L’interrogativo che mi è stato posto in ogni classe, trasversalmente a ciascuno dei cinque anni delle superiori nei tre istituti in cui insegno, è stato: «Perché insegna religione? Perché crede?». L’idea che un ventisettenne possa interessarsi a tal punto del fatto religioso da studiarlo e farne un lavoro incuriosisce molto i ragazzi, abituati come sono perlopiù all’assenza completa dell’aspetto spirituale nell’ambiente in cui vivono.
Le domande che tornano più frequentemente si possono ascrivere a due categorie diverse: quelle etiche e quelle metafisiche. Per ciò che concerne quelle etiche, i temi che tornano di più sono naturalmente quelli che impegnano odiernamente le discussioni politiche e bioetiche maggiormente diffuse: aborto, eutanasia, diritti civili.
Quelle di stampo metafisico riguardano invece l’onnipotenza e l’onniscienza di Dio: come fa un Dio onnisciente e che può tutto a non frantumare la libertà umana? Una questione molto dibattuta anche a livello filosofico, nell’ambito della teologia razionale.
Personalmente, la domanda che mi mette sempre in difficoltà, emotivamente parlando, è quella sulla sofferenza innocente. Perché Dio permette che l’innocente patisca a volte anche in maniera intensa? In particolare i bambini. È un interrogativo straziante, che colpisce sempre con potenza; di fronte al dolore dell’indifeso, che stravolge l’animo umano, spesso mi ritrovo a balbettare e a far fatica, perché metterci bocca significa toccare corde delicatissime. Il timore non sta tanto nella possibile reazione dell’interlocutore, quanto nell’idea di poter mancare di rispetto, di essere indiscreti o di essere non volutamente irrispettosi verso qualcosa di così abissale.
Non esiste nessuna religione come il Cristianesimo che stimi il corpo, eppure alcuni affermano ancora oggi che il cristianesimo, fondato sull’incarnazione, disprezza la carne. Tale convinzione può essere dovuta all’influenza esercitata da Sant’Agostino, che recuperò Platone, piuttosto che da San Tommaso d’Aquino?
Indubbiamente, se una radice ha da ricercarsi in questa storpiatura, essa si troverà nell’impianto platonico assunto da sant’Agostino e nella corrente da lui scaturita. Non che sant’Agostino condividesse acriticamente le conclusioni antropologiche sul corpo proprie di platonismo e neoplatonismo; semplicemente, questo Dottore della Chiesa ne utilizzava il linguaggio e gli strumenti filosofici, cercando di adattarli al dato cristiano. Una lettura attenta delle opere di sant’Agostino è più che sufficiente a sciogliere ogni fraintendimento.
San Tommaso d’Aquino, avendo saputo raccogliere il meglio delle filosofie aristotelica e platonica per metterlo a servizio del dato di fede cristiano, non avrebbe mai potuto disprezzare il corpo, come invece è potuto avvenire quando l’influsso platonico ha potuto prendere il sopravvento sulla riflessione teologica lungo la storia.
Forse sbaglio io, forse sono io a non avere una visione globale della questione per com’è affrontata da questo o quell’autore in particolare, ma non credo che tale convinzione sia da ascriversi a sant’Agostino o a qualche altro Dottore della Chiesa; credo che essa discenda piuttosto da una lettura superficiale ed una comprensione parziale dei loro scritti, e nello specifico di quelli agostiniani.
I problemi nascono quando i teologi amano più la loro creazione speculativa (ed i suoi specifici strumenti filosofici) piuttosto che l’integrità del dato di fede scaturito dalla Rivelazione. In questo senso, potremmo dire che la tendenza al disprezzo del corpo nasce in una ricerca teologica degradata, che si è lasciata sopraffare dalle categorie filosofiche che andava utilizzando di volta in volta per approcciarsi in maniera rigorosa e razionale ai suddetti dati di fede.
È verissimo: il Cristianesimo stima il corpo, e ciò è dimostrato non solo dal fatto che il Signore Dio nel libro della Genesi afferma che l’essere umano è creazione “molto buona”, ma anche e soprattutto a motivo dell’Incarnazione (come segnalato già nella domanda) e della Risurrezione, che comprende anche il corpo, pur trasfigurato. La prospettiva di un Dio che assume la corporeità umana spazza via qualsiasi idea di disprezzo del corpo in sé. Il cristiano, piuttosto, del corpo disprezza le conseguenze della ferita del peccato originale: la concupiscenza, gli appetiti bassi, le tensioni disordinate.
Tertulliano scriveva che la carne è il cardine della salvezza. Qualsiasi tentazione tesa a svalutare il corpo in sé non può e non deve trovare spazio in qualsiasi teologia che voglia essere pienamente cristiana.
