‘Sangue di cane’, il caso letterario di Veronica Tomassini per gli anticonformisti culturali

Sangue di cane (Laurana editore) dell’autrice siciliana Veronica Tomassini, è stato un caso letterario per la sua carica eversiva. La Tommasini è un caso a sé stante nel panorama letterario e per la sua particolarità è di difficile canonizzazione. Probabilmente lascerà il segno.

In questo libro (che non è reportage, romanzo noir, giallo, romanzo-saggio o non fiction novel, non è un metaromanzo come molti oggi; non è assolutamente opera di intrattenimento, ma attività di conoscenza delle cose) narra in presa diretta quelle che un tempo si chiamavano a torto situazioni basse con uno stile impeccabile ed al contempo sferzante.

Sangue di cane si pone contro l’establishment letterario, il provincialismo ed il conformismo culturale, eppure riesce a mantenere con grazia una indiscussa letterarietà. L’autrice cerca lo stile e la storia, trovandoli. È difficile cogliere il senso di questo libro, in cui non c’è per niente niente da sorridere.

Trama, contenuti e stile in Sangue di Cane

Tratta di un inferno terreno ed anche del sesso, ma l’autrice non è ossessionata dal sesso. Il suo non è un tour de force nei meandri della perversione, come ad esempio in alcuni libri della sovrastimata Isabella Santacroce. Il linguaggio è crudo, diretto, esplicito. Ha un modo di porgere le cose, che alcuni benpensanti potrebbero  ritenere brutale, ma che in tutta onestà riesce sempre ad essere umano, avvolgente e privo di commiserazione.

Passaggi salienti del romanzo

Il ritmo è incalzante. Lascia senza tregua. Si legge tutto di un fiato. Colpisce sia per la densità che per la scorrevolezza. La giovane protagonista si innamora di un immigrato polacco emarginato, che chiede spiccioli ai semafori, perché, come dice lei stessa: “mi riempivi d’amore, straboccavi d’amore, non sono mai stata amata così”; ma dice anche: “Il nostro amore faceva paura al mondo, gli dei dell’Olimpo storcevano il naso” ed anche “Nel nostro amore ci fu qualcosa di sovrumano a regolare gli eventi, non disumano come dicono certune lingue velenose. Sovrumano. Sai perché? Perché ti conoscevo già, nel luogo dove tutto è preordinato, dove dimora la musica, un luogo dove ognuno di noi è stato anzitempo, dove tutte le parole bisbigliate languono nello scrigno della perennità, dove le note aspettano silenziose la loro ouverture protratta”.

Allo stesso tempo la protagonista confessa che “la reputazione era zerbino su cui strofinarsi le suole di fango” e lei è incurante della reputazione. Il suo matrimonio è “un funerale” perché le persone care sono tutte infelici. Il suo uomo la tradisce spesso, ma lei ci passa sopra.

Il suo compagno vive in un palazzo fatiscente, chiamato casa dei morti, quindi in un parco pubblico, nelle grotte, in una baracca. Slavek, questo il suo nome, vive di espedienti tra risse, deliri alcolici ed aiuti della Caritas. La protagonista ventenne, proveniente dalla media borghesia, è attratta dall’opposto invece che dal simile perché la complementarità la completa.

Esce da sé stessa, libera la sua vita dai limiti imposti dalla società. Ma imparerà a sue spese che l’amore non è solo armonia ed infatuazione, ma talvolta anche ambivalenza e sofferenza. Difficile stabilire chi sia il carnefice e chi la vittima. Nessuno però scende a patti e fa recriminazioni.

Diversità, amore, autolesionismo

Sangue di cane tratta della diversità come arricchimento ed attrattiva, ma anche di persone relegate ai margini, di immigrati alcolizzati e poveri, di prostitute straniere. Tratta di miseria, di espedienti, di fame, addirittura di autolesionismo, di alcol vissuto non come semplice sollievo, ma come unica via di fuga dalla realtà angusta.

Sullo sfondo c’è la comunità di emarginati polacchi: un intreccio di storie, di disagio e di vicissitudini. Il campo di azione è quello degli esseri umani dimenticati. Vengono affrontati solo i problemi concreti della quotidianità. Lo sguardo della Tommasini abbraccia con empatia, connotata da realismo, gli ultimi.

La protagonista è una ragazza che rompe gli schemi sociali perché ci sono regole non scritte da rispettare, se ci si vuole integrare socialmente e se si vuole far contenti genitori e parenti. Per essere delle “brave figlie” bisogna conformarsi alle aspettative e all’immaginario borghese. Come in una vecchia canzone di Alice i parenti sono spesso nel nostro Paese “cinture di castità”.

Echi di Busi e Pasolini

Una ragazza di buona famiglia per far contenti tutti si deve sposare un buon partito. La borghesia deve essere “uccel di bosco“, come scrive Aldo Busi in “Seminario sulla gioventù”: alle figlie borghesi è consentito avere delle avventure esotiche in paesi lontani, ma tutto deve essere senza conseguenze. Certe cose devono essere nascoste o al più sottaciute.

Ecco allora una miriade di false coscienze e di doppie morali, il cosiddetto perbenismo, di cui la Tommasini con la sua sincerità disarmante mette in evidenza l’ipocrisia. La protagonista funge da elemento di raccordo tra il mondo borghese e quello della povertà, però il dialogo è difficile. Essa si mette contro la cosiddetta normalità e di conseguenza anche contro sé stessa, sgretolando le sue certezze.

Tuttavia, leggendo Sangue di cane, viene da chiedersi se si possa ancora parlare di borghesia, visto e considerato che riti, codici, miti sono ormai scomparsi e tutti siamo omologati. Pasolini sosteneva che con la televisione siamo diventati tutti piccolo borghesi e se tutti siamo tali allora nessuno è più borghese.

