Evento ‘Angeli a Calatagèron’, Caravaggio incontra Lorenzo Chinnici: la meta-arte è servita

Il presente si arricchirà di passato il 21 luglio prossimo nelle sale del Palazzo Comunale di Caltagirone. In occasione della personale del maestro Lorenzo Chinnici, “Angeli a Calatagèron”, una delle più nobili attività umane, ovvero l’arte, non si presenterà solo come tecnica (la téchne greca), ma diverrà filosofia al suo grado più alto per rendere visibile ciò che è invisibile, facendo sì che tutti si chiedano: ma è l’arte che imita la vita o viceversa? L’invisibile in questo caso è rappresentato da un celebre artista del Seicento che soggiornò a Caltagirone e in altre città siciliane per un anno.

Si tratta di Caravaggio, uno degli artisti più tormentati ed iconici dell’arte, che tra il 1608 ed il 1609 fu nella città calatina, invitato dal potere e dalla magia propria dell’Arte, a lambire questa terra e i suoi cittadini, ospiti e turisti, e a creare un connubio con l’arte del maestro Chinnici. Un avvenimento unico nel panorama della cultura e dell’intrattenimento italiano, che non ha la pretesa di promettere un miracolo, piuttosto ci piacerebbe raccontare una bella fiaba di Sicilia dove i sogni si trasformano in realtà, facendo vivere ai partecipanti un’esperienza eccezionale. L’esposizione rende possibile ritorni importanti, facendo sì che Caltagirone prenda nuova vita come l’anima di Caravaggio, come un’arte rivoluzionaria e diversa, come fu quella dell’artista lombardo, che diventata tradizione, si illumina nuovamente e si unisce idealmente e concettualmente a quella di Chinnici. Perché solo ciò che è antico può apparire sempre nuovo. E’ il sublime dell’Arte.

Un’esposizione imperdibile dunque, che annoda l’arte verista e allo stesso tempo espressionista del maestro Chinnici, legato a figure come pescatori e lavandaie e al paesaggio assolato della sua amata Sicilia, a quella barocca di un pittore entrato ormai nel mito anche per le sue vicissitudini personali: Caravaggio. Qualcuno si domanderà cosa c’entra Caravaggio con Lorenzo Chinnici? Ebbene come Caravaggio, che ha trascorso un anno a Caltagirone, in fuga da Roma per omicidio, e realizzato su commissione privata, il dipinto Natività con i Santi Lorenzo e Francesco, trafugato a Palermo nel 1969, anche Chinnici mostra la luce e le ombre nelle sue opere, la luce è presente nella natura, entità superiore e nobile, le ombre tra i suoi personaggi, il cui stato d’animo è inquieto, affaticato (per il duro lavoro quotidiano) e travagliato come quello dei protagonisti dei capolavori di Caravaggio, sebbene quest’ultimo sia ovviamente più realista, teatrale e drammatico. Entrambi legati alla meravigliosa cittadina barocca di Caltagirone, celebre nel mondo per le sue ceramiche, i due artisti vanno oltre la moda, e intessono la loro pittura di simboli: quelli di Caravaggio molto oscuri ed intriganti, mentre i simboli di Chinnici sono intrisi di una religiosità nostalgica, di una moralità educativa da trasmettere ai più giovani.

San Francesco in meditazione, di Caravaggio

Entrambi impassibili alle convenzioni del mercato dell’arte, fedeli a loro stessi, immersi in un accanimento creativo per Caravaggio tutto tensivo, per Chinnici spirituale e memoriale, i due artisti speculari di questo evento particolare che per qualcuno non attento può risultare fuorviante, sono connessi tra loro anche per il modo di vivere l’arte: pensano e vivono quello che sentono, pensano e vivono il soggetto dell’Arte.

Andando più nello specifico, ovvero nelle similitudini tra il Caravaggio smarrito, inedito, di Caltagirone e il Lorenzo Chinnici che ritrae lavoratori, si può notare sia nel Caravaggio creatore di un ciclo francescano (Annunciazione, Seppellimento di Lucia, Madonna del parto, San Francesco in meditazione, San Francesco penitente, Resurrezione di Lazzaro, Natività con i Santi Lorenzo e Francesco) che in Chinnici, sebbene trattino soggetti diversi e usino in maniera differente il colore, una concezione di sacro dimessa, umile non solenne, a vocazione popolare, esaltando i tratti più salienti in un figurativo proporzionato.

E’ ipotizzabile che Caravaggio, dovunque si trovi, sia tormentato per il furto del suo dipinto realizzato a Caltagirone? Perché no, d’altronde come diceva Einstein la logica ci porta da A a B, l’immaginazione dappertutto e lo stesso artista non sarebbe tale senza immaginazione. L’evento di Caltagirone ruota intorno all’immaginazione, al racconto di una favola siciliana, alla rievocazione del passato che dà luce al presente, al desiderio di entrare nella mente di un celebre artista, carpendone lo stato d’animo e mettendolo in relazione a quello di un artista del presente che vorrebbe uno dei suoi modelli quale è Caravaggio, presente all’esposizione. Avverrà davvero? Solo chi crede nell’invisibile potrà assistere all’impossibile! Imbottigliamo per un attimo il buonsenso e affidiamoci alla nostra voglia di sognare e di fare noi stessi arte che da sempre è terreno di libertà ed inventiva, precisando a chi legge che non ci sarà una mostra con le opere “francescane” di Caravaggio insieme a quelle di Chinnici, ma la sensazione e l’immaginazione di una corrispondenza ideale tra l’arte e l’animo di Caravaggio e quello di Lorenzo Chinnici.