Sotto il sole di Satana, pubblicato nel 1926, è l’opera prima dello scrittore francese Georges Bernanos. Secondo il teologo Hans Urs von Balthasar, che dello scrittore francese fu amico ed ammiratore, «nonostante tutte le debolezze resta la sua opera più acuta ed anche la chiave per interpretare le altre»
Bernanos aveva letto la vita di san Giovanni Maria Vianney, il Curato d’Ars, e ne era rimasto affascinato. Il santo, al quale per poco non era stata rifiutata l’ordinazione per le scarse capacità intellettuali, aveva tuttavia scosso la sua epoca.
Aveva attirato una folla incredibile di persone al suo confessionale, predetto il futuro, guarito i malati, letto nei cuori, aveva lottato a tu per tu con il diavolo che per la rabbia gli aveva incendiato il materasso. Il Curato d’Ars aveva, dunque, affascinato lo scrittore per la pura semplicità del suo cuore di bambino per la quale egli amava solo Dio e le anime dei peccatori.
Con il suo romanzo, Bernanos voleva rappresentare un umile parroco di campagna al centro del XX secolo. Non voleva certo riproporre pedissequamente la biografia di Giovanni Maria Vianne, bensì ritrarre i suoi lineamenti principali in decisa opposizione al conformismo religioso e all’ateismo della scienza.
Voleva, infine, liberarsi delle proprie paure addossandole a padre Donissan, il protagonista del suo romanzo. Sotto il sole di Satana viene riproposto ai lettori nell’anno che Benedetto XVI ha voluto dedicare al sacerdote. L’intento non è certo quello di opporre un modello sacerdotale alternativo ai preti dei nostri tempi.
Si vuole evidenziare, invece, l’attualità di alcune tematiche care a Bernanos: il peso del male sulla scena del mondo e nella storia di
ogni uomo; l’ansia di liberarsene fino all’autodistruzione; il desiderio della confessione; la ricerca incessante di Dio che ai fedeli, più ancora dei non credenti, non dà tregua.
Sono tematiche, evidentemente, che non interessano solo i sacerdoti. Secondo Bernanos, tuttavia, non se ne può venire a capo senza di loro. Per questo il volume è diretto a tutti i lettori in ricerca di Dio ed è una scossa per quanti conducono una vita lontano da lui. Nello stesso tempo è un inno di riconoscenza ai sacerdoti, più o meno deboli, più o meno santi. «È terribile cadere nelle mani del Dio vivente».
Quanti frettolosamente si affrettano a criticarli per le loro mancanze e i loro difetti, dovrebbero ugualmente tener conto del compito impossibile che grava sulle loro spalle. Carlo Bo, concludendo il saggio introduttivo con il quale presentava Bernanos per il Meridiano a lui dedicato, scriveva che «l’innesto di una fede nel giuoco del romanzo non ha portato a un indebolimento, a una corruzione del romanzo stesso, bensì a un suo rinnovamento».
Solo uno sciocco può stupirsi del brusco slancio di una volontà a lungo trattenuta e che una dissimulazione necessaria, appena cosciente, ha già improntato di crudeltà – rivincita ineffabile del debole, eterna sorpresa del forte, tranello sempre in agguato! C’è chi s’impegna a seguire passo passo, nei suoi meandri capricciosi, la passione, più potente e inafferrabile del lampo, e si compiace di essere un osservatore attento, mentre degli altri non conosce che il riflesso della sua povera smorfia solitaria.
I sentimenti più semplici nascono e crescono in una notte inviolata, vi si confondono o respingono secondo affinità segrete, simili a nubi cariche di elettricità, e sulla superficie delle tenebre non possiamo scorgere che i bagliori dell’inaccessibile tempesta.
Richiesto di spiegare il suo romanzo Bernanos rispose in una conferenza: «Una visione cattolica del mondo». E ancora più concisamente: «Satana e noi». Non è una sfida per i contemporanei che ritengono di poter sottovalutare il male, anzi di ignorarlo? Da questo punto di vista Sotto il sole di Satana ha molto da dire proprio nel nostro tempo, sebbene alla sua uscita destò sorpresa perché mentre la maggior parte degli scrittori, durante il Novecento si occupava di tematiche modernissime, Bernanos sceglieva una tematica antimoderna dal punto di vista strettamente letterario, parlando di Dio e di religione in un romanzo.
Mouchette Marothy, una ragazza comune, volgare eroina del piccolo mondo borghese e provinciale, è un’assassina, un’anima silenziosa, solitaria, glaciale, il capolavoro di Satana. Nessuno sospetterebbe di lei, ma un povero prete di campagna, un rozzo vicario alquanto goffo e ignorante, a volte persino ridicolo, intuisce lo stato di peccato dell’anima della giovane e cerca invano di ricondurla al bene.
Nel romanzo ci sono dunque due protagonisti: nella prima parte del romanzo la protagonista è una ragazza sedicenne decisa a godersi la vita, ma che riesce solo a cadere dalla padella alla brace nei suoi amori e a illudersi di avere il controllo dei guai in cui si va a invischiare; nella seconda parte del romanzo troviamo il futuro parroco, giovane imbranato e volenteroso, dotato per i lavori manuali più che per gli studi, che mortifica la carne e al contempo sospetta, di avere dono particolare, di vedere il cuore dell’uomo. Tuttavia l’uomo è confuso, non riesce a capire se tale dono o fardello gli venga da Dio o dal Satana.
