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Addio a David Lynch, cacciatore di misteri

Mistero, doppio, mutamento di identità. Il grande risultato dei film di David Lynch risiede nella fascinazione di questi tre aspetti e nella capacità di abbattere la distanza tra spettatore e schermo. Invece di consentire la prossimità immaginaria che domina nel cinema mainstream, i film di Lynch coinvolgono lo spettatore nella loro stessa struttura. La struttura di un film di Lynch altera la situazione di visione cinematografica stessa e priva lo spettatore del senso di fondo di rimanere a una distanza di sicurezza da ciò che accade sullo schermo.

Evitando la questione di cosa costituisca esattamente il “cinema mainstream” e il rapporto di Lynch con esso, ci si deve chiedere come la “situazione di visione” per l’opera di David Lynch sia rimasta abbastanza invariata negli anni trascorsi da Eraserhead. Da allora uno spettatore attento avrebbe potuto imbattersi nell’opera di Lynch in contesti così diversi come nelle proiezioni di mezzanotte negli anni ’70, sui loro schermi televisivi alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90, fino allo scaricamento di esperimenti di cortometraggi sul proprio
computer nell’ultimo decennio. Anche se uno spettatore si limitasse solo ai lungometraggi di Lynch, non si può ancora affermare che esista una singolare “situazione di visione cinematografica” in cui li avrebbe guardati tutti.

Il cinema “discontinuo” e perturbante di David Lynch è stato variamente criticato, accolto e interpretato nei più differenti modi da pubblico e critica. I critici e gli appassionati più ferventi non si sono lasciati sfuggire occasione per interpretare i suoi film alla ricerca di analogie e similitudini con pellicole di altri grandi geni del cinema come lo sono stati Buñuel, Hitchcock e Lang.

Già nel 1977, anno di uscita del suo primo lungometraggio, “Ereaserhead – La mente che cancella”, gli viene affibbiata l’etichetta di surrealista perché il film in certi momenti sembrerebbe ricordare “Un Chien Andalou” di L. Buñuel e S. Dalì. Cadere nell’equivoco di considerare David Lynch un surrealista è cosa facile, soprattutto a causa delle atmosfere stranianti ed astratte che pervadono i suoi film, atmosfere che turbano lo spettatore nel profondo.

Per me il mistero è una calamita. Ovunque ci sia qualcosa di ignoto, si sviluppa sempre una grande attrazione. Se ci si trovasse in una stanza, con la porta aperta e con le scale che scendono, e si spegnesse di colpo la luce, si apre e la forte tentazione di precipitarsi giù da quelle scale”. (David Lynch)

Il mistero che interessa Lynch è quello che pretende una spiegazione, quello che genera uno stato di disorientamento percettivo/cognitivo e che coglie lo spettatore – insieme al personaggio – di fronte a eventi inspiegabili o in attesa di risoluzione. Uno “scioglimento” logico dei dubbi spesso non viene raggiunto, come se il cineasta percepisca deludente ogni curva narrativa che si risolva semplicemente nel percorso
“mondo tradizionale > evento perturbante > conflitto > sconfitta dell’irrazionale > ritorno al mondo ricomposto”. Ciò su cui fa leva
è invece la perenne esitazione tra il razionale e l’irrazionale degli avvenimenti narrati, egli preferisce dilatare all’infinito il mistero, mantenendone le caratteristiche iniziali di “rottura” ma rinunciando di fatto a una sua riduzione elementare.

Da una parte l’autore non rinuncia a marche di enunciazione che indichino la presenza di un’attività onirica, dall’altra i film si nutrono di visioni, profezie, apparizioni che non si sa mai a chi o a che cosa attribuire. Di qui, una sensazione diffusa di minaccia
che “possiede” fantasmaticamente anche i luoghi apparentemente pi sicuri, come la casa o la camera da letto.

Il mistero in Lynch si struttura in diverse forme: misteri che muovono l’intera vicenda, misteri occasionali in grado di turbare gli eventi della narrazione e infine misteri nonsense, circoscritti a una sequenza o a un comportamento anomalo. Una delle caratteristiche principali che distingue il racconto cinematografico dalla fiction televisiva è il limite di tempo della narrazione.

Mentre nel cinema la storia è destinata a svilupparsi e concludersi entro un certo arco temporale che mediamente si aggira intorno alle due ore, in televisione si ha la possibilità, almeno in teoria e a pubblico piacendo, di poter raccontare una storia per un tempo illimitato, cambiando di continuo le carte in tavola. La narrazione televisiva consente per esempio di mettere in risalto dettagli che prima sembravano insignificanti e d’improvviso aprono le porte a nuove possibilità di sviluppo del racconto; ancora consente di far evolvere la storia di un
personaggio secondario fino a fargli assumere la stessa importanza dei protagonisti.

About Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

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