“Il prete bello”, il best seller di Goffredo Parise

Il romanzo più bello, audace e sincero di Goffredo Parise sancito da un grandissimo successo di pubblico, Il prete bello (1954) ha avuto molte edizioni italiane e numerose traduzioni presso le più importanti case editrici del mondo. La storia di uno scandalo, quello che coinvolge il giovane e affascinante sacerdote di un paesino del Veneto degli anni ’30, don Gastone, al centro delle fantasie di molte donne ma innamoratosi della bella Fedora, la nipote della vedova del fotografo venuta ad abitare nello stabile, rigogliosa come la primavera, la quale riceve spesso visite di militari in libera uscita.

A narrare la vicenda nella cattolica provincia vicentina è Sergio, un bambino che vive con la madre, il nonno malato ed alcuni amici, tra i quali spicca l’inseparabile Cena, con il quale si rende protagonista di una serie di scorribande in caccia di cibo e denaro per il quartiere. Nel caseggiato dove abita Sergio vive un’umanità variegata: Parise ci presenta con simpatia la signorina Immacolata, zitella e padrona dello stabile, le signorine Walenska, anch’esse nubili come la Botanica e Camilla, il ciabattino Bombana, lo smanioso cavalier Esposito, che vive con cinque figlie che si vanta di essere l’unico a possedere il gabinetto in casa, considerato un grandissimo privilegio.

Nel paese opera il parroco del rione, don Gastone Caoduro, uomo di Dio pieno d’iniziativa, non rigido e soprattutto bello e affascinante. Egli commissiona alle zitelle la propria biancheria di lino da rammendare, suscitando ambiguità. Il sacerdote sceglie Sergio per recitare alcune poesie durante uno spettacolo di beneficenza e lo affida alla signorina Immacolata per lo studio e la preparazione delle liriche. La donna è vittima di una fortissima ed inconsapevole attrazione nei confronti di don Gastone e ben presto si avvale dell’aiuto di Sergio per essere informata dettagliatamente sui rapporti del sacerdote con le altre zitelle del quartiere. Il furbo ragazzino, insieme a Cena, riesce a sfruttare la situazione a proprio vantaggio, tanto da ottenere la tanto agognata bicicletta Bianchi di colore rosso tutta per sé, mentre don Gastone riceve dalle sue ammiratrici, oltre ad una Balilla cabriolet color amaranto, il finanziamento per il gruppo di fasciste cattoliche Fede e Ardimento. Il sacerdote è immune alle coraggiose avances delle sue corteggiatrici, addirittura riceve in dono da loro delle pillole ricostituenti che, in realtà, servono a combattere la debolezza sessuale da cui, secondo le audaci donne ignorate, sarebbe afflitto don Gastone. Ma non sarà immune alla bellezza di Fedora.

Sergio, Cena e i suoi amici proseguono la loro divertente attività di informatori, ma intanto esce dal carcere il Ragioniere, un ladro che organizza furti insieme a Sergio e Cena; ma durante queste imprese il Ragioniere muore ucciso da una guardia e quest’ultima, a sua volta, viene uccisa da Cena. Sergio scappa con la refurtiva, ma l’amico viene arrestato. Il giorno della visita di Mussolini, Sergio, scelto per lanciarsi sull’auto del Duce e baciarlo, nel frastuono del corteo chiede la grazia per Cena. Proprio quando Mussolini è in visita al paesello veneto, l’amatissimo bagno del cavalier Esposito crolla, quasi come fosse un simbolo di un’epoca che si sta concludendo. E il simpatizzante fascista don Gastone muore di tubercolosi lasciando Fedora sola e incinta. Termina amaramente perfino l’infanzia di un bambino, quella del narratore Sergio, il quale è costretto a riflettere sul tragico destino di Cena che, dopo essere fuggito dal riformatorio, viene investito da un tram e, assistito dall’amico, muore in ospedale, a soli dodici anni.

Ne Il prete bello, Goffredo Parise ritrae in maniera grottesca e commovente un’epoca, un ambiente e la miserabile parabola esistenziale, dal sapore picaresco, di due ragazzini e quella del loro parroco, arricchendo la vicendo di elementi autobiografici, in cui si spazia dall’elemento popolare della miseria, allo scandalo di una storia di fede e di sesso, che non può non suscitare spesso morboso interesse. L’autore non risparmia al lettore un linguaggio forte, caratterizzato dalla presenza di molte parolacce, e surreale, soprattutto quando effettua delle similitudini. Un appassionato romanzo di morte come già preannuncia il soprendente incipit: «Il nonno aveva un cancro alla prostata», un romanzo che come ha notato il critico Emilio Cecchi sul <<Corriere della Sera>>, è attraversato da una “vena di angosciosa poesia, un dono verbale agile e impetuoso”.

