«È stupido fare la commedia con te Bruno: lo sai quello che è capitato con Marcello, cioè che non abbiamo più notizie da Parigi, e anche tutte le chiacchiere che si sono fatte, figurati! se te ne hanno risparmiata una. Lascia andare, non importa. Sono sicura che c’è una buona ragione della scomparsa di Marcello, non penso al peggio ma può darsi che abbia bisogno di qualcuno che gli sia amico, che l’aiuti. Me non vogliono lasciarmi andare, […], se qualcuno andasse a Parigi a vedere mi metterei tranquilla.»
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‘Casa d’altri’, il minimalismo esistenziale di Silvio D’Arzo
Silvio D’Arzo in “Casa d’altri” (1952, “Botteghe Oscure“, Quaderno X, Roma), fonde armoniosamente il minimalismo esistenziale (ovvero la noia, la povertà di stimoli, di relazioni sociali) e il minimalismo narrativo. Secondo molti critici di oggi e secondo molti esponenti della Neoavanguardia si può scrivere anche di niente, senza una trama avvincente, addirittura senza una trama.
È proprio questo un modo per mettere alla prova e vedere chi è un autentico narratore e chi no. D’Arzo ha superato brillantemente questo esame. Il racconto, definito perfetto da Montale ed il più bel racconto italiano del Novecento da diversi critici letterari, si può riassumere tutto con queste parole: “Un’assurda vecchia: un assurdo prete: tutta un’assurda storia da un soldo”.
Trama e contenuti di Casa d’altri
È un racconto di poche decine di pagine, scritto con grazia, leggerezza e maestria, che si legge tutto di un fiato. D’Arzo non ha avuto il tempo, essendo morto di leucemia a soli 32 anni, di scrivere il romanzo della sua generazione come voleva e neppure di veder pubblicata da una importante casa editrice i suoi racconti.
Lo scrittore ha creato il suo capolavoro “Casa d’altri” sul finire della sua vita, nei suoi ultimi mesi. D’Arzo era troppo versato nella letteratura inglese e scriveva in modo lineare, mentre la vita è complessa e contraddittoria: questo potranno obiettare coloro che hanno dimenticato il grande narratore emiliano e lo hanno relegato ai margini della letteratura italiana del Novecento.
D’Arzo arriva al conquibus, arriva subito al dunque, non complica ulteriormente le cose già complicate di per sé, arriva come si suol dire al nervo delle cose, non si perde in preamboli, digressioni, astrazioni: questo possono affermare con buona ragione i suoi estimatori, infischiandosene dei canoni e della fortuna critica.
La realtà secondo D’Arzo
Pavese, direttore dell’Einaudi, rifiutò di pubblicare “Casa d’altri”, ma forse più che per motivi letterari e stilistici per ragioni prettamente esistenziali, perché il tema del suicidio era un suo nervo scoperto, qualcosa che gli procurava angoscia, un vero fantasma della sua mente fin da tempi immemorabili ed insospettabili, come si può desumere leggendo il suo diario.
Uno scrittore può prediligere la materia inanimata, gli altri o sé stesso. Ci sono incognite e incertezze per ognuna delle tre vie. L’importante è che, indipendentemente dalla sua scelta, si tratti di predilezioni e non di ossessioni, altrimenti uno diventa monotematico. Ma non ci sono solo queste tre dimensioni del reale.
Ci sono anche lo spazio, il tempo, gli accadimenti del mondo. Tutte queste dimensioni interagiscono tra di loro. Tutto dipende dall’osservatore, dal sistema di riferimento come in fisica, ma anche dal termine di paragone. La scrittura infatti è sempre paragone, accostamento, nel caso più semplice similitudine. D’Arzo è esemplare nel trattare tutti i piani della realtà e ad intrecciarli in modo poetico ed enigmatico.
La noia
C’è chi ha a noia la vita perché ha vissuto troppo o troppo poco in Casa d’altri. Una vita noiosa è altamente stereotipata, ripetitiva, alienante. C’è la depressione endogena. C’è la depressione reattiva, causata da traumi ed eventi spiacevoli. Nel caso specifico alla donna protagonista del racconto mancano le occasioni, gli eventi, una vita accettabile.
Ma c’è anche la noia che assale, la monotonia che non riesce a scalfire. Sembra una montagna insormontabile per Zelinda, vedova e lavandaia. Lo spleen di Baudelaire, l’assurdo di Camus, l’anello che non tiene e il male di vivere di Montale: i riferimenti gnoseologici e culturali possono essere molti per D’Arzo.
In Casa d’altri, il peso di vivere per Zelinda si fa intollerabile. La vita si presenta a lei sempre nello stesso modo: la trafila di giorni sempre uguali, le stesse cose da fare, la solita routine. Ma è anche una vita di stenti, una vita fatta di fatica, “una vita da capra”.
Scrive D’Arzo: “Con due si cerca meglio la verità”. Nietzsche scriveva che uno solo ha sempre torto, ma con due inizia la verità. Di certo gli interrogativi incessanti di Zelinda sono un fardello troppo ingombrante e troppo peso per portarli da sola.
