‘Il mulino del Po’, l’opera monumentale di Riccardo Bacchelli

Il mulino del Po: si contano forse sulle dita, e ogni anno scemano, e per scoprirli bisogna andare apposta a cercarli, chi non percorra il fiume in barca.

Tanto pochi, nella vastità molle e potente del fiume serpeggiante, li nascondono o li lasciano appena intravedere, qua un gomito, là un ciglio d’argine, altrove un lembo di golena boscosa, o le svolte della strada rivierasca.

Mulini del Po: le parole con cui Riccardo Bacchelli apriva il suo romanzo intitolano e inaugurano anche queste pagine, ne suggeriscono il metodo di ricerca e mormorano le difficoltà incontrate.

Un romanzo fluviale di uno scrittore emarginato dal Novecento e la storia, anch’essa fluviale, delle sue riscritture per il cinema e per la televisione.

Il mulino del Po: trama e contenuti

Lazzaro Scacerni, nominato erede da Mazzacorati, un capitano dell’esercito napoleonico in Russia, tornato in Italia si costruisce un mulino. Sposa Dosolina e conserva con difficoltà i suoi beni. Il figlio Giuseppe, detto Coniglio Mannaro, riesce ad ampliare, non sempre con metodi leciti, la proprietà paterna.

Il figlio di Giuseppe, Lazzarino, raggiunto Garibaldi, muore a Mentana. Dopo una violenta inondazione Coniglio impazzisce e finisce in manicomio. La moglie Cecilia supera mille avversità per mantenere la famiglia.

Il figlio Princivalle, per difendere la sorella Berta, uccide con un pugno un giovane vicino. Un altro figlio di Cecilia, Giovanni si sposa e adotta un trovatello che morirà sul Piave nel 1918 e sarà l’ultimo Lazzaro Scacerni.

Nell’ultima parte del romanzo, intitolata Mondo vecchio sempre nuovo, l’epopea della famiglia Scacerni giunge alla fine. Cecilia, moglie di Giuseppe, fa di tutto per riuscire a sopravvivere da sola.

Una volta rimasta vedova, però, la sfortuna si accanisce di nuovo su di lei: il figlio Princivalle verrà accusato dell’incendio doloso del San Michele e finirà in carcere.

Giovanni, l’altro suo figlio, adotta un bambino e lo chiama Lazzaro. Questo verrà però ucciso sul Piave proprio mentre la vittoria italiana si stava avvicinando. Era un geniere e, quando venne colpito, stava lavorando alla costruzione di un ponte di barche.

Una trilogia sul Risorgimento italiano

La trilogia pubblicata a puntate da Riccardo Bacchelli sulla rivista «Nuova Antologia» tra il 1938 e il 1940, e poi raccolta in volumi per l’editore Garzanti, è infatti solo uno dei mulini del Po: il capostipite di una serie di mulini ridisegnati in seguito per il discorso audiovisivo sul grande e sul piccolo schermo.

Saranno questi i veri “ultimi mulini natanti, gli ultimi degli ultimi”.

Sia per il film del 1949 diretto da Alberto Lattuada sia per lo sceneggiato trasmesso in due cicli con la regia di Sandro Bolchi nel 1963 e nel 1971 sulla Rete Nazionale, il romanzo di Bacchelli rappresenta il palinsesto sul quale sono stati vergati dei sovratesti, destinati a tradursi in immagini.

Tra letteratura, cinema e televisione

Entrare nei cantieri di scrittura cinematografica e televisiva del Mulino del Po significa valutare per la prima volta un lavoro di tessitura dell’intreccio fatto di tappe e mani diverse. E significa scoprire sempre, a fianco alle tracce lasciate da illustri sceneggiatori che rispondono ai nomi di Federico Fellini, Tullio Pinelli, Mario Bonfantini, Carlo Musso e Luigi Comencini, il filo rosso tratteggiato dal pennino di Riccardo Bacchelli, coinvolto in entrambi i progetti.

Per una manciata d’anni Riccardo Bacchelli, classe 1891, nasce prima dell’invenzione del cinematografo e, rispetto a esso,
condivide con la generazione dei letterati più anziani – Giovanni Verga in testa – quell’atteggiamento ambivalente fatto di diffidenza e di sottaciuta compromissione professionale solo in ragione dell’odor di quattrini.

A differenza dei suoi predecessori, però, Bacchelli incontra anche la televisione. E la rimira. Egli è uno dei primi letterati che entra fisicamente nel tubo catodico, conduce trasmissioni culturali di un certo rilievo e spende con dovizia il suo inchiostro per la narrazione drammaturgica sul piccolo schermo.

La storia dei “piccoli” e quella dei grandi

Il mulino del Po è il racconto di diverse generazioni, uno spaccato tra la caduta di Napoleone e il primo Dopoguerra, dove la storia quotidiana si intreccia con la grande Storia.

La lettura in certi punti risulta un po’ ostica, causa i moltissimi dettagli storici, una ricca  storiografia di eventi minori. Nonostante questi aspetti, l’opera di Bacchelli rimane importantissima e purtroppo dimenticata (l’ultima edizione risale al 2013, Mondadori).

Il mulino del Po offre un’immagine vivida di come potevano svolgersi le vicende umane e sociali in un periodo movimentato come quello della lunga strada per l’unità d’Italia (il brigantaggio, i primi moti sociali).

Per noi che siamo ancora abituati a studiare la storia, a scuola, sempre e solo dal punto di vista dei grandi (politici, generali e comandanti militari, alti prelati) è l’occasione di immaginare ed immedesimarsi nei punti di vista dei “piccoli” (contadini, mugnai e lavoratori in genere, soldati semplici, curati di campagna) che sono poi, in ultima analisi, quelli che la storia la fanno realmente, ma perdendosi nell’oblio, oscurati dai grandi nomi che i libri di storia annoverano.

Il moralismo di Bacchelli

Il peculiare moralismo di Bacchelli riesce, per la maggior parte del romanzo, a dare una base solida sia alla visione della vicenda che allo svolgersi dell’intreccio. Non esente da descrizioni bucoliche alle volte caricaturali, l’autore è però capace anche di far commuovere e di tenere inchiodata l’attenzione del lettore alla pagina con la sua scrittura che per lunghi tratti scorre fluida e per un romanzo  che supera le duemila pagine, l’insieme appare tuttavia di una compattezza indubbiamente da apprezzare.

‘Il cuore delle cose’ di Natsume Soseki. Un tesoro dimenticato

Nel 1999, all’alba del nuovo millennio, il Los Angeles Times organizzò un simposio dedicato ai “tesori dimenticati” della letteratura del novecento. Kundera, ad esempio partecipò consigliando la lettura de L’uomo senza qualità di Musil (“È attraverso le situazioni dei suoi personaggi che Musil raggiunge un’ineguagliabile diagnosi esistenziale del nostro secolo …”). Al simposio un altro scrittore, Simon Leys, sinologo e storico dell’arte di origine belga, selezionò invece quattro opere, già “giustamente famose”, ma che non hanno “raggiunto il più ampio numero di lettori che chiaramente meriterebbero.”  Fra queste era uno degli ultimi romanzi del forse più celebre degli scrittori giapponesi del novecento, Il cuore delle cose di Natsume Soseki – del 1914, titolo che tenta di rendere un termine giapponese intraducibile, Kokoro.

Leys scrive che non conosceva “altri romanzi scritti nel nostro secolo che posseggano una tale misteriosa semplicità – una stessa sottile e straziante purezza”.

