Per il centenario della nascita di Ingmar Bergman la Svensk Filmindustri e la Ingmar Bergman Foundation hanno concesso la proiezione del nuovo restauro del Settimo Sigillo e di Ciò non accadrebbe qui, la spy story anticomunista disconosciuta dal regista svedese, al festival de Il Cinema Ritrovato promosso dalla Cineteca di Bologna.
Ingmar Bergman è stato un regista, sceneggiatore e drammaturgo ed è considerato uno dei maestri della cinematografia mondiale. Il suo film più famoso è Il posto delle fragole (1958), pellicola che gli è valsa un ricovero per esaurimento nervoso, ma anche l’Orso d’oro al Festival di Berlino e il premio della critica al Festival di Venezia. L’enorme influenza che l’opera di Bergman ha avuto sui registi europei l’ha reso un punto di riferimento per il cosiddetto cinema d’autore. Del regista svedese, Jean-Luc Godard ha detto: «Ingmar Bergman è il cinema dell’istante», mentre Michael Winterbottom l’ha recentemente nominato nell’intervista che uscirà sul numero cartaceo di Fabrique.
Bergman è stato uno dei migliori registi dal punto di vista visivo e allo stesso tempo uno degli sceneggiatori più raffinati in circolazione. Il rapporto conflittuale con i genitori ha portato il giovane Bergman a rinchiudersi in un mondo fittizio, con il quale sostituiva quello reale. Quando a dodici anni ha ricevuto in regalo il suo primo proiettore cinematografico, quel mondo-rifugio è diventato il cinema, con le sue luci e le sue ombre.
Ingmar Bergman ha iniziato la sua carriera in un teatro studentesco di Stoccolma, scrivendo i testi e dirigendo una compagnia filodrammatica senza ricevere compenso, mantenendosi grazie all’aiuto di una ragazza del corpo di ballo. Ottenuta una certa stabilità economica, nel giro di due anni ha scritto e prodotto ben dodici drammi e un’opera lirica. Nel 1942, uno dei suoi drammi è in scena e dalla platea lo notano il neodirettore della Svensk Filmindustri e la responsabile della sezione manoscritti. Il giorno dopo, il giovane Bergman viene convocato e assunto con uno stipendio di cinquecento corone al mese. Così, appena ventottenne, nel 1946 dirige la sua opera prima su commissione: Crisi (Kris). Come recita la voce fuori campo: «Non la definirei un dramma straziante, piuttosto un dramma quotidiano. Dunque è quasi una commedia». La storia, semplice e lineare, racconta di una diciottenne adottata che ritrova la madre biologica e la segue in città. Sedotta dall’avventura, scopre il lato oscuro delle persone e di sé stessa, ma dopo una cocente delusione torna dalla donna che l’ha cresciuta e sposa l’uomo che l’ha sempre amata.
Bergman è moderno e attuale nel tratteggiare la crisi esistenziale dell’uomo, dopotutto è lui stesso ad affermare che «non c’è nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza» e in questo modo dà vita a un nuovo filone filosofico ed esistenzialista. Il carattere autobiografico si rintraccia facilmente nei temi bergmaniani: la solitudine, il conflitto generazionale, il dolore del sentirsi inutili, l’innocenza perduta, la morte e il rapporto con la religione. Per il regista svedese «lo spettacolo della vita è un teatro di marionette», per questo il suo è un cinema fatto di dicotomie, di confronto continuo tra realtà e irrealtà, tra vita e teatro e il sipario non ha bisogno di calare su un palco, può farlo la tenda di una finestra, in una casa un po’ vuota, su una vita qualunque.
Nei chiaroscuri taglienti di Crisi, si inseguono specchi, treni, sigarette e manichini e le luci evanescenti illuminano il lieto fine più triste del mondo. In questa pellicola manca la catarsi, alla fine riparte il circolo diabolico e infelice e si ritorna all’incipit: la ragazza in fuga dall’artificiosità cittadina, con disincanto finisce per accettare di vivere imbrigliata nelle convenzioni sociali. In Crisi l’interrogativo principale, in ultima analisi, è se e quanto è possibile spogliarsi davanti all’altro, Jenny non ci riesce e accetta di recitare nella vita come nel teatro. Sotto luci al neon a intermittenza, la giovane si guarda allo specchio e sa di essere falsa e che il suo inferno sono gli altri.
La pellicola, un po’ come Jenny, è stata sfortunata, anche se è da considerarsi una dignitosa opera prima. La lavorazione di Crisi infatti è stata caratterizzata da numerosi imprevisti: vari incidenti e feriti sul set, il direttore della fotografia che abbandona il progetto e Bergman con le sue scelte costose e improduttive. Inoltre quando il film esce nelle sale, il 25 febbraio 1946, è un fiasco clamoroso. Ingmar Bergman è la dimostrazione che da un fallimento ci si può rialzare e che non tutti i grandi della storia del cinema hanno avuto un esordio da favola, di certo non Bergman, oggi considerato all’unanimità un maestro della settima arte.