 

 

“La consistenza del bianco” di Ornella De Luca: la ribellione giovane

A chi segue con attenzione la compagine narrativa contemporanea italiana non sarà di certo sfuggita l’uscita di un romanzo insolito che piacerà soprattutto ad un pubblico femminile, il quale non faticherà ad identificarsi nella protagonista. Il romanzo in questione ha un titolo suggestivo, evocativo: La consistenza del bianco, a metà tra romanzo di formazione e giallo, della giovane autrice siciliana Ornella De Luca, che si presterebbe ottimamente ad una versione cinematografica data l’appetibilità degli ingredienti.

Ambientato in un ovattato mondo corrotto e ricattatorio agli inizi del Novecento, La consistenza del bianco presenta un microcosmo superbo e prevaricatore abitato da nobili inglesi ricchi e viziati ma con qualche scheletro nell’armadio e una realtà più sofferente comune a molti nostri bisnonni emigranti negli States alla ricerca di una vita migliore fatta di delinquenti mercenari nei bassifondi di New York. La nobile e sensibile Cheryl Milton, protagonista della vicenda, è una giovane ribelle che nel giorno delle sue nozze, combinate con un uomo più anziano di lei, immorale e violento, scappa dallo Yorkshire e dal controllo della sua famiglia, per tentare di rifarsi una vita in America con una falsa identità, con la sua cameriera e amica Jane. Cheryl si scontrerà con nuove realtà che metteranno in pericolo la sua stessa vita ma che hanno un profondo legame con il suo passato. Sarà capace di far fronte alle nuove difficoltà che le si presenteranno davanti?

Ornella De Luca lascia entrare il lettore nei pensieri della protagonista alla quale non riserva solo giudizi positivi: Cheryl è una ragazza di buoni sentimenti, non una classista come sua madre Lady Susan Milton, arrivista ed egoista, ma non è facile per lei liberarsi del proprio egoismo, dell’orgoglio, dei suoi vecchi privilegi, tanto che questa sua bramosia di conquistare la propria libertà appare inizialmente come un capriccio. Sarà l’incontro con un ragazzo dei sobborghi di New York, Nick, a farla uscire diventare donna. E Nick scoprirà il vero amore.

L’autrice dimostra di saper tratteggiare i caratteri dei vari personaggi, di conoscere in maniera approfondita l’America dei primi del ‘900, i rituali e i vezzi dell’aristocrazia inglese, di destreggiarsi con abilità con un’opera di tipo corale, attraverso l’innesto di personaggi che fungono da punto di riferimento per Cheryl e Jane, come Sorella Helèn e  altri come Peet e Michael che fanno comprendere meglio al lettore gli usi e costumi di un’epoca, di una classe sociale, inducendolo con semplicità ad empatizzare anche con personaggi minori, regalandoci una narrazione scorrevole, ricca di colpi di scena, suscitando nel lettore curiosità riguardo i segreti di casa Milton.

La consistenza del bianco ci conduce gradualmente allo svelamento dei segreti e degli intrighi che sembrano siano insiti nelle famiglie ricche e potenti, alla presa di consapevolezza e di responsabilità di Cheryl attraverso il suo non poco sofferto percorso di maturazione, percorso che riguarda anche la sua amica Jane e il suo amore Nick. Una storia universale quella della protagonista, un’eroina senza tempo Cheryl nella quale si immedesimeranno molte lettrici.

Dettagli, ambientazione, psicologia e descrizione estetica e comportamentale dei personaggi, azione, rimandi narrativi, tutte queste componenti sono rese al meglio soprattutto grazie al principio di verosimiglianza, al linguaggio adottato dall’autrice che va dal formale al metropolitano, dall’adolescenziale al melodrammatico, intervallato da interventi che si configurano come riflessioni, considerazioni dall’aspirazione di oggettività, sottoforma di massime che richiamano alla mente i romanzi di Jane Austen.

Ornella De Luca riflette anche se sommariamente sulla società dell’epoca spostando il raggio di azione dall’Europa aristocratica osservante delle convezioni e preoccupata della propria reputazione, all’America borghese, dei self made men con la sua variegata e dinamica umanità sociale. Certamente la giovanissima autrice ha ampi margini di miglioramento specialmente se si fa riferimento al tema delle differenze culturali, filosofiche e storiche tra Europa e America, ma il suo romanzo tenta di vincere il torpore e la banalità dell’offerta narrativa italiana contemporanea che riguarda soprattutto gli emergenti, volta al facile successo attraverso operazioni di marketing.