Non trova più ragion di essere. È disperata perché ha perso speranza. Ma nel racconto D’Arzo si sofferma più sugli interrogativi angoscianti, sul suo rovello interiore causato da essi, che sul vuoto esistenziale della donna.
La fede e il dubbio
La domanda cruciale è se può finire prima la sua vita. Il prete non trova parole. Abbiamo due protagonisti: una vedova stanca di vivere, un prete di campagna e sullo sfondo Montelice, un paese in cui non accade mai niente (“sette case addossate..due strade, un cortile che chiamano piazza, uno stagno e un canale e montagna quanta ne vuoi. Che fanno qui a Montelice? vivono e basta e poi muoiono..qui non succede niente di niente…gli uomini al pascolo..le donne a far legna..in strada una vecchia o una capra o nemmeno quello..l’inverno dura mezzo anno. due mesi continui di pioggia, due tre mesi di neve-neve. non succede niente di niente solo che nevica e piove e la gente nelle stalle a guardare la pioggia e la neve come i muli e le capre..”).
Da una parte Zelinda, ovvero la credente con il suo dubbio incessante, e dall’altra il prete, con la sua dottrina, ma anche le sue perplessità. È un dialogo tra due fedeli, tra due fedi. Da un lato l’interrogativo della donna, dall’altro il prete, per cui diventa una ossessione, un cruccio, un enigma la vita di Zelinda. Entrambi sono attraversati da esitazioni.
Ci si può uccidere? È questa la domanda di Zelinda al prete. Ma è questa la risposta che deve dare la letteratura. Vale la pena vivere? I suicidi sono degli impazienti scriveva Bufalino. Vale la pena pazientare? Secondo la religione cristiana il suicidio è un atto di natura violenta contro sé stessi, è l’omicidio di sé stessi.
Il cupio dissolvi
Tutte le religioni condannano il suicidio. Secondo la moderna psichiatria la stragrande maggioranza dei suicidi sono depressi e la depressione può essere curata con gli psicofarmaci e la psicoterapia. Ma ai tempi di Silvio D’Arzo queste cose non si sapevano. Di solito si cerca sempre di rimandare.
Si cerca addirittura di procrastinare l’improcrastinabile. Bisogna non pensare alla morte per vivere pienamente. Bisogna pregare per salvarsi. Ma perché pensare egoisticamente alla propria salvezza individuale? Come scrive Camus a cosa serve la mia salvezza se non si salva l’umanità? Se ognuno ha le sue certamente le sue colpe, ma anche le sue giustificazioni, i suoi alibi e la possibilità di espiare allora forse sarebbe meglio sperare in un Dio talmente misericordioso da lasciare l’inferno vuoto come teorizzato da taluni teologi.
La chiesa condanna sia l’atto che l’attore. Esiste il libero arbitrio. C’è sempre un frangente per chiedere aiuto agli altri. Bisogna sempre trovare la forza per non sopprimersi, per vincere il cupio dissolvi, per far vincere l’istinto di autoconservazione. Il suicidio è talvolta questione di un istante. Il suicida per alcuni resta prigioniero di un istante, in cui azzera ogni possibilità, ogni speranza. In questo racconto il suicidio sembra invece il frutto di una scelta maturata da tempo e ben ponderata.
La Chiesa ammette eccezioni? Zelinda considera il suo un caso particolare. Non ha più vitalità. Non ha più voglia di vivere. Ed allora chiede se se ne può andare anzitempo in punta di piedi. Ritiene di aver già mangiato il suo pane, di sapere come sia la vita.
Ritiene che non ci sia più niente da conoscere e da vivere. Ha fatto il suo bilancio esistenziale. Ha tirato le sue somme. Dalle cose che le sono capitate, dalle persone che ha incontrato, dalla vita che ha fatto, dalla porzione di mondo e di realtà che ha vissuto, ha tratto le sue conclusioni: non vale più la pena vivere.
È una considerazione personale che per lei diventa certezza assoluta. La sorte ormai per lei non ha più niente in serbo. Non ci sarà più nessuna sorpresa. La vita per lei sarà sempre la stessa e lei non ne può più. Zelinda si è scordata che anche la vita più arida, più grama può essere riscattata, può essere un dono. Ma lei si considera una donna di 63 anni che è ormai senza futuro. Che cosa possono fare le parole di fronte a questo dramma?
Case d’altri: una macro-metafora della vita e della morte
Che cosa può fare la religione incarnata qui da un prete? Ma qui il dramma è doppio. Anche il prete ormai è un sacerdote da sagre di paese. È prossimo alla pensione, al congedo, all’addio, alla morte. Tutto questo si svolge in un piccolo paese, in un piccolo mondo angusto. D’Arzo narra l’inenarrabile, due vite avvolte dall’insensatezza, dall’assurdità di esistere. Il linguaggio è povero di figure retoriche, ma l’intera vicenda è una macro-metafora della vita e della morte, che si intrecciano in modo indissolubile.
