Ungaretti: “per essere poeti bisogna anche saper fare i conti con il mistero che alberga in ogni animo’

Ungaretti dovrebbe essere un modello per i poeti contemporanei spesso illeggibili perché incomprensibili.

Ognuno, dopo aver finito di scrivere una raccolta poetica, dovrebbe rileggere “Allegria”, che si caratterizza per i versicoli immediati.

Dovrebbe essere la prova del nove per tutti i poeti. Allo stesso modo ogni  romanziere dovrebbe, dopo ogni sua fatica letteraria, rileggere “Se questo è un uomo” e “Una giornata di Ivan Denisovič” perché questi due capolavori riescono a coniugare anche essi sostanzialità e testimonianza.

La spontaneità di Ungaretti

Poi magari ogni scrittore potrebbe  decidere se pubblicare o rivedere di nuovo il lavoro. Ma ritorniamo ad Ungaretti. Sono talmente dirette e spontanee le  sue liriche, che riescono a spiazzare e a colpire favorevolmente anche i lettori più snob, abituati alla poesia del Novecento che si distingue per essere così intellettuale!

Ungaretti è agli antipodi di poeti così ricercati come Eliot e Pound. Riesce a semplificare il linguaggio e ad essere scarno ed essenziale. Nei suoi versi troviamo tutta la sua vita di esule che si forma culturalmente a Parigi (conoscendo Apollinaire e Picasso) e che combatte sul Carso.

La testimonianza della guerra

Queste poesie di Ungaretti sono testimonianza ineguagliabile della guerra.

Sono prive delle descrizioni e dell’eloquenza della lirica di quegli anni. Non vi sono leziosismi né orpelli inutili. Sono frutto di una ispirazione, che trascendono la metrica, la retorica e l’estetica. Non venga in mente a nessuno che le sue poesie scaturissero solo da intuizioni, seppure formidabili.

Tra intuizioni e lavoro

C’era del lavoro alle spalle. Erano state molte le varianti e le revisioni prima delle versioni definitive. Ad onor del vero bisogna anche ricordare che Ungaretti distrusse le tradizionali forme poetiche nelle prime liriche, ma successivamente dimostrò di saper utilizzare anche versi canonici come novenari ed endecasillabi.

Forse si oserebbe troppo a scrivere che fu una sorta di cubista della poesia nella sua prima fase. Come ebbe a scrivere Ungaretti per essere poeti è necessaria non solo la pazienza, la conoscenza della tradizione, l’intelletto.

Il senso del mistero

Bisogna anche saper fare i conti con il mistero che alberga in ogni animo: soltanto così una poesia può diventare unica come la sua. Ungaretti, quando scrisse i suoi primi innovativi versicoli, aveva appreso la lezione dei simbolisti francesi. Ma Ungaretti era completamente originale.

Aveva subito saputo distinguersi dai suoi illustri predecessori. Era un predestinato della poesia. Lo stesso Thomas Merton scrisse che Ungaretti era sconvolgente e che la sua intensità annientava.

Alcuni suoi versi rimarranno per sempre nella memoria di molti: “m’illumino d’immenso”, “è il mio cuore il paese più straziato”, “si sta/come d’autunno/ sugli alberi/ le foglie”, “Di che reggimento siete/ fratelli?”, “Non sono mai stato/ tanto/ attaccato alla vita”, “tra un fiore colto e l’altro donato/ l’inesprimibile nulla”.

La precarietà della vita

Queste illuminazioni esprimono in modo impareggiabile la precarietà e la fragilità proprie di chi combatte in una guerra assurda. Ungaretti aveva combattuto la grande guerra e per capire quanto fu devastante la prima guerra mondiale non bisogna andare molto lontano: basta andare a visitare Asiago, che fu completamente rasa al suolo in quegli anni.

Ungaretti viaggiò molto. Visse molto. Soffrì molto. Non soltanto per l’esperienza della guerra ma anche per la morte del figlioletto di nove anni a cui dedicò la raccolta “Giorno per giorno”.

Il dolore per la morte del figlio

Il poeta si chiedeva come era possibile continuare a vivere e a fare le cose di ogni giorno quando non poteva più vedere il suo bambino, la cui voce non avrebbe udito più.

Scrisse Ungaretti: “E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto!…”.

Nella sua vita il poeta sperimentò i dolori più terribili: gli orrori della guerra e la scomparsa del figlioletto. Ma Ungaretti riuscì a non lasciarsi mai sopraffare dalle avversità e dai tristi eventi. Riuscì sempre a superare questi periodi di crisi, testimoniando con i suoi versi le tragedie vissute.

Il bisogno di fraternità

La follia della guerra riuscì a vincerla confidando nell’uomo: credendo nella fraternità. Il dolore atroce per la perdita del figlio lo sconfisse non solo con la terapia della scrittura ma anche con la religiosità.

Ungaretti scrisse in modo apparentemente semplice ed è comprensibile a tutti. Ma non lasciatevi ingannare. Ungaretti era anche un profondo conoscitore della lingua e della poesia.

C’è chi potrebbe pensare che molti sarebbero in grado di scrivere come Ungaretti ma è un giudizio affrettato dovuto a pura superficialità e faciloneria: pensarla così è pura ingratitudine nei confronti di uno dei più grandi poeti del Novecento.

Ungaretti fu il primo a scrivere in quel modo così breve e coinciso.