 

Top ten giugno 2015

La classifica dei libri più venduti del mese di giugno non è molto differente da quella di maggio:

1.
Ancora in testa Andrea Camilleri con La giostra degli scambi, il nuovo caso del commissario Montalbano.

 

 

2.
Stabile al secondo posto La Piuma, l’opera inedita di Giorgio Faletti, una storia accompagnata dai disegni dell’amico sceneggiatore Paolo Fresu, e scritta con l’obiettivo di farla poi diventare un musical.

 

 

3.
Risale in terza posizione Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli che spiega alcune importanti leggi che regolano il funzionamento dell’universo con un linguaggio alla portata di tutti.

 

 

4.
In quarta posizione troviamo Luca Bianchini con il suo Dimmi che credi al destino.

 

 

 

5.
Sale al quinto posto Cari mostri di Stefano Benni, che sfida il racconto di genere e apre la porta dell’orrore, con ironia e comicità.

 

 

 

6.
Al sesto posto, perdendo una posizione, si posiziona Il segreto degli angeli di Camilla Lackberg, con un nuovo omicidio tra i fiordi.

 

 

Scende al settimo posto La vigna di Angelica, il nuovo romanzo di Sveva Casati Modignani che ha come protagonista Angelica è una donna forte e determinata, padrona della sua vita.

8.
In discesa anche Santa degli impossibili, di Daria Bignardi.

 

 

 

 

9.
Al nono posto rientra dopo una breve assenza Le mani della madre di Massimo Recalcati.
il quale sfata questo e molti altri falsi miti che normalmente si trovano quasi accoppiati alla parola mamma.

 

 

10.
Ritorna al decimo posto Sotto le cuffie di Favij, giovane intrattenitore che insegna che l’improvvisazione non porta a grandi risultati: anche per strappare un sorriso ci vuole professionalità.

 

 

 

Fonte: Pausacaffeblog.it

Albert Thibaudet e gli ordinamenti della letteratura

Storia della letteratura- Thibaudet. Quale periodo si deve abbracciare per lo studio del romanzo italiano contemporaneo? Fissare i limiti di un periodo storico significa sempre accettare date convenzionali, scelte per opportunità pratica, ma è facile, come afferma Giacomo Debenedetti, che diversi osservatori possano vedere in quella convenziona un arbitrio. Ad esempio è utile oltre che comodo, far cominciare la penultima epoca storica dalla rivoluzione francese; ma quante premesse, quanti fatti dell’età borghese che si sono avverati, si lasciavano fuori con quel taglio crudo che occorreva per ristabilire il punto di inizio dell’anno 1789? Storici rigorosi, come Tocqueville hanno dimostrato quanto quella data convenzionale fosse arbitraria. Esiste inoltre una contemporaneità come sentimento personale e una come valutazione cronologica. Ma contemporaneo vuol dire anche coetaneo e ciò ci lascia concludere che, dovendo studiare un fenomeno letterario contemporaneo, la data di arrivo deve essere quella più vicina possibile.

La data di partenza è sempre problematica, non sempre si riesce a trovare un fatto peculiare, dei segni nella continuità del tempo e per il romanzo, a differenza della poesia, risulta ancora più complesso. Se accettassimo l’idea che il romanzo italiano contemporaneo rientra in un divenire letterario, ci ritroveremo di fronte ai problemi ricorrenti che si ripresentano ogni volta che si tenta di ricostruire un aspetto della storia letteraria.

Tali problemi sono stati esposti con singolare intelligenza ed ingegno dal critico francese, allievo di Henri Bergson e tra i fondatori della cosiddetta Scuola di Ginevra, Albert Thibaudet (Tournus, 1º aprile 1874 – Ginevra, 1936), nella prefazione alla sua Storia della letteratura francese dal 1789 ai nostri giorni, libro uscito postumo.

Sostiene Albert Thibaudet: le Belle Lettere, i libri che si leggono e si gustano, non bastano ancora a fare una letteratura, che è uno Stato, un ordine, una gerarchia, un susseguirsi logico che si stabilisce mediante il ripensamento, la conoscenza sistemica e organizzata di opere e di autori. Lo schema, l’archetipo per eccellenza secondo il critico francese è quello di uno dei discorsi più famosi che siano mai stati scritti in Francia, Il discorso sulla storia universale di Bossuet, diviso in tre capitoli: Epoche, Concatenamento, Imperi.

La divisione per epoche letterarie contraddistingue tali epoche datandole in base ad un importante evento letterario: in Italia, ad esempio, la Divina Commedia o l’Orlando furioso; gli scrittori rivestono un’importanza quando fanno epoca. Trasferendo tale sistema al romanzo contemporaneo, dateremmo questa epoca con Gli indifferenti di Moravia o meglio ancora con Una vita, Senilità e La coscienza di Zeno di Svevo. Tuttavia il sistema delle epoche opere ad influsso ritardato, si pensi ad esempio a Verga, rivalutato solo dopo la sua morte.