D’Arzo è implacabile. Crea un congegno perfetto. Scrive in modo essenziale l’essenziale della vita e della morte. Toglie nello stile e nella trama ogni orpello, ogni ridondanza.
Leva tutto il superfluo. Rimane per queste poche pagine il mistero che ci irretisce e ci incupisce, la sospensione. Le vite degli uomini sono tutte diverse. La sofferenza, le vicissitudini, la stanchezza di esistere non sono uguali per tutti. Alcuni vengono messi più alla prova dalla vita di altri. Secondo la teologia cristiana il suo disegno è imperscrutabile, sfugge alla logica umana, ma Dio valuta ogni caso in modo equanime, soppesando tutto, qualsiasi cosa.
“Ognuno ha una ragione valida per uccidersi”, scriveva Pavese. Ma si uccidono solo coloro la cui sofferenza interiore per stati d’animo o eventi nefasti ha sorpassato ogni livello di sopportazione. Se si mette sul piatto della bilancia ci sono svariate ragioni per uccidersi e svariate ragioni per continuare a vivere.
Viene considerato razionale continuare a vivere. Ma è pura convenzione. Allo stesso modo viene considerato più coraggioso continuare a vivere che farla finita. Si ritiene a torto o a ragione che quando una persona si uccida o tenti di uccidersi perda il senno della ragione. D’altronde la cultura e la società devono essere biofile. Non si può fare altrimenti.
Condannare il gesto estremo è un modo per dissuadere gli indecisi o coloro che si trovano in difficoltà. È un modo per interrompere l’emulazione dell’estremo gesto. Condannare il suicidio è un modo per mandare avanti il mondo, pur ammettendo la pietà cristiana per la vittima. Alla domanda di Zelinda c’è la risposta secca del prete: non sono ammesse eccezioni.
Il prete risponde che per la morte propria ed altrui non si decide noi, ma decide Dio. Nessuno può anticipare i tempi. Nessuno deve disperare. Zelinda però viene trovata morta. Nessuno sa se l’ha fatta finita. Forse lo scrittore emiliano lascia alla fine alla donna la libertà di autodeterminarsi. Il prete è prossimo a lasciare il paese per tornare a casa.
Una situazione senza via d’uscita
Ad ogni modo il prete, che rappresenta la religione, esce sconfitto. Sicuramente la pecorella smarrita non è tornata nell’ovile. Ma probabilmente dall’ovile, dalla ortodossia religiosa si era allontanata solo con i pensieri, con i tarli della sua mente. Sorge spontanea una domanda, leggendo D’Arzo: è giusto che Dio condanni Zelinda, che ha vissuto una vita irreprensibile per una sola cattiva azione e che ha fatto del male solo a sé stessa?
Dio non potrebbe fare una eccezione ai suoi regolamenti? La risposta di qualsiasi prete probabilmente è che bisogna vivere cristianamente fino alla fine, fino in fondo.
Il racconto di D’Arzo tratta di una situazione senza uscita, ma nessuno sa se nella vita alla fine c’è una via di uscita oppure no. Grazie alla fede si può credere all’aldilà e alla salvezza, ma la logica umana, i fatti e la scienza lasciano in sospeso la questione proprio come D’Arzo. La vecchia è morta, le cose vanno come al solito, sta “per venire la morta stagione, gli sterpi secchi, le passere uccise dal freddo, la notte che arriva alle sei, i fossi ghiacciati, i vecchi che se ne muoiono in fila…”.
Talvolta la vita sembra un contorno sfumato, una domanda mal posta, una occasione mancata. Eppure sono tante le sfaccettature della vita. Siamo così presi ed immersi dalla quotidianità che ci dimentichiamo che è un dono: forse è questo il vero messaggio dello scrittore.
Di Davide Morelli
‘Lo scialo’ di Pratolini: l’invenzione di sentimenti connessi alla realtà
Dopo il Metello, era giustamente atteso il seguito di quella trilogia, Una storia italiana, annunciata da Vasco Pratolini quando fu dato alle stampe il primo volume. Alle opere precedenti, di fronte al romanzo-fiume Lo scialo, la critica ha richiamato l’autore alla sua naturale misura narrativa rispetto allo scialare di questo romanzo. Eugenio Montale ha sostenuto che Lo scialo è un romanzo vano più che crudele. La vita infatti, secondo il poeta è frugata da Pratolini con il microscopio in ogni sua fibrilla e non senza qualche delectatio morosa sui temi azzardati, Ma bisogna sottolineare senza psicologismi astratti o psicoanalitici che l’adesione alla vita come realtà, anche se Lo scialo è una cronaca di fatti che corre sul binario di una cronaca esterna, in Pratolini è totale; e se c’è un’ideologia che la sottende, non le fa tuttavia da guida anche se talvolta la piega dei sentimenti, più che dei fatti, è interpretata secondo quell’ideologia che si sa in lui qual è. Ma questo conta ben poco, anche l’ideologia di Balzac contò poco nella costruzione della Commedia umana.