Forse l’unico modo per sfuggire a questa uniformazione di gusti, di stili di vita e di pensiero è sposarsi con una persona di un’altra cultura, proveniente da un’altra realtà. I borghesi hanno dalla loro l’amoralità dei rischi calcolati e degli interessi economici.

Una lettura sociologica di Sangue di cane

La protagonista di Sangue di cane, invece sceglie il proprio partner in base alla bellezza, all’intesa. Ama perché prova pietà senza mai eccedere nel pietismo. I razionalisti vorrebbero sempre cercare una ragione a tutto. Leggendo questo romanzo ci si potrebbe far sopraffare dall’irrazionalismo, ma si tratta di quella che nelle scienze umane viene definita “razionalità limitata”: leggendo queste pagine viene da chiedersi se sia umanamente giusto dare un senso a tutto.

La borghesia, quel poco o molto che resta, fonda tutto sulla ragionevolezza rassicurante, ma l’amore rivela la sua assurdità e perciò la sua terribilità. I romanzi di un tempo trattavano delle affinità elettive. I manuali di psicologia insegnano che l’erotismo può essere analizzato sistematicamente in chiave psicodinamica. Ma leggendo la Tommasini viene da chiedersi se le dinamiche del desiderio siano senza senso e senza storia (“Eravamo l’uno l’angelo dell’altro. E poco importava se uno dei due, un tempo, era stato capace di maneggiare kalashnikov e semiautomatiche”).

La stessa autrice è illuminante, quando scrive: “Dunque sul valore libertà, avrei molto da dire, non è praticabile fino in fondo, trattiene infiniti nodi scorsoi”. In definitiva cosa può una coppia contro il mondo? Più filosoficamente la libertà è più “libertà da” che “libertà di”.

Una sfida alle convenzione e al romanticismo

Inoltre Sangue di cane è una sfida alle convenzioni, al romanticismo, ma anche la sottolineatura che l’amore a “rischio zero” non esiste.  Fromm definiva la coppia occidentale un “egoismo a due”, ovvero un doppio egoismo: invece qui la protagonista dà molto e non riceve altrettanto.

Certamente la chiave di volta per capire il romanzo non è gnoseologica, metafisica o figurativa o perlomeno non solo quest. La Tommasini ci parla dei cosiddetti invisibili. La scrittrice mette bene in evidenza che il controllo sociale prima di tutto è controllo mentale.

Psicologia sociale

Allo stesso tempo leggendo questo libro vengono in mente certi studi di psicologia sociale, in cui chi assume la posizione di deviante (così definito dai ricercatori. Si tratta di persona che ha idee e comportamenti diversi dalla maggioranza) all’interno di un gruppo prima viene interpellato, si cerca di farlo tornare sui suoi passi, facendo opera di convincimento, e poi se ciò non va a buon fine lo si esclude e lo si abbandona al suo destino.

Per l’autrice gli immigrati sono un mondo altro, una alternativa possibile alle contraddizioni insanabili e all’universo concentrazionario di quel poco che resta della borghesia italiana, ovvero una parvenza, fatta di regole asfittiche e ormai prive di valori. Questo è un’opera che invoca il cambiamento, innanzitutto di mentalità, ma anche in senso lato.

Per gli psicoterapeuti, gli psichiatri e gli psicologi si può cambiare con l’analisi psicoterapeutica ed i farmaci. Tutto il loro lavoro implica l’idea che il cambiamento sia possibile e che possa verificarsi una evoluzione della personalità. Alcuni studiosi ritengono che non tutto il nucleo della personalità di base possa però mutare. Dovrebbe esserci un io statico ed un io dinamico, ma è molto difficile dire quali siano le invarianze.

Un romanzo che ci lascia con un interrogativo

Ma in Sangue di cane chi è davvero che deve cambiare? I protagonisti o la società? Forse è più difficile in questo Paese il cambiamento collettivo. Insomma sembra che i cambiamenti sociali, civili, politici qui in Italia siano solo apparenti. La classe dirigente è per il mantenimento dello status quo.

Molti sono rinchiusi nella loro comfort zona. A conti fatti oggi c’è ancora troppo immobilismo per una palingenesi. In sintesi Veronica Tomassini scrive un’opera di carattere sociale senza perdersi in sociologismi; scrive un romanzo che fa sobbalzare dalla sedia perché descrive con crudezza scene e momenti difficili, ma anche  un sentimento e una storia d’amore, oltre a una Siracusa che contiene “sottouniversi” di persone di altra nazionalità.

In Sangue di cane la fluidità verbale ha la meglio  sulla cristallizzazione, il vitalismo sulla rispettabilità, ricordandoci che alla fine ogni vita, se consideriamo solo il lato materiale, è fallimento, sconfitta. La protagonista si definisce psicotica ed è convinta che l’amore salvi, ma alla fine del libro non siamo più sicuri dove stia la salute e la malattia. Poi l’interrogativo se l’amore salvi, purtroppo o per fortuna, resta.

 

Di Davide Morelli

 

La vita interiore: la dissacrazione dei valori borghesi

“Questo è il mio ultimo romanzo” (A. Moravia).

Alberto Moravia

Alberto Moravia si dedica alla stesura de La vita interiore, pubblicato nel 1978,  per ben sette anni. Diviso in tre parti (La casa di appuntamenti, Gli anni criminali e Il gruppo e l’orgia) si presenta come un’incalzante intervista, un discorso a due tra la protagonista e l’autore.