Nell’introduzione alla traduzione inglese dell’opera che Leys consigliava, di Edward McClellan, lo studioso di Soseki Damian Flanagan scriveva (prima di dare la sua definizione del titolo, che “significa ‘cuore’, ma nel senso emozionale e spirituale, piuttosto che fisico della parola”):

“Congratulazioni, caro lettore, per aver appena comprato uno dei più grandi capolavori della letteratura mondiale – tieniti forte, però, perché ti aspetta un giro su delle montagne russe. 

Kokoro è semplicemente fantastico – un Grande Gatsby con più anima – e leggerlo sarà, per alcuni, un’esperienza sconvolgente. Ma il romanzo può anche essere un’anguilla sfuggente, difficile da acciuffare come da tener ferma, ed esplorarla potrà sembrare di errare per un labirinto psicologico pieno di porte ingannevoli. E che a volte tutto di esso sia come un Giano bifronte.”

Consapevole di ciò, qui prendiamo in considerazione una di queste facce, segnata da una tra le più profonde esperienze che caratterizza  il modo di vivere dell’uomo: la colpa. Un aspetto, o una logica che, di nuovo, Simon Leys ha catturato una volta splendidamente:

“Più che la bellezza artistica, la bellezza morale sembra avere il dono di esasperare la nostra triste specie. Il bisogno di trascinare tutto al nostro miserabile livello, di infangare, di deridere, e degradare tutto ciò che ci domina con il suo splendore è probabilmente uno dei tratti più desolanti della natura umana.” 

Da “L’impero della bruttezza”, in Le bonheur des petits poissons, JC Lattes, 2008

Da qui si potrebbe iniziare per fare alcune considerazioni. Per esempio che, in quanto a forza distruttiva, in effetti, l’uomo è probabilmente l’animale migliore che esista sulla terra – ed è proprio contro questo che si basa tutta la saggezza, ogni tipo di morale.

Questo modo di vedere illuminerebbe la nostra concezione, ad esempio, dell’istruzione o l’educazione, tema che ci tocca da molto vicino. E del resto, uno dei due protagonisti, il personaggio che dice “io” e di cui non conosciamo il nome nelle prime due delle tre parti del romanzo di Soseki, è proprio uno studente universitario alla fine della sua carriera accademica.

Il ragazzo incontra, un giorno, in una casa da tè sulla spiaggia in una località balneare non lontano da Tokyo, tra “una grande quantità di teste nere che ci ostruivano reciprocamente la vista”, l’uomo che chiama Sensei – più vicino, annota McClellan, al senso della parola francese maître che a quello dell’inglese teacher,– e sul quale sarà incentrata la terza ed ultima parte. Sensei è un accademico solitario e isolato, in evidente contrasto con il mondo accademico.

Si diceva che l’istruzione, che potremmo chiamare anche “addestramento”, in gran parte oggi orienta gli studenti quasi esclusivamente verso uno sviluppo in senso quantitativo di certe capacità, basandosi su una griglia valutativa di premi o punizioni per la loro dimostrazione esteriore. Ma la bravura di un uomo, non sta meramente in qualche cosa di preciso che sa fare, ma in ben altre capacità, nella pienezza insomma della sua umanità.

L’obiettivo finale è chiaramente il denaro (nel romanzo di Soseki, si trova a proposito questo semplice e illustrativo passaggio: il giovane studente e Sensei stanno discutendo di che cosa sia un uomo “cattivo”; uno, il più anziano, dice:

“Non c’è un vero e proprio stereotipo di uomo cattivo. In condizioni normali, tutti sono più o meno bravi, o, almeno, normali. Ma tentali, ed essi potrebbero cambiare improvvisamente. Questo è ciò che spaventa tanto degli uomini.”

Poco dopo, il giovane, non resistendo più vuole sapere di che tipo di tentazione parla l’anziano, al che quest’ultimo risponde semplicemente: “Il denaro, no? Di fronte al denaro, anche un gentiluomo diventa ben presto un farabutto”); il criterio di valutazione principale se gli studenti siano o meno in grado di fare qualcosa. Nel frattempo, la persona dietro alla cosa fatta può piano piano ritirarsi, fino a scomparire.

 

Alessandro Burrone

‘Vita in Egitto’ di Enrico Pea. Racconto da dove è partita la rinascita della letteratura italiana

Nel 1949, la Mondadori pubblica Vita in Egitto di Enrico Pea. Nonostante da decenni manchi una ristampa, questo titolo ha un’importanza capitale non soltanto per il gran pezzo di letteratura che rappresenta, ma anche per l’incredibile testimonianza che contiene.

In queste pagine, infatti, Pea fa un resoconto estremamente espressivo e concreto degli anni da lui vissuti in Egitto, per esattezza ad Alessandria, gran metropoli mediorientale. In questa opera lo scrittore seravezzino ci fa dono di pagine roventi; questo non solo in virtù dell’arido sole alessandrino, che tanto volentieri cuoce la carne degli uomini, ma anche per il turbinio di passioni politiche, amorose, artistiche e religiose che muovono le zone più umili della città, e che sono racchiuse in questa opera.

Alessandria d’Egitto durante l’inizio del XX secolo

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, Alessandria d’Egitto è un brulichio di razze e culture diverse: vi si trovano greci, arabi, copti, spagnoli, russi, ebrei e italiani, tutti mossi verso questa metropoli mediterranea per motivi diversi. Per quanto riguarda gli italiani (ma non solo), i motivi più stringenti sono sostanzialmente due: la ricerca di un lavoro e la politica. Proprio per quest’ultimo motivo, è presente una rete anarchica molto organizzata sul territorio. Non ci vuole molto tempo che il giovane Pea viene “iniziato” all’anarchia da Pilade, pisano, fuggito dall’Italia a causa di una condanna pendente sulla sua testa:

“Da Pilade ebbi la prima lezione sulla “società futura”. Fui chiamato “simpatizzante” che è il primo grado (anche l’anarchia ha i suoi gradi), “compagno” lo sarei diventato più tardi. Alto. Magro e di pelle rossa. Autoritario. Pilade metteva soggezione”.

Enrico Pea mette su un luogo che sembra essere la rappresentazione vivida di questa temperie alessandrina, ovvero la “baracca rossa”, «tumultante ritrovo di gente d’ogni risma e d’ogni nazione».

Trama e contenuti

È nella baracca rossa che si riuniscono, ogni giorno, tutte le teste calde della città, ed è proprio qui che Pea fa la conoscenza con il giovane Giuseppe Ungaretti. È a questo punto, quindi, che è necessario chiarire la natura di questo anarchismo, così diffuso nei bassifondi di Alessandria d’Egitto e nel libro. Non c’è da pensare, infatti, che tutti coloro che si professano anarchici, o che frequentano la baracca rossa, siano realmente degli ideologi formati sulle idee sovversive di un Proudhon o di un Bakunin.

Molto più spesso, si tratta di un vago istinto ribelle nei confronti della borghesia e di tutto ciò che sembra limitare la libertà individuale. Esempio lampante di ciò, è proprio Ungaretti, poiché «non era tutto di eguaglianza e di pane, l’affanno delle sue battaglie, ché in quell’arroventarsi c’era anche la voglia di svincolarsi dalle leggi borghesi: il desiderio d’impossessarsi del mondo. Era un agitarsi senza misura e senza meta: rompere intanto, con la furia dei giovani, per vedere com’è fatta la vita.»

Un racconto concreto privo di idealismi

In altri casi ancora, a far scaturire la fiamma della ribellione è solo un vago risentimento sociale, dovuto principalmente alla propria condizione di indigenza.