Quello che conta allora, nello Scialo, è la visione e rappresentazione della Firenze di un ventennio, o poco più (1910-1930); e conta come questa visione di avvenimenti pubblici e privati e di figure che, a ogni loro grado, li impersonino, sia rappresentata nei modi dell’arte. Certamente questo è un problema di ogni romanzo, di ogni narrativa, ma in Scialo, senza alcuna possibilità di evasione, non rifugge dalla consueta tecnica del monologo interiore. La trama è quella di una cronaca fiorentina, collegata naturalmente a una più ampia cronaca nazionale di quel ventennio: dire quindi che ad un certo punto ci troveremo come di fronte ai “luoghi deputati” delle sacre rappresentazioni, e cioè la lotta per l’intervento nella guerra 1915-1918, il dopoguerra, le prime violenze fasciste, le rappresaglie squadristiche, l’olio di ricino e altri fatti ancora più gravi e delittuosi che Pratolini non ha giustamente omesso , è come scivolare in un binario risaputo. Che cosa ha dunque inventato Pratolini? Non i fatti pubblici, né il riflesso, più o meno presumibile, di questi fatti in privato, nelle figure che entrano a tramare di se il racconto; Pratolini ha o avrà inventato una serie di sentimenti, affetti, familiari o sociali, connessi a quella risaputa realtà.
Nella vasta ampiezza della trama quindi, il campo di Pratolini risulta necessariamente limitato a trapuntare la trama con “uno scialo di triti fatti”. Questo è il lavoro artigianale dello scrittore toscano. Lo scialo è come se fosse una riprova cronologica delle nostre conoscenze, ad esempio Nella e il suo “sfasciolato” marito e quella Nini’ con il marito Adamo, il dannunzian-fascista Folco Malesci, e il ragazzo velleitario Fernando, riescono a darci di loro non più un’immagine di “cronaca familiare”. Non che questi personaggi debbano essere eroi balzacchiani o stendhaliani, ma nel corso della vicenda, li si vorrebbe uomini, una volta usciti dal tritume dei fatti con una somma e qualità di umanità o inumaità o disumanità dentro che ce li rendesse memorabili. Probabilmente la nostra simpatia andrebbe ai Bigazzi piuttosto che ai Donati, ai Bertini che ai Sangiorgi e magari ai fatti del Pignone, anche se Pratolini non conferisce ai suoi personaggi una statura “umana”, sebbene sappia raccontare molto bene; il suo linguaggio è vivace, ricco, ben rigirato e senza letteratura, mostrando in Lo scialo di essere un solerte e laborioso artigiano delle conterie di Ponte Vecchio.
Bibliografia: G. Titta Rosa, Vita letteraria del Novecento.
Premio Campiello 2016: vince Simona Vinci con ‘La prima verità’
Il Premio Campiello è giunto alla sua 54ª edizione. Sabato 10 settembre, in concomitanza con Venezia 2016, si è svolta sempre a Venezia la premiazione Premio Campiello edizione 2016. Ad aggiudicarsi il Campiello d’argento 2016 con 79 voti è stata Simona Vinci con il suo romanzo La prima verità edito da Einaudi. A gareggiare con la Vinci gli altri quattro finalisti:
– Gli ultimi ragazzi del secolo di Alessandro Bertante edito da Giunti
– Le cose semplici di Luca Doninelli edito da Bompiani
– Le regole del fuoco di Elisabetta Rasy edito da Rizzoli
– Il giardino delle mosche di Andrea Tarabbia edito da Ponte alle Grazie
Nel corso della serata è stato conferito anche il premio Campiello opera prima a La teologia del cinghiale edizioni Elliot di Gesuino Nemus, il Campiello Giovani al racconto Wanderer edizione Viandante di Ludovica Medaglia e il Campiello Economia assegnato al giornalista e scrittore Dario Di Vico. Il consueto premio Fondazione Campiello è stato assegnato invece allo scrittore Ferdinando Camon, per il suo impegno nell’interpretare senza ipocrisia la società e le sue contraddizioni.
Simona Vinci, classe 1970 aveva già riscosso molto successo con il suo primo romanzo Dei bambini non si sa niente uscito nel 2009 per Einaudi. Sempre per Einaudi sono usciti la raccolta di racconti In tutti i sensi come l’amore e i romanzi Come prima delle madri del 2003, Brother and Sister nel 2004, Stanza 411 nel 2006, Strada Provinciale Tre nel 2007. Inoltre per un pubblico più giovane ha pubblicato Corri, Matilda e Matildacity.
La prima verità, come è stato sottolineato dall’autrice, è un libro difficile, frutto di otto anni di lavoro. Un libro che affronta il difficile tema della pazzia, mescolando alla storia di un manicomio-lager in terra greca vicende apparentemente personali. Il titolo, che riprende un verso del grande poeta greco Ghiannis Ritsos, allude a quelle verità di valore assoluto che attraversano e addirittura superano le vicende del libro. Storie di una bellezza crudele, quasi tragica che affondano le radici in tempi e luoghi sempre presenti.