La distinzione tra bene e male sembra virtuale e illusoria, è così sottile che a volte ci si chiede se valga la pena cercare il bene quando è quasi impossibile riconoscerlo o impedirgli di cambiare volto all’improvviso come nell’ultimo mezzo miracolo. La volontà di bene dell’uomo non è sufficiente a metterlo al riparo dal male.
Il romanzo inizia con la storia della ragazza, che sembrerebbe la protagonista ma con il tempo l’attenzione si sposta del tutto sul futuro parroco e la ragazza diventa un personaggio secondario e scompare con tutto il suo mondo. Bernanos sembra voler ragionare al posto di Dio, interpretare il suo piano, lasciandosi andare a ragionamenti ingarbugliati, congetture, pensieri abissali.
Dopo l’incontro col male, il curato si dedicherà alla confessione dei fedeli con zelo e amore verso il prossimo, senza giudicare i peccatori, ma prendendo su di sé questo fardello, avvicinandosi così al vero ideale di santità.
L’attualità di Sotto il sole di Satana è quanto mai palese in questi tempi in cui chi si sente più cristiano di altri, più vicino a Dio, perché da un pulpito emette giudizi sul prossimo. Nel libro è messo vigorosamente in evidenza come il male si annidi nella vanità, soprattutto di certi alti prelati, convinti di sapere già ogni cosa, di essere favoriti da Dio per la loro “solare” erudizione. Il Male dunque non è associabile sempre al buio, a qualcosa che ci sfugge ma al Sole come recita il titolo del romanzo, al visibile.
Bernanos ha tutto il talento e la capacità dei grandi narratori francesi, nel costruire i suoi scenari in modo mirabile, con veloci pennellate di colore, scuro e denso, lasciando filtrare tra le immagini il gusto amaro del dolore e spesso dello sconforto, senza descriverlo, ma lasciandolo aleggiare tra le pagine del romanzo in cui sembra non accadere nulla di eccezionale, e mostrando invece che il prodigioso risiede proprio nella quotidianità.
Domani giovedì 29 luglio, alle ore 18,00, presso la sede provvisoria dell’Istituto di Cultura “Torquato Tasso” il prof. Guido D’agostino terrà una conferenza sul «Filo rosso della storia di Napoli», moderato da Aniello Clemente.
Come si coniugano Storia e Teologia? «La resistenza non è solo dei civili ma anche dei militari. Ricordare più che un dovere è un diritto. Non bisogna dimenticare», queste parole sono dell’illustre ospite.
La lunga storia del Mezzogiorno e di Napoli il prof. Guido D’Agostino l’ha studiata avendone una visione storiografia che privilegia l’impostazione rivoluzionaria. Cioè esiste una ricostruzione legata dal filo rosso delle manifestazioni dettate dalla voglia di contare, di non subire passivamente, del dire un «no!» fermo a quello che non è sopportabile.
Ecco dove s’innesta l’unione Storia e Teologia. La realtà dell’uomo è stata da sempre al centro della riflessione teologica. Il suo destino, la grandezza dei suoi orizzonti e le pur immancabili cadute, la sua complessa e problematica compagine strutturale hanno da sempre interrogato la coscienza dei credenti e degli atei: «Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, e il figlio dell’uomo perché te ne curi?» si chiedeva già il salmista alcuni millenni or sono meditando sulla finitezza dell’essere umano dinanzi ad un immenso cielo stellato (cf. Sal 8,4-5).
Uomo che quando prende coscienza di sé, deve anelare alla libertà. Nel 1507 la monarchia intende impiantare nel Regno l’Inquisizione “alla maniera di Spagna”, ma il popolo insorge e il re è costretto a ritirare il proclama. Quarant’anni dopo don Pedro de Toledo, detto “il viceré di ferro” (il re era Carlo V), decide di chiudere le Accademie ma il popolo e i nobili si ribellano e proprio questo fa in modo che l’iniziativa fallisca.
Nel 1585 l’assessore all’Annona (vettovaglie) aumenta il prezzo del pane senza immaginare minimamente le conseguenze di tale folle proposta. Nel luglio del 1607 sorge un capopopolo: Tommaso Aniello detto Masaniello. Di contro, caso più unico che raro è la rivolta del 1701 detta la congiura di Macchia, che prende il nome da Gaetano Gambacorta, principe di Macchia, con cui la nobiltà napoletana tentò senza successo di rovesciare il governo vicereale spagnolo, durante la crisi successoria che si verificò in seguito alla morte di Carlo II di Spagna con l’estinzione del ramo spagnolo degli Asburgo.
E giungiamo alla rivoluzione del 1799 che rappresenta nella storia di Napoli e del Mezzogiorno il salto nella Modernità culturale e politica, come se si scoprisse anche da noi il 1789 come fu per la Francia, e a proposito dice un grande storico francese che per capire meglio il 1789 bisognerebbe andare a vedere quei dieci anni dopo nella realtà napoletana.