 

Di Davide Morelli

 

Quasimodo: tradizione, impegno civile e società di massa desacralizzata

Quasimodo, nonostante le sue sperimentazioni e le sue revisioni stilistiche, fu sempre legato alla tradizione, grazie alla musicalità dei suoi versi e al suo classicismo (non a caso tradusse i lirici greci).

Inizialmente il poeta cantò il mito della Sicilia, la nostalgia e lo sradicamento dalla sua terra; nelle sue prime raccolte rievocò l’infanzia e i paesaggi che lo avevano visto nascere e crescere.

Quasimodo caposcuola ermetico

In quegli anni fu ermetico. Alcuni lo hanno considerato un caposcuola, mentre altri solo un fiancheggiatore di questa corrente letteraria.  Coloro che lo criticano negativamente per questa sua adesione dovrebbero però ricordarsi che erano gli anni della formazione del suo immaginario e del suo apprendistato poetico: non era ancora nella fase della maturità.

L’ermetismo aveva il grande pregio di proporre “la letteratura come vita” e di opporsi all’autoesaltazione, all’enfasi, alla megalomania di D’Annunzio. Alcuni critici però hanno sempre accusato gli ermetici di essere oscuri e di utilizzare un linguaggio allusivo.

Ma Quasimodo anche in questo suo periodo non fece mai un utilizzo eccessivo dell’analogia. Poteva sembrare di primo acchito non totalmente originale, eppure successivamente si dimostrò unico sia dal punto di vista espressivo che per quel che riguarda la visione del mondo.

Il distacco dalla retorica carducciana e dall’estetismo di D’Annunzio

Il poeta seppe distaccarsi dalla retorica di Carducci, dall’estetismo e dall’irrazionalismo di D’Annunzio, dall’intimismo e dalla stanchezza di vivere dei crepuscolari, dall’esaltazione del progresso dei futuristi, dal nazionalismo di altri artisti; il poeta siciliano non scavò mai nella parola e non distrusse il verso come fece Ungaretti.

Non distrusse mai le strutture logiche e sintattiche; non si abbandonò all’estetismo; non si lasciò corrodere dall’autodistruzione e dalla nevrosi; non fu mai preda dell’intellettualismo e ricordo che ad esempio per Croce l’autentica poesia era priva di sovrastrutture ideologiche, di allegorie, di tematiche filosofiche e teologiche.

Quindi secondo i canoni estetici crociani i suoi componimenti erano poesia. Il grande critico letterario Oreste Macrì scrisse un saggio sulla “Poetica della parola” di Quasimodo. Come poeta sono pochissimi coloro che lo giudicano in modo negativo. Come uomo all’epoca alcuni lo criticarono per non aver partecipato alla Resistenza.

Ma come scrisse lo stesso Quasimodo “il poeta modifica il mondo” e non è detto che lo possa fare soltanto con l’impegno politico-sociale, ma lo può fare anche con i suoi versi. Dopo la fase ermetica non scrisse più dell’Eden perduto ma trattò della sofferenza dell’uomo in guerra.

L’importanza della tradizione

Quasimodo dimostrò di saper compiere una evoluzione dal punto di vista umano, affrontando nuove tematiche. Aveva sempre nostalgia di casa, ma non era più il paesaggio siciliano ad avere la meglio: era piuttosto la coscienza civile ad essere presente in ogni lirica.

Il poeta non poteva stare nella sua torre eburnea, ma doveva esprimere sentimenti come solidarietà, partecipazione emotiva, fraternità.

Evitò così di descrivere l’incomunicabilità e divenne forse il più comunicativo dei poeti del novecento, addirittura forse più di Ungaretti: sicuramente uno dei più semplici e più comprensibili a leggersi, il più efficace a descrivere la crisi esistenziale dell’uomo moderno conseguente alla tragedia e all’orrore della guerra.

I suoi messaggi erano chiari ed espliciti.

Come non ricordare la lirica “Uomo del mio tempo”, in cui scrive che l’uomo è sempre lo stesso di quando usava la pietra e la fionda e che ora utilizza le sue scienze esatte per sterminare i suoi simili?

Oppure come scordarsi “Alle fronde dei salici” che necessita di una parafrasi solo se letta da un bambino delle elementari o al massimo delle scuole medie inferiori? Oppure della lirica “Quasi un epigramma” in cui definisce la società moderna come “la civiltà dell’atomo”? Non era forse questa poesia civile?

Quando la poesia si trasforma in etica

Non era questo un lirismo fatto da parole semplici che potevano arrivare a tutti? Ancora memorabili i versi di “Lamento per il Sud” in cui descrive un meridione dove si moriva di stenti e nonostante ciò ancora bello e incontaminato, a differenza di un Nord industrializzato e già inquinato.

La lirica più celebre di tutte è senza ombra di dubbio “Ed è subito sera” perché in pochissimi versi sono rappresentate sia la solitudine dell’uomo contemporaneo che la brevità della vita e lo scorrere inesorabile del tempo.

Il poeta cercò sempre di descrivere l’enigmaticità e il non senso di un mondo sfuggente e colmo di brutture: una società di massa desacralizzata (“senza Cristo”) in preda alla barbarie.

Da ricordare anche che dopo la fine del conflitto mondiale si avvicinò al neorealismo e si mostrò critico nei confronti del boom economico e del consumismo.