L’altro sistema di ordinamento storico della letteratura è quello che si basa sul concatenamento, il quale cerca di tracciare una storia letteraria costruita in modo che le opere sembrano chiamate ad attuare una certa idea superiore lottando contro ostacoli e difficoltà; in tal senso potremmo considerare la narrativa moderna e contemporanea italiana come una storia del progressivo affermarsi del realismo. Si potrebbe dunque partire da Federigo Tozzi, o da Giuseppe Antonio Borgese con il suo Rubé, il quale, prendensosi qualche rischio, ripropone la dignità letteraria del genere romanzo.

La poetica del realismo è attualmente la più storicamente opportuna, da essa sono nate le opere di maggiore importanza; nel realismo narrativo entrano racconti e romanzi che il vulgar realismus considera astratti, si pensi al Pasticciaccio di Carlo Emilio Gadda.

Il terzo tipo di sistema proposto da Thibaudet per periodizzare una storia letteraria è quello che si fonda su un succedersi di imperi, ciascuno dei quali è rovesciato da una guerra letteraria o da una rivoluzione e al quale succede un nuovo impero. Questo tipo però si può applicare correttamente solo alle grandi estensioni temporali, seppur non privo di suggestioni: il futurismo ad esempio ha rovesciato l’impero della letteratura degli accademici, la nuova poesia quello del dannunzianesimo.

Il sistema di Albert Thibaudet ha molti punti in comune con quello italiano, ma il critico francese, nel trattare un periodo relativamente breve, poco più di un secolo e mezzo, opta per una quarta via: l’ordine per generazioni che, come afferma lui stesso, “ha il vantaggio di seguire più da vicino il procedere della natura, di coincidere con maggiore fedeltà con il cambiamento imprevedibile e la durata viva, di meglio adattare alle dimensioni ordinarie  della vita umana, la realtà e il prodotto di un’attività umana”, quale è appunto la letteratura. In questo modo, si troverà più facilmente la data di partenza del romanzo italiano contemporaneo: siamo nel 1960, sottraendo i 30 anni della presente generazione, si troverebbe come data di inizio il 1930, anno infatti che concerne il romanzo italiano. Ritroviamo intorno a questo anno fatti e opere capaci di fare epoca: la riscoperta di Svevo nel 1925, l’uscita degli Indifferenti nel 1929.

La domanda qui sorge spontanea: perché in quel momento si è potuto rivalutare il fino ad allora ignorato Italo Svevo? Semplicemente perché era nato nei critici quel gusto del romanzo che nello scrittore triestino era innato.

Bibliografia: G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento.

L’invasione dei brutti nel romanzo del ‘900 – parte seconda

LA BRUTTEZZA IN FEDERIGO TOZZI (“Il Podere”, “Ricordi”, “Con gli occhi chiusi”)

Nei romanzi di Federigo Tozzi, persino i personaggi che si presentano positivi, scoprono quasi subito un particolare sgradevole. Ed ecco che l’avvocato Neretti, a quale ricorre il protagonista del Podere Remigio Selmi: egli è un ex compagno di scuola di Remigio che dovrebbe cercare di risolvere i problemi relativi alla difficile successione nella proprietà del podere che Remigio ha ereditato dal padre. Neretti gli insegna però a manovrare in maniera astuta le cambiali e l’ingenuo Remigio non si rende conto che in quei consigli c’è nel losco. Ma, non appena il protagonista della vicenda esca dalla scena, Tozzi fornisce un ritratto dell’avvocato come se volesse smascherarlo:

“Aveva trentadue anni; piuttosto magro, con un ciuffetto nero e due anelli d’oro alle dita. Quando rifletteva, teneva la bocca chiusa e mandava a ogni momento il fiato giù per il naso, strizzando gli occhi rotondi; come se fossero stati troppo grossi per le loro palpebre”.

Non sentendosi osservanto, l’avvocato sa di non dover più recitare una parte e scopre i suoi connotati sgradevoli; è un ritratto che sfocia in una caricatura priva di intenzioni umoristiche, ma precisa testimonianza del vero, della realtà. I tratti fisici sembrano essere accentuati ancor di più dalla cattiveria e dal sadismo che Tozzi sceglie per caratterizzare quell’uomo.

Tozzi perseguita i suoi personaggi, singolare è l’uguaglianza che egli pone tra la vita e la gente che conosce: i personaggi sono le incarnazioni della vita, inquietanti e moleste; è evidente la crisi razionale e deterministica della persona, crisi che era stata indicata dal filosofo Carlo Michelstaedter in Persuasione e la rettorica, che presenta un apagina sul terrore che i bambini hanno dell’ignoto, quando finiti i giochi restano soli a guardare l’oscurità (“si trovano con la piccola mente a guardare l’oscurità”).