Questa storia atemporale, ci viene raccontata da Desideria. A dominare le sue azioni è una voce interiore che le dice cosa fare e la interroga, la induce alla riflessione e la sprona ad agire per tutto il tempo della lunga intervista. Il suo stile, che abbraccia una vastissima diversità di forme narrative,  appare ora oggettivo, freddo e lucido.
Desideria vive in una famiglia ricca, presso il quartiere romano Parioli, con una madre ostile alla quale sente sin da piccola di non appartenere. Desideria è una bambina grassa e come tale, subisce umiliazioni di ogni tipo da chi dovrebbe, invece, garantirle protezione. Assiste agli incontri consumati dalla madre nella loro abitazione, osserva, si pone delle domande, tace. Non vive certamente bene la sua condizione di bambina grassa,(ogni avvenimento le tornerà poi alla mente come qualcosa di irrisolto, un momento incompiuto, in cui non potendo reagire, non le restava altro che covare). La madre adottiva, Viola, non perde occasione per ricordarle quanto sia sbagliata, diversa da lei, lontana dai suoi canoni di figlia perfetta; allo stesso tempo nutre uno strano amore materno. Desideria non vuole sentirsi un peso, sa di non meritarlo, di non avere colpe, eppure non puo’ difendersi, o almeno non da subito. Come in un continuo infinito flashback abbiamo modo di penetrare nella sua infanzia, quasi di assistere agli episodi di cui fu protagonista.
Risparmierò, metterò da parte e quando mi sembrerà di avere una somma sufficiente, andrò dalla signora  che adesso chiamo mamma e le dirò: quanto hai speso finora per me? Tanto? Bhé, ecco i soldi che hai speso, né più né meno. Adesso siamo pari, non ti debbo più nulla. Ti ringrazio di tutto e ti dico addio. Ma quando credi che potrai fare la puttana? Penso che prima passerò l’esame di maturità e poi prenderà una decisione.” “Ma le puttane devono essere belle. Tu, secondo me, sei troppo grassa per fare la puttana”.
In questo modo, si confessa.  Il male di cui ci parla è indelebile. Desideria rivede sempre Viola e tutto ciò che rappresenta.
Paragonata a Giovanna D’Arco, Desideria fa un voto di castità, promettendo di salvare la sua verginità fino al giorno in cui sarebbe sparita la Voce dalla sua testa .
Ad  un certo punto cambia, per volere suo, per volere della Voce, si trasforma non solo fisicamente e comincia, così, la sua Rivoluzione. La voce stessa è la rivoluzione. La madre finisce per essere attratta dal nuovo aspetto assunto dalla figlia, come se non esistessero più limiti e freni nella condotta di vita di questi borghesi senza scrupoli e Desideria non fa altro che dissacrare ad uno ad uno quei valori inesistenti ed effimeri che le famiglie borghesi del tempo avevano fatto propri. Condanna la morale di cui erano, nonostante tutto, vittime, poiché vista come un ostacolo ed un impedimento e la denuncia che ne fa di quel mondo è davvero spietata.
Durante questi nuovi giorni di rinascita, cerca l’appoggio di altri ”compagni d’avventura”, li trova;  si innamora di Giorgio,  lo studia, ma poi se ne separa.Riportiamo un dialogo tra Desideria e Giorgio che sottolinea l’audacia dello scrittore: Il tuo segreto è che, dopotutto,  anche tu hai una coscienza, magari sepolta sotto un monte di merda, e questa coscienza consiste nel fatto che sai di essere corrotto fino al midollo e siccome lo sai desideri morire, non esistere più, tornare ad essere quello che eri prima di nascere, vale a dire un feto, un embrione, nulla. E sai come me ne sono accorta? Me ne sono accorta dal modo con il quale quel giorno hai fatto l’amore orale. Mentre stavo supina, con le gambe spalancate e tu inginocchiato davanti a me mi baciavi il sesso, ho sentito con precisione che non cercavi il tuo piacere, ma volevi semplicemente morire, sì, morire  dentro il mio ventre che per te, in quel momento, era il ventre di tua madre, cioè rifare a ritroso il cammino che avevi già fatto venendo al mondo, acciambellarti dentro di me,  come il feto, con le braccia conserte e gli occhi chiusi, e poi regredire indietro indietro, tornare ad essere un embrione, un grumo di vita, un nulla.
 
In seguito alle esperienze più estreme vissute in nome di ciò che le dettava la Voce, arriverà, in fine, a pianificare il sequestro della madre e ad uccidere sia il suo amante,  Tiberi, che un altro dei protagonisti, Quinto. Come se, in fondo, tutte le lotte portate avanti avessero solo condotto al nulla. Il romanzo resta come inconcluso, “sospeso”.
In realtà, questa contrapposizione tra mondo popolare e borghese non è così netta : Tutti i personaggi di cui ci parla sono caratterizzati da una stessa “atonia spirituale”, sono come fermi, congelati nel loro ruolo, all’ossessiva ricerca di sesso e denaro. I rapporti umani sono spinti da questi due motori, nulla è autentico. Ad interessare l’autore sono gli atteggiamenti psicologici  dei suoi personaggi. Moravia resta, in questo senso, un pessimista che prende coscienza della realtà e l’analizza servendosi di nuovi strumenti come la psicoanalisi e le scienze sociologiche. E così facendo, non fa altro che descriverci la società sessantottina e fornircene un disegno.
Considerato da alcuni critici scandaloso e addirittura “privo di contenuto”, resta sicuramente uno dei romanzi più letti dello scrittore, che parrebbe non aver mai abbandonato le idee su cui si è poggiato il suo più grande romanzo: Gli Indifferenti , proprio come se non avesse mai finito di scriverlo.
Di Anna Vitiello.