Alessandro Bertante con Gli ultimi ragazzi del secolo, ambientato nella Croazia degli anni Novanta lascia raccontare la sua storia a un adolescente ribelle che si intreccia con la presa di coscienza di un giovane uomo di fronte al dramma della Storia. Gli ultimi ragazzi del secolo è un romanzo crudo, estremo che potrebbe non finire mai di raccontare. Le cose semplici di Luca Doninelli racconta una storia d’amore (e non solo) che attraversa la distruttività e l’imbarbarimento del mondo per rincorrere i desideri più semplici, i bisogni più comuni e puri. Le regole del fuoco di Elisabetta Rasy racconta la guerra dalla prospettiva poco conosciuta delle donne al fronte; Ritrae un’intimità e un’uminità vera sebbene circondata dalle tenebre.
Con Il giardino delle mosche di Andrea Tarabbia, ci immergiamo in una storia sospesa tra romanzo e biografia; Tarabbia ci racconta la storia di Andrej Čikatilo uno dei più feroci assassini del Novecento.
Infine il vincitore del Campiello Opera Prima La teologia del cinghiale di Gesuino Némus ci trascina in segreti, misteri e colpe antiche scandite da ritmo battente imprevedibile e umoristico.
Il Premio Campiello ci regala, con i suoi autori, possenti spunti di riflessione e ottime proposte di lettura. Ancora una volta dunque non ci resta che attingere al pozzo, storica effige del premio, l’ “approvvigionamento” di cui abbiamo bisogno.
Premio Strega 2016: i 5 finalisti
Due giorni fa, a Roma, in Casa Bellonci si è chiusa la votazione per designare i cinque finalisti dell’edizione del Premio Strega 2016. Il premio è promosso, come sempre, dalla Fondazione Maria e Goffredo Bellonci e da Liquore Strega con il sostegno di Roma Capitale e Unindustria (Unione degli Industriali e delle Imprese Roma Frosinone Latina Rieti Viterbo).
In Casa Bellonci gli Amici della domenica, il corpo elettorale del premio, presieduto da Nicola Lagioia, vincitore del Premio Strega 2015, ha sommato i voti elettronici e delle schede cartacee. Ai voti dei 400 Amici della domenica, si aggiungono i voti di 40 lettori forti selezionati da librerie indipendenti italiane associate all’ALI e 20 voti provenienti da scuole, università e Istituti Italiani di Cultura all’estero.
Si è delineata così la cinquina finalista del Premio Strega 2016:
• La scuola cattolica edizioni Rizzoli di Edoardo Albinati (voti 202)
• L’uomo del futuro edito da Mondadori di Eraldo Affinati (160)
• Se avessero, edizioni Garzanti di Vittorio Sermonti (156)
• Il cinghiale che uccise Liberty Valance edizioni minimum fax di Giordano Meacci (138)
• La femmina nuda edito da La nave di Teseo di Elena Stancanelli (102)
Gli autori e i libri finalisti esclusi dalla precedente votazione sono:
• L’addio edizioni Giunti di Antonio Moresco
• La figlia sbagliata edizioni Frassinelli di Raffaella Romagnolo
• Dove troverete un altro padre come il mio edizioni Ponte alle Grazie di Rossana Campo
• La reliquia di Costantinopoli edito da Neri Pozza di Paolo Malaguti
• Le streghe di Lenzavacche edizioni e/o di Simona Lo Iacono
• Conforme alla gloria edizioni Voland di Demetrio Paolin
• Dalle rovine edizioni Tunué di Luciano Funetta
Mai assenti i colossi dell’editoria al Premio Strega, ma a sorpresa anche case editrici piccole, indipendenti e appena nate come La Nave di Teseo e la più consolidata Minimum fax. Nella cinquina finalista del premio la presenza del colosso editoriale italiano appena creatosi sul mercato è forte ma è evidente la volontà di dare spazio a linee alternative che riguardano le case editrici indipendenti.
Autentica novità è certamente Il cinghiale che uccise Liberty Valance di Meacci, probabilmente l’unico vivo lavoro linguistico di questa cinquina orientata stilisticamente sulla narrativa più classica, con l’asse -Albinati-Stancanelli-Sermonti-Affinati. Anche Se avessero di Sermonti non è una presenza letteraria da poco.
Per ora sembra che il predestinato vincitore sia Edoardo Albinati; con il suo La scuola cattolica, lo scrittore si immerge nella confessione dell’adolescenza, tra sesso, religione e violenza. Da non sottovalutare L’uomo del futuro di Albinti e La femmina nuda della Stancanelli.
Non resta che aspettare l’appuntamento dell’8 luglio per decretare il vincitore di questa settantesima edizione del Premio.