Per avere più  chiara la sua poetica bisogna ricordare che fu proprio Quasimodo nel suo saggio “Discorso sulla poesia” a scrivere che “la poesia si trasforma in etica, proprio per la sua resa di bellezza”.

 

Di Davide Morelli

Edith Södergran, fondatrice del modernismo finlandese

La vita di Edith Irene Södergran fu breve come una “stella caduta risuonando”, anche se la sua luminosità fu più evidente per i posteri. La giovane poetessa finlandese infatti fu considerata post mortem una delle voci più autorevoli dell’espressionismo e del modernismo nazionale e della poesia svedese (lingua in cui si espresse, pur essendo finlandese).

Il modernismo di Södergran

Södergran molto probabilmente è stata profondamente influenzata dai simbolisti, influenza che ritroviamo anche in questa lirica struggente e suggestiva, fatta di immagini e di languore. Lo stesso languore con cui attendiamo che l’altro si avvicini nonostante le schegge a baluardo della nostra condizione solitaria

Quando viene la notte,
io sto sulla scala e ascolto,
le stelle sciamano in giardino
ed io sto nel buio.
Senti, una stella è caduta risuonando!
Non andare a piedi nudi sull’erba,
il mio giardino è pieno di schegge.

Tramite l’uso di vari mezzi stilistici, la poetessa scandinava canta la bellezza e la ricchezza della vita, e alterna visioni di beatitudine ultraterrena a momenti di malinconica rassegnazione, in un personale mondo di immagini.

Södergran e lo svedese

Lo svedese non era né una scelta pragmatica né una lingua ovvia per la poesia d’avanguardia di Södergran, la quale, nata da immigranti finlandesi-svedesi a San Pietroburgo e dove frequentò una scuola preparatoria tedesca, era competente in tedesco, russo, francese e inglese, oltre allo svedese nativo.

Allo stesso modo, la decisione di Södergran di passare allo svedese per la sua poesia pionieristica ha limitato la circolazione del suo lavoro tra il pubblico accademico e quello popolare negli Stati Uniti. 

Ma passare allo svedese è stata una decisione decisamente avanguardista, coerente con la visione di Södergran per la sua arte. Ha cercato di liberare l’anima svedese dalla decadenza delle generazioni precedenti e di infonderle un nuovo spirito rivoluzionario.

L’importanza della natura

Nel suo manifesto “Arte individuale”, la poetessa scrive, “Jag betraktar detgamla samhället som modercellen, som bör stödjas till dess individerna resa den nya världen” [Considero la vecchia società come una cellula madre che dovrebbe essere sostenuta fino a quando gli individui non erigeranno il nuovo mondo].

Infine, e forse più significativo per la sua duratura influenza, è il suo lessico poetico straordinariamente semplice, che seduce i lettori a impegnarsi con una poetica che risulta non essere né semplice né naturale per le definizioni convenzionali.

Il lessico preferito di Södergran coinvolge gli elementi primordiali della natura, come i colori primari (soprattutto rosso, blu e bianco), fuoco, vento, acqua, sole, stelle e le caratteristiche fisiche del corpo femminile, da cui emanano tutti gli altri elementi. Il corpo femminile, quindi, funge da luogo e fonte di creazione per i nuovi campioni di poesia Södergran.

La forte associazione del poeta-oratore creativo con le funzioni fisiche del corpo femminile ha un’importanza particolare per la poesia lirica dati i suoi usi elegiaci convenzionali, in particolare da parte di un oratore maschio che desidera un’amata perduta.

Come sostiene Teresa Brennan, “l’ordine simbolico in cui opera il linguaggio, che rende possibili la cognizione, l’articolazione e il giudizio, è stato basato su una fantasia psichica della donna”.

Nelle poesie di Södergran inoltre sono state evidenziate dalla critica dei legami con il mito di Arianna abbandonata da Teseo.

 

 

Fonte https://www.ilcapoluogo.it/2020/06/28/emergenza-poesia-le-stelle-di-edith-sodergran/

‘Dante, il pellegrinaggio e le donne’, in una conferenza alla Biblioteca Casanatense

Secondo appuntamento del ciclo Le donne e Dante, promosso dalla casa editrice Il Sextante, di Mariapia Ciaghi, in collaborazione con la Biblioteca Casanatense, ricca di oltre 20.000 volumi e di cospicue rendite per l’istituzione e il futuro incremento della biblioteca, per celebrare il settimo centenario dantesco.

La biblioteca

La Casanatense, edificata per volere del cardinale Girolamo Casanate. fu inaugurata il 3 novembre 1701 e ben presto divenne una delle più importanti e fornite biblioteche del tempo, grazie a una capillare rete di contatti nei principali centri del mercato librario europeo e a un’attenta cura biblioteconomica, di cui testimonianza è il catalogo alfabetico Audiffredi allestito da G. B. Audiffredi, che la diresse dal 1759 al 1794.

I domenicani incaricano l’architetto A.M. Borioni di progettare un edificio nell’area del chiostro del convento: il risultato fu una sala di vaste dimensioni, austera e di grande eleganza, con un doppio ordine di scaffalature lungo le pareti per accogliere i volumi, scandito ancora oggi da cartigli lignei sui quali sono leggibili le indicazioni delle diverse scienze e discipline

Nel 1873 fu estesa anche a Roma la legge sulla soppressione delle corporazioni religiose, e nel 1884, al termine del lungo processo intentato dall’ordine domenicano, la proprietà della Casanatense passò definitivamente allo Stato italiano

Dante e le donne

Dopo aver affrontato le figure femminili della Divina Commedia in una conferenza tenutasi lo scorso 8 marzo, il prossimo 16 giugno sarà la volta di Il pellegrinaggio dantesco e l’incontro con Pia de’ Tolomei.