Il Colloquio è in concomitanza con le celebrazioni del 20 agosto che ricorderanno i martiri napoletani. Scopo della conferenza è ricordare che è vero, che spesso le nostre battaglie finiscono come quelle di Cefalonia, nell’isola greca, infatti, ci fu un episodio di resistenza, che finì male: i tedeschi fecero una strage, furono migliaia i soldati uccisi.
Ma dobbiamo ricordare che la nostra guerra sarà vinta se ricordiamo che contemporaneamente, a Napoli, invece, l’impresa riuscì: i tedeschi furono vinti, cacciati, mentre Partenope danzava abbracciata ad Odisseo.
La Storia è sventrata dall’universalità delle concause: se il battito di ali della farfalla provoca un uragano, a cosa ricondurre la scintilla di una guerra o di una rivoluzione? «Quando ogni cosa è collegata a tutto il resto, dove inizia il processo?»; come ricordava Galileo Galilei: «Le cose sono unite da legami invisibili. Non puoi cogliere un fiore senza turbare una stella».
Quante volte anche persone che poco conoscono le Sacre Scritture utilizzano frasi bibliche per far colpo sul proprio interlocutore? E quante volte persone credenti danno un significato errato ai versetti dei Vangeli?
Il professor Aniello Clemente, docente di teologia, eclettico studioso e personaggio istrionico, fa chiarezza in un piccolo libro intitolato Quello che forse non sai… , Editrice Domenicana, su quello che crediamo di conoscere in merito al Vangelo, affinché l’insegnamento della religione cristiana, già considerato trascurabile se non assolutamente evitabile, si svolga in conformità con gli obiettivi formativi della scuola e con la metodologia adeguata, per offrire uno specifico contributo alla formazione integrale della personalità di chi impara.
Come recita la prefazione al libro, la lettura attenta dei quattro Vangeli porta a dei risultati sorprendenti. Molte delle convinzioni sulla storia di Gesù non hanno fondamento biblico, ma nascono da tradizioni religiose che nel corso dei secoli si sono sovrapposte a testi sacri fino a trasformarsi in cosiddette credenze popolari giunte fino a noi.
Quello che forse non sai… è un bisogno di una conoscenza storica più seria e documentata che un semplice libro per soddisfare delle curiosità.
Si prenda ad esempio la nascita di Gesù, i Vangeli non dicono nulla data, ma la storia ci può aiutare. La Palestina era sotto il dominio dei romani. Nel 63 a.C. Pompeo l’aveva conquistata e Gesù nasce mentre a Roma c’è Augusto. Questo dato lo ricaviamo dai Vangeli e nello specifico dai censimenti In Palestina ne fu stilato uno il VI-VII SEC d.c., quanto tal regione passò in mano ai Romani. In tale occasione divampò la rivolta del galileo Giuda. Di ciò è conservata traccia negli Atti degli Apostoli.
Gesù è morto sotto il successore di Augusto, Tiberio, l’attuale era cristiana fu stabilita dal monaco scita Dionigi il Piccolo, per unificare i vari calendari esistenti e per indicare che Gesù fu l’iniziatore di un’era nuova e il centro della storia. Secondo alcuni studiosi moderni Dionigi avrebbe commesso un errore, ovvero quello di ancorare l’era cristiana al primo gennaio 754 a.C., senza accorgersi che alla data stabilita per la nascita di Gesù il re Erode era già morto.
Questi studiosi ritengono che la nascita di Gesù vada anticipata come minimo di sei-sette anni e collocata probabilmente al 6/7 a.C., ciò ovviamente vuole dire che alla sua morte il Messia aveva 37-38 e non 33.
Altra credenza da sfatare: la caduta di San Paoloda cavallo. Tutto ciò che sappiamo su San Paolo lo desumiamo dagli Atti degli Apostoli e dalle Lettere a lui attribuite. Saulo è figlio di genitori ebrei della tribù di Beniamino ed eredita la cittadinanza romana dal padre. Studia a Gerusalemme e diventa parte integrante del gruppo dei Farisei ed assiste alla lapidazione di Santo Stefano.
Ancora una volta l’iconografia può venirci in aiuto e Caravaggio ha centrato con il suo dipinto che raffigura il possente cavallo di Saulo che quasi schiaccia con il suo zoccolo il folgorato uomo che giace a terra. Ha centrato in quanto il grande artista dà senso alla costruzione delle Chiese, erette per i poveri, per far comprendere meglio il senso delle omelie attraverso i dipinti.
Tuttavia non c’è mai stato nessun cavallo: “Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi non vedeva nulla; e quelli conducendolo per mano lo portarono a Damasco” (At 9,8).
Nella società in cui viviamo è sempre più importante educare una persona, nel senso di generarla nella pienezza della sua umanità affinché il progetto culturale non venga distrutto dal relativismo e dallo scetticismo.