 

La Recherche di Proust: una tragedia tra biancospini e cattedrali

Un’opera monumentale, classica e moderna allo stesso tempo, una cattedrale gotica, un capolavoro senza tempo, un’impresa per chi si accinge a leggerla. Stiamo parlando della Recherche, Alla ricerca del tempo perduto scritta tra il 1908 e il 1922 da Marcel Proust. Più di 3.700 pagine nelle quali il grande scrittore francese si propone di ricercare la verità, recuperando il tempo attraverso le celebri intermittenze del cuore, (Joyce parlerebbe di epifanie) ovvero quel risorgere di un ricordo attivato dalla memoria sia volontaria che involontaria, che ci riporta indietro nel tempo, a situazioni vissute.

Particolare importanza assume la vicenda editoriale dell’opera, a riprova della ponderosità del lavoro, della puntigliosità della composizione e delle difficoltà incontrate per la pubblicazione dell’opera.

<<Toccherà mai la superficie della mia piena coscienza quel ricordo, l’attimo antico che l’attrazione di un attimo identico è venuta così di lontano a richiamare, a commuovere, a sollevare, nel più profondo di me stesso?>> (Un amore di Swann)

Dal marzo 1909 i quaderni di appunti di Proust si infittiscono di episodi, abbozzi, ricordi, ritratti di personaggi. Tra l’estate e l’autunno stende le prime versioni di Combray e del Temps retrouvé, cioè dell’inizio e della fine dell’opera; nel 1910 insiste su quella che sarà la conclusione, mentre, il romanzo si espande in un dittico di romanzi, Le temps perdu e Le temps retrouvé, dal titolo complessivo Les intermittences du coeur.

Nel 1913 Proust riesce a far accettare il lavoro all’editore Grasset, dopo la stroncatura di Gide, consulente di uno dei maggiori editori di Parigi, e pubblica a sue spese i primi due tomi dell’opera. Nel 1914 esce Du coté de chez Swann, primo volume dell’opera che avrà come titolo A la recherche du temps perdu. La morte del giovane autista Alfred Agostinelli (che Proust amava) e la guerra, costringono lo scrittore a mutare nuovamente il progetto originario. Da Agostinelli nasce la figura di Albertine, introdotta nel secondo romanzo A l’ombre des jeunes filles en fleur.

Nel 1919 Proust, che è passato all’editore Gallimard, riceve il premio Goncourt mentre la malattia e l’ansia di concludere lo incalzano. Nel 1920 esce la prima parte di Le coté de Guermantes; la seconda, insieme alla prima di Sodome et Gomorre, compare l’anno seguente. Nel 1922 lavora alla Prisonnière, già dattiloscritta, ma il 18 novembre muore per una polmonite. Gli ultimi tre romanzi usciranno postumi: La prisonnière nel 1923, Albertine disparue, che Proust, Le temps retrouvé nel 1927.

La Récherche non è affatto un romanzo autobiografico, (non si deve confondere il narratore con Proust), bensì la storia di una passione, di un amore, bello e struggente, per la letteratura; è la storia di Proust che riversa tutte le sue energie per scrivere il suo capolavoro, la sua tragedia, il suo inferno dantesco immerso tra biancospini, cattedrali e violette avente come sottofondo note di musica classica (efficace mezzo per esprimere l’ineffabile) che cela perversioni ed inquietudini.

Proust interroga le parole, i gesti, le atmosfere, torturandole. Egli attua una violenza (che si esplica quando lo scrittore indugia lungamente sui dettagli, come le passeggiate, sui luoghi, la difficoltà nel prender sonno o quando narra dell’amore delirante tra il geloso Swann e la mondana Odette) nel ricercare la verità che non sempre si nasconde tra le pieghe più sordide della vita. Leggendo Alla ricerca del tempo perduto si può percepire l’animo angosciato ed inquieto di Proust; a tal proposito ha ragione Alessandro Piperno quando sostiene che “la forza rabbiosa di uno scrittore che la tradizione ci consegna è come una sorta di simulacro di fragilità e deliquescenze morali. Invece il vigore muscolare di Proust annienta i suoi esegeti, anche quelli più scaltri, più cinici e nichilisti”.

L’opera presenta un ventaglio ricco di simboli, analogie, metafore e segreti da ricercare. Come ha detto Proust stesso, la Recherche è “una costruzione dogmatica, cioè segue un piano rigoroso e conseguente” e per poterla comprendere nella sua totalità è necessario riassumere “per summa capita” il suo svolgimento, libro per libro.