Non è un caso che proprio uno dei più forti esclamatori delle dottrine anarchiche, ovvero Pilade, una volta arricchitosi, abbia archiviato senza troppi problemi le sue vecchie passioni politiche. Superata la tragica morte del primogenito, Guidino, Pilade infatti riesce a far fortuna, assicurando a lui e alla moglie Argia una vita agiata:

“Se l’Argia avesse ancora Guidino oggi Guidino (lontano dal farsi regicida) sarebbe laureando, in qualche scienza. E se l’Argiaavesse avuto anche una figliola, la figliola suonerebbe il piano nel salotto buono nei giorni di ricevimento.”

Non è un racconto, quello di Pea, viziato da sentimentalismo o idealismo di alcuna sorta. Concreto e aderente alla realtà, come suo solito, non indora alcuna pillola, non distorce i fatti in nome di chissà quale verità. Non di rado, la narrazione si fa cinica e cruda, in particolare quando va a descrivere i vezzi e le manie degli abitanti del luogo da lui conosciuti.

Le famiglie greche, spagnole, ebree, i lavoratori arabi… ognuno di questi gruppi è come se avesse delle caratteristiche archetipiche. Gli ultimi menzionati, ad esempio, sono rappresentati quasi all’opposto dei sovversivi italiani: remissivi alle forze pubbliche e ai “padroni”, religiosi fino quasi alla superstizione.

Un parallelismo con Ungaretti

Il contrasto ben si avverte in uno degli episodi narrati nel libro, in cui l’autore, appena sbarcato in Alessandria, vedendo un arabo picchiato da un poliziotto, si butta in mezzo per difenderlo. Oltre a essere stato picchiato a sua volta, Enrico Pea subisce pure il dileggio degli altri arabi, divertiti dal suo altruismo considerato assurdo.

D’altra parte, la superstizione dei lavoratori arabi è ampiamente usata contro di loro. Un esempio è costituito dalla madre di Ungaretti, che per svegliare i suoi braccianti nel cuore della notte per impastare il pane, libera un suino nei loro alloggi. Questi, considerando l’animale demoniaco, ai suoi grugniti si destano spaventati a morte e docili come agnellini. Anche in questo caso, però, non si deve pensare che l’intento dell’autore sia quello di ridicolizzare le credenze religiose, tutt’altro. Se c’è un filo rosso che accompagna tutto Vita in Egitto, infatti, quello è proprio la ricerca spirituale. Per spiegarsi meglio, però è necessario dire qualcosa in più sulla struttura del libro.

Il racconto è steso in maniera apparentemente disordinata, con pochissimi punti di riferimento cronologici. Pea passa senza problemi da un argomento all’altro, mosso da suggestioni, ricordi, emozioni. Eppure, ogni divagazione prende un significato preciso, se il libro viene preso nella sua globalità.

La figura di Giuda

Ad accompagnare quasi tutti gli episodi narrati da Pea, infatti, è il fantasma di Giuda Iscariota. Lo scrittore seravezzino vuole chiarire al lettore la genesi del primo personaggio da lui messo sulla scena, nella sua opera teatrale più blasfema e dissacrante. «Riabilitare Giuda», questa la folle idea che Enrico Pea partorisce: una simile bestemmia non poteva che avere i natali in un luogo di bestemmiatori.

Eppure, nonostante gli anarchici, nonostante il materialismo imperante, tutto sembra dover portare a una riflessione sulla Fede: in visita a casa dei fratelli Thuil con Ungaretti, tra tutti i libri rari da questi posseduti, l’unico che attrae Pea è la bibbia della loro nonna; a lavoro e negli ambienti anarchici, si ritrova ad essere l’unico amico e il protettore di Pipicco, giovane spagnolo devotamente cattolico; nel cimitero civile, una volta seppellito il figlio di Pilade, viene disgustato dalle chiacchiere eccessivamente materialiste del custode.

Non c’è da meravigliarsi, quindi, se Vita in Egitto comincia con la volontà di redimere Giuda Iscariota e finisce con la recita di una messa francescana.

Imbarcato sulla nave di ritorno in Italia, l’autore si imbatte nei preparativi di una messa. Chiede al marinaio se quella fosse una messa regolare, come quelle officiate in chiesa, e questo gli risponde che un gruppo di soriani cattolici si era portato con sé un prete, proprio con lo scopo di non saltare la liturgia nel lungo viaggio che li avrebbe portati in America.

Pea decide di assistere alla messa, per curiosità. Il marinaio, credendolo credente, gli accosta una sedia, nel caso volesse inginocchiarsi durante il rito. Pea, confuso e sdegnato da questa incomprensione, si trattiene dal rispondergli con male parole. Parte la messa, Pea ne rimane come stregato:

“E quando l’officiante si rivolse: aperse le braccia e disse: «Ita, missa est.» E gli emigranti si levarono in piedi, mi avvidi che anch’io avevo poggiato i ginocchi sulla sedia messa lì a bella posta in quel modo, dal marinaio, alle cui parole poc’anzi avevo provato superbia, confusione, sdegno.”

 

Fonte

Nicolò Bindi

Leonel Rugama, il poeta bandito di Dio, ucciso a vent’anni

Preferì la via della giungla, e iniziò a scrivere versi. La storia di Leonel Rugama affascina per disparità: non aveva il fisico del guerrigliero, la postura del rivoluzionario, l’estro per la violenza. Al contrario, lo ricordano sorridente ma pudico, gentile; se si trattava di giocare alla guerra, deponeva l’arma giocattolo, rifiutava.

Aveva un certo talento nel gioco degli scacchi; curava il corpo perché fosse teso come una corda; correva ripetendo i Salmi; aveva una Bibbia in tasca e la fede nella lotta. O meglio, come disse, più tardi, redigendo una sorta di agiografia, il suo direttore spirituale, “la fede si era accresciuta nella lotta”.

Nato nel 1949 a Estelí, Nicaragua, da un falegname e da una maestra, Rugama si fa grande nel seminario di Managua. La tonaca non gli piaceva: un amico ricorda che più che un prete pareva un karateka. Non disse mai alla famiglia perché avesse scelto di lasciare il seminario. Il giovedì si recava all’adorazione del Santissimo. Leggeva il Vangelo a messa, la domenica. Camminava con la Bibbia, il solo libro che portò con sé, in clandestinità”, ha scritto di lui Ernesto Cardenal, il poeta, il teologo, il presbitero.

Per Rugama la poesia era un contributo alla lotta, la Bibbia l’attributo del guerriero. “Poco prima di morire, Rugama disse di voler formare un gruppo di poeti guerriglieri”, scrive Antiniska Pozzi, che alla Vita breve e poesia del rivoluzionario Leonel Rugama dedica un servizio nell’ultimo numero di “Poesia” (Luglio/Agosto 2021). 

Insegnava matematica, pubblicò le prime poesie su “La Prensa Literaria”: una di questa, La Tierra es un satélite de la Luna, risuonò come un inno. In quella poesia, Rugama ragiona su una disparità ai suoi occhi devastante: la spesa per costruire i razzi del “programma Apollo” e atterrare sulla Luna, in contrasto con la fame, crudele, patita dalla sua gente; la feroce distanza tra il Sud dell’America e il Nord.