In una Catechesi all’inizio del 2010, Benedetto XVI mette in guardia da un “san Francesco non di Chiesa”. E infatti, dice testualmente il Papa: “In realtà, alcuni storici nell’Ottocento e anche nel secolo scorso hanno cercato di creare dietro il Francesco della tradizione, un cosiddetto Francesco storico, così come si cerca di creare dietro il Gesù dei Vangeli, un cosiddetto Gesù storico. Tale Francesco storico non sarebbe stato un uomo di Chiesa, ma un uomo collegato immediatamente solo a Cristo, un uomo che voleva creare un rinnovamento del popolo di Dio, senza forme canoniche e senza gerarchia.”
Dice ancora Benedetto XVI:
“E’ anche vero che non aveva intenzione di creare un nuovo ordine, ma solamente rinnovare il popolo di Dio per il Signore che viene. Ma capì con sofferenza e con dolore che tutto deve avere il suo ordine, che anche il diritto della Chiesa è necessario per dar forma al rinnovamento e così realmente si inserì in modo totale, col cuore, nella comunione della Chiesa, con il Papa e con i Vescovi”.
Va detto che l’interesse a presentare un Francesco contro il papato, specialmente nell’Ottocento, proviene da ambienti massonici e protestanti, come da questi ambienti pervenne, di fatto, una ricca letteratura, falsa, sulla storia della Chiesa. San Francesco è stato sempre associato, dal mondo protestante e catto-sincretista, a Pietro Valdo (valdesi) il quale era, solo fino a qualche anno prima, all’origine del movimento i “Poveri di Lione”. La sintesi della predicazione è apparentemente identica a quella di Francesco: richiamo ad una fede vissuta nella povertà del Vangelo, la non violenza, il riferimento alla pace, uno stile di vita che porti a rinunciare alle carriere politiche ed ecclesiastiche viste come tali, ossia “carriere”, l’interessamento alla natura che ci circonda, etc.
Una prima differenza con Pietro Valdo fu proprio l’obbedienza al Papa di san Francesco e la sua fedeltà.
In sostanza, l’errore di un certo francescanesimo moderno sta nel fatto di ignorare che un conto è il messaggio di san Francesco che ragionevolmente valica i confini della Chiesa e s’instaura anche fra gruppi non cattolici, secondo il detto “l’erba del vicino è sempre più verde”, ma ben altra cosa è aver fatto di san Francesco, e spesso proprio dai suoi, una sorta di “giullare” in senso negativo, sobillatore e riformatore contro il Papa e i vescovi del suo tempo.
Francesco, infatti, non sarebbe mai diventato un santo, né sarebbe rimasto dentro la Chiesa se, in quel paragonarlo a Pietro Valdo, si facesse della povertà che rincorreva lo scopo della sua predicazione, il fine ultimo come invece intendeva Valdo… o peggio i catari-albigesi. Al contrario, Francesco usava la virtù della povertà evangelica quale mezzo, e non come scopo, né fine, per rivitalizzare la Chiesa, ponendosi sotto la guida del Papa, aiutandolo a combattere la grave crisi di corruzione penetrata anche nel basso clero, e tutto questo, a differenza di Valdo, senza mai mettere in discussione il Magistero dottrinale del Pontefice, men che meno il magistero dottrinale del suo vescovo.
San Francesco fu tutt’altro che romantico, sognatore, bucolico: la sua virilità si era semplicemente spostata, da sotto la cintola, salendogli su, nel cuore e nella mente, quando si convertì e si consegnò al suo vescovo. Altro che romantico! Ragionava e meditava, vedeva il cielo ma restava coraggiosamente con i piedi per terra, ma ciò non toglie che il francescanesimo ha sempre tentato di presentare un Francesco al di fuori della normalità e spesso anche fuori della stessa ecclesialità, una sorta di Riformatore interno alla Chiesa, per cambiare la Chiesa.
Il Santo di Assisi non era affatto un personaggio ossessionato dalla povertà materiale alla quale anteponeva, come preoccupazione, quella spirituale. Mai, infatti, esortò i bisognosi alla rivolta bensì, semmai, alla pazienza; fu seguito anche dai rampolli della nobiltà italiana del suo tempo ai quali disse che la povertà era una strada per il Paradiso senza però mai – attenzione – azzardarsi a suggerirla come unica.
Francesco lottò dunque contro la vanità terrena ma non demonizzò i materiali preziosi, che difatti raccomandava esplicitamente ai suoi di impiegare per la Messa: «Vi prego […] i calici, i corporali, gli ornamenti dell’altare e tutto ciò che serve al sacrificio, devono essere preziosi. E se in qualche luogo trovassero il santissimo corpo del Signore collocato in modo miserevole, venga da essi posto e custodito in un luogo prezioso, secondo le disposizioni della Chiesa, e sia portato con grande venerazione e amministrato agli altri con discrezione» (Prima lettera ai Custodi).