1 – Du coté de chez Swann (Dalla parte di Swann, alla sua uscita, fu snobbato in Francia e stroncato in Italia, indicato dalla critica come un romanzo d’appendice sulla scia de I misteri di Parigi di Eugene Sue). Il narratore ripensa, insonne, alla propria infanzia. Il ricordo più vivo è quello in cui, durante le vacanze in campagna a Combray, sua madre gli negava il bacio della buona notte, per trattenersi con un ospite, Charles Swann. La realtà di quel mondo, che egli si sforza inutilmente di rievocare, gli sembra perduta. Ma un giorno, assaggiando per caso un biscotto inzuppato nel tè, esso risorge: quel sapore, che da piccolo gli era familiare, gli restituisce le sensazioni, i ricordi, i racconti legati a Combray. La vita abitudinaria del paese era come quella della zia Léonie, ipocondriaca e reclusa volontaria, che dal suo appartamento spiava l’ordine immutabile delle cose. A lei badava Francoise, domestica ora mite e materna, ora spicciativa e crudele. In quella casa, i genitori del narratore accoglievano Swann, ricco israelita e raffinato intenditore d’arte, guardato con sospetto per aver sposato una cocotte (donna di facili costumi), Odette de Crécy. Alla sua tenuta portava una delle strade percorse dal narratore durante le sue passeggiate; l’altra, invece, conduceva al castello dei duchi di Guermantes, che il bambino immaginava circondati di gloria e di poesia.
A dispetto di quello che si credeva a Combray, Swann e i Guermantes facevano parte della stessa alta società parigina. Era stato allontanandosi da questa e frequentando i Verdurin, borghesi rampanti e animatori di un salotto, che Swann aveva conosciuto Odette e, tormentato dalla gelosia, aveva finito per sposarla. Dal matrimonio era nata Gilberte: il narratore ha giocato con lei agli Champs Elisées e, senza confessarglielo, se ne è innamorato.
2 –A l’ombre des jeunes filles en fleur (All’ombra delle fanciulle in fiore). Sono due le scoperte che reggono il “romanzo di formazione” del narratore adolescente: quella dell’arte da un lato, quella della vita mondana e dell’amore dall’altro. A Parigi egli assiste a una recita della celebre attrice Berma ed è presentato allo scrittore che più ammira, Bergotte; ma, in entrambi i casi, la realtà lo delude. A Balbec, sul mare della Normandia, conosce alcuni membri della famiglia Guermantes: la vecchia Madame de Villeparisis, che si lega a sua nonna, Robert de Saint Loup, che diventerà suo intimo amico, e l’altero e bizzarro Barone di Charlus. Ma lo affascina anche la piccola banda di ragazze che scorrazzano per Balbec e, tra queste, Albertine. È di lei che il narratore si innamora ed è lei ad introdurlo presso il pittore Elstir. Questi gli rivela l’esistenza di un’arte incentrata sulla metafora e che modifica la nostra percezione delle cose svelandone il significato segreto.
3 – Le coté de Guermantes (La parte di Guermantes) Tornato a Parigi, dove sua nonna, malata, muore, il narratore alloggia vicino al palazzo dei Guermantes. La corte che egli fa alla duchessa, tra il patetico e il ridicolo, cade nel vuoto; eppure, stringe sempre più i rapporti con la nobile famiglia. Prima è ospite di Saint Loup, poi è invitato ad un ricevimento di Madame de Villeparisis e subisce le strane attenzioni di Charlus, infine è accolto con benevolenza nella stessa cerchia dei duchi. Ma il loro mondo, visto da vicino, perde l’incanto della poesia; e persino la duchessa, ricevendo con incredula superficialità la notizia che Swann le dà di essere malato incurabilmente, svela l’inconsistenza della magia mondana.
4 – Sodoma et Gomorra (Sodoma e Gomorra). Il narratore sorprende Charlus in uno stupefacente dialogo, e ha così la chiave di comportamenti prima incomprensibili: virilismo e isteria nascondono la sua omosessualità. Tornato a Balbec, il narratore vive, a più di un anno di distanza, il dolore per la morte della nonna, che qui lo aveva accompagnato per la prima volta. Stringe la relazione con Albertine, ma ne scopre il lesbismo. Con irrazionale angoscia, decide di portarla a Parigi e di sposarla.
5 – La prisonnière (La prigioniera). La convivenza del narratore con Albertine è, più che amore, reciproca tortura. Ossessionato dalla gelosia, egli tenta di ricostruire il passato di lei, che continuamente gli sfugge. Intanto, dopo la morte di Swann e Bergotte, trova nella musica di Vinteuil un ideale estetico vicino a quello rivelatogli da Elstir. L’arte sembra dunque schiudere quella pacificazione che l’amore nega, e che nega ancor più, con l’improvvisa fuga di Albertine da Parigi.
6 – Albertine disparue (La fugitive) (Albertina sparita. La fuggitiva). Un telegramma informa il narratore che Albertine, caduta da cavallo, è morta. D’ora in poi non gli resterà che tormentarsi nell’impossibile tentativo di ricostruire definitivamente la verità su di lei e, alla fine, dimenticarla. L’oblio è sanzionato da un viaggio a Venezia, mentre il mondo parigino muta e si capovolge. Gilberte Swann sposa Robert de Saint Loup (che, si scoprirà, è segretamente omosessuale), Charlus si umilia per amore di un cinico violinista, Morel: le gerarchie sociali e i miti dell’epoca di Combray stanno crollando.
7 – Le temps retrouvé (Il tempo ritrovato). Siamo nel 1916. Dopo un lungo soggiorno in una clinica, il narratore torna in una Parigi esposta ai bombardamenti tedeschi. Qui ha la rivelazione intera della perversione di Charlus, presto colpito da paralisi. In un ricevimento dai Guermantes ricompare, come in una danza macabra, il mondo della giovinezza del narratore, su cui gravano le ombre della fine. Egli si crede, ormai, incapace di scrivere. Ma in una serie di folgorazioni simili a quelle che gli hanno restituito Combray, il narratore scopre la sua vocazione: fare delle esperienze della sua vita i materiali di un’opera d’arte, e vincere la morte.

Celebre è l’incipit della Rechèrche <<A lungo mi sono coricato di buonora>>, frase che viene ripresa dal protagonista del capolavoro di Sergio Leone, C’era una volta in America. Restando nel campo della settima arte il regista Luchino Visconti avrebbe voluto realizzare un film sulla Récherche, ma di li a poco, mentre stava raccogliendo materiale per il suo lavoro, sarebbe morto.

Volendo attecchire alla psicoanalisi (tendenza abbastanza consolidata) si può considerare La Recherche come un’efficace risposta all’elaborazione di una grande sofferenza, la quale esige una sua giusta dimensione (in quanto malattia) nella psicoanalisi di Freud: lo stesso piacere nel ricordare all’interno di una logica ripartita, sia volontariamente che involontariamente.