“Beati i poveri perché sarà loro la luna”, canta Rugama, in versi convenzionali, che hanno l’impeto dell’invettiva, il tono da profeta nella giungla. Le poesie in cui rievoca la sua infanzia sono più riuscite, scorrono, come acqua tra le dita:

“A volte facevo cadere la matita o il quaderno per guardare le gambe della maestra/ (La maestra leggeva i fiumi del Guatemala/ o spiegava la divisione a tre cifre)…/ Tutti amavano la maestra/ ma la maestra ha sposato un uomo”. In questo ha ragione Cardenal, “Mi sembra il solo poeta al mondo che scriva come un ragazzino, perché è stato ragazzino fino alla morte”.

La morte, appunto, è la ragione per cui si ricorda Rugama, il rivoluzionario poeta, più che il poeta rivoluzionario. Arso da un candido senso di giustizia, brandiva il Vangelo come un fuoco, Rugama: si affiliò al Fruente Sandinista de Liberación Nacional, credeva che tra fare il sacerdote e il bandito non ci fosse differenza, entrambi, in effetti, lottano contro il mondo, si ribellano ai cesari, ai poteri della terra, al mondano e all’immondo. I sandinisti, d’altronde, avevano bisogno di esaltati.

Dormiva dove lo portava la provvidenza rivoluzionaria, senza timore di schiacciare il muso alle stelle; mangiava da chi gli dava ospitalità; si riteneva un autentico discepolo, di quelli che guariscono dal male, portano la buona novella, traducono il veleno in miele.

Il 15 gennaio del 1970, a Managua, Leonel Rugama e due compagni furono beccati dalla Guardia Nacional del Presidente Somoza. Rugama era il più anziano, aveva vent’anni; i compagni Róger Núñez Dávila e Mauricio Hernández Baldizón avevano 18 e 19 anni. Morirono rifiutando la resa. “Erano circondati da un battaglione scelto: jeep, mitraglie, carri armati, fucili di precisione, c’erano anche un elicottero e un aereo, a intercettare una possibile fuga”.

Un esercito contro tre ragazzi. Secondo l’agiografia, il seminarista rivoluzionario Rugama, quando il generale della guardia somozista gli intima di consegnarsi, risponde, “Che si arrenda tua madre!”. Segue il frastuono dei colpi, cicaleccio di morte.

 

Epitaffio

Qui giacciono

i resti mortali

di chi in vita

ha cercato senza sollievo

a uno

a

uno

il tuo volto

su tutti

gli autobus urbani.

 

Fonte

https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/letteratura/leonel-rugama-ritratto-poesie/

‘Casa d’altri’, il minimalismo esistenziale di Silvio D’Arzo

Silvio D’Arzo in “Casa d’altri” (1952, “Botteghe Oscure“, Quaderno X, Roma), fonde armoniosamente il minimalismo esistenziale (ovvero la noia, la povertà di stimoli, di relazioni sociali) e il minimalismo narrativo. Secondo molti critici di oggi e secondo molti esponenti della Neoavanguardia si può scrivere anche di niente, senza una trama avvincente, addirittura senza una trama.

È proprio questo un modo per mettere alla prova e vedere chi è un autentico narratore e chi no. D’Arzo ha superato brillantemente questo esame. Il racconto, definito perfetto da Montale ed il più bel racconto italiano del Novecento da diversi critici letterari, si può riassumere tutto con queste parole: “Un’assurda vecchia: un assurdo prete: tutta un’assurda storia da un soldo”.

Trama e contenuti di Casa d’altri

È un racconto di poche decine di pagine, scritto con grazia, leggerezza e maestria, che si legge tutto di un fiato. D’Arzo non ha avuto il tempo, essendo morto di leucemia a soli 32 anni, di scrivere il romanzo della sua generazione come voleva e neppure di veder pubblicata da una importante casa editrice i suoi racconti.

Lo scrittore ha creato il suo capolavoro “Casa d’altri” sul finire della sua vita, nei suoi ultimi mesi. D’Arzo era troppo versato nella letteratura inglese e scriveva in modo lineare, mentre la vita è complessa e contraddittoria: questo potranno obiettare coloro che hanno dimenticato il grande narratore emiliano e lo hanno relegato ai margini della letteratura italiana del Novecento.

D’Arzo arriva al conquibus, arriva subito al dunque, non complica ulteriormente le cose già complicate di per sé, arriva come si suol dire al nervo delle cose, non si perde in preamboli, digressioni, astrazioni: questo possono affermare con buona ragione i suoi estimatori, infischiandosene dei canoni e della fortuna critica.

La realtà secondo D’Arzo

Pavese, direttore dell’Einaudi, rifiutò di pubblicare “Casa d’altri”, ma forse più che per motivi letterari e stilistici per ragioni prettamente esistenziali, perché il tema del suicidio era un suo nervo scoperto, qualcosa che gli procurava angoscia, un vero fantasma della sua mente fin da tempi immemorabili ed insospettabili, come si può desumere leggendo il suo diario.

Uno scrittore può prediligere la materia inanimata, gli altri o sé stesso. Ci sono incognite e incertezze per ognuna delle tre vie. L’importante è che, indipendentemente dalla sua scelta, si tratti di predilezioni e non di ossessioni, altrimenti uno diventa monotematico. Ma non ci sono solo queste tre dimensioni del reale.

Ci sono anche lo spazio, il tempo, gli accadimenti del mondo. Tutte queste dimensioni interagiscono tra di loro. Tutto dipende dall’osservatore, dal sistema di riferimento come in fisica, ma anche dal  termine di paragone. La scrittura infatti è sempre paragone, accostamento, nel caso più semplice similitudine. D’Arzo è esemplare nel trattare tutti i piani della realtà e ad intrecciarli in modo poetico ed enigmatico.

La noia

C’è chi ha a noia la vita perché ha vissuto troppo o troppo poco in Casa d’altri. Una vita noiosa è altamente stereotipata, ripetitiva, alienante. C’è la depressione endogena. C’è la depressione reattiva, causata da traumi ed eventi spiacevoli. Nel caso specifico alla donna protagonista del racconto mancano le occasioni, gli eventi, una vita accettabile.

Ma c’è anche la noia che assale, la monotonia che non riesce a scalfire. Sembra una montagna insormontabile per Zelinda, vedova e lavandaia. Lo spleen di Baudelaire, l’assurdo di Camus, l’anello che non tiene e il male di vivere di Montale: i riferimenti gnoseologici e culturali possono essere molti per D’Arzo.

In Casa d’altri, il peso di vivere per Zelinda si fa intollerabile. La vita si presenta a lei sempre nello stesso modo: la trafila di giorni sempre uguali, le stesse cose da fare, la solita routine. Ma è anche una vita di stenti, una vita fatta di fatica, “una vita da capra”.

Scrive D’Arzo: “Con due si cerca meglio la verità”. Nietzsche scriveva che uno solo ha sempre torto, ma con due inizia la verità. Di certo gli interrogativi incessanti di Zelinda sono un fardello troppo ingombrante e troppo peso per portarli da sola.

Non trova più ragion di essere. È disperata perché ha perso speranza. Ma nel racconto D’Arzo si sofferma più sugli interrogativi angoscianti, sul suo rovello interiore causato da essi, che sul vuoto esistenziale della donna.

La fede e il dubbio

La domanda cruciale è se può finire prima la sua vita. Il prete non trova parole. Abbiamo due protagonisti: una vedova stanca di vivere, un prete di campagna e sullo sfondo Montelice, un paese in cui non accade mai niente (“sette case addossate..due strade, un cortile che chiamano piazza, uno stagno e un canale e montagna quanta ne vuoi. Che fanno qui a Montelice? vivono e basta e poi muoiono..qui non succede niente di niente…gli uomini al pascolo..le donne a far legna..in strada una vecchia o una capra o nemmeno quello..l’inverno dura mezzo anno. due mesi continui di pioggia, due tre mesi di neve-neve. non succede niente di niente solo che nevica e piove e la gente nelle stalle a guardare la pioggia e la neve come i muli e le capre..”).