Se poi pensiamo che fra gli studiosi c’è chi sostiene che pure la moderna teoria del libero mercato debba molto al contributo culturale dei teologi discepoli del Poverello, si può definitivamente comprendere l’infondatezza del mito di un predicatore della povertà assoluta quale Francesco mai, di fatto, volle essere.
Priva di fondamento è anche l’idea di un san Francesco eternamente sorridente e dalla personalità tiepida e buonista: basti ricordare che un giorno – stando agli scritti di Tommaso da Celano (1200-1270) – informato della presenza di detrattori del suo Ordine si rivolse al suo vicario, frate Pietro di Cattaneo, intimandogli quanto segue: «Coraggio, muoviti, esamina diligentemente e, se troverai innocente un frate che sia stato accusato, punisci l’accusatore con un severo ed esemplare castigo! Consegnalo nelle mani del pugile di Firenze, se tu personalmente non sei in grado di punirlo (Chiamava col nome di pugilatore frate Giovanni di Firenze, uomo di imponente statura e dl grandi forze)».
Possiamo anche ricordare, per rendere giustizia del Francesco della storia – così diverso da quello di certa propaganda -, che quando costui, nell’anno 1219, si trovò al cospetto del Sultano Malik al-Kami, anziché tessere l’elogio del dialogo e della pace non esitò a ricorrere a parole oggettivamente forti: «Gesù ha voluto insegnarci che, se anche un uomo ci fosse amico o parente, o perfino fosse a noi caro come la pupilla dell’occhio, dovremmo essere disposti ad allontanarlo, a sradicarlo da noi, se tentasse di allontanarci dalla fede e dall’amore del nostro Dio. Proprio per questo, i cristiani agiscono secondo giustizia quando invadono le vostre terre e vi combattono, perché voi bestemmiate il nome di Cristo».
Che il Poverello fosse guerrafondaio? Ma no, ci mancherebbe. Semplicemente era un uomo non solo di solidi principi ma anche di solida personalità, incline all’amore, certo. Ma non ai compromessi. Mai.
Il breve saggio intitolato Sulla felicità del teologo, geologo e paleontologo gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin è un testo “ardente” che risale al 1942 e tradotto in italiano per la prima volta nel 1970 in un volume che è difficile trovare in commercio: “Il Gesuita proibito – Vita ed opere di P. Teilhard de Chardin”, Giancarlo Vigorelli (a cura di), Il Saggiatore. Secondo de Chardin, la felicità è inserire la propria vita nell’avventura del mondo, nella coniugazione di tre atteggiamenti fondamentali: creatività, amore, adorazione.
La pubblicazione postuma degli scritti del gesuita ha dato origine ad un grande dibattito. Tra i testi postumi più significativi troviamo: Il fenomeno umano dove de Chardin svolge la sua visione scientifica, L’ambiente divino dove sono tracciate le linee di una spiritualità per il cristiano della terra moderna, oltre a circa 200 saggi di varia lunghezza tra cui spiccano, sotto il profilo religioso: La Messa sul mondo, La mia fede, Il cuore della materia, che rappresenta una sorta di autobiografia intellettuale e spirituale in cui il teologo evidenzia le radici della sua visione e della sua opera: il senso cosmico, il senso umano e il senso cristico; e Il Cristico, scritto poco prima della sua morte, nel 1955.
De Chardin non si accontenta di una visione analitica e settoriale della realtà, ma è alla ricerca, come dimostra, anche Sulla felicità, con tutta la sua passione di uomo e di credente, di una visione capace di abbracciare l’intera storia del cosmo e dell’umanità. Il suo principio: tutto ciò che sale converge, lo ha portato ad una grandiosa sintesi che ha tre dimensioni: scientifica, filosofica e religiosa in cui trovano conciliazione la fede nel progresso, nell’In-Avanti, la fede in Dio, nell’in-Alto. La sua prospettiva è universale: il paleontologo si china sugli abissi del passato per decifrare da futurologo le direttrici di marcia dell’avvenire di quello che egli chiama il fenomeno umano. Il suo universo è in divenire, in evoluzione secondo la legge di complessità-coscienza che implica una struttura convergente del mondo.
Sulla felicità: l’avventura dell’uomo nel mondo secondo de Chardin e le tre categorie di esseri umani
In questo senso in Sulla felicità de Chardin considera l’uomo imbarcato, quasi portato dall’avventura del mondo, di un mondo che sale verso più complessità più coscienza fino alla finale ricapitolazione in Dio tramite il Cristo universale. L’atteggiamento più umano risulta quindi con la resa di fronte alla difficoltà, né la dispersione nelle dilettazioni del presente, ma la responsabile fedeltà alla terra. La felicità è incorporarsi nella totalità del processo in corso; inserire l’avventura della vita nella più vasta avventura del mondo; vivere in salita secondo il ritmo di tre momenti: essere se stessi, aprirsi agli altri, nello slancio umano e cristiano, in avanti verso Dio che chiama e attira.