‘Mediterranea’: dieci racconti di fantasy tutto italiano ispirati ai culti e ai miti dell’area mediterranea

Qualche settimana fa le pagine del giornale hanno ospitato un articolo di Francesco La Manno, presidente di Italian Sword&Sorcery, in cui veniva rilevata l’esistenza di una scena ben nutrita di autori che, nei loro libri, si riferiscono al Mediterraneo, con i suoi miti, le sue tradizioni e il suo folclore. Questa corrente vuole sottolineare la validità del sostrato presente nel Mare Nostrum in un contesto fantastico, attraverso delle produzioni che vadano oltre il fantasy moderno e si discostino dagli, oramai commerciali, immaginari celtici e norreni. Mediterranea, un’antologia di racconti recentemente pubblicata da Italian Sword&Sorcery Books, si colloca esattamente su questa lunghezza d’onda. Come scrive La Manno nella sua Introduzione al testo:

la nostra intenzione è quella di esaltare i miti, i culti e le tradizioni folcloristiche della nostra terra e dell’area mediterranea, che non hanno nulla da invidiare rispetto a quelli nordici e che per molto tempo sono risultati assenti dall’attenzione dei lettori e degli addetti ai lavori.

Mediterranea è composta da dieci racconti, le cui tematiche vengono presentate nell’introduzione. Di seguito, si opererà un confronto tra quanto evidenziato dal curatore e i riferimenti diretti ai testi, al fine di sviscerare i contenuti dell’antologia. Scrive La Manno:

La fantasia eroica mediterranea ricalca gli stilemi tipici dello sword and sorcery, adottando l’ambientazione, i miti, i culti, le tradizioni folcloristiche dei territori adiacenti al Mare Nostrum. I protagonisti, come è facile intuire, sono ben lontani dall’essere cavalieri senza macchia e senza paura, ma si ha a che fare con mercenari, guerrieri, assassini, ladri, imbonitori, infidi diplomatici, negromanti e reietti, il cui obiettivo è quello di realizzare il maggior profitto per sé stessi, oppure di salvare la pelle.

Nel recente passato, su queste pagine, sono state presentate due facce, per certi aspetti antitetiche, dello sword and sorcery: quella possente di Conan il Barbaro e quella tormentata di Elric di Melniboné. Nella raccolta in questione si ritrovano richiami più o meno espliciti a queste opere. Nel racconto Shardana di Riccardo Brunelli, ad esempio, il protagonista Dannu sembra sintetizzare in se stesso i patimenti di Elric con la furia battagliera di Conan:

Dannu ascoltava il racconto attonito, con la fronte corrucciata. Strinse i pugni tanto da sbiancarsi le nocche. Avrebbe voluto gridare al cielo ed agli dei. Avrebbe voluto chiedere perché tutti questi patimenti si abbattevano sul popolo degli Shardana. Ma non disse nulla. Risparmiò il dolore e la rabbia per un altro momento. Per il prossimo nemico da abbattere.

Come rilevato da La Manno, il Mediterraneo è sì il minimo comune denominatore dell’opera, ma in una forma eterogenea, nello spazio e nel tempo, che varia di racconto in racconto. Si passa dalla preistoria de Il ponte della morte di Donato Altomare, alla fase immediatamente successiva della battaglia di Maratona del 490 a.C. di Alberto Henriet ne La spada di Aeskylos, fino all’occupazione romana dei territori sanniti ne Gli occhi di Angizia di Adriano Monti Buzzetti Colella e alla dominazione bizantina della Sicilia (iniziata nel VI secolo d.C.) ne Il banchetto di Andrea Gualchierotti e Lorenzo Camerini. Andrea Berneschi ambienta Il figlio di Asterione a Creta, in cui trovano rifugio dei profughi cartaginesi a seguito della conquista romana della loro terra. Qui l’autore adatta la mitologia cretese alle sue esigenze narrative, facendo intervenire il figlio del Minotauro in soccorso dei protagonisti, annunciando l’avvento di una nuova epoca, dalle caratteristiche moderne:

È passata l’epoca dei sacrifici, e anche quella degli Dei, se è per questo. Una nuova era sta sorgendo. Non è più tempo di tragedie, ma di corse di cavalli. Niente religioni, solo giochi nell’anfiteatro e scherzi di mimi. Dimenticata la Grande Madre, i figli si accapigliano tra loro contendendosi confini del tutto immaginari. Non più i corridoi fatali di labirinti di pietra intrappolano gli uomini, ma le infinite scelte che sono liberi di compiere, tutte probabilmente senza senso.

Il carattere fanta-storico delle ambientazioni viene arricchito da ulteriori elementi di fantasia, la stregoneria e l’orrore soprannaturale, che contraddistinguono in modi differenti le narrazioni. La Vieja Bruja in Altomare, la negromanzia in Una ballata di fuoco e di mare di Francesco Brandoli e la vicenda dell’eroina egizia Arabrab ne Il culto degli abissi di Alessandro Forlani sono esempi in questo senso. In più racconti compaiono le lamie, la cui natura viene messa a nudo senza mezzi termini ne Il ponte della morte:

Erano mostri, erano furie, erano bestie che usavano affilatissimi artigli per tagliare le gole, erano serpenti impossibili da colpire tanto si muovevano veloci, erano aquile capaci di compiere balzi incredibili senza ali, erano felini dalle fauci mostruosamente grandi in grado di strappare mezza gola con un solo morso. E sembravano ombre, impossibili da colpire con le loro armi.