Che la Commedia sia anche un viaggio, lo si capisce sin dal primo verso, il celeberrimo «Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita».

Qui gli accenti di sesta e di decima sono sulle parole cammin e vita. La metafora della vita come cammino è dunque la prima immagine che appare agli occhi della nostra immaginazione di lettori.

Inoltre, rispetto al versetto biblico cui questo incipit allude – In dimidio dierum meorum vadam ad portas inferi (Is 38, 10) -, Dante aggiunge due elementi: inserisce proprio l’immagine della vita come un cammino e sostituisce l’aggettivo possessivo singolare mio («dierum meorum») con il plurale nostra: «nostra vita».

La Biblioteca Casanatense

Questo per dire che la vicenda raccontata non è solo quella individuale di Dante Alighieri, che pure ha grande spazio in tutta la sua particolarità e specificità storica, ma è il viaggio di ognuno di noi verso la propria casa, il luogo cui sente di appartenere.

L’importanza del pellegrinaggio

Nel Medioevo cristiano il pellegrinaggio assume un forte rilievo non solo sociale e spirituale ma anche simbolico, proprio perché viene inteso come una metafora della condizione terrena dell’homo viator, in cammino verso la patria celeste («in patria»).

Gli incontri del Poeta con le donne, nel lungo viaggio della Commedia, sono il filo conduttore del secondo appuntamento del ciclo Le donne e Dante, cui partecipano Lucia Marchi, direttrice della Biblioteca, Mariapia Ciaghi, editrice de Il Sextante e direttore editoriale di Eudonna, Renata Adriana Bruschi, coordinatrice di La Maremma per Dante, l’attrice Federica Bassetti e lo scrittore e poeta Giuseppe Strazzi.

Nel corso della conferenza si parlerà anche delle tante donne che, in ambito accademico, hanno studiato e studiano Dante, ma il cui lavoro non sempre è riconosciuto.

La conferenza si terrà, nel rispetto delle normative anti-covid, il 16 giugno alle ore 16,30 presso la Biblioteca Casanatense, in via Sant’Ignazio 52. Per informazioni 066976031 – b-casa.promozione@beniculturali.itwww.casanatense.beniculturali.it.

 

Premio Letterario ‘L’Avvelenata’, al via la prima edizione

L’Associazione di promozione sociale e culturale Teatro L’Avvelenata presenta la prima edizione del Premio Letterario L’Avvelenata.

Il “Premio Letterario L’Avvelenata” è un concorso letterario nazionale che mira a valorizzare la cultura attraverso la scrittura, fondato al fine di premiare e promuovere le migliori opere presentate. L’evento ha lo scopo di creare momenti di confronto e di approfondimento su temi sociali e culturali, nonché di intrecciare nuove reti di connessioni artistiche e editoriali sul territorio.

Questo Premio è dedicato ai pensieri, alle parole e ai sentimenti degli scrittori e delle scrittrici di ogni età, al fine di condividere prosa, poesia ed emozioni, e dialogare attraverso la sensibilità artistica e intellettuale di ciascuno.

Il Concorso ha il Patrocinio Culturale di WikiPoesia; ed è creato in collaborazione con Rivista Blam, La Caravella Editrice, CulturaMente, Il Menu della Poesia, Writers Editor e AĒ Autori. Presidenti della Giuria di qualità sono i prestigiosi autori Daniele Mencarelli e Paolo Zardi.

All’interno del Concorso è presente un premio speciale inerente alla Regione Lazio. Il Concorso è a tema libero. Non è previsto un numero massimo di opere da poter inviare. Le Opere possono essere inedite o edite. Possono partecipare autori e autrici di tutte le età, italiani e stranieri.

L’Avvelenata: sezioni

Il Premio si compone di più sezioni:

– SEZIONE A – Racconto Inedito (Adulti), autori maggiorenni; massimo 20.000 caratteri spazi compresi.
– SEZIONE B – Racconto Inedito (Giovani), autori di età inferiore ai 18 anni; massimo 20.000
caratteri spazi compresi.
– SEZIONE C – Racconto Edito (Giovani e Adulti), autori di qualsiasi età; massimo 20.000
caratteri spazi compresi.
– SEZIONE D – Poesia Edita e Inedita (Giovani e Adulti), autori di qualsiasi età; massimo 50 versi.

La Giuria terrà in considerazione il livello delle competenze richieste dal genere narrativo/poetico, la qualità letteraria dello scritto, l’abilità nella composizione, l’originalità del contenuto e la capacità di coinvolgere emotivamente il lettore. Le Opere devono essere inviate entro il 15 giugno 2021.