Le figure proposte dallo scrittore toscano non hanno un ordine, eppure il loro mostrarsi e sparire, narra davvero il bisogno stesso di narrare di Tozzi, rievocando e muovendo dei personaggi nel tempo, che fanno aspettare una storia nel tempo. Chiedono una storia, glielo si legge in volto, la storia di quel male inflitto all’autore. E quindi possiamo vedere nei Ricordi, l’uomo “con i piedi deformi e ripiegati in dentro che andava a sedersi, tutto il giorno, sotto le Logge dei Lanzi” e “il compagno di scuola, “un imbecille grasso, con gli occhi porcini e un braccio paralizzato al quale mancava il pollice”. Tozzi non si lascia impietosire nemmeno da una menomazione, anzi pare rincarare la dose nel provare ribrezzo per questo ragazzo che oltre ad essere sfortunato è anche un imbecille.

Non v’è dubbio che Tozzi, nelle sue descrizioni, nei suoi racconti, rasenti momenti surrealistici, si tratta ovviamente si un surrealismo ante-litteram, ma lo scrittore ha anticipato la scrittura automatica oer quel moto di associazione libera con cui si susseguono le mostruose immagini, organizzando persino una logica temporale plausibile. I questo senso Tozzi è un artista, in quanto il suo io interviene della sua totalità.

Naturalmente è presente il dato autobiografico, basti pensare a come Tozzi descrive lui stesso nel romanzo Con gli occhi chiusi con una “camminatura da epilettico”; ossessionato dalla malattia nervosa, Tozzi ricorda sua madre, ammalata di epilessia. Nel suo caso, l’atto volontario che organizza, rispettandone la dispersività e la discontinuità, la materia di Con gli occhi chiusi dall’atto che costruisce il successivo Tre croci, romanzo troppo decantato.

Ritornando al romanzo Con gli occhi chiusi, Tozzi sottolinea anche l’aspetto deformato della padrona della casa di appuntamenti che frequenta Ghisola, la ragazza di cui si innamora il protagonista Pietro:

“Anna lasciò la trina; e arrossendo mise una mano sopra la tavola, alla luce; facendola vedere da ambedue le parti: era piccola e grassoccia, con le unghie corte e gonfie”.

Giuseppe Prezzolini, voce scettica del ‘900

«L’Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano, pagano, crepano. Chi fa la figura di mandare avanti l’Italia sono i furbi, che non fanno nulla, spendono e se la godono». (Da Codice della vita italiana, capitolo I, “Dei furbi e dei fessi”). Risulta quanto mai attuale questa frase dello scrittore e giornalista Giuseppe Prezzolini (Perugia, 27 gennaio 1882 – Lugano, 14 luglio 1982), amico di Giovanni Papini con il quale fonda nel 1903 a Firenze la rivista culturale <<Leonardo>>, e che pubblica fino al 1908. Prezzolini collabora con <<Il Regno>>, nel 1904 scrive la Prefazione-Manifesto della nuova rivista <<Hermes>> di Enrico Corradini. In questo periodo pubblica i suoi le sue prime opere e conosce Benedetto Croce, il quale influenza il pensiero di Giuseppe Prezzolini. Nel 1905 si sposa con Dolores Faconti e si trasferisce a Perugia. Successivamente trascorre dei periodi a Parigi, dove entra in contatto con alcuni grandi personalità della cultura francese del tempo, fra i quali Georges Sorel ed Henri Bergson. Tornato in Italia, nel 1908 fonda <<La Voce>>, rivista che spazierà su temi legati alla letteratura, politica e società.

Autodidatta, conservatore disincantato, Giuseppe Prezzolini è stato uno degli uomini di cultura più importanti del Novecento; colpisce per la semplicità e schiettezza come dimostra appunto il Codice della vita italiana, libro scritto nel 1921, all’indomani della Prima Guerra Mondiale, in un’Italia vincitrice ma  insoddisfatta, sconfortata e autocompiaciuta. Come in fondo è anche oggi, un’Italia dove, come aveva affermato lo scrittore perugino, non esiste la giustizia distributiva, i cui cittadini si dividono in fessi e in furbi.
Altri tre libri significativi di Prezzolini che parlano di Italia, politica e società, sono usciti contemporaneamente: L’italiano inutile, Machiavelli anticristo e America con  gli stivali. Il primo e il terzo sono una raccolta di articoli, il secondo deriva da un corso tenuto alla Columbia University. A tal proposito, Prezzolini stesso si esprime in questi termini nell’avvertenza al lettore italiano:

“Dovevo incominciare con l’alfabeto della politica e della filosofia, soprattutto in materia di machiavellismo, che è estraneo allo spirito e alla tradizione della scuola americana, ed in una scuola che è ottima per i bambini, ma che tende a mantener gli adulti in un clima mentale di infantilità”.