Un ruolo significativo è riservato anche all’amore e ai sentimenti ad esso connessi. Parlando dell’erotismo La Manno precisa come esso sia presente, senza però mai assumere i toni beceri di taluni libri di terz’ordine tanto in voga oggi, ma mantenendo sempre un decoro degno delle più alte forme di letteratura classica. In Più tenace della morte, Enzo Conti realizza un adattamento del mito di Alcesti e Admeto in chiave heroic fantasy. In un primo momento, il principe Admeto, che si presenta come il venditore di indovinelli Ilioneo di Corinto, si fa sedurre da una lamia. L’attrazione fisica è troppo forte per poter resistere alla tentazione:

Una impetuosa sensazione di piacere gli sta salendo lungo il fisico e d’un tratto si rende conto che la creatura, con un sensuale movimento del bacino gli si è abbarbicata addosso e ha fatto in modo che lui la penetrasse. È stato come immergersi in un vaso di miele avvelenato. Non riesce a fermare le spinte fameliche del proprio corpo. Il piacere dell’accoppiamento lo travolge. Grida e si aggrappa a lei. Neppure si accorge dei denti che gli premono sulla giugulare.

L’intervento di Alcesti si dimostra tardivo, in quanto, dopo essere stato liberato dalla possessione della lamia, il principe è morto. Tuttavia, la principessa decide di sacrificare se stessa alla Morte in cambio della vita del suo amato. Una volta rinvenuto, Admeto sfida la Morte ad una gara di indovinelli: se vince, lui e Alcesti vivranno; se perde, entrambi periranno. A seguito di un confronto estenuante, il principe si gioca la sua ultima possibilità:

Più tenace della Morte,
dura il tempo di un sorriso.
Timoroso, dolce, forte,
vive insieme al pianto e al riso.

La Morte non riesce a pensare a nulla che sia più tenace di lei e, così, grazie all’Amore i due riescono a sconfiggere la divinità, che deve riconoscere a malincuore:

Così, tutta la mia scienza e tutta la mia filosofia non mi sono servite a un bel niente. Sono stata beffata. Grazie all’unica cosa che non potrò mai conoscere realmente.

Nel racconto forse più complesso di tutti quelli presenti nell’antologia, L’Artiglio della Fenice Nera, Mauro Longo si interroga sul destino e la capacità dell’arbitrio umano di sottrarsi al volere divino, attraverso le vicende del suo protagonista:

Gli uomini non sono responsabili di dove vengono al mondo, della fama dei propri padri, delle usanze del proprio popolo» replicò Sheban. «Se fossimo nati khemiti, probabilmente saremo anche noi contadini e pescatori. Se fossimo nati garamanti saremmo stati guerrieri e mercanti, come voi. Ma le Moire ci hanno fatto nascere tra i popoli del mare, le nostre madri ci hanno insegnato a onorare i loro dei e i nostri padri a impugnare le spade piuttosto che l’aratro. Non è forse il nostro destino deciso dai numi immortali?» Lo sherdenita indicò le stelle, che dall’inizio del mondo tracciavano i destini degli individui.

A questa visione iniziale, prettamente fatalistica, se ne contrappongono altre nel corso della narrazione, che portano Sheban a stravolgere la sua posizione. Scampato a quella che sembrava essere un’infallibile profezia, ucciso quello che sarebbe dovuto essere suo fratello (se non fosse stato sacrificato ancora in fasce dalla sua famiglia al volere divino), e per queste ragioni ancora perseguitato dal rancoroso Moloch, sul finale proclama le sue blasfeme intenzioni:

Ecco quindi cosa ho in animo: ho in animo di smettere di scappare. Ho in animo di attaccare per primo, prima che il Dio della Morte colpisca i miei cari. Ho in animo di cercare Moloch fin giù nella cloaca dove si nasconde, fargli crollare addosso i suoi templi, sterminare i suoi servitori e la sua progenie, infilargli in petto qualcosa che può ammazzarlo, strappargli via il cuore e gettarlo ai cani, e poi uccidere anche quei cani e gettare i loro resti nel fuoco. Stavolta il Dio della Morte si è messo contro il mortale sbagliato.

A conclusione del lavoro ci sono due brevi saggi. Nel primo, Marco Maculotti, direttore della rivista AXIS mundi, presenta la concezione del Sacro presso i Greci, che lungi dal poter essere interpretata come una “religione” strictu sensu, si fonda su una fitta rete di corrispondenze mitico-storico-astrologiche. Maculotti riconosce due fasi principali di questo sviluppo: la prima, definita orizzontale, contraddistinta dalla sola presenza di Chaos e Gaia, e per questo incentrata sulla Terra; la seconda, verticale, caratterizzata dal susseguirsi dei reggitori divini Urano, Kronos e Zeus, rivolta alla venerazione dei Cieli e del Cosmo. Nel secondo, Enrico Santodirocco, autore del recente saggio Conan. La Leggenda, ricostruisce il percorso della fantasia eroica nei fumetti, rilevando la partecipazione di case prestigiose, come la Marvel e la Dark Horse, a questo processo editoriale. Insomma, Mediterranea si presenta come un insieme eterogeneo di contributi, legati da un sostrato comune, in grado di costituire una sorta di manifesto per un movimento culturale in grado di offrire un’alternativa più ricercata rispetto alle pubblicazioni di massa che troppo spesso limitano l’immaginario del fantastico contemporaneo.