Premi

Descrizione dei PREMI:
– I primi tre classificati di ogni SEZIONE riceveranno l’attestato di merito del Premio.
– Rivista Blam offre ai/alle vincitori/vincitrici della SEZIONE A – Racconto Inedito (Adulti) e
della SEZIONE B – Racconto Inedito (Giovani) i seguenti premi:

Il primo classificato di ciascuna SEZIONE si aggiudicherà la pubblicazione del racconto, editato e corredato di illustrazione, sul sito della rivista. Si offre, altresì, un successivo lavoro di editing e correzione bozze da effettuarsi su DUE testi a scelta dell’autore/autrice;

Il secondo classificato di ciascuna SEZIONE si aggiudicherà la pubblicazione del racconto, editato e corredato di illustrazione, sul sito della rivista. Si offre, altresì, un successivo lavoro di editing e correzione bozze da effettuarsi su UN testo a scelta dell’autore/autrice;

Il terzo classificato di ciascuna SEZIONE si aggiudicherà la pubblicazione del racconto, editato e corredato di illustrazione, sul sito della rivista.

La Caravella Editrice mette in palio la pubblicazione cartacea delle migliori Opere in un’antologia a distribuzione nazionale. La selezione di questo premio avverrà secondo un criterio tematico: concorreranno le Opere di tutte le sezioni il cui contenuto avrà a che fare con la Regione Lazio o la Città di Roma Capitale; saranno ritenute concorrenti anche le Opere che fanno uso dei dialetti della Regione Lazio, quelle che hanno personaggi, ambienti, fatti o rimandi inerenti alla Regione Lazio.

A ciascun autore/autrice selezionato/a saranno inviate gratuitamente due copie del libro.

La Redazione realizzerà un video di presentazione per ciascuna delle tre poesie vincitrici. Lo script del video sarà definito in base allo stile delle poesie.

I video saranno rilanciati sul sito e sui canali social di CulturaMente che inviterà i/le vincitori/vincitrici della SEZIONE D e del premio “Overdose di Cultura” in una diretta social per parlare delle loro Opere con alcuni membri della Redazione specializzati in poesia. Tale contenuto sarà poi caricato anche sul canale YouTube del blog e sulla pagina del sito dedicata all’iniziativa.

Infine, i/le tre vincitori/vincitrici delle SEZIONI A e B si aggiudicheranno un incontro online su Zoom di concerto con la Direttrice Editoriale e Fondatrice di Rivista Blam, Antonella Di Lorenzo, nonché con la Redattrice, Valeria Zangaro, per offrire ai partecipanti consigli utili
in merito al booklive e al mondo della scrittura.

Le Opere poetiche vincitrici del Concorso e quelle ritenute meritevoli da CulturaMente riceveranno una recensione scritta dai Redattori del blog.

Per qualsiasi informazione è possibile scaricare il Bando – Premio Letterario L’Avvelenata

‘Carrà e Martini. Mito, visione e invenzione. L’opera grafica’ dal 13 giugno a Verbania

Il Museo del Paesaggio riapre la stagione espositiva con la mostra Carrà e Martini. Mito, visione e invenzione. L’opera grafica con opere provenienti dalla collezione del Museo e da una collezione privata milanese, a cura di Elena Pontiggia e di Federica Rabai, direttore artistico e conservatore del Museo.

L’esposizione inaugura presso gli spazi di Palazzo Viani Dugnani a Verbania sabato 12 giugno alle ore 11.30 e resterà aperta fino al 3 Ottobre.

In mostra oltre 90 opere, per lo più di grafica, dei due grandi artisti del Novecento italiano che si sono distinti e affermati proprio grazie all’invenzione di un nuovo linguaggio in pittura e scultura. Completa il percorso dedicato al mito e alla visione una serie di sculture di Arturo Martini, presentate accanto ai bozzetti, ai disegni e alle incisioni.

Carrà. L’opera grafica

In mostra sono esposte circa cinquanta tra acqueforti e litografie a colori, che comprendono tutti i più importanti esiti dell’artista. Si va dagli incantevoli paesaggi dei primi anni venti, tracciati con un disegno essenziale e stupefatto (Case a Belgirate,1922), alla suggestiva Casa dell’amore (1922), fino alle visionarie immagini realizzate nel 1944 per un’edizione di Rimbaud, in cui Carrà, sullo sfondo della guerra mondiale, rappresenta angeli, demoni, creature mitologiche e figure realistiche, segni di morte ma anche di speranza (Angelo, 1944).  Fin dagli inizi, inoltre, Carrà avvia grazie all’incisione un sistematico ripensamento della sua pittura, che lo porta a reinterpretare con acqueforti e litografie i suoi principali capolavori, dalla Simultaneità futurista alle Figlie di Loth, dal metafisico Ovale delle apparizioni al Poeta folle. L’incisione diventa così per l’artista un momento di verifica, ma anche uno struggente album dei ricordi.

Carlo Carrà La casa dell’amore II o Interno o La massaia 1924

La Stagione iniziale (1922-1928)

Le prime incisioni di Carrà – tutte acqueforti, con l’unica eccezione della litografia I saltimbanchi, destinata a una cartella edita a Weimar dal Bauhaus – risalgono al 1922-1923. E’ però nel 1924 che l’artista si dedica sistematicamente all’incisione, grazie agli insegnamenti di Giuseppe Guidi, che quell’anno aveva aperto un laboratorio calcografico nella sua stessa casa, in via Vivaio 16 a Milano. Esegue infatti trentatré acqueforti e stampa i rami che aveva inciso, ma non impresso, nel biennio precedente.