Da una parte Zelinda, ovvero la credente con il suo dubbio incessante, e dall’altra il prete, con la sua dottrina, ma anche le sue perplessità. È un dialogo tra due fedeli, tra due fedi. Da un lato l’interrogativo della donna, dall’altro il prete, per cui diventa una ossessione, un cruccio, un enigma la vita di Zelinda. Entrambi sono attraversati da esitazioni.

Ci si può uccidere? È questa la domanda di Zelinda al prete. Ma è questa la risposta che deve dare la letteratura. Vale la pena vivere? I suicidi sono degli impazienti scriveva Bufalino. Vale la pena pazientare? Secondo la religione cristiana il suicidio è un atto di natura violenta contro sé stessi, è l’omicidio di sé stessi.

Il cupio dissolvi

Tutte le religioni condannano il suicidio. Secondo la moderna psichiatria la stragrande maggioranza dei suicidi sono depressi e la depressione può essere curata con gli psicofarmaci e la psicoterapia. Ma ai tempi di Silvio D’Arzo queste cose non si sapevano. Di solito si cerca sempre di rimandare.

Si cerca addirittura di procrastinare l’improcrastinabile. Bisogna non pensare alla morte per vivere pienamente. Bisogna pregare per salvarsi. Ma perché pensare egoisticamente alla propria salvezza individuale? Come scrive Camus a cosa serve la mia salvezza se non si salva l’umanità? Se ognuno ha le sue certamente le sue colpe, ma anche le sue giustificazioni, i suoi alibi e la possibilità di espiare allora forse sarebbe meglio sperare in un Dio talmente misericordioso da lasciare l’inferno vuoto come teorizzato da taluni teologi.

La chiesa condanna sia l’atto che l’attore. Esiste il libero arbitrio. C’è sempre un frangente per chiedere aiuto agli altri. Bisogna sempre trovare la forza per non sopprimersi, per vincere il cupio dissolvi, per far vincere l’istinto di autoconservazione. Il suicidio è talvolta questione di un istante. Il suicida per alcuni resta prigioniero di un istante, in cui azzera ogni possibilità, ogni speranza. In questo racconto il suicidio sembra invece il frutto di una scelta maturata da tempo e ben ponderata.

La Chiesa ammette eccezioni? Zelinda considera il suo un caso particolare. Non ha più vitalità. Non ha più voglia di vivere. Ed allora  chiede se se ne può andare anzitempo in punta di piedi. Ritiene di aver già mangiato il suo pane, di sapere come sia la vita.

Ritiene che non ci sia più niente da conoscere e da vivere. Ha fatto il suo bilancio esistenziale. Ha tirato le sue somme. Dalle cose che le sono capitate, dalle persone che ha incontrato, dalla vita che ha fatto, dalla porzione di mondo e di realtà che ha vissuto, ha tratto le sue conclusioni: non vale più la pena vivere.

È una considerazione personale che per lei diventa certezza assoluta. La sorte ormai per lei non ha più niente in serbo. Non ci sarà più nessuna sorpresa. La vita per lei sarà sempre la stessa e lei non ne può più. Zelinda si è scordata che anche la vita più arida, più grama può essere riscattata, può essere un dono. Ma lei si considera una donna di 63 anni che è ormai senza futuro. Che cosa possono fare le parole di fronte a questo dramma?

Case d’altri: una macro-metafora della vita e della morte

Che cosa può fare la religione incarnata qui da un prete? Ma qui il dramma è doppio. Anche il prete ormai è un sacerdote da sagre di paese. È prossimo alla pensione, al congedo, all’addio, alla morte. Tutto questo si svolge in un piccolo paese, in un piccolo mondo angusto. D’Arzo narra l’inenarrabile, due vite avvolte dall’insensatezza, dall’assurdità di esistere. Il linguaggio è povero di figure retoriche, ma l’intera vicenda è una macro-metafora della vita e della morte, che si intrecciano in modo indissolubile.

D’Arzo è implacabile. Crea un congegno perfetto. Scrive in modo essenziale l’essenziale della vita e della morte. Toglie nello stile e nella trama ogni orpello, ogni ridondanza.

Leva tutto il superfluo. Rimane per queste poche pagine il mistero che ci irretisce e ci incupisce, la sospensione. Le vite degli uomini sono tutte diverse. La sofferenza, le vicissitudini, la stanchezza di esistere non sono uguali per tutti. Alcuni vengono messi più alla prova dalla vita di altri. Secondo la teologia cristiana il suo disegno è imperscrutabile, sfugge alla logica umana, ma Dio valuta ogni caso in modo equanime, soppesando tutto, qualsiasi cosa.

“Ognuno ha una ragione valida per uccidersi”, scriveva Pavese. Ma si uccidono solo coloro la cui sofferenza interiore per stati d’animo o eventi nefasti ha sorpassato ogni livello di sopportazione. Se si mette sul piatto della bilancia ci sono svariate ragioni per uccidersi e svariate ragioni per continuare a vivere.

Viene considerato razionale continuare a vivere. Ma è pura convenzione. Allo stesso modo viene considerato più  coraggioso continuare a vivere che farla finita. Si ritiene a torto o a ragione che quando una persona si uccida o tenti di uccidersi perda il senno della ragione. D’altronde la cultura e la società devono essere biofile. Non si può fare altrimenti.

Condannare il gesto estremo è un modo per dissuadere gli indecisi o coloro che si trovano in difficoltà. È un modo per interrompere l’emulazione dell’estremo gesto. Condannare il suicidio è un modo per mandare avanti il mondo, pur ammettendo la pietà cristiana per la vittima. Alla domanda di Zelinda c’è la risposta secca del prete: non sono ammesse eccezioni.

Il prete risponde che per la morte propria ed altrui non si decide noi, ma decide Dio. Nessuno può anticipare i tempi. Nessuno deve disperare. Zelinda però viene trovata morta. Nessuno sa se l’ha fatta finita. Forse lo scrittore emiliano lascia alla fine alla donna la libertà di autodeterminarsi. Il prete è prossimo a lasciare il paese per tornare a casa.

Una situazione senza via d’uscita

Ad ogni modo il prete, che rappresenta la religione, esce sconfitto. Sicuramente la pecorella smarrita non è tornata nell’ovile. Ma probabilmente dall’ovile, dalla ortodossia religiosa si era allontanata solo con i pensieri, con i tarli della sua mente. Sorge spontanea una domanda, leggendo D’Arzo: è giusto che Dio condanni Zelinda, che ha vissuto una vita irreprensibile per una sola cattiva azione e che ha fatto del male solo a sé stessa?

Dio non potrebbe fare una eccezione ai suoi regolamenti? La risposta di qualsiasi prete probabilmente è che bisogna vivere cristianamente fino alla fine, fino in fondo.

Il racconto di D’Arzo tratta di una situazione senza uscita, ma nessuno sa se nella vita alla fine c’è una via di uscita oppure no. Grazie alla fede si può credere all’aldilà e alla salvezza, ma la logica umana, i fatti e la scienza lasciano in sospeso la questione proprio come D’Arzo. La vecchia è morta, le cose vanno come al solito, sta “per venire la morta stagione, gli sterpi secchi, le passere uccise dal freddo, la notte che arriva alle sei, i fossi ghiacciati, i vecchi che se ne muoiono in fila…”.