Come afferma lo stesso Proust, <<Questa istintiva capacità di far resuscitare i ricordi e le sensazioni più antiche […] nella profondità organica, è divenuta traslucida delle viscere misteriosamente illuminate>>. Le azioni più comuni, i gesti più semplici, sono esaminati in ogni loro sfumatura con mirabile sensibilità e acutezza, e il narratore ci fa capire che tutto è misurato dagli anni e che va verso la morte, motivo per il quale aspiriamo all’eternità.

Tuttavia, mentre Freud lotta contro il tempo per poter affermare il suo valore al mondo, a Proust non interessa il tempo; egli infatti si dedica alla vita mondana, ma anche lui riesce a trovare un modo per recuperarlo, per ritrovarlo, attraverso le intermittenze del cuore. Entrambi, dunque, vogliono vivere davvero il tempo, essendone consapevoli.
Specialmente in Sodoma e Gomorra e in La fuggitiva si percepiscono fortemente l’ineluttabilità dell’oblio e il suo perverso meccanismo che coinvolge non solo il destino dell’uomo ma la Storia stessa, la società e i suoi costumi. La soluzione, sia per il romanziere che per lo psicoanalista è scrivere, sebbene con soluzioni differenti.

Proust non è stato solo il grande interprete dell’interiorità, lo scrittore della memoria; egli ha anche dato un grandioso affresco delle società francese tra Ottocento e Novecento attraverso le vicende di due categorie sociali: l’aristocrazia e la borghesia. Come ha giustamente notato Giacomo Debenedetti, grandissimo estimatore di Proust, <<La Recherche è un’allegoria di quel vivere mondano tipico dei religiosi, ovvero il subire la cronaca e la storia come distruzione del tempo>>. Debenedetti ha fatto da eco all’affermazione emblematica dello stesso Proust secondo il quale si entra in letteratura come si entra in religione.

Lo stile di Proust è caratterizzato da un periodare ampio, ricco di subordinazioni, con continui trapassi verbali, incisi, che evoca le sensazioni e gli stati d’animo più sottili, quasi a cercare incessantemente di catturare la felicità  per dare un senso alla propria esistenza e alla letteratura stessa. Non vi è azione ne La Récherche: Proust è prolisso, ma nessuno come lui al giorno d’oggi è in grado di descrivere la vita quotidiana con la stessa intensità e struggimento.

Dato il desiderio del narratore della Récherche di fare della propria vita un’opera d’arte per vincere la morte, si potrebbe essere portati a pensare, erroneamente, di accostare la figura di Proust a quella di un esteta, di un decadente, come ad esempio D’Annunzio; ma la “bellezza” di Proust si differenzia da quella degli altri “esteti” sia del suo tempo che della precedente generazione: essa non è un modo di possedere, di affermare una trionfale manomissione e manipolazione delle cose; è piuttosto una maniera sofisticata di chiedere scusa alle cose, svelandone il loro segreto.

E l’amore? Come intende l’amore Proust? Anch’esso in maniera tragica? A tal proposito possono esserci ancora una volta d’aiuto le parole di Debenedetti, secondo il quale “Proust identifica subito nel tema dell’amore, la figura più plastica, riconoscibile, umana, di quell’impresa disperata e tormentosa contro l’inviolabile, di quel viaggio lungo itinerari ansiosi e sbagliati alla volta del segreto individuale delle cose e degli uomini, verso l’anima che si occulta e si annuncia dietro la facciata”.

 

“Cuore di cane”, i timori della borghesia di Bulgakov

 

22 dicembre 1924. Lunedì 

 
Cartella clinica.
Cane di laboratorio.
Età: circa due anni
Sesso: maschile.
Razza: bastarda.
Nome: Pallino.
Pelo: rado, a ciuffi, color marroncino bruciacchiato
Coda: color crema.
Sul fianco destro, tracce di una scottatura del tutto cicatrizzata. Alimentazione prima di venire dal prof.   : scadente. Dopo una settimana di permanenza in casa del professore: ben nutrito.
Peso: 8 kg (punto esclamativo).

Cuore, polmoni, stomaco, temperatura: normali. 

 
Nel 1925  lo scrittore russo Michail Bulgakov compone Cuore di cane, un racconto previsto per la Rivista Nedra, per la quale erano già stati pubblicati Diavoleide ed Uova fatali.
Cuore di cane è la storia ironica e avvincente dell’incontro avvenuto in una stradina del centro di Mosca,  tra un cane randagio di nome Pallino ed un passante, il medico  Filip Filipovič Preobraženskij che deciderà di portare il cane con sé e  fargli da  padrone. Da questo momento in poi, la vita di Pallino non sarà più la stessa. La condizione di randagio non gli apparterà più e le attenzioni che gli verranno rivolte gli permetteranno di vivere una realtà completamente diversa: Ora è un borghese anche lui.
Pallino, molto affezionato al suo padrone, sarà cavia di un esperimento improbabile, voluto proprio dal padrone stesso e dal suo assistente Bormental. I due decidono di trasformarlo in un uomo, trapiantandogli l’ipofisi ed i testicoli di un uomo morto. E, piano piano, Pallino, viene osservato nella sua assurda trasformazione, quando il suo corpo abbandona le sembianze del cane ed assume comportamenti tipici dell’essere umano. Un essere umano che, precedentemente, era stato assassinato e questo spiegherebbe le farneticazioni di Pallino e i suoi deliri. Questa ‘magia’, però, dura poco e Pallino,  torna a vestire gli abiti del cane domestico.