Carrà adotta un segno sintetico, duro, capace di esprimere il suo mondo di figure e luoghi sottratti al tempo. E’ soprattutto il paesaggio ad attrarlo, che vuole trasformare in “un poema pieno di spazio e di sogno”. Fin dagli inizi, però, l’incisione serve a Carrà anche per rielaborare opere precedenti, in un’incontentabile ricerca espressiva. Questa fervida stagione iniziale ha un’appendice nel 1927-1928, quando Carrà, che in quel periodo aderisce al gruppo del “Selvaggio” (la rivista toscana animata da Maccari, a cui sono vicini Soffici, Rosai, Morandi e altri artisti) esegue litografie e acqueforti caratterizzate da un linguaggio più pittoricistico.

La Stagione delle Litografie (1944-1964)

Nel 1944, dopo un intervallo di sedici anni dalle ultime incisioni, Carrà torna a dedicarsi alla grafica. A differenza degli anni Venti, quando aveva praticato soprattutto l’acquaforte, ora è la litografia a impegnarlo, sia in bianco e nero che a colori.

Le tavole di Carrà si raggruppano quasi sempre in progetti articolati. Nel 1944 pubblica la cartella Segreti, in cui prende vita un paesaggio trasognato (il lago di Como, visto da Corenno Plinio dove l’artista era sfollato nel 1943) immerso in una quiete irreale.

Sempre in questo periodo si dedica intensamente all’illustrazione. Nello stesso 1944 esegue dodici tavole per Versi e prose di Rimbaud, dove compare un mondo di angeli, demoni e segni di morte (riflesso dei tragici momenti della guerra). Nel 1947 illustra L’Après-midi et le Monologue d’un Faune di Mallarmé, tradotto da Ungaretti.

A partire dal 1949, ormai alla soglia dei settant’anni, ripensa invece sistematicamente alla propria opera.

Nella cartella Carrà 1912-1921 (Venezia 1950) e nei due album Carrà n. 1 e n. 2 dei primi anni Sessanta riprende opere del periodo futurista, primitivista e metafisico. Tutto il corteo di muse e maschere inquietanti nate quaranta-cinquant’anni prima gli si ripresentano alla memoria con la levità di un dagherrotipo, o con cromatismi leggeri e impalpabili. Come apparizioni.

Arturo Martini. L’opera pittorica e grafica

Alla fine degli anni trenta Martini prende sistematicamente a dipingere, accettando la sfida di un linguaggio per lui quasi nuovo, di cui deve assimilare pazientemente la tecnica.

In pittura non è il maestro celebrato, ma un principiante che parte quasi da zero e conosce imperfezioni, incertezze, fallimenti. Certo, in passato, soprattutto da giovane, aveva eseguito disegni, incisioni e anche qualche quadro, ma quelle prove non bastano a dargli la padronanza del mestiere e nelle sue lettere alla moglie Brigida rivela tutte le sue ansie, insieme alle sue speranze.

“Non mollo l’osso, devo spuntarla, deve nascere la mia pittura” le scrive e più tardi: “Mi par d’aver trovato con questa nuova speranza la vita, perché di scultura non ne potevo più, ero nauseato”.

Il 17 febbraio 1940 alla Galleria Barbaroux di Milano, Martini inaugura la sua prima mostra di pittura. Ventitré quadri, dipinti tutti nel 1939 tra Vago, Burano e Milano.

“E’ certo l’avvenimento maggiore della cronaca artistica dell’annata […] Martini ha raggiunto […] i gradini più alti della pittura contemporanea” aggiungeva euforico Guido Piovene, allora critico d’arte del Corriere della Sera.

“Il risultato è stato inaspettato, la critica entusiasta […] le vendite al modo che si comperasse pane in periodo di carestia” riconosceva anche Martini.

Preceduta in gennaio da un articolo trionfale, sempre di Piovene, sul diffuso supplemento del Corriere (“Martini è un grande scultore, ma da questo momento v’è un grande pittore in più”); governata da una concezione idealistica dell’arte, secondo cui i generi non contano e “i buoni scultori sanno anche disegnare”, la critica non aveva lesinato le lodi per quelle tele che univano il segno approssimativo dell’espressionismo lirico a una solidità appunto da scultore.

Anche un osservatore esigente come Savinio giudicava i quadri di Martini “rapidi, poetici, geniali”.

Arturo Martini La siesta 1946

Le circa quaranta opere in mostra sono comprese tra il 1921 e il 1945 coprendo tutta la carriera dell’artista, a iniziare dal lavoro a matita su carta Il circo del 1921 circa, importate disegno del momento di “Valori plastici” quando Martini è molto prossimo a Carrà e in genere a una personale rivisitazione della congiuntura metafisica.

Ricorda la grafica di Carrà per i corpi bloccati dentro un segno sigillante, e, nel contempo, sembra di cogliervi un’eco di Parade di Picasso, il grandioso sipario eseguito a Roma nella primavera del 1917 quando anche Martini frequentava sporadicamente la capitale.

Segue Carnevale del 1924, incisione pubblicata sulla rivista “Galleria” accompagnata da una breve poesiola non-sense sul “Carne-vale”. Si differenzia per levità di tratto dalle coeve xilografie pubblicate sulla stessa rivista, caratterizzate invece da tratti pesanti e scultorei.

Nel 1942 realizza 11 disegni preparatori – tutti in mostra – del Viaggio d’Europa per l’illustrazione dell’omonimo racconto di Massimo Bontempelli.