Talvolta la vita sembra un contorno sfumato, una domanda mal posta, una occasione mancata. Eppure sono tante le sfaccettature della vita. Siamo così presi ed immersi dalla quotidianità che ci dimentichiamo che è un dono: forse è questo il vero messaggio dello scrittore.

 

Di Davide Morelli

 

‘Troppo tardi’ di Carlo Cassola. Le contraddizioni dell’animo umano secondo uno scrittore ormai dimenticato

È ormai caduto nel dimenticatoio Carlo Cassola, che ha vinto a suo tempo premi letterari importanti come lo Strega e il Bagutta. Non rientra ormai nei canoni letterari.

Gli italianisti a stento lo citano. Il suo nome ed i suoi romanzi sono caduti nell’oblio. Eppure negli anni ’60 e’ 70 aveva una grande popolarità e vasto consenso. Le sue opere avevano avuto notevole risonanza nel pubblico.

Come scrive Cassola  non è esatta l’equazione successo=demerito, ancora in voga oggi ed utilizzata da tanti critici letterari. Qualcuno però, soprattutto in Toscana, lo ricorda ancora Cassola. Recentemente la tratta ferroviaria Cecina-Saline, di cui aveva scritto in “Ferrovia locale” è assurta alla cronaca per delle iniziative culturali in memoria dello scrittore, che era nato a Roma ma toscano d’adozione, tanto è vero che aveva ambientato molti romanzi nell’entroterra pisano.

Cassola: uno scrittore dimenticato

Nel 2020 l’università Cattolica ha istituito un premio di laurea in memoria di Cassola. La biblioteca comunale degli Intronati di Siena ha allestito una mostra bibliografica in suo ricordo.

I letterati non sono mai stati benevoli con lui. Alcuni critici hanno visto nella sua narrativa il ritorno al grado zero della scrittura. Altri però hanno evidenziato l’influsso delle epifanie di Joyce. Cassola è stato uno scrittore coerente stilisticamente e politicamente.

I suoi libri erano letteratura ma erano anche best seller. La neoavanguardia lo accusò di essere la Liala del’63, ma lui con stile ed educazione andava a braccetto con Sanguineti.

Le critiche

Pasolini lo criticò perché i suoi libri erano un ritorno al realismo. Nei suoi romanzi non ci sono le tematiche comuni a tanta narrativa in auge all’epoca: la nevrosi, l’alienazione, l’incomunicabilità, l’inettitudine.

Erano tutti argomenti, considerati di primaria importanza per gli artisti. Lui si astiene da tanta intellettualità. Nel Novecento letterario il mondo ed anche la psiche sono costituiti da frammenti eterogenei e la verità umana si trova solo nel dettaglio.

La verità si fa puntiforme. I romanzi del ’900 sono i segni di una crisi profonda, tra tutti “L’uomo senza qualità” di Musil, “Oblomov” di Goncarov, “Auto da fé” di Canetti, “La cognizione del dolore” di Gadda, “La coscienza di Zeno” di Svevo. Ma di esempi se ne potrebbero fare altri.

Cassola amante delle vite comuni e quotidiane

Cassola invece privilegia il grigiore dell’esistenza, le vite comuni, connotate dall’insensatezza. Il poeta Carlo Bordini diceva che c’era della narratività nella sua poesia e della poesia nella sua narrativa.

Anche in Cassola in fondo troviamo una commistione di generi. Non c’è una prosa lirica, una prosa poetica, ma la poesia della quotidianità. Spesso sono narrati fattarelli insignificanti di personaggi umili e dimessi con un lessico comune. La trama è scarna, mai avvincente, mai ricca di colpi di scena.

I grandi eventi, la storia stanno molto spesso sullo sfondo. Eppure si percepisce la lunga mano sapiente di Cassola che orchestra e dirige tutto fin nei minimi dettagli: un grande narratore acuto e consapevole.

Nessuna traccia comunque di quelle che oggi chiameremo realtà aumentata o iperrealismo. L’acme della vita sta nei vagiti, negli orgasmi, nei rantoli. Ma nessuno sa con certezza quali sono gli istanti decisivi, i momenti topici del percorso.

Un anti-rivoluzionario

È anche questo che vuole dirci lo scrittore, che rimuove l’inconscio e non cerca mai di fare la rivoluzione: in vita sua ha già fatto la Resistenza e questo è più che sufficiente. Quindi non è mai stato velleitario né demagogo.

“Troppo tardi” è ambientato a Roma ai tempi del fascismo. Tratta di due fratelli adolescenti, Anna e Giorgio, abbandonati dal padre. I due hanno un rapporto ambivalente come si usa tra fratelli. La madre ha una mentalità comune, tiene molto al decoro piccolo-borghese. Vivono in una appartamento in affitto nel quartiere Prati.

I due vengono mandati a scuola, ma Anna decide di interrompere gli studi di stenografia perché è svogliata. Non sa quello che vuole. Alcuni giorni si veste per passare inosservata, altri giorni si veste in modo vistoso per attirare l’attenzione.

Troppo tardi: trame e contenuti

Il romanzo per la maggior parte è essenziale e dialogico. Nelle conversazioni tra ragazze si parla di questioni amorose, di confidenze. Anna è irrequieta, vorrebbe vivere “cento vite”.

Ma deve stare attenta perché basta accettare un invito in macchina da un medico per rischiare seriamente di venire abusata. Il dottore infatti la porta in campagna in un luogo appartato, ma lei riesce ad opporsi efficacemente.

Giorgio fa le sue congetture sulle ragazze. Cerca di trovare differenze di costume tra quelle che lavorano e quelle che studiano, pensa che le ragazze delle grandi città siano tutte poco serie: insomma pensieri e pregiudizi ricorrenti nei ragazzi di ogni generazione.

Cassola si fa sfuggire un commento, una osservazione amara, mette in bocca ai suoi personaggi una sentenza inoppugnabile: nella vita è solo questione di soldi, coi soldi si può essere generosi o farsi perdonare tutto. Su tutto prevale la cupidigia, il culto del denaro ed un’etica del lavoro, che se analizzata risulta riprovevole moralmente.

La trilogia di Mastronardi ad esempio  (“Il maestro di Vigevano”, “Il calzolaio di Vigevano”, “il meridionale di Vigevano”) è eloquente a riguardo, illustra chiaramente la grettezza e l’arrivismo della borghesia votata esclusivamente al profitto.

Ma quelli descritti da Cassola erano anche i tempi in cui una ragazza se usciva la sera e fumava le sigarette destava scalpore e scandalo nei perbenisti. C’era una ristrettezza di vedute all’epoca. Poco era consentito e molto era tabù.

Anna si sposa incautamente e frettolosamente con un avvocato di mezza età di Recanati, che ha conosciuto ad una festa. Eppure prima aveva conosciuto Ferruccio, amico di suo fratello, con cui c’era stata una amicizia affettuosa senza intimità.

L’unica affinità elettiva tra Anna ed il suo marito era che entrambi si annoiavano a quella festa. Il suo fratello si sposa senza pensarci troppo con l’incoscienza della gioventù.

Si può affermare che come i protagonisti di “Delitto e castigo” di Dostoevskij e di “I sotterranei del Vaticano” di Gide compiono l’omicidio assurdo allo stesso modo in questo romanzo i due fratelli compiono un gesto assurdo sposandosi entrambi in modo avventato. Ma la guerra inizia a trasformare le vite dei protagonisti.

Il marito di Anna va in guerra e di lui per diverso tempo non si hanno più notizie. Anna e  Ferruccio diventano amanti. Ferruccio si mette a fare il giornalista.  Giorgio perde l’impiego perché scoperto in combutta coi repubblichini.