 

Lorenzo Pennacchi

‘Generazione Erasmus’, l’utile compendio filosofico sulla società del libero mercato di Paolo Borgognone

Il volume a firma di Paolo Borgognone, pubblicato lo scorso anno per i tipi di OAKS, dal titolo Generazione Erasmus, è un vero compendio filosofico attinente la società di “libero mercato” e i suoi avidi fiancheggiatori. Ponendo al centro della trattazione l’esperienza dei giovani universitari che si recano all’estero per un periodo di studio, delinea con ricchezza di particolari quei processi che hanno condotto inesorabilmente alla costruzione della moderna società “liquida”: il totalitarismo nichilista del consumo; il giovanilismo come apologia della mobilità illimitata e accettazione passiva del precariato; il nuovo conflitto di classe post-moderno fra vincitori e vinti della globalizzazione; il genderismo come rinuncia alla propria identità anche nella sfera sessuale; il Sessantotto come controrivoluzione ultra-capitalista. Nella seconda parte, non mancano acute analisi geopolitiche.
Stando ai contenuti strettamente filosofici, osserviamo che il risorgere dell’interesse per il pensiero di Hegel e Marx nell’ultimo decennio ha un’importanza rilevante in relazione ai problemi sorti con l’evoluzione del capitalismo dopo il 1989 e dell’economia post-moderna; in effetti, siamo di fronte ad un’opera pregevole, concepita da un giovane studioso, che si inserisce in un più ampio circuito di ripensamento del ruolo della politica e dello Stato nei confronti dell’economia, della comunità di fronte all’individualismo, delle radici tradizionali contro il mondialismo dell’omologazione planetaria.

Invero, quando la società nel suo complesso tende a divenir preda di scopi “particolari”, frammentandosi in una pletora di confuse mire egoistiche, la missione delle istituzioni statali deve concretizzarsi nell’orientare la collettività verso un destino universale. Una comunità politica è propriamente tale quando è in grado di opporsi agli eccessi della “società civile”; in altre parole, sebbene permetta l’esistenza del “mercato”, lo Stato – nella sua configurazione moderna e “nazionale” – deve costituire un argine alla capacità degli interessi capitalistici di dominare e permeare la vita ordinaria nel suo complesso. Le moderne società a economia di mercato sono caratterizzate proprio da questa patologia: l’attività economica – signoreggiata dai grandi industriali e dalla speculazione finanziaria tramutata in “dittatura dei mercati” – diventa la logica dominante delle relazioni sociali, influenza ogni campo della dimensione pubblica, senza alcun freno; predispone quindi la collettività, con tutti i suoi mezzi, a realizzare gli interessi materiali ed etici di un ristretto segmento di essa.

In un tale quadro, il progetto Erasmus, artefice dell’omonima “generazione”, è lo strumento per addomesticare e catechizzare le moderne plebi, illudendole di poter vivere in una movida permanente, annunciando loro che il mondialismo – piuttosto che servitù morale ed economica – è divertimento sfrenato e consumismo illimitato. Sia chiaro: non si tratta di essere contrari all’idea di un’economia di mercato o della possibilità che giovani studenti dalle brillanti capacità possano perfezionarsi attraverso un’esperienza in un altro Paese europeo; piuttosto, occorre criticare fermamente la tendenza della sfera economica a colonizzare ogni ambito delle relazioni sociali, a degradare ogni più alto e nobile scopo. La libertà civica si deteriora in un ambiente saturo di atomismo competitivo; la società civile e il sistema dei bisogni richiedono l’esistenza dello Stato al fine di prevenire questo tipo di malattia sociale, che gli individui siano guidati dalla ricerca del proprio tornaconto a spese degli interessi più ampi della società nel suo insieme. Il capitalismo moderno – inoltre – si caratterizza non solo dalla logica onnipervasiva dello scambio e dal perseguimento di utilità particolari a spese della generalità, ma dalla circostanza che un piccolo gruppo di interessi privati siano in grado di organizzarsi per sottomettere e indirizzare, nel proprio interesse, il potere politico, la cultura accademica, i mezzi di comunicazione di massa – a discapito degli interessi universali della società.

A favorire questi sviluppi, scorgiamo il sostegno del ceto intellettuale, dentro e fuori le università; quei giornalisti e professori “di sinistra” che hanno il compito di fornire giustificazione nobile, colta e morale allo scempio in atto. Non è semplice conferire una parvenza di scientificità e rispettabilità alle idee dominanti, che si traducono in prassi di pauperizzazione e sradicamento della classe lavoratrice. Da qui, l’irrimediabile allontanamento dal favore dei popoli, i quali sono continuamente dileggiati per i loro stili di vita, per i modi di pensare e per le loro frequenti manifestazioni di dissenso verso il modello globalista di delocalizzazione e precarizzazione della forza-lavoro. A compensare la perdita dei diritti sociali, inoltre, si assiste allo sbandieramento di finte “conquiste” nel campo dei diritti civili, dell’emancipazione sessuale, della licenziosità spacciata come progressismo libertario.

Organizzatosi dapprima come nuovo schema di produzione e distribuzione delle merci, di ristrutturazione del lavoro e ripartizione della proprietà, il capitalismo diventa sempre più un’istituzione sociale, un elemento naturale come l’aria che respiriamo; si impone come regolatore di relazioni, ha la capacità di ri-orientare le logiche funzionali di tutti gli organismi (economici e non). Se i rapporti di mercato incontrollati sfociano nella frammentazione della società, il capitale è in grado superficialmente di superare questa scissione, ostentando un falso universale: la ricerca del profitto, la moda del consumo, la frenesia dell’apparire – sono tutte logiche che giungono a permeare ogni recesso della società moderna. Il compito dello Stato nazionale, lo ribadiamo, consiste dunque nell’incorporare le forme subordinate di vita sociale – la famiglia, la società civile, i “corpi intermedi” – in una totalità più elevata, in cui gli agenti razionali saranno in grado di identificare consapevolmente l’universale e conseguire così la piena libertà. Se esso invece si confonde o deriva in ultimo dalla “società civile”, e se il suo fine specifico coincide con la garanzia della sicurezza personale e della protezione della proprietà privata, allora gli interessi individuali, in quanto tali, diventano il fine supremo dell’associazione umana; ne consegue che l’appartenenza alla comunità politica è qualcosa di opzionale e revocabile.