Di certo Giuseppe Prezzolini non ha insinuato un giudizio positivo riguardante il livello medio della cultura dei ceti dirigenti americani, ma lo scrittore ha fatto bene a lasciare una certa elementarità alle cose da trattare: giova al libro questo modo non comune di esporre e di giudicare, in maniera netta. Machiavelli è giudicato dallo scrittore con cinismo e amarezza, dal quale trae profitto, nonostante gli americani di oggi. America in pantofole è l’altro libro che Prezzolini ha dedicato all’America di Roosevelt e Truman, un’America “alle prese con la Russia, con il mondo, con se stessa”. La sua tesi è che “gli Stati Uniti sono in lotta contro la Russia e non già contro il comunismo”. Il machiavellismo americano quindi consisterebbe nel mostrare che combatte perchè “la lotta politica si fa molto spesso per mezzo di nebbie che confondono le menti, e quindi si possono condurre per mano dove non vorrebbero andare se ci vedessero chiaro”. Prezzolini è abituato a vedere le cose nella loro essenzialità e crudezza pur essendo complicate, non c’è dubbio che si tratti di un machiavellismo elementare.

Egli presenta le situazioni come favole, ma fornisce anche molti elementi informativi soprattutto sugli italiani emigrati in America e i loro rapporti con la società, senza lasciarsi andare a filosofeggiamenti e moralismi.

In riferimento all’Italiano inutile, il capitolo più “prezzoliniano”, si nota il suo autobiografismo: ricordi legati alla fondazione de <<La Voce>>, l’idealismo crociano di un tempo, che poi ha ceduto il posto ad uno scetticismo pessimista, la polemica con Salvemini.

Prezzolini ha pubblicato anche un libretto sui maccheroni, Maccheroni e C, rifacimento dell’opuscolo Spaghetti-Dinner, scritto in inglese, per far propaganda in America ai nostri maccheroni ma col ricavarne  una sorta di storia della nascita, vita e miracoli degli spaghetti e un profilo del costume italiano attraverso i tempi.

Il proverbiale scetticismo del brioso Prezzolini in realtà ha motivazioni serie, come documenta la sua attività di polemista oltre che di scrittore, nelle pagine che riguardano il fascismo, da cui lo scrittore imparò che non vale la pena cambiare, e dalla seconda guerra mondiale dedusse “disperazione e scetticismo totale”. Non va inoltre dimenticato che in quei drammatici anni, lo scrittore perugino è stato una guida, senza darsi troppe arie, di molti giovani che, scoppiata la guerra, andarono al fronte con la certezza di assolvere ad un dovere morale, facendo diverse constatazioni sul popolo italiano, spesso deludenti ma non del tutto negative.

Bibliografia: G. Titta Rosa, Vita letteraria del Novecento, V. III.

La potenza visiva di Akira Kurosawa

(23 Marzo 1910, Tokyo -6 Settembre 1998, Setagaya)

Dopo la seconda guerra mondiale, il cinema del Sol Levante approfitta del bienno democratico per avviare una ristrutturazione economica: accanto ai tre colossi Shochiku, Toho e Daiei, sorgono molte società indipendenti. Si tratta di imprese verticali che detengono il monopolio sul mercato della produzione e della distribuzione delle pellicole. Il Giappone nel dopoguerra produce annualmente la bellezza di 500 film, nonostante l’invasione dei film americani.

La conoscenza del cinema nipponico in Occidente risale alla Mostra di Venezia del 1951, anno della proiezione di Rashomon di Akira Kurosawa che si aggiudica il Leone d’oro e l’anno successivo l’Oscar come miglior film straniero. Il film riflette sulla natura dell’uomo e sulla sua predisposizione alla menzogna, guidata: verità e desiderio di giustizia non contano, conta solo la salvaguardia del proprio onore. Ma Kurosawa va oltre, e riflette su un’altra forma di menzogna che è l’immagine del cinema stesso.

All’uscita del film si disse che tutto poteva rappresentare questa storia di un delitto commesso del XII secolo e narrato secondo quattro punti di vista dei personaggi che vi sono stati coinvolti, tranne che la cultura giapponese. E non è un caso che un critico americano abbia detto che “Kurosawa aveva imparato l’arte della fotografia da Fritz Lang, quella della rappresentazione teatrale da Pirandello e che era stato ispirato dalla musica di Ravel. In questo modo il suo cinema svolge una funzione di un meraviglioso intermediario”.