A tratti il romanzo diventa concettuale, soprattutto quando Ferruccio, amante di Anna, decide che vuole fare lo scrittore, decide di spendere gran parte del suo stipendio in libri ed allora vengono fatte delle riflessioni intellettuali sui romanzi del Novecento. La digressione però non annoia.

Il marito di Anna ritorna e chiede la separazione. Ferruccio poi capisce di non amare più Anna perché si invaghisce di una ragazza molto più giovane.

Le contraddizione dell’animo umano sullo sfondo del fascismo

Cassola si dimostra  maestro a rivelare le contraddizioni dell’animo, ormai insanabili dei suoi personaggi. In fondo se i lettori dell’epoca si appassionavano per le vicissitudini  narrate nei suoi libri qualche motivazione più che plausibile c’era, ovvero il fatto di essere letteratura di consumo di alta qualità per quei tempi.

Infine come nel romanzo “L’antagonista”, che Cassola considerava la sua miglior opera, anche qui c’è un duello a distanza tra due maschi, che si contendono una donna.

Ricapitolando e facendo una breve sintesi dei romanzi italiani sul nazifascismo e sulla seconda guerra mondiale abbiamo:

  • Uomini e no” di Vittorini: la Resistenza a Milano e la rappresaglia dei tedeschi
  • La storia” della Morante: romanzo corale, crudo, ambientato a Roma, criticato anche per la descrizione della crudezza della Resistenza
  • Il giardino dei Finzi Contini” di Bassani : la condizione degli ebrei a Ferrara
  • “Se questo è un uomo” di Primo Levi: il lager
  • “Cristo si è fermato a Eboli” di Carlo Levi: il confino
  • Il sentiero dei nidi di ragno” di Calvino: la Resistenza vista con gli occhi di un bambino
  • Il partigiano Johnny” di Fenoglio: la presa di Alba e la Resistenza nelle Langhe
  • Lessico famigliare” della Ginzburg: l’attività antifascista e gli intellettuali antifascisti
  • La polvere sull’erba” di Bevilacqua: il triangolo rosso in Emilia
  • Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern: la ritirata in Russia
  • La ragazza di Bube” di Cassola: ex partigiano che uccide il figlio di un carabiniere
  • Il clandestino” di Mario Tobino: la lotta partigiana in Versilia
  • L’ombra delle colline” di Arpino: l’uccisione di un tedesco da parte di un bambino
  • L’Agnese va a morire” di Renata Viganò: la staffetta partigiana
  • La casa in collina” di Pavese: la fuga e il rifugio dai bombardamenti nazisti
  • Troppo tardi” di Cassola: la storia di un fratello, di una sorella e dei suoi due amori ai tempi del fascismo e della guerra.

 

Di Davide Morelli

 

 

 

 

 

‘Yoga’: il male di vivere secondo Emmanuel Carrère in un romanzo che non parla, per fortuna, di yoga

Avrebbe dovuto intitolarlo Tai chi, ma si sa, lo yoga attira molto di più, è più famoso. L’idea di Carrère, in effetti, era proprio quella di scrivere un libro sullo yoga, anzi, “un libro arguto e accattivante sullo yoga”, che si sarebbe dovuto intitolare “L’espirazione”. Perché questa scelta?

Perché Carrère pratica da trent’anni, tra alti e bassi, nonostante lui stesso si definisca un “meditante della domenica”, e perché lo yoga vende e tira di brutto.

Infatti questo libro sta vendendo molto bene, tutti ne parlano, Carrère può esserne contento, lui e il suo ego enorme (se lo dice da solo, da sempre, ne è consapevole) anche se soffre per non essere famoso e acclamato come Michel Houellebecq, che infatti dice spudoratamente d’invidiare.

Yoga: sinossi

La vita che Emmanuel Carrère racconta, questa volta, è proprio la sua: trascorsa, in gran parte, a combattere contro quella che gli antichi chiamavano melanconia. C’è stato un momento in cui lo scrittore credeva di aver sconfitto i suoi demoni, di aver raggiunto «uno stato di meraviglia e serenità»; allora ha deciso di buttare giù un libretto «arguto e accattivante» sulle discipline che pratica da anni: lo yoga, la meditazione, il tai chi.

Solo che quei demoni erano ancora in agguato, e quando meno se l’aspettava gli sono piombati addosso: e non sono bastati i farmaci, ci sono volute quattordici sedute di elettroshock per farlo uscire da quello che era stato diagnosticato come «disturbo bipolare di tipo II».

Questo non è dunque il libretto «arguto e accattivante» sullo yoga che Carrère intendeva offrirci: è molto di più. Vi si parla, certo, di che cos’è lo yoga e di come lo si pratica, e di un seminario di meditazione Vipassana che non era consentito abbandonare, e che lui abbandona senza esitazioni dopo aver appreso la morte di un amico nell’attentato a «Charlie Hebdo».

Ma anche di una relazione erotica intensissima e dei mesi terribili trascorsi al Sainte-Anne, l’ospedale psichiatrico di Parigi; del sorriso di Martha Argerich mentre suona la polacca Eroica di Chopin e di un soggiorno a Leros insieme ad alcuni ragazzi fuggiti dall’Afghanistan; di un’americana la cui sorella schizofrenica è scomparsa nel nulla e di come lui abbia smesso di battere a macchina con un solo dito – per finire, del suo lento ritorno alla vita, alla scrittura, all’amore.

Solo una questione di marketing?

Yoga di Carrère si chiama così solo per una questione di marketing, e su questo ci sono pochi dubbi; è un libro che avrebbe dovuto parlare di yoga ma che non lo fa, e che quando sembra farlo, lo fa per i fanatici dello yoga, in modo superficiale.

Carrère, dice di meditare, fare yoga e tai chi da trent’anni, ma certamente conosce poco di questa pratica, cosa che non per forza deve andare a suo sfavore e infatti  liquida la mindfulness con quattro parole non rendendosi neanche conto di coltivare proprio la mindfulness, e non di meditare o praticare yoga in modo “ortodosso”.

Carrère non ne sa molto, e quando accenna due parole sulla mindfulness fa pure errori, scrivendo che il suo fondatore è uno psichiatra, cosa che non è, perché Jon Kabat-Zinn è un biologo. Poi insulta pure un certo Ram Dass“apostolo dell’LSD, che in età avanzata è diventato un vecchio guru della mindfulness”, definendolo uno yogi-barbuto-vegetariano-indossatore di sandali-babbeo-imbecille-pericoloso, che scrive libri brutti, stupidi e inutili, quei libri di autoaiuto che vendono tanto.

Insomma l’impressione è che lo scrittore francese si faccia anche beffe delle maeditazione, vantandosi di non saperne fino in fondo. E allora? Forse deve aver capito che per curare certi male meditare non serve a nulla, e che l’amore, l’erotismo, le cure farmacologiche, possano essere più efficaci. Essere ignoranti in materia di yoga non è un crimine, come una certa dose di stravaganza. Come se Carrère fosse il primo ad esercitarla, sebbene essere più informati non guasta mai.

Un ‘autobiografia riuscita a metà

Il risultato è un’autobiografia mal riuscita. E tutto perché Carrère considera -giustamente- i suoi pensieri troppo importanti, intelligenti, fondamentali, non capendo che per l’Oriente i pensieri vanno abbandonati, sono soltanto illusione, non hanno nessun peso, nessuna importanza, allontanano dalla realtà ultima, confondono, sono ignoranza, così come il desiderio, l’attaccamento.