XXIX edizione del Salone del libro di Torino
Mancano pochi giorni all’apertura del Salone del libro di Torino. Quest’anno il titolo del Salone 2016 che si svolgerà dal 12 al 16 Maggio è “Visioni”. L’idea è quella di un filo conduttore che faccia emergere la capacità di guardare lontano partendo da una salda conoscenza del patrimonio letterario, artistico e filosofico. Grande spazio ai “visionari” tutti coloro che hanno saputo distinguersi per la lungimiranza del progetto, l’innovazione, l’originalità dei metodi operativi e la sapienza divulgativa e comunicativa. Tra i visionari il fisico Roberto Cingolani, direttore dell’Istituto italiano di Tecnologia (IIT), centro per la robotica e nanotecnologie.
Salone del libro di Torino 2016: tra cultura e tecnologia
L’Istituto Italiano di Tecnologia porta al Salone il suo robot androide ‘ICub’, unendo così il libro, insostituibile veicolo di condivisione, le più moderne tecnologie. Insieme a Cingolani ci saranno Marino Golinelli e Brunello Cucinelli. E ancora Guido Tonelli responsabile dell’esperimento che al Cern ha permesso di scoprire, con quello di Fabiola Gianotti, il bosone di Higgs, racconterà i prossimi capitoli di questa nuova avventurosa scoperta. Renato Bruni, docente di Botanica all’Università di Parma, propone la biomimetica come metodo innovativo per dimostrare che la natura è all’avanguardia nell’offrirci soluzioni efficaci, sostenibili e rivoluzionarie. Philippe Daverio terrà una lectio magistralis dal titolo Visionari e televisionari con lo scopo di insegnare come un quadro possa aprire la strada a una pluralità di narrazioni e prospettive infinite. Legata all’arte è certamente la fotografia, in grado di trasformare un’immagine in aperture concettuali modificando la comune percezione; è il caso di un altro visionario Oliviero Toscani che sarà al Salone con un volume che raccoglie le sue opere più famose dal 1965 al 2015. La visionarietà coniugata al passato consente di «rivedere» e riscrivere la propria storia con strumenti nuovi; è ciò che propone Carlo Ginzburg coniugando insieme scienze umane, arti figurative e letteratura e concentrandosi sulle menzogne e le violenze delle società contemporanee.
Ovviamente la letteratura resta presentissima nelle innovazioni del Salone e per gli autori italiani resta un appuntamento immancabile; in questa 29° edizione Roberto Saviano festeggerà i dieci anni del successo di Gomorra con un’edizione aggiornata del libro. Ci saranno il premio Nobel Dario Fo, Claudio Magris, Erri De Luca, Corrado Augias, Dacia Maraini, Diego De Silva, Alberto Angela, Umberto Galimberti, Luciano Canfora, Antonio Moresco, Antonio Scurati, Elena Stancanelli, Rosa Matteucci, Carlo Bonini Antonio Pennacchi, Marcello Sorgi, Michela Murgia, Donato Carrisi, Giancarlo De Cataldo, Gustavo Zagrebelsky, Igiaba Scego, Domenico Quirico. Un programma ricchissimo, giornate piene di eventi e di ospiti. Tutto il Salone si occuperà di un focus sulle letterature dei Paesi Arabi e saranno presenti importanti ospiti come la scrittrice egiziana Ahdaf Soueif, il poeta siriano-libanese Adonis, il marocchino Mahi Binebine sarà presente anche Shirin Ebadi, la prima donna mussulmana a ricevere il Premio Nobel per la pace, Michael Cunningham, Bernard Quiriny, Muriel Barbéry, Amitav Ghosh, Jeffrey Deaver, Tommy Wieringa. In più quest’anno il Salone esce dai padiglioni del Lingotto e porta i suoi «visionari» in tutta Torino e nei Comuni dell’area metropolitana più di 350 appuntamenti in 170 luoghi differenti. Scuole, chiese, biblioteche, librerie, teatri, atelier, ospedali dove ci saranno incontri con autori, reading, letture, convegni, performance musicali e teatrali, proiezioni, bookcrossing e booksharing, mercati del libro usato, mostre, showcooking.
Quest’anno numerosi saranno anche i premi e le ricorrenze che daranno vita ad altre occasioni di incontro e discussione. Ricorrono infatti 500 anni della prima pubblicazione dell’Orlando furioso. Il poema di Ludovico Ariosto sarà rievocato dalla studiosa Lina Bolzoni. Con l’Omaggio ad Amleto di Fabrizio Gifuni con un evento di Nadia Fusini dedicato a La tempesta sarà ricordato William Shakespeare. A celebrare Miguel Cervantes ci sarà con la proiezione del film Quijote di Mimmo Paladino, con Peppe Servillo e Lucio Dalla. Per i cent’anni della scomparsa di Guido Gozzano ci sarà l’omaggio di Isabella Ragonese così come per i cent’anni dalla nascita di Natalia Ginzburg, Nanni Moretti e Margherita Buy interpreteranno pagine di Lessico famigliare.
Il Salone di Torino si conferma ancora una volta come la più grande libreria italiana del mondo ma anche un prestigioso festival culturale, un essenziale punto di riferimento per gli operatori professionali del libro e uno spazio vivo, dove sviluppare idee tra tradizione e innovazione.