Nei regni della famiglia e della società civile, gli individui non sono in grado di riconoscere e cogliere integralmente la natura oggettiva della loro libertà come esseri sociali, al di là dei ruoli “parziali” che ricoprono nei rapporti della vita ordinaria – come genitori, figli, lavoratori, consumatori e così via. In questo senso, il particolare si oppone all’universale in quanto non è in grado di vedere se stesso come un momento del tutto; pertanto, quelle strutture sociali, istituzioni politiche, usi e costumi che non sono capaci di orientare le attività degli uomini verso obiettivi universali (e comuni) non possono soddisfare il criterio della loro razionalità naturale. Veniamo a comprendere, in fin dei conti, che siamo esseri sociali e politici, che siamo parte di un tutto coerente, che il nostro territorio individuale – le nostre personalità, le nostre pulsioni, il nostro senso del dovere – ottiene esauriente compimento, in questo mondo, una volta attualizzate le nostre relazioni con gli altri, anche grazie alle istituzioni politiche che hanno il compito di mediare le varie connessioni. Credere – seguendo la struttura neoliberale – che gli individui non sono altro che atomi che realizzano se stessi nell’anarchia degli interessi privati è, di per sé, la più pericolosa delle astrazioni.

 

Gabriele Sabetta

Da Virzì a Balotelli, inventarsi un’arte: come, quando e perché si è preso a trattare il film come oggetto artistico, il divo come maître à penser e il regista come autore

Virzì è stremato, non sa più con quali nuove formule lessicali esprimere il proprio disgusto verso chiunque. Eppure continuano a tartassarlo. Lo intervistano, facce ride sembrano dirgli, e lui stanco esegue come chi ha ripetuto troppe volte la stessa barzelletta: quello è fascista, quest’altro razzista, questo qui neonazista e quello mi sta antipatico per fatti miei. E giù applausi. Loro chiedono, lui legittimamente replica e dice apertis verbis quello che pensa. A puntare il dito contro uno che risponde a delle domande – specialmente nel caso di specie – si registra però l’ennesima adesione di certi ambienti al solito orientamento politico e intellettuale, senza procedere oltre. Per farlo andrebbe ricercato il motivo per cui il suo giudizio venga imposto in maniera così autorevole nonostante un’opinione pubblica collocata ormai da tempo su posizioni opposte. Semplice: fa i film, è un artista, si dirà. Sì, e con questo? Cos’è che rende un professionista dell’estetica un filosofo, un analista politico, un sacerdote?

Le recenti critiche di Balotelli e Corona ai nuovi ministri sono state prese ovunque a pernacchie non tanto per il contenuto quanto per il ruolo che ricoprono nella nostra gerarchia di rispettabilità. Mica vorremo farci spiegare le cose serie da un calciatore e da un paparazzo. Però all’opinione personale di un regista diamo credito, e anche se questo ricicla banalità e inesattezze scendiamo sul suo terreno di gioco e lo discutiamo nel merito, quantomeno legittimandolo, rendendolo cioè un interlocutore. Il suo giudizio – così come quello dell’attrice x sul conflitto siriano e dello sceneggiatore y sulla democratica elezione del dittatore di turno (sic!) – vanta una tale onorabilità a seguito di un lungo processo di intellettualizzazione del cinema partito prima nel vecchio continente e poi consolidatosi definitivamente alla fine degli anni Sessanta in America. Il risultato è sotto gli occhi di tutti da un pezzo: i professionisti più in vista del mondo cinematografico non possono non avere opinioni su questioni intricate anche per chi se ne occupa di mestiere, ed è allora normale ripiegare sulla versione mainstream, più legittimata e spesso più semplice, benché qualcuno faccia eccezione.

Risalendo alle origini si nota che in Europa l’assenza di una consolidata industria cinematografica ha sempre lasciato aperta la porta all’autorialità, spianando dunque la strada a quell’intellettualizzazione cui si faceva cenno, mentre negli Stati Uniti il cinema è passato già negli anni Venti da mezzo tecnico capace di duplicare il mondo meglio ancora della macchina fotografica a strumento in mano a banche e imprenditori al fine di intrattenere le masse. In un tale contesto lo statuto artistico della pellicola non è nemmeno un’opzione immaginabile: si produce per generi in modo da agevolare tanto chi realizza i film quanto chi li guarda, si nasconde il più possibile il soggetto dell’enunciazione quasi a fingere che il film emerga dal nulla e si specula sulle vite private dei divi per alimentare il baraccone.
Tutto è funzionale al consumo e al rapido adattamento ai gusti che mutano, così i registi eseguono ciò che lo studio ha chiesto loro e si prestano a qualsiasi tipo di produzione, da quella riempitiva a quella più ambiziosa. Il fine è sempre e solo l’incasso. Il film è difatti per natura il mezzo di intrattenimento mercificato intrinsecamente, non soltanto quindi a partire dalla sua distribuzione, poiché le parti stesse che lo compongono (sceneggiatura, costumi, colonna sonora) sono a loro volta commercializzate, rendendo la pellicola l’incubo ricorrente di chi denuncia una generale svendita della cultura. In altre parole, le opinioni personali dei vari Ford, Capra, Hawks e Wilder non riempiono i giornali degli anni Quaranta, e non li riempiono perché a nessuno importano. Il film è industria e filosofeggiare non è il mestiere di chi lo realizza.