Per il regista nipponico conta la separazione-convivenza tra la tradizione culturale giapponese e l’influenza della cultura occidentale, organizzando l’azione sui serrati ritmi del film d’avventura tipicamente americani. Anche i film successivi del grande regista, pur essendo così giapponesi nello stile, hanno derivazioni europee, si ispirano a Dostoevskij (L’idiota, 1951), a Shakespeare (Il trono di sangue, 1957, è il Macbeth, Ran, 1985, è Re Lear), accogliendo istanze occidentali, nascendo in collaborazione con stranieri (Dersu Uzala del 1975 è una coproduzione nippo-sovietica, Kagemusha, 1980, e Sogni, 1990, sono stati realizzati grazie all’intervento del cinema statunitense).

Una scena tratta dal film “I sette samurai”

Kurosawa è un testo vivente di culture diverse, di sogni, di dolori, di visioni che non possono non colpire l’animo umano. A differenza dei suoi connazionali Ozu e Mizogushi, Kurosawa non è discreto, racconta il dolore umano con una tensione visiva al limite del sopportabile con il suo scorrere di immagini esasperate e violente, il delirio di angosce in personaggi vittime di dubbi e tormenti. Si prenda ad esempio il finale allegorico del film Rapsodia in agosto del 1991: è la sequenza che riscatta la banalità della declamazione contro la guerra. La nonna, che vide suo marito morire nell’esplosione atomica di Nagasaki, corre come una pazza nell’uragano che si è scatenato nel bosco. Corre verso Nagasaki, corre verso la morte. Il colore a poco a poco diviene più cupo, non è più il rosso dell’esplosione atomica, ma un grigio-verdastro sempre più simile al nero nel quale annegherà alla fine la nonna.

Kurosava proviene da una famiglia numerosa, il padre discende dai samurai, uno dei fratelli è un intellettuale, profondo conoscitore della cultura occidentale e del cinema. Akira dipinge, si occupa di politica, odia i costumi oppressivi che dominano la società e l’individuo, afflato libertario che introduce in ogni suo film. Ne L’angelo ubriaco del 1948, il medico Matsunaga si scontra con il boss del quartiere e cerca di eliminarlo, ma prima di raggiungerlo sogna di vedere il suo doppio in una bara. Il gangster, tisico, mentre sta per un uccidere il suo rivale, è soffocato da uno sbocco di sangue e il medico lo uccide. Per il regista non c’è possibilità di riscatto nei bassifondi nella violenta e misera città del dopoguerra.

Dal film “Dersu Uzala”

Anche Cane randagio (1949) è ambientato nei bassifondi: il cane randagio del titolo è un piccolo delinquente che ha rubato la pistole ad un poliziotto; accompagnato da un commissario, il poliziotto comincia la ricerca ma il commissario viene ucciso dal ladro. Il poliziotto lo prende. Il piccolo delinquente si è rovinato perché la società in cui viveva non gli ha offerto nulla.

Kurosava è un fine osservatore della realtà che lo circonda, le sue immagini espressionistiche sono un valido documento degli ambienti urbani del Giappone del dopoguerra. Dopo il film in costume Rashomon, il regista incupisce la sua visione pessimistica della vita con i film Hakuchi (ricavato da L’idiota, 1951) e Ikiru (Vivere, 1952). Il secondo film contiene un espediente narrativo molto efficace: mentre il protagonista malato di cancro, vaga angosciato per la città, perché non è riuscito a realizzare il parco giochi di cui si era occupato, un flashforward proietta l’azione nel futuro prossimo, quando l’uomo sarà già morto e all’inaugurazione del parco solo le madri con i loro figli si ricorderanno di lui.

I film in costume (jidaigeki) hanno di nuovo il sopravvento e riscuotono un grande successo anche all’estero: I sette samurai (1954), Il trono di sangue (1957), La fortezza nascosta (1958). I sette samurai, chiamati dai contadini di un villaggio per diferderli dai banditi, si battono in maniera eroica, quattro di loro perdono la vita per salvare il villaggio. Il ritmo è incalzante, gli attori magistrali. Più contratto risulta essere la trasposizione del Macbeth nel ‘500 giapponese: il film dimostra come sia possibile far convivere tradizione giapponese e influssi occidentali. La fortezza nascosta si presenta come una ballata grottesca incentrata sulla fuga di una principessa scortata da un generale e da due contadini per mettere in salvo se stessa e il tesoro della sua famiglia sterminata dai nemici. Tutto finisce per il meglio grazie all’intervento di un deus ex machina.