L’ultimo arrivato, il Campiello 2015 di Balzano
In un’Italia in cui ogni giorno si parla di immigrazione, di stranieri, di culture che si incontrano e si scontrano, di angherie, ripudi e ipocrita normalità, due mesi fa ha trionfato al Premio Campiello, L’ultimo arrivato (Sellerio, 2014), di Marco Balzano, libro che racconta di quando i migranti eravamo noi. L’ultimo arrivato ci fa conoscere la storia di un bambino e di un viaggio, le avventure e le disavventure di un piccolo emigrante, Ninetto, un bambino di nove anni, dallo spirito altruista e dal carattere fiero, detto “pelleossa” che abbandona la Sicilia e si reca a Milano, con la testa piena di parole.
Ninetto «non è che un picciriddu piglia e parte in quattro e quattr’otto. Prima mi hanno fatto venire a schifo tutte cose, ho collezionato litigate, digiuni, giornate di nervi impizzati, e solo dopo me ne sono andato via. Era la fine del ’59, avevo nove anni e uno a quell’età preferirebbe sempre il suo paese, anche se è un cesso di paese e niente affatto quello dei balocchi».
Negli anni Cinquanta il viaggio dal Meridione al Nord non era intrapreso solo da uomini e donne ma anche bambini a volte più piccoli di dieci anni che per la prima volta si allontanavano da casa.
Tra loro c’è appunto Ninetto che parte e fugge lasciando la madre distrutta e rinchiusa al silenzio e il padre che preferisce averlo lontano che senza futuro. La nuova destinazione, quello che appare un nuovo mondo, porta con sè la scoperta della vita e del sé. Ad aiutarlo non ci sarà nulla e nessuno. Ma Ninetto non si scoraggia, si tuffa in tutte le sue prime esperienze, il viaggio in treno, la corsa sul tram, tutto è nuovo in quella città sconosciuta che lui sembra voler assorbire dentro di sé con tutta la foga possibile. Ottiene un lavoro e tutto capita con stupore sotto i suoi occhi: l’avventurarsi nei quartieri e nelle periferie, scoprire la bellezza delle donne, fare amicizie, cadere nell’inganno fino a scivolare fatalmente in un gesto violento dalle dolorose conseguenze.
Quella di Balzano in effetti può apparire come una storia furbetta, sebbene priva di retorica (non racconta nulla di nuovo, certo), ma che misura il limite tra il ‘sogno del nord’ e la realtà effettiva dell’arrivo. Nel caos urbano Ninetto percepisce un allontanamento dai valori della sua infanzia siciliana, dai quali lui fatica a staccarsi. Il gioco delle prospettive non è mai banale anzi, offre un andamento di scoperta continua, tra flashback e flashforward ogni parte del testo ne illumina un’altra uguale e contraria; i punti di osservazione variano per permettere una riflessione totale e profonda. L’ultimo arrivato conta su una scrittura fluida intrisa di suggestioni dialettali, e ha tutte le caratteristiche di una storia classica ma l’accento obliquo e la cadenza fantasiosa del personaggio, che attraverso la sua costituzione e la sua costruzione rende la città e le esperienze un teatro sorprendente e brutale, riesce a far rivivere una realtà sicuramente mai dimenticata ma scolorita e appannata. Solo attraverso gli occhi intimiditi, puri e curiosi di un bambino una storia così vecchia, in cui, senza dubbio, si riconosceranno molti nonni, poteva ritrovare un modo per essere raccontata ancora sorprendentemente. La letteratura in fondo serve anche a perpetuare la memoria, ponendo l’accento anche sul difficile rapporto tra padri e figli (tema già affrontato dallo scrittore ne Il figlio del figlio) e sulla pedagogia.
“Gli Altri Ottanta”, il viaggio punk di Livia Satriano
Gli Altri Ottanta (2014) è un viaggio raccontato dalla promettente Livia Satriano. Un viaggio percorso a ritroso, con la memoria, immortala un’epoca attraverso i racconti dei protagonisti della scena musicale underground. L’approccio narrativo scelto dall’autrice consente al lettore di ripensare quel decennio ben oltre i lustrini e l’edonismo commerciale.
Il titolo non a caso richiama gli altri ottanta, l’altra faccia della medaglia di un’epoca, raccontata attraverso quattordici testimonianze raccolte dalla Satriano con l’approccio di una cronista e così facendo offre al lettore inediti scorci di vita sociale e di vita personale. In Gli Altri Ottanta la colonna sonora è senza dubbio la rivoluzione punk e il post-punk italiano. Nella trama sottile di questi racconti non emerge la fastidiosa autoreferenzialità ma narrazione sincera. Il testo risulta immediato, merito anche delle numerose foto e locandine che consentono di immergersi in quegli scenari, nell’humus di quello spleen sospeso tra innovazione e sperimentazione, con l’ebbrezza che solo la giovinezza spavalda, irriverente e spettinata può generare.