Un tempo essi firmavano le loro lettere, come Kant e Hume, ‘servo umilissimo’, e intanto minavano le basi del trono e dell’altare. Oggi chiamano per nome i capi di governo […]
(Adorno e Horkheimer)

Lo scenario muta col secondo dopoguerra. Il cinema classico va in soffitta e una ventata artistica modifica lentamente la percezione del film fino agli anni Sessanta citati. I registi della Nouvelle vague con la loro Teoria dell’autore iniziano a diffondersi anche negli Stati Uniti, dove la Tv ha già preso il posto del grande schermo come mezzo privilegiato dalle masse, il cinema entra nel discorso accademico, i festival ribadiscono la sua natura artistica, il pubblico diventa giovane e scolarizzato e la critica utilizza artifici retorici per elevare il proprio oggetto di lavoro. Tra tutti i fattori è senza dubbio l’ultimo a contribuire più degli altri all’attribuzione di uno statuto artistico al prodotto cinematografico, riabilitando quei registi della Hollywood classica e convertendoli da mestieranti in autori, per poi creare nelle decadi successive una generazione di attori-intellettuali e cineasti-filosofi.

Il caso di Hitchcock è in questo senso uno dei più significativi proprio perché figlio tanto di un lavoro personale sulla propria reputazione quanto dell’idolatria di quei critici francesi che poi diventeranno i registi sulla bocca di tutti. Le sue interviste a Truffaut lo rendono un mostro sacro, e quando i suoi ultimi film escono nelle sale già molti studenti hanno letto saggi accademici che lo riguardano, i musei d’arte contemporanea proiettano le sue vecchie pellicole e lui si diverte ad alimentare aneddoti, a realizzare backstage e ad ammiccare al linguaggio del cinema europeo più autoriale. È qui che i nuovi critici sfoderano un repertorio di artifici retorici capaci in pochi anni di elevare qualsiasi pellicola ad arte. Shyon Baumann ne individua alcuni:
1) Trattare il film come un testo complesso, cercare cioè il buono anche nella pellicola più deludente e il punto debole in quella più riuscita;
2) Trovare significati impliciti, sintomatici o volontariamente nascosti;
3) Chiamare in causa direttamente il regista all’interno della recensione e personificare il film;
4) Paragonare il regista ad altri suoi colleghi e il suo lavoro ad altre filmografie, in modo da rintracciare o creare artificialmente una rete di riferimenti;
5) Insistere con termini come opera e autore, e contribuire a creare un linguaggio specifico e autonomo.

Con gli anni Settanta questa impalcatura sarà consolidata dalla fondazione di numerosi festival che non faranno che alimentare l’idea del regista come un genio creativo e dell’attore sempre meno divo e più personaggio da interrogare su qualunque argomento complesso. Tutti diventano artisti impegnati e tutti giocano a farlo, il festival diventa tanto arbitro di chi possa essere autore quanto dispositivo che per la propria sussistenza spaccia tutto per arte, dal film che realmente lo è a quello puramente industriale. Ed ecco che torniamo al nostro cineasta livornese, regista di commedie di successo interrogato negli studi tv e nelle redazioni dei giornali come fosse, in quanto regista, depositario di riflessioni interessanti. L’impressione è che se non fosse per un tale, mostruoso, enorme e bellissimo apparato paratestuale, le opinioni degli operatori del cinema cadrebbero nel nulla come quelle del giocatore di calcio sopra citato.

Quando ancora questi avevano voglia di giocare in estate, per esempio, qualcuno chiese a quello più forte cosa pensasse dei colleghi omosessuali. Gettata l’esca, lui abboccò col fare ruspante di chi non segue la sensibilità del proprio tempo. Figuraccia doveva essere e figuraccia fu. Al contrario, cineasti e attori vengono imbeccati per dire ciò che pensano (o che credono sia giusto pensare) e far la figura degli impegnati, mentre il calciatore lo è per essere messo in difficoltà: chissà cosa ne pensa è la matrice della domanda nel primo caso, chissà come la spara grossa nel secondo. Al netto del finto statuto autoriale di alcune produzioni molto commerciali e poco artistiche – che comunque tengono in piedi economicamente i deliri art house del cinema d’essai – viene da rilevare più genio creativo nel lavoro di Balotelli che in quello di certi attori e registi, per cui o respingiamo le opinioni di entrambi in quanto giudizi poco autorevoli – tanto quella di chi tira il pallone da mane a sera quanto quella di chi filma delle scene da ridere – o le prendiamo sul serio tutte e due ed eventualmente le mettiamo in discussione sullo stesso piano. La terza e più probabile alternativa è quella che ci vede continuare con la manfrina dell’opera e dell’artista anche laddove – per fortuna – vi è solo intrattenimento ben applicato ai codici del cinema. Il giochino probabilmente continuerà: nuovo giro, nuova batosta elettorale/guerra/provvedimento politico, nuova intervista-oracolo all’attore sulla cresta dell’onda.

 

Alessandro Fiesoli

‘La tentazione di essere felici’: la senilità secondo il napoletano Lorenzo Marone

La tentazione di essere felici è la terza prova narrativa del napoletano Lorenzo Marone, edito da Longanesi (che per un esordiente è un particolare non da poco) nel 2015. Il romanzo è stato pubblicato in nove paesi stranieri, nonché scelto da Gianni Amelio per la sceneggiatura del suo film. I segreti che il protagonista Cesare scoprirà sulla sua vicina di casa, ma soprattutto su se stesso, sono la scintillante materia di questo formidabile romanzo, capace di disegnare un personaggio in cui convivono, con felice paradosso, il più feroce cinismo e la più profonda umanità.