Tra questi disegni preparatori e la versione definitiva delle illustrazioni c’è lo stesso rapporto che sussiste tra i bozzetti delle opere monumentali e l’esito finale.

Rigidi e puramente orientativi questi “bozzetti” sono serviti a Martini per un primo approccio al soggetto del racconto bontempelliano e, pur testimoniando la presenza di alcuni topoi martiniani – il dormiente, l’incontro di due figure, gli squarci spaziali – e di un generale clima “metafisico”, è evidente il loro carattere provvisorio e di studio.

Illustrazioni dell’Odissea

Del 1944-45 sono il gruppo di incisioni predisposte da Martini per l’illustrazione della traduzione italiana dell’Odissea a cura di Leone Traverso, poi non pubblicata.

Eseguite a Venezia, rivelano un lato straordinario della versatile fantasia martiniana, anche qui orientata a sperimentare materiali “poveri” e linguaggi poveri, al limite tra immagine e pura suggestione timbrica. Pubblicate postume soltanto nel 1960 sono tra le prove più convincenti della grafica martiniana.

Accanto a queste prove dell’artista sono esposte dieci sculture come La famiglia degli acrobati, Can can, Adamo ed Eva, Ulisse e il cane, Testa di ragazza, Busto di ragazza e tre tele: Sansone e Dalila, La siesta e Paesaggio verde per rafforzare il tema della differenza tra disegno e realizzazione finale delle opere, pezzi unici di grande valore storico e artistico.

 

Non solo ‘Twilight’: come il Novecento ha rivoluzionato la figura del vampiro

Quella del vampiro è sicuramente una delle più amate dalla letteratura, tanto che da almeno duecento anni a questa parte non si è mai smesso di parlarne e di creare moltissime narrazioni, non solo su carta, che hanno come protagonista questa figura.

Negli anni, però, il vampiro si è quasi completamente trasformato da una creatura sanguinaria e senza pietà a un’anima tormentata e molto più umana di quanto ci si aspetta. È quindi interessante analizzare l’evoluzione di questa enigmatica figura nella letteratura.

L’origine del vampiro nella letteratura

Intesi come essere soprannaturali che si nutrono del sangue delle loro vittime, solitamente umane, i vampiri esistono da millenni e sono presenti nel folklore di moltissimi popoli di tutto il mondo.

Le prime testimonianze scritte, ma non solo, che raccontano delle gesta di queste creature sono quasi altrettanto antiche: creature simili ai vampiri appaiono nel Kathāsaritsāgara indiano risalente all’XI secolo d.C., mentre i persiani rappresentarono questi esseri attraverso la pittura, come si evince da alcuni cocci ritrovati dagli archeologi.

La stessa Lilith della tradizione ebraica sembra condividere alcune caratteristiche con quelle dei vampiri e anche le lamie greche e le empuse romane erano famose per la loro passione per il sangue umano. Per tutto il Medioevo continuarono a diffondersi leggende riguardanti i vampiri e piano piano la figura che oggi identifichiamo con quella del vampiro iniziò a prendere forma in est Europa.

L’illuminismo e i vampiri

Nel 1764 nel suo Dizionario filosofico Voltaire inserisce una voce riguardante i vampiri, dando la prova che l’Illuminismo non fu in grado di estirpare questa credenza e nel campo della narrazione il vampiro moderno iniziò ad apparire verso la metà del XVIII secolo per mano di autori come Ossefender o Goethe.

Il Romanticismo

È però durante il Romanticismo e con la nascita del romanzo gotico che vede la luce in maniera definitiva il vampiro letterario per eccellenza, come creatura seducente ma pericolosa e senza scrupoli, grazie a opere come Il vampiro di Polidori o Carmilla di Le Fanu.

Non si può però parlare di vampiri nella letteratura senza citare il celeberrimo Dracula di Bram Stoker, l’opera forse più famosa che ha come protagonista questa creatura, pubblicato per la prima volta nel 1897.

Da allora il conte Dracula, a sua volta ispirato alla figura storica di Vlad l’impalatore, divenne quasi sinonimo di vampiro, portando con sé tutta una serie di stilemi duri a morire come la capacità di trasformarsi in pipistrello o la predilezione per la Transilvania.

 

La rivoluzione del vampiro

Dopo aver stabilito con certezza le caratteristiche del vampiro tradizionale, il XX e il XXI si sono senza dubbio impegnati a rivoluzionare questa figura, stravolgendone le regole e inserendola in setting insoliti. Un esempio lampante è il libro Io sono leggenda del 1957, ambientato in un futuro post-apocalittico abitato da terrificanti creature simili a zombie che si nutrono del sangue umano.

Stephen King nel 1975 con Le notti di Salem inserisce invece dei vampiri senza scrupoli in un’ambientazione a prima vista tranquilla: una normale cittadina americana degli anni ‘70.

Nel 2010, invece, i vampiri incontrano vere figure storiche nel romanzo Abraham Lincoln, Vampire Hunter di Seth Grahame-Smith, da cui è stato anche tratto un adattamento cinematografico, che immagina una versione alternativa del XIX secolo in cui gli USA sono popolati da vampiri che vengono sterminati da niente poco di meno che Abraham Lincoln in persona.

La più grande rivoluzione degli ultimi decenni riguardante il vampiro nella letteratura ha però reso questa figura quella del protagonista tormentato.