Dal film “Ran”

Nel 1970 Kurosawa gira il suo primo film a colori, tratto da L’idiota, posto in un contesto contemporaneo: in una bidonville impazziscono i muoiono barboni di ogni genere. Pubblico e critica non apprezzano e l’ipersensibile Kurosawa sfiora il suicidio. Si risolleva grazie alla proposta del regista Gerasimov che gli chiede di girare nella taiga siberiana: Dersu Uzala Il piccolo uomo delle grandi poanure (1975), pellicola densa di colori e di luci e di fatti minimi ma fortemente significativi. Kurosawa si riscatta vincendo anche il festival di Mosca e L’Oscar per il miglior film straniero.

Il jidaigeki celebra con Kagemusha (1980) e con Ran (1985) altri due trionfi; il primo è un sunto d’Occidente e d’Oriente che va da Shakespeare a Pirandello, il secondo una spettacolare e violenta rappresentazione della follia umana, a metà tra tragedia greca e dramma shakespeariano alla Re Lear. Si tratta di opere complesse nelle quali il maestro nipponico tocca vette espressive che poche volte il cinema ha raggiunto. Kurosawa è un manierista, ma sa esserlo in maniera sublime.

I film che seguono non offrono grandi novità: Sogni (1990) sfiora nel manierismo pittorico, e Il compleanno (1993) è costruito intorno ai concetti di morte e di ricordo. Certamente non è più il Kurosawa arduo di un tempo, ma conserva i segni della sua grandezza, di chi ha incantato Hollywood e ha ispirato generazioni di cineasti.

 

Bibliografia: F. Di Giammatteo, Storia del cinema.

Top ten maggio 2015

In prima posizione troviamo La giostra degli scambi di Andrea Camilleri, con un’altra avventura del commissario Montalbano.

La seconda posizione è occupata da La vigna di Angelica di Sveva Casati Modignani: Lunghi filari di viti si adagiano sui morbidi pendii di Borgo Franco. Da due secoli la famiglia Brugliani è proprietaria di ciò che resta dell’antico monastero in cima al colle e di quelle vigne, curate con pazienza per trarne vini pregiati e inimitabili. A trentacinque anni, Angelica è l’erede della tradizione e del patrimonio famigliare. Madre, moglie, imprenditrice di successo: tutto sembra perfetto nella sua vita. Solo lei sa che dietro quella facciata si nasconde una zona d’ombra, una verità fatta di menzogne, quelle del marito, e di tanti sogni infranti. Tuttavia, nulla può scalfirla, perché Angelica è una donna forte e determinata, e saprà trovare un nuovo inizio e una nuova felicità nel suo privato con la stessa tenacia e passione che dedica da sempre ai suoi vigneti. Perché è la terra a dare un vero senso alla sua vita, e da lì tutto può ricominciare”.

Scende al terzo posto Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli che spiega alcune importanti leggi che regolano il funzionamento dell’universo con un linguaggio comprensibile a tutti, non solo agli addetti ai lavori.

Scende di un gradino Possa il mio sangue servire di Aldo Cazzullo: La Resistenza a lungo è stata considerata solo una “cosa di sinistra”: fazzoletto rosso e Bella ciao. Poi, negli ultimi anni, i partigiani sono stati presentati come carnefici sanguinari, che si accanirono su vittime innocenti, i “ragazzi di Salò”. 

Perde qualche posizione ed oggi è al quinto posto Francesco Piccolo con Momenti di trascurabile infelicità, convinto che l’ironia aiuta a sopportare le noie della vita.

Presente ormai da molte settimane in classifica, oggi si trova in sesta posizione, Marie Kondo che ci insegna a essere più sereni con Il magico potere del riordino.
Il disordine fa male e non solo per ovvie questioni igieniche. Fa male al nostro spirito, non aiuta la mente a pensare e ci abbrutisce.

Sale in settima posizione Mauro Corona con I misteri della montagna, che racconta un po’ di sé, pur senza scrivere un’autobiografia.

In ottava posizione troviamo L’esercito delle cose inutili di Paola Mastrocola, un romanzo che ruota intorno a una domanda semplice e decisiva: cos’è che riempie davvero la nostra vita?. Insomma, quel mattino di novembre, mentre andavo a zonzo nel vuoto da non so quanto tempo, succede che io incontro questo tale. E vi posso dire che, accidenti, se prendevo a destra anziché a sinistra non lo avrei incontrato. Quindi? Quindi tutto questo deve pur significare qualcosa. Ho preso a sinistra ed è stato tutto quel che è stato, questa benedetta storia che adesso vi racconto”.

Al non posto c’è Sotto le cuffie di Favij, mito dei giovani  che racconta la sua storia e il suo percorso prima di diventare il più amato intrattenitore di Youtube.

La decima posizione è occupata dal giallo Titoli di coda di Petros Markaris: Torna il commissario più amato del Mediterraneo: Kostas Charitos, con le sue indagini, la sua famiglia complicata, le sue ansie sproporzionate, tutta la sua umanità.

Fonte: Pausacafféblog.it

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