Chi si lamenta della vecchiaia è un demente. Anzi no, cieco mi sembra più azzeccato. Uno che non vede a un palmo dal proprio naso. Perché l’alternativa è una sola e non mi sembra auspicabile. Perciò già essere arrivato fin qui è un gran colpo di fortuna. Ma la cosa più interessante è, come dicevo, che puoi permetterti di fare ciò che vuoi. A noi anziani tutto è permesso e persino un vecchietto che ruba in un supermercato è visto con candore e compassione. Se a rubare, invece, è un ragazzo, gli danno, nel migliore dei casi, del «furfante». Insomma, a un certo punto della vita si apre un mondo fino ad allora inaccessibile, un luogo magico popolato da gente gentile, premurosa e affabile. Eppure la cosa più preziosa che si conquista grazie alla vecchiaia è il rispetto. L’integrità morale, la solidarietà, la cultura e il talento sono nulla di fronte alla pelle incartapecorita, le macchie sulla testa e le mani tremolanti. A ogni modo oggi sono un uomo rispettato e, si badi, non è poca cosa. Il rispetto è un’arma che permette all’uomo di raggiungere una meta per molti inarrivabile, fare della propria vita ciò che si vuole.
Mi chiamo Cesare Annunziata, ho settantasette anni, e per settantadue anni e centoundici giorni ho gettato nel cesso la mia vita. Poi ho capito che era giunto il momento di usare la considerazione guadagnata sul campo per iniziare a godermela sul serio.

Cesare Annunziata, un anziano di settantasette anni cinico, schietto, perspicace, ben consapevole degli errori commessi nella sua vita, un po’ menefreghista ma molto rispettoso delle scelte altrui, che è solito non giudicare.
Cesare, ormai vedovo da cinque anni, vive da solo in un condominio di un quartiere di Napoli dove tutti si conoscono. Nonostante l’età, ha ancora molta energia e non vuole quindi poltrire nella sua casa come invece fa Marino, suo amico dai tempi in cui i due lavoravano insieme: anche lui vedovo, si è invece lasciato andare alla malinconia e la sua massima attività è affacciarsi sul pianerottolo e scambiare quattro chiacchiere con Cesare ed Eleonora, la pettegola del condominio e soprannominata La Gattara.

È anche forse con l’intenzione di non impigrirsi e non solo perché è sempre stato un donnaiolo, che Cesare intrattiene rapporti con Rossana, una donna sotto i sessant’anni molto schietta, di professione infermiera ma che per arrotondare fa anche la prostituta. Nella vita del protagonista ci sono anche i due figli Sveva, primogenita più simile per carattere al padre, nel bene e nel male, e Dante, che con i modi dolci e la sensibilità ricorda invece di più la madre.
Con entrambi l’uomo non ha un rapporto sereno ed è consapevole che buona parte della colpa sia sua perché non è mai stato troppo presente durante la loro crescita: sposato all’idea del vivi e lascia vivere, si è sempre preoccupato più a pensare ai propri interessi che a seguirli nella crescita. Così ora da un lato c’è Sveva, rigida e scontrosa e che per vendetta gli rivelerà un doloroso segreto di famiglia, e dall’altro c’è Dante, ragazzo omosessuale che è riuscito a dichiarare la sua inclinazione alla madre e alla sorella, ma non al padre.
In questo scenario si aggiunge una nuova conoscenza, Emma, una ragazza trentenne che si è trasferita da poco nel condominio insieme al marito violento.

Contrariamente alla sua indole menefreghista, Cesare non potrà fare a meno d’interessarsi alla ragazza e, anzi, cercherà di fare tutto il possibile per aiutarla, perché ha capito essere coinvolta in un caso di violenza domestica.
Questa nuova situazione gli darà inoltre la scossa per intervenire anche nella vita dei figli. I due dapprima non accetteranno questo suo improvviso cambiamento, Sveva soprattutto, ma poi resteranno positivamente impressionati da quanto invece Cesare abbia ancora da dare…
In un crescendo di eventi che coinvolgono sia la sfera familiare del protagonista che tutte le sue conoscenze all’interno del condominio in cui vive, Lorenzo Marone ci porta con maestria ad affrontare con delicatezza e freschezza diversi temi attuali, come la violenza domestica, l’omosessualità, il rapporto con i figli.

Una lettura trascinante e divertente per la verità dei personaggi. Un libro che racconta la senilità, ma, come ha notato Bruno Quaranta per La Stampa, c’è senilità e senilità. Chi, come lo sveviano Emilio Brentani, «traversava la vita cauto, lasciando da parte tutti i pericoli ma anche il gradimento, la felicità». E chi, come Cesare Annunziata, settantenne si spalanca alla Tentazione di essere felici, a «un mondo fino ad allora inaccessibile».
Ecco la confessione di un anziano che non vuole «assomigliare a un anziano». È in primis un gineceo, l’humus di Cesare Annunziata. Fra rose non colte (grazie irraggiungibili, che nelle estreme ore resuscitano, si riaffacciano), una moglie che gli ha lasciato in eredità la spina di un tradimento, la malafemmina-amante, la gattara («…una di quelle vecchine che incontri per strada col loro bel piattino di carta, rintanate tra le auto in sosta….»), una «ministangona dai capelli patinati», vicina di pianerottolo, maltrattata dal compagno, eppure depositaria, per il suo prossimo, sempre, di un salvifico «pizzico di gioia». Di figura in figura, di rendez-vous in rendez-vous afferrando la verità: «La vita credo sia donna: quando deve evidenziare un tuo errore, non usa troppi giri di parole».
È un racconto benedettamente tradizionale, La tentazione di essere felici. Una sentimentale promenade verso l’ultimo giorno, ma impermeabile infine all’incenso, sensibile invece, di tanto in tanto, all’autorale compiacimento proprio di chi ha identificato il pezzo di legno ad hoc da modellare.
Di fronte alla parabola di Cesare Annunziata come non riandare al salotto di Sommerset Maugham, dove, del romanzo, «non se ne parlava dal pedantesco punto di vista letterario. Quei sottili conoscitori del cuore umano, quegli uomini esperti, qual più qual meno, della vita e delle passioni, non vedevano nel romanzo che un problema umano. Nulla più, non è forse tutto?».