“Vorrai mica che ti parli degli anni ottanta?”. Inizia così il primo contributo firmato Freak Antoni, leader degli Skiantos. Le voci che si incontrano nelle pagine de Gli Altri Ottanta sfatano i numerosi e ricorrenti luoghi comuni e allo stesso tempo Livia Satriano riesce ad evitare la noiosa operazione revival. Ciò che la giovane autrice realizza in Gli Altri Ottanta è la raccolta inedita delle testimonianze storiche avvalendosi della musica come lente e chiave di lettura socio-antropologica da non sottovalutare.
Emerge il ritratto di una generazione sulla quale molto si è scritto ma forse poco è stato compreso, a causa di quello snobbismo intellettualoide che ha fatto di quegli anni uno stereotipo sdoganato. Infatti proprio sugli anni ’80 resta ancora un punto di domanda e un irrisolto che meriterebbero a mio avviso di essere snodati, per comprendere l’eco che condiziona il presente.
In una sorta di canovaccio a più mani in Gli Altri Ottanta si intrecciano le linee generali di un periodo ma preservano come epicentro la nascita di un nuovo approccio alla musica rock. Gli anni ‘80, infatti, non sono stati soltanto quelli del culto dell’ottimismo e del consumo a tutto campo, della ‘Milano da bere’ e della musica dance. Il decennio compreso tra la fine degli anni ‘70 e la fine degli anni ‘80 è stato, in primo luogo, un periodo di grandi cambiamenti e di profonde contraddizioni. Sono proprio gli anni di quel meraviglioso Week-End Postmoderno firmato Pier Vittorio Tondelli e della fauna cresciuta all’ombra degli anni di piombo e del nuovo boom economico. Questi ultimi hanno determinato il cambiamento dei contenuti di una intera società e dei suoi miti culturali, anche e soprattutto alternativi e di subcultura.
Gli Altri Ottanta non è un testo per nostalgici o estimatori di quel periodo, o meglio non solo, è un testo per chi è mosso da curiosità. Così Livia Satriano preferisce affidarsi ai racconti dei diretti protagonisti nonché testimoni privilegiati. Passa in rassegna il rock “demenziale” e provocatorio degli Skiantos, le influenze punk-wave dei CCCP, la wave cantautorale dei Diaframma… Sintomo di quanto anche nei giovani italiani si era diffuso un senso di insofferenza che andava di pari passo con una forte e sentita necessità di cambiamento.
Negli ‘Anni di Pongo’ (cit. Freak Antoni) una delle Muse oltre che centro di ‘gravità permanente’ è stata Bologna e il Dams, le uniche sedi in grado di raccogliere la smania giovanile che si respirava nell’aria, come non ricordare Andrea Pazienza. Seguirono Firenze e le province italiane, fino ad investire tutta la penisola con una fitta rete underground. Gli Altri Ottanta di Livia Satriano consente di ripensare, a sangue freddo, a quel controverso momento storico e musicale in cui le possibilità sembravano infinite, all’insegna della creatività e di quel nomadismo alla Derrida. Le pratiche di quegli anni si traducono in rituali elettronici, senza alcun sentimentalismo o ideologia dal retrogusto amaramente sessantottino: è il Postmoderno. Quel macrocosmo che racchiude l’uomo tardomoderno, costrutto della spersonalizzazione propria della odierna società dei consumi.
La fauna anni ’80 è archetipica delle categorie sociali ampiamente stereotipate. I contorni della realtà si dilatano sotto l’effetto di luce a neon che crea una dimensione surreale, fittizia e destabilizzante. Si resta ingabbiati in questa luccicante quanto mai asettica realtà, valutazioni artefatte e resta un’incognita. Si dispiega un orizzonte agli antipodi, quasi stessimo parlando d’altro, non di quegli anni. Ecco l’altro volto della stessa medaglia, attraverso una spirale di episodi, di storie che si intrecciano con altre storie, di apnea cognitiva che caratterizzano Gli Altri Ottanta.
Tutto in Gli Altri Ottana richiama il “vuoto pneumatico” di postmoderna memoria, di tutti coloro che non trovavano il baricentro in se stessi e che allo stesso tempo con purezza emotiva coltivavano il sentimento dell’amicizia e dell’amore in modo sincero e ingenuo per la musica. L’amore, appunto, senza sfumature ma nella sua veste più devastante e assoluta, sembra l’unico sentimento in grado di redimere e che esercita una cura catartica alla realtà. Il bisogno costante di viaggiare, di cercare nell’altrove nuovi stimoli e soprattutto il bisogno di dimenticare il grigiore e l’indifferenza che ha circondato quella ‘strana generazione’, in nome di esperienze che potessero fare sentire loro che esistevano.
Livia Satriano è abilissima nel non s-cadere nell’autocompiacimento, nella retorica che redime il passato solo perché ‘si stava meglio quando si stava peggio’ o nell’odierno sdoganato fenomeno Hipster. Al contrario, il suo stile rispetta la vocazione del narrare con lucido realismo e con la consapevolezza che tutto fugge, finisce e muta, senza troppi piagnistei, sia chiaro.