Paolo Monelli (Fiorano Modenese, 15 luglio 1891 – Roma, 19 novembre 1984), è stato il più letterato dei giornalisti italiani del ‘900 che ha dato dei punti anche ai più bravi letterati del mestiere; lo ha dimostrato già dai corsivetti che egli redigeva per la Gazzetta del Popolo, “una parola al giorno”, e che sono stati riuniti in volume dall’Hoepli, come l’Alfabeto. Monelli quindi ha inventato una rubrica di “varietà”, letterarie e di costume legandosi alle lettere dell’alfabeto, cercando di scrivere una variazione per ogni lettera.
Dopo aver frequentato il liceo classico “Minghetti” di Bologna, Monelli decide di intraprendere la carriera militare, ma viene bocciato all’esame di ammissione all’Accademia di Torino; come ripiego, inizia a studiare giurisprudenza presso l’università di Bologna, dove si laureerà ed inizia a collaborare con Il Resto del Carlino per il quale alcuni articoli sulla terza pagina. Allo scoppio della Prima guerra mondiale Monelli si schiera dalla parte degli interventisti; così, al momento dell’entrata in guerra, si arruola come volontario negli Alpini. Partecipa alla battaglia dell’Ortigara, conseguendo una seconda decorazione, promosso capitano, Monelli si ritrova coinvolto nei tentativi di respinta della violenta offensiva austriaca che ha avuto la sua battaglia decisiva nella celebre disfatta di Caporetto. Il coraggio dimostrato dallo scrittore sul Monte Tondarecar è premiato il 15 novembre 1917 con una terza medaglia di bronzo.
Per Monelli la Grande Guerra inizialmente è stata una splendida avventura, considerata la sua giovane età, ma nel corso del combattimento, instaura con i suoi soldati uno stretto rapporto e conserva vivi i ricordi di questi uomini: «È mia ricchezza segreta e indistruttibile questa esperienza che non vorrei non avere avuto». Nel 1920 infatti, Monelli compone un diario di guerra, Le scarpe al sole, opera che dichiara la propria da parte del giornalista.
Nel 1921 Monelli inizia a collaborare con La Stampa, diretta dall’antifascista Luigi Salvatorelli; è in questo periodo che viene pubblicata l’opera Viaggio alle isole Freddazzurre: da Oslo a Hammerfest, Caponord e Spitsbergen edita da Alpes. Nel 1926, Monelli lascia La Stampa ed istituisce insieme ad alcuni letterati, il Premio Bagutta; approda poi al Corriere della Sera di Ugo Ojetti; a questo periodo appartiene l’opera Io e Tedeschi, distribuita da Treves.
Successivamente viene pubblicata, sempre da Treves, una raccolta di articoli celebrativi del decennale della Vittoria, Sette battaglie (1928). Dopo il licenziamento da Via Solferino, Monelli è assunto dalla Gazzetta del Popolo, che segna la sua entrata in un organo di stampa molto organico alla politica culturale del regime. Monelli riprende anche il suo ruolo di corrispondente dall’estero: è infatti a New York, nel 1933, in occasione della trasvolata oceanica guidata da Italo Balbo, in Etiopia, tra il 1935 e il 1936, come inviato di guerra; a Ginevra, in occasione della riunione della Società delle Nazioni il 30 giugno 1936. In questa circostanza Monelli e altri sette giornalisti delle maggiori testate italiane danno vita ad una “bravata patriottica”, coprendo con fischi il discorso del delegato del Negus d’Etiopia.
Durante la seconda guerra mondiale Monelli torna alla vita militare ed è chiamato dal Ministero della Marina, con il ruolo di corrispondente di guerra, pur continuando ad essere membro del Corpo degli Alpini. Congedato il 22 febbraio 1943, comincia a maturare un senso di critica verso il fascismo che lo porta a riprendere la sua attività di giornalista di guerra al seguito del Corpo Italiano di Liberazione. Pubblica quindi l’opera Roma 1943, edita da Migliaresi nel 1945, che tratta gli avvenimenti che hanno portato alla fine del fascismo. La tesi del giornalista è condivisa anche da Carlo Emilio Gadda con l’opera antimussoliniana Eros e Priapo. Dopo la liberazione di Roma, Monelli partecipa attivamente alla vita culturale della città, costituendo il gruppo degli Amici della Domenica con Massimo Bontempelli, Paola Masino, Carlo Bernari, Palma Bucarelli e Alberto Savinio, gruppo che ha presieduto alla fondazione del Premio Strega.
Monelli può finalmente dedicarsi al genere narrativo: Sessanta donne (1947), Morte del diplomatico (1952), Nessuna nuvola in cielo (1957), Avventura del primo secolo (1958); riprendendo anche l’attività di giornalista dapprima a La Stampa, in seguito, di nuovo al Corriere della Sera.
Sono di estremo interesse, per quanto riguardo il suo Alfabeto, i capitoletti di Monelli sulla bellezza, sull’eternità, sui ciechi, che ci danno un Monelli meno spiritoso del solito ma che vuole andare a fondo, vuole approfondire l’argomento. Lo scrittore è a suo agio e dimostra passione quando scrive sulla bellezza delle cose immutabili e sulla contemplazione di un cielo notturno:
“Noi non possiamo acquetarci che nell’armonia delle linee dei monti del piano dell’orizzonte marino, e la più sicura bellezza è quella del cielo notturno. Ogni sera torneremo con appagata certezza alla geometria delle costellazioni, che per noi non muta, che ogni stagione torna allo stesso punto del cielo, ed avvera in se le più limpide astrazioni della nostra intelligenza”.
Questo passo rivela il Monelli letterato, con il suo gusto per il bel fraseggio o probabilmente per il piacere della bella chiosa ad effetto. Poi c’è un Monelli arguto che svariegga sulle donne tascabili, sulla pastasciutta, ecc, temi che ci consegnano un Monelli più tradizionalista e polemista, che deplora l’uso e l’abuso degli esotismi nel linguaggio, nelle idee e nelle mode. Lo scrittore emiliano si scaglia contro il bel mondo e contro quei letterati che stanno tutt’occhi e tutt’orecchie in ascolto della cultura francese, per il quale non è altro che “una riduzione ebraico-borghese delle idee vigenti altrove”. Naturalmente il pensiero e la letteratura francese possono essere mediocri, e in parte lo sono; ma in questo modo si rischia di trasformare uno sfogo dell’umorale Monelli in un pensiero serio, in un’opinione ragionata.
In Paolo Monelli convivono al contempo una certa pedanteria e sregolatezza, ma è importante sottolineare come egli, nel suo Alfabeto, abbia rivelato tutto il suo spirito nostrano, il suo vigile senso di italiano nuovo, ben lontano dai provincialismi.