Per Carrère la meditazione è niente più che “l’ennesimo giochino narcisistico. E questo mi rattrista”. E se non avesse torto? E se alcuni occidentali hanno semplicemente un complesso di inferiorità nei confronti degli orientali da questo punto di vista?

Lo yoga non è qualcosa che serve per mantenersi in forma, una ginnastica, e Carrère sembra averlo capito, ma anche lui pratica comunque per tenersi in forma e soprattutto per provare a gestire la propria mente. E cosa ci sarebbe in fondo di male in questo:

“Trovo che sia già molto conquistarsi con la meditazione un po’ di stabilità psichica e di profondità strategica”. 

D’altronde non è tanto utile e produttivo entrare troppo in sè stessi: meditare è un atto egoistico. Mira a concentrarsi in un vuoto interiore, guardando sè stessi, sulla propria presunta forza interiore lasciando gli altri, l’amore (come ci dice lo scrittore francese) e il trascendente fuori dalla porta. Il modo migliore invece è proprio farlo entrare invece di perseguire come ossessi questa moda che sta spopolando.

 

Fonte Dejanira Bada

‘Il mondo di ieri’ di Stephen Zweig, un memorabile affresco dell’Impero austro-ungarico

“Il mondo di ieri” di Stephen Zweig, scrittore austriaco ebreo di successo negli anni ’20 del Novecento, è una autobiografia illuminante, che fa piena luce sia sulla sua vita che sulla sua epoca.

Il mondo di ieri è caratterizzato da riflessioni e ricordi, intesi in senso guicciardiano.  Scritto tra il 1939 ed il 1941 in Brasile, dove l’autore si era rifugiato, Il mondo di ieri, annovera aforismi, massime, avvertimenti, però a differenza del segretario fiorentino Zweig non si impegna nella scrittura breve, non è discontinuo né frammentario, anzi è un accumulatore seriale di aneddoti e ricordi, pur tuttavia sempre racchiusi in una forma organica, lineare e razionale.

Il mondo di ieri: un affresco dell’Impero austro-ungarico

L’opera si legge tutta di un fiato. Lo scrittore riesce sempre a ravvivare e ridestare l’interesse nel lettore, non perdendosi mai in intellettualismi e senza scadere mai in digressioni prolisse.

Zweig fa un affresco memorabile dell’Impero austro-ungarico e della sua caduta; lo fa a pieno diritto, visto e considerato che è stato un rappresentante di alta levatura della cultura mitteleuropea. In Europa infatti fu un autore molto letto.

Il mondo di ieri comincia con la descrizione dell’infanzia dell’autore a Vienna. Egli definisce la scuola una galera, a causa della disciplina ferrea vittoriana che determinava molti “complessi di inferiorità”. In quella Vienna la massima aspirazione delle famiglie borghesi non era che i loro figli si arricchissero ulteriormente ma che diventassero dottori.

Molti bambini ed adolescenti volevano diventare artisti. Allo stesso modo l’educazione era molto rigida ed impostata. I doveri avevano la priorità assoluta sui diritti. I ragazzi avevano come modelli dei maestri di pensiero, prima di tutto rispettabili. La sessualità era un tabù. Era una attività da non mettere in mostra ed un argomento di cui non parlare.

Tematiche

L’erotismo in quella società sessuofobica era tutto nascosto e adulterato o almeno mistificato. Ma allo stesso tempo per un meccanismo di compensazione quella era in Austria anche l’epoca della sicurezza. Era la Felix Austria. Era la Belle Époque.

Era la società del liberalismo e del progresso, delle “magnifiche sorti e progressive”. Zweig proveniva da famiglia agiata ed ebbe la fortuna sia di poter andare all’università che di scegliere la facoltà, cose non affatto scontate a quei tempi. Scelse filosofia, ebbe modo anche di pubblicare le prime poesie e di conoscere Herzl, fondatore del sionismo.

Poi il 28 giugno 1914 Princip, uno studente serbo, assassinò l’erede al trono asburgico. Come scrive Zweig erano stati 40 anni di pace e poi era sopraggiunta all’improvviso la guerra. Molto fuoco covava sotto la cenere. L’equilibrio in Europa era precario. C’erano molte tensioni di varia natura (economica, politica, sociale, ideologica). Iniziarono gli sconvolgimenti, gli eccidi, gli orrori.

La seconda guerra mondiale

Come ancora ci narra Zweig i soldati al fronte morivano, mentre gli altoborghesi imboscati se la spassavano in patria. I superpatrioti ce l’avevano con lui che era pacifista.

Ma lo scrittore era impegnato lo stesso perché aveva la coscienza e l’esatta percezione di quanto fosse importante il parere e la presa di posizione di un letterato o di un artista a quei tempi, mentre come sottolinea molto lucidamente nella seconda guerra mondiale gli intellettuali erano ormai fuorigioco e ininfluenti.

Finita l’università si trasferisce a Parigi. Zweig descrive con nostalgia la capitale francese, una città cosmopolita per eccellenza, e scrive che sulla Senna ognuno si sentiva a casa propria. Racconta anche i suoi viaggi, che lui definisce “pellegrinaggi”.

I grandi intellettuali dell’epoca

Un artista per essere tale deve avere frequentazioni con giganti intellettuali e lui ebbe molti incontri con geni come Rilke, Harden, Richard Strauss, Herzl, Romain Rolland, Pirandello, Freud, Dalì. Riconobbe nella Svizzera un modello per tutti per la civiltà e l’accoglienza, dato che in terra elvetica trovavano rifugio tutti i perseguitati.

Allo stesso modo l’autore ne Il mondo di ieri ci descrive gli Stati Uniti come il paese in cui ci sono più libertà ma anche più opportunità, visto che in pochi giorni gli offrono ben cinque impieghi. Inoltre descrive il periodo londinese, che va dal 1934 al 1940. Zweig dagli anni ’20 era uno scrittore noto al grande pubblico. I suoi libri vendevano molto.

Zweig aveva ottime entrature nell’alta società, anche se tutto ciò non lo interessava granché. Conosceva tutti gli scrittori, gli editori, i direttori di riviste che contavano in Europa.

L’ascesa al potere di Hitler e il suicidio dello scrittore

Eppure fece naufragio perché si suicidò in Brasile insieme alla moglie. Nonostante il suo successo personale aveva vissuto anche troppo orrore per la guerra, la crisi dell’Austria, che non aveva più fabbriche, era povera e la cui banca nazionale era senza più oro, tutti segni di una miseria inenarrabile e della fine di una epoca felice.

Ma non c’è solo questo: Zweig aveva assistito anche all’ascesa di Hitler. Gliene avevano parlato già all’epoca in cui istigava all’odio i bavaresi nelle birrerie.

Aveva avuto modo di constatare la follia di Hitler, che aveva saputo approfittarsi della difficile situazione in cui versava la Germania in quegli anni, obbligata a pagare una indennità di guerra incredibile. Hitler si approfittò di una Germania umiliata e colse la palla al balzo, coniugando necrofilia, imitazione del fascismo, antisemitismo, anticomunismo, sadismo e crudeltà infinita.

Zweig è stato un intellettuale così lucido da accorgersi del pericolo. Cosí come probabilmente forse si era accorto della “banalità del male” del popolo tedesco.

Probabilmente  il gesto estremo di Zweig e di sua moglie, proprio in quanto ebreo ed austriaco, ha delle profonde giustificazioni, senza fare una sterile retorica del suicidio come è d’uso presso alcuni intellettuali.

 

Do Davide Morelli

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