Il filone Twilight

A molti, a questo punto, verrà in mente la serie di libri Twilight firmata Stephenie Meyer, sul cui filone sono nate moltissime altre opere di finzione partendo da una serie di film di successo arrivando perfino a slot machine come Immortal Romance, i cui protagonisti sono appunto degli affascinati vampiri.

Stephenie Meyer non è però stata la prima a chiedersi “cosa succederebbe se i vampiri fossero buoni e ce ne potessimo perfino innamorare?”.

A partire dagli anni ‘70 con le opere di Anne Rice, infatti, la letteratura ha iniziato a passare il microfono ai vampiri offrendo loro la possibilità di raccontare il loro punto di vista. Romanzo dopo romanzo sono emerse sempre più spesso creature travagliate, con un passato sofferto e una forte lotta interiore e che interagiscono con i protagonisti umani.

Altri libri di successo

Ne sono un esempio i più di venti libri di Laurell K. Hamilton, il cui primo volume è Nodo di sangue, in cui i vampiri sono sia gli avversari dei protagonisti che alleati e perfino oggetti del loro amore.

Alcune opere, inoltre, hanno riscosso un successo quasi paragonabile a quello di Twilight; è il caso ad esempio della serie di romanzi Il diario del vampiro, che ha ispirato a sua volta la serie tv di successo The vampire diaries e un videogioco omonimo.

Se negli ultimi anni sembra essere passata la febbre per i vampiri, il mondo della letteratura difficilmente abbandonerà questa creatura affascinante. Fin dall’antichità, infatti, abbiamo sentito il bisogno di raccontare le gesta, spesso terrificanti, dei vampiri, rendendo però questa figura negli anni sempre più complessa e meno crudele del previsto.

La pittura iperbolica di Ventrone stupisce e incanta. Oltre 2500 visitatori a Urbino

Le opere di Luciano Ventrone catturano la luce in un modo così straordinario da incantare chiunque si avvicini ad ammirarle. La mostra in corso alle Sale del Castellare di Palazzo Ducale a Urbino ha già totalizzato oltre 2500 visitatori e segna in modo positivo la riapertura della stagione delle mostre 2021.

Dal titolo “Luciano Ventrone. Il pittore dell’iperbole” la mostra omaggia il grande artista contemporaneo a poche settimane dalla sua improvvisa scomparsa. «Le persone vengono a vedere le opere di Luciano Ventrone perché vogliono meravigliarsi. – evidenzia Sgarbi – Ventrone ha saputo affermarsi come grande maestro nella figurazione, con un virtuosismo eccezionale. L’artista sembra cercare un assoluto, una essenza, che, nell’opera, accresce la realtà, non si limita a riprodurla. È di più. Ventrone è il pittore dell’iperbole. E iperboliche, esagerate, barocche appunto, sono le sue opere, piuttosto che iperrealistiche. Una grande illusione».

La mostra è visitabile dal martedì alla domenica, dalle ore 10 alle 18, con ingresso gratuito.

Luciano Ventrone è un maestro impareggiabile della pittura e sa catturare la luce in modo sublime imprimendola nel colore. La mostra di Urbino espone quarantacinque opere, di cui alcune mostrate al pubblico per la prima volta in assoluto. Il critico Federico Zeri ha definito Luciano Ventrone L’ultimo erede di Caravaggio”, con la sua rappresentazione della realtà oltre il reale.

Lavorando direttamente sulla fotografia, Ventrone è in grado di cogliere quei dettagli non visibili all’occhio umano e che meravigliano sempre lo spettatore. Da scoprire prima con un’osservazione ravvicinata, quasi da microscopio, per poi allontanarsi dai dipinti e scoprirne la totalità. Diceva Ventrone della sua arte: “Lo studio della pittura non è la mera rappresentazione dell’oggetto ma è colore e luce: i giusti rapporti fra le due cose danno la forma nello spazio. Il soggetto non va visto come tale ma astrattamente”.

Luciano Ventrone è tra gli artisti italiani maggiormente conosciuti a livello internazionale. Ha esposto nei più importanti musei e gallerie, da Roma a Milano, da Londra a Singapore, da New York a Mosca e San Pietroburgo. Nelle sue opere crea mondi suggestivi, carichi di vissuto e di emozione. La scelta dei soggetti lo lega a grandi pittori del passato, tuttavia la sua attenzione per l’applicazione della pittura, il suo trattamento del colore e della luce lo pongono tra i contemporanei.

La mostra, promossa dal Comune di Urbino, è un progetto di Contemplazioni, in collaborazione con l’Archivio Luciano Ventrone, con il coordinamento generale di Gianluca Bellucci.

«La mostra di Luciano Ventrone – sottolinea il sindaco Maurizio Gambini assume un significato speciale: diventa il simbolo di una rinascita delle attività culturali nella nostra città, dopo una lunga pausa forzata, a causa della pandemia da Covid-19 che ci ha accomunato al resto del mondo. Luciano Ventrone ci ha lasciato di recente, all’improvviso. A Urbino  questa mostra si carica quindi idealmente dell’energia vitale dell’autore e ci trasmette un’eredità creativa che rimarrà per sempre a disposizione degli amanti dell’arte».

 

Per informazioni: Info Point IAT tel. +39 0722 378205 / +39 0722 2613 – info@vieniaurbino.it / iat.urbino@regione.marche.it

 

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