Per capire meglio come la “questione” della felicità è indispensabile secondo de Chardin, distinguere tre atteggiamenti fondamentali, adottati in realtà dagli uomini di fronte alla Vita: gli escursionisti pronti alla conquista di una vetta difficile, la cui comitiva è divisa in tre tipi di elementi. Alcuni rimpiangono di aver lasciato l’albergo e decidono di tornare indietro. Altri non sono dispiaciuti di essere partiti. Il sole splende ed il panorama è bellissimo, perché continuare? E si fermano magari sdraiandosi sull’erba a fare un pic-nic. Altri infine, i veri alpinisti, non staccano gli occhi dalla vetta che si sono giurati di conquistare e riprendono la salita. Gli stanchi, i gaudenti e gli ardenti, tre tipi di uomini di cui ognuno di noi porta il germe dentro di se.
Per la categoria degli stanchi l’esistenza è un errore o uno scacco. Spinto all’estremo e sistematizzato in dottrina filosofica, tale atteggiamento sfocia nella saggezza dell’India per cui l’Universo è un’illusione e una catena, oppure in un pessimismo alla Schopenhauer. E quindi: a che pro cercare? Meglio morti che sdraiati? Tutto si riduce a dire, che è meglio ‘essere meno’ che ‘essere più’ e il meglio di tutto sarebbe non essere per nulla. Per i gaudenti è certamente meglio essere che non essere, ma secondo de Chardin bisogna fare attenzione al significato che assume essere. Essere, vivere, per i discepoli di tale scuola, non vuol dire agire ma riempirsi del momento presente. Godere ogni attimo e ogni cosa gelosamente. Senza preoccuparsi dell’avvenire. Infine gli ardenti, coloro per i quali vivere è una salita e una scoperta. Per loro non solo l’essere è preferibile al non essere ma è anche sempre possibile e unicamente interessante ‘divenire di più’. Per loro l’essere è inesauribile, non alla maniera di un Gide, come un gioiello dalle innumerevole faccette, che si può rigirare in tutti i sensi senza stancarsene mai, ma come un focolaio di calore e di luce al quale è possibile avvicinarsi sempre maggiormente. Questi uomini possiamo chiamarli ingenui, deriderli, possono risultare fastidiosi a qualcuno, ma proprio da essi si prepara a sorgere la Terra di domani.
De Chardin poi individua tre tipi di felicità: la felicità di tranquillità: nessuna preoccupazione, rischio, sforzo. Riduciamo i contatti, smorziamo le luci, restringiamo i bisogni, induriamo l’epidermide, rinchiudiamoci nel guscio, dice l’autore. L’uomo felice è dunque, secondo quest’ottica, è colui che meno penserà, sentirà, desidererà. Vi è poi la felicità di piacere: lo scopo della Vita non è agire e creare, ma godere, che sembra essere l’imperativo categorico attuale. Anche qui minimo sforzo, appena quello necessario per coppa e liquore. L’uomo felice è quello capace di assaporare più compiutamente l’attimo che tiene tra le mani, Infine vi è la felicità di sviluppo. In questa prospettiva la felicità non esiste né ha valore proprio, come un oggetto che si può afferrare: è solo l’effetto e come la ricompensa dell’azione convenientemente diretta. Non basta dunque, come suggerisce l’edonismo moderno, rinnovarsi in un modo qualunque per essere felice. Nessun cambiamento beatifica se non lo si effettua in salita secondo de Chardin. L’uomo felice dunque, è colui che, senza cercare direttamente la felicità, trova per di più inevitabilmente la gioia nell’atto di giungere alla pienezza e al punto estremo di se stesso, in avanti.
Cosa scegliere dunque si chiede l’autore del saggio, qual è il criterio giusto? Per de Chardin un criterio oggettivo esiste e sostiene che basta guardare la Natura intorno a noi per scorgerlo alla luce delle ultime conquiste della fisica e della biologia:
L’Universo e l’uomo
Tutti sanno che oggi, nessuno dubita più del fatto che ontologicamente l’Universo non è fermo, ma si muove, da sempre, sin nell’estremo fondo della sua intera massa, in base a due correnti opposte: l’una che trascina ma materia verso stati di estrema disgregazione, l’altra che porta all’edificazione di unità organiche i cui tipi superiori, astronomicamente complessi, formano quello che chiamiamo il mondo vivente. Consideriamo più particolarmente la seconda corrente, quella della Vita di cui facciamo parte. Per un buon secolo gli scienziati, pur ammettendo la realtà di un’evoluzione biologica, hanno discusso per sapere se il moto che ci trascina fosse solo un vortice circolare chiuso oppure corrispondesse ad una deriva definita dalla frazione animata del Mondo verso un qualche stato superiore determinato. Orbene oggi, è la seconda ipotesi che sembra come corrispondente alla realtà. La Vita non si complica senza leggi e come a caso. […] Essa progredisce in maniera metodica, irreversibile, verso stati di coscienza sempre più elevati. […] Storicamente parlando la Vita è un’ascesa di coscienza. Non vedete forse, subito, la conseguenza diretta di una tale proposizione sul nostro comportamento interiore?