Quando il cane diventa uomo, l’uomo diventa cane, inevitabilmente non ci si riconosce e nemmeno la scienza puo’ fornire risposte. Ciò che viene originato è il risultato di una snaturalizzazione della società che rischia di perdere tutto. La deriva è prevedibile.

Lo stile scelto da Bulgakov ci ricorda quello adoperato per i manuali scientifici. E ciò viene fatto con uno scopo ben preciso, che è quello di rendere credibile l’assurdo, proprio attraverso il paradosso scientifico. Ogni scelta dello scrittore è compiuta con una finalità ben precisa: I personaggi ed il loro linguaggio non sono altro che l’emblema della società sovietica con le sue stratificazioni e gerarchie. C’è il linguaggio del proletario, quello del professionista borghese, dei pazienti “manichini tardoromantici”, dei compagni burocrati schiavi del regime e di coloro che sono a capo della scala sociale. Con Bulgakov, si parla di vera e propria ”cura linguistica”, che lo avvicina agli scrittori di teatro. La vita, attraverso la satira che egli ne fa, e che è satira del sistema ma anche dell’individuo, viene scandagliata nel suo grottesco realismo.

Ma perché egli percepiva la vita come azione. Per lui la vita fu sempre un atto, un qualche inatteso mutamento, una qualche scoperta
Considerato un racconto ambiguo, e surreale Cuore di cane ci appare come una grande allegoria della storia. Scorrendo le pagine, ci perdiamo in una sovraeccitazione narrativa, leggendo, è come se gli oggetti prendessero forma,  si relativizzassero, attraverso minuziose descrizioni e  spesso determinate connotazioni fisiche dei personaggi bastano a raccontarceli.
Sotto torchio è la società sovietica corrotta, e in particolare la borghesia, ormai alla sbando, che teme il proletariato, verso cui la critica è decisa, totale e palese. Molte opere di Bulgakov, infatti, subirono la censura sovietica negli anni di Stalin (il quale si fece fautore  della  politica di collettivizzazione  al fine di fare della Russia una grande potenza economica) e ci sono pervenute solo dopo la sua morte come anche Cuore di cane, scritto nel 1925 e rimasto inedito, in Russia, fino al 1987, letto già in Italia un ventennio prima.

Carlo Emilio Gadda: l’ingegnere “aggrovigliato”

Nato a Milano in una famiglia borghese, la vita di Carlo Emilio Gadda (Milano, 14 novembre 1893 – Roma, 21 maggio 1973) è stravolta dalla morte del padre, nel 1909, poiché la madre costringe i propri figli a durissimi sacrifici per mantenere un regime di vita adeguato alle apparenze della borghesia lombarda. Simbolo di questo desiderio sociale è la Villa di Longone, costruita dal padre con investimenti folli, per ostentare l’alto tenore di vita borghese. Ogni decisione familiare è subordinata alla ricerca di persistere in quello status symbol: è per questo che Gadda è costretto ad abbandonare le vocazioni letterarie per iscriversi a ingegneria. Tali elementi biografici sono alla base della nevrosi dell’autore, diviso tra l’amore per la propria madre, e l’odio per la stessa.

Gli studi universitari furono interrotti nel 1915 per la chiamata alle armi. Le esperienze della guerra in trincea e della prigionia si rivelano decisive per la formazione della personalità gaddiana, aggravando la sua depressione già resa insostenibile dalla morte del fratello Enrico, visto da sempre come un vero e proprio mito personale contro il quale misurare la propria impotenza e inutilità. Ottenuta la laurea in ingegneria, si guadagna da vivere facendo l’ingegnere, lavoro che lo porta a viaggiare molto, sino a Firenze, dove entrerà in contatto con l’ambiente di “Solaria” e con Montale, da sempre considerato un mito verso il quale si considera “goffo”. È l’inizio dell’esperienza letteraria di Gadda, pubblicando le sue prime prose narrative. Alla morte della madre,  lo scrittore vende la villa di Longone e avrà i soldi e il tempo per dedicarsi a un’opera rimasta incompiuta, che ripercorre la sua giovinezza e i difficili rapporti con la madre. Tra il 1940 e il ’50 vive stabilmente a Firenze, dove trascorre uno dei periodi più fertili e creativi della sua vita, infatti tra il ’46 e il ’47 pubblica a puntate su <<Letteratura>> la prima edizione di “Quer pasticciaccio brutto di via Merulana”, ripubblicato poi in un volume unico nel 1957.

Nel 1950 si trasferisce a Roma, dove inizia a lavorare come responsabile culturale nei programmi Rai. Dedica gli ultimi anni della sua vita a un intenso lavoro di risistemazione e pubblicazione delle sue opere, sempre avvolto nell’isolamento e nella sofferenza causata dalla nevrosi. Muore nel 1973.

La formazione culturale di Gadda è influenzata dall’illuminismo, imperniata sull’amore per la razionalità e l’ordine tipico della borghesia imprenditoriale, in contrasto con l’intricata situazione familiare e sociale del giovane  scrittore. Tuttavia, dopo la delusione bellica, l’autore si scaglia contro la borghesia che, ai suoi occhi, assume le sembianze di un’inetta attrice di un tradimento storico: in ogni opera critica i ceti dominanti e ogni modello concreto di ordine con parodia e sarcasmo, in favore di modelli e valori del passato, riprendendo il concetto di stato di Cesare. Da qui la celebrazione di tutte le forme di vitalità (per di più adolescenziali e femminili) orientate contro la morale repressiva borghese: benché Gadda fosse spaventato da ogni forma di disordine si trova alla fine a patteggiare per chi sovverte ogni sistema. In conclusione, tanto l’ordine quanto il disordine spaventano l’autore in egual misura.  Egli si fa portavoce del declino degli intellettuali tra la prima guerra mondiale e il fascismo, rifiutando con disprezzo l’idea del poeta vate dannunziano. Scrivere rappresenta la dura lotta con la realtà esterna con cui l’io deve misurarsi.