Se vogliamo davvero essere felici con il Mondo, dobbiamo aggregarci, secondo de Chardin, al gruppo di coloro che vogliono rischiare la scalata sino all’ultima vetta; ma non basta aver optato per la salita. Non bisogna sbagliare il sentiero. Per raggiungere allegramente la cima qual è la strada giusta? Attraverso tre passi fondamentali, l’uomo, come già accennato, deve incentrarsi su di se, decentrarsi sull’altro e supercentrarsi su uno più grande di lui. Si tratta di tre gradi concatenati che consentono all’uomo di essere pienamente se stesso e felice in quanto cresce interiormente, in forza, sensibilità, padronanza di se, congiungendosi con l’altro. Per de Chardin la felicità è la gioia dell’elemento diventato cosciente nella totalità che esso serve in cui si realizza, la gioia attinta dall’atomo riflessivo nel sentimento della sua funzione e del suo compimento nell’universo che lo contiene: tale è in teoria e in pratica, la forma più alta e progressiva di felicità che l’autore francese augura all’uomo.
Certamente è curioso che un gesuita non menzioni in questo mini-saggio alcuni passi del Vangelo, ma è altrettanto certo che de Chardin, esploratore e geologo, non dimentichiamolo, parla di slancio e di pensiero persistente del pensiero cristiano che sorregge l’enormità angosciosa del mondo. In sintesi, in Sulla felicità, egli parla di un Umanesimo cristiano, all’interno del quale ogni uomo comprenderà un giorno che gli è possibile non solo servire e soprattutto prediligere in tutte le cose, dalle più dolci alle più austere, un universo carico d’amore nella sua evoluzione.
Sotto il ghiacciaio: un romanzo irriverente di difficile collocazione: fantascienza? Allegorico? Religioso? Forse c’è un po’ di tutto questo nel romanzo del premio nobel del 1951 dello scrittore islandese Halldór Laxness.
L’interpretazione della storia che si articola in Sotto il ghiacciaio, scritto nel 1968, non è di facile comprensione: a tratti appare quasi come un giallo da risolvere. In effetti è proprio quello che è chiamato a fare il protagonista, studente di teologia, inviato dal vescovo d’Islanda nel lontano ovest, ai piedi del leggendario vulcano Snæfell, dove Jules Verne fece iniziare il suo viaggio al centro della terra. Giunta infatti notizia che il pastore della chiesa locale non celebra più battesimi e funerali, insomma sembra esserci qualcosa che non va.
Il giovane studente si troverà quindi ad essere un reporter in una terra difficile, fuori dall’ordinario: dovrà tentare di capire cosa si annida tra la gente del luogo e cosa spinge il pastore a comportarsi in maniera così strana. Verrà quindi a contatto con le varie persone del luogo, vivrà per un certo periodo di tempo “sotto il ghiacciaio” e si farà una idea degli usi e costumi dei queste genti.
Il famigerato “culto del ghiaccio”, che sembra aver soppiantato il cristianesimo, è una dottrina sfuggente, che nel corso del racconto non è mai spiegata in maniera chiara. I dialoghi e gli argomenti sono di difficile comprensione, ma, una volta inseritisi nella “mentalità” delle vicende, anche i concetti più strani si definiscono con una loro logica.
È il panteismo contro la dottrina di Dio: lo strano reverendo John afferma che “un dio vale l’altro, tranne quello che risponde alle preghiere” e non riesce a dare una spiegazione compiuta di cosa volesse dire che dio è in ogni luogo. È questo quello su cui gioca Laxness: una indefinitezza di fondo, una allegoria totale verso un qualcosa che non può mai essere del tutto compreso.
La contrapposizione che ne esce fuori, dottriva vs misticismo, è da leggere in prospettiva ampia, senza badare troppo ai particolari, lasciandosi trasportare dalla narrazione a volte di echi bucolici, a volte di echi favolistici (suggestiva la descrizione del paese e del suo ghiacciao).
Il mondo paradossale, onirico, spirituale, dove succedono cose strane, si dicono cose strane, e non mancano personaggi davvero stravaganti: riuscirà l’inviato-teologo a raccapezzarsi? Forse Laxness ci vuole far capire lo spaesamento di ritrovarsi in un mondo che non riconosce più la fede millenaria nel Dio cristiano. L’idea del pellegrino che va e che scopre altri mondi è strettamente moderna, ma si ricollega, in questa occasione, a un tutto panteistico, l’uomo che fa i conti con le profondità del pensiero religioso, seppur in maniera favolistica.
Ad ogni modo ne viene fuori una visione ironica e onirica, proprio perché i dialoghi tra i personaggi assumono le caratteristiche di una assurda complessità, incomprensibile, impenetrabile: il modo di affrontare il tema della crisi della religione, da parte di Laxness, definito da molti “sincero credente ma dubbioso cattolico”, lascia col sorriso, e forse solo dopo aver completato tutta l’immersione nel mondo da lui descritto, ci si può rendere conto della sua idea sulla religione, particolare e criptica.