per lui il mondo è un groviglio caotico di cose e fenomeni che rende impossibile e ridicolo ogni tentativo dell’io di fondare giudizi sulla propria soggettività, dato che è lo stesso soggetto ad essere elemento di disordine e irrazionalità all’interno di un caos infinito. Se, dunque la scrittura è conoscenza del reale, l’unica realtà conoscibile per mezzo della lingua è proprio la realtà linguistica, per questo Gadda, attraverso un linguaggio sia tecnico che gergale, aspira a ricostruire le innumerevoli relazioni della realtà, mescolando i codici linguistici, abbandonando la lingua unica, in favore della frammentarietà linguistica che serve per rappresentare la frammentazione caotica della realtà e delle sue possibili chiavi interpretative.

Contini  ha definito la scrittura di Gadda con il termine francese <<pastiche>>. Infatti, l’effetto artificiale della lingua gaddiana ha la funzione di mettere in rilievo, grazie allo straniamento linguistico, il non senso della normalità.

Lo stesso corpus dell’opera gaddiana si presenta come un caotico groviglio, anche i racconti più importanti sono spesso definiti porzioni di scritture più vaste, parti di un tutto che manca. Accade così che anche l’insieme dell’opera gaddiana partecipi alla rappresentazione del caos e l’impossibilità di dominarlo, proprio come accade in ogni singola sua composizione. Questi elementi hanno fatto accostare Gadda a scrittori come Rabelais e Joyce.

OPERE

 

la cognizione del dolore

 Morta la madre nel 1936, Gadda affronta la propria nevrosi familiare scrivendo nel 1937 “La cognizione del dolore”. Il libro si apre con una immaginaria conversazione tra Autore ed Editore e si chiude con la poesia Autunno, definito il testamento di Gadda. La mancata adesione alla struttura tradizionale del giallo, fa si che al lettore sia consegnato un testo lirico anziché l’assassino. La vicenda è ambientata in un immaginario paese del sud America (facilmente identificabile con l’Italia) uscito vincitore dalla guerra contro un paese confinante (evidentemente l’Austria). I protagonisti della vicenda sono Gonzalo ingegnere nevrotico e depresso (doppio di Gadda) e sua madre, chiamata “La signora”. Questi dopo la perdita del capofamiglia e di un fratello di Gonzalo vanno a vivere in una villa (chiaro richiamo alla biografia dell’autore milanese e alla villa di Longone).

La madre intende aprire le porte della propria villa per impartire lezioni di francese alla gente del posto, per colmare il vuoto lasciato dalla morte precoce degli altri componenti della famiglia, Gonzalo è del tutto restio a questa apertura, e intende lo spazio domestico come il luogo chiuso nel quale trova protezione dall’orrore e dalla volgarità del mondo esterno. In questo desiderio nevrotico di chiusura convergono: il timore che la madre vecchia e ammalata, possa aggravarsi e una gelosia evidentemente edipica. L’uccisione della madre avviene in situazioni misteriose e Gadda non ci fornisce la risoluzione del caso. Una delle probabili soluzioni è il matricidio: l’uccisione della madre si presenta come folle possibilità di liberazione dal vincolo nevrotico. La nevrosi di Gonzalo denuncia i limiti della società borghese e i suoi malati rapporti d’affetto. Questa condizione pare alludere a quella del ceto intellettuale nel ventennio fascista, con un pessimismo senza riscatto: se la letteratura è forma di conoscenza (e quindi di cognizione) l’unica realtà da essa conoscibile sarà quella del dolore.

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

 Nel 1946 Gadda decide di lavorare a un racconto giallo, “Quer paticciaccio brutto di via Merulana” prendendo spunto da un fatto di cronaca: l’omicidio ad opera di un ex-domestica, di due vecchie signore romane. Nello stesso anno l’opera esce sulla rivista <<Letteratura>> in 5 puntate per poi uscire nel 1957 in un edizione unica priva di conclusione. Sebbene Gadda avesse promesso un continuo dell’opera con un altro libro, vi rinuncia dichiarando che l’opera è letterariamente compiuta, poiché essa è espressione di quel pasticciaccio cui allude il titolo: il nodo, groviglio o gnommero (gomitolo in romanesco) degli eventi fortemente correlati e privi di una risoluzione. “Il pasticciaccio” è il delitto di via Merulana emblema del caos e della terribilità delle cose.

La vicenda si svolge a Roma, nel febbraio del 1927, anno in cui Mussolini instaura il regime fascista: l’ordine deve regnare ovunque. Il commissario Ciccio Ingravallo, 35enne dai capelli neri arruffati, simbolo di quel garbuglio si occupa di un furto ai danni della Contessa Menegazzi avvenuto in Via Merulana, zona ricca e borghese. Pochi giorni dopo si consuma un orrendo delitto nell’appartamento di fronte a quello del furto: l’uccisione di Liliana Balducci, amica di Ingravallo per la quale egli prova ammirazione e amore quasi viscerale.

“Il pasticciaccio” è stato un vero e proprio caso letterario, incentrato soprattutto sull’utilizzo del dialetto. Da quel momento qualsiasi esperimento linguistico doveva fare i conti con Gadda e i continuatori di questa scuola furono chiamati da Alberto Arbasino i nipotini dell’ingegnere”.

Molte sue opere  inedite vengono pubblicate durante la Neoavanguardia : “I viaggi e la morte”, “Verso la certosa”,   “Eros e Priapo”, “La meccanica”.

 

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