 

 

http://www.orlandofurioso.com/libreria/scrittori-famosi/5647/la-tentazione-di-essere-felice-di-lorenzo-marone/

‘Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943’, il primo libro d’artista delle storia, in mostra fino ad oggi a Milano

Fino ad oggi,  25 giugno, a Milano, sarà possibile visitare una mostra davvero particolare: ci riferiamo a Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943, collocata negli spazi espositivi della Fondazione Prada (Largo Isarco, 2). Zang Tumb Tuuum è stato il primo “libro d’artista” della storia, espressione di quelle parole in libertà che divennero manifesto del movimento futurista. La ricerca di Germano Celant, curatore dell’esposizione, parte dal poema visivo di Marinetti, personaggio chiave tanto per la letteratura quanto per la storia dell’arte, per esplorare il sistema della cultura italiana tra le due guerre mondiali.

Sono diverse le peculiarità che rendono questo progetto degno di menzione. Prima di tutto, l’intento di Celant è stato quello di mettere in discussione il setting espositivo comune – il cosiddetto white box, costituito dalla parete monocroma e asettica – per collocare invece le opere in uno spazio storico comunicativo. Dallo studio di documenti e fotografie storiche (immagini di cronaca, fotografie, pubblicazioni, lettere, riviste, articoli), reso possibile da una proficua collaborazione con archivi, fondazioni, musei, biblioteche e raccolte private, sono state selezionate le testimonianze più significative della produzione artistica e culturale del periodo, per poi contestualizzarle nei luoghi in cui sono state realizzate, esposte e fruite. Attraverso il rendering fotografico si è voluto tentare di ricreare in mostra, con la presenza delle opere originali, le situazioni storiche: il percorso di visita propone quindi venti ricostruzioni di sale istituzionali, studi e gallerie, costituite dall’ingrandimento in scala reale delle immagini d’epoca. Qui vengono (ri)collocate le opere d’arte, come testimonianza e, al contempo, come risorsa di studio.
Lo spazio attorno ai quadri e alle sculture è valorizzato dalla presenza di tracce informative: fotografie, disegni, modelli, cartoni preparatori. L’obiettivo, come scrive Celant, è quello di attivare la visione, l’interpretazione e la conoscenza degli aspetti sociali e pratici delle vicende dell’arte italiana nel periodo preso in considerazione.

Il focus sta nella critica alla decontestualizzazione espositiva, che comporta un dialogo unidirezionale tra le opere in stile “l’art pour l’art”, cui si oppone invece la ricollocazione dell’artefatto nel suo sistema d’uso. L’approccio è assai distante dalle pratiche curatoriali correnti, in certi casi comunque molto evocative: la mostra romana Time Is Out of Joint (diretta da Cristiana Collu, situata alla Galleria Nazionale) per esempio, intende sondare un concetto di tempo non lineare, accostando con estrema libertà ed elasticità artisti come Balla, Klimt, Fontana e Giacometti, per approdare a un approccio sincronico all’opera d’arte. La mostra di Celant è invece più simile a una sequenza cinematografica, in cui ogni oggetto della scenografia riflette fedelmente un’epoca e si fa vettore di una visione del mondo: una vera e propria esperienza immersiva per lo spettatore, che assiste alla fedele ricostruzione della storia delle arti durante la parabola del Ventennio fascista.

La temperie culturale dell’epoca è caratterizzata da un rapporto d’interdipendenza tra ricerca artistica, dinamiche sociali e attività politica. Il regime mussoliniano manifesta il proprio potere attraverso le parate, i gesti, le uniformi, le musiche; enfatizza i propri valori ricorrendo ai nuovi media, dalla radio al cinema; fa un uso propagandistico delle grandi esposizioni. Cura la scenografia urbana, impregnando l’architettura di spirito arcaico; attraverso l’affresco e la decorazione murale istruisce il pubblico rispetto all’utilità sociale del nuovo pensiero. Punta quindi sulla spettacolarizzazione dell’arte e sull’estetizzazione della politica, raccogliendo consensi. All’interno della mostra ritroviamo più di cinquecento lavori: dai dipinti di Depero, Balla, Morandi, Sironi, Carrà, Casorati e de Chirico ai marmi di Wildt e le sculture di Martini, ma non solo. Oltre allo Stato Maggiore delle arti visive del tempo viene dato spazio ai piani architettonici e urbanistici – e quindi ad artisti come Portaluppi e Terragni – ma anche alla grafica pubblicitaria e alla progettazione d’interni. L’esposizione ripercorre la dialettica tra singoli autori e gruppi come futurismo e astrattismo, anche attraverso la riproposizione di materiale tratto da riviste come “Valori Plastici” e “Corrente”: ne emerge un panorama di eclettismo e pluralismo in cui convivono avanguardia e “ritorno all’ordine”, sperimentazione e propaganda.

Il futurismo risulta uno dei movimenti artistici più legati all’ideologia dominante. Gli artisti inscritti in questa corrente intravedono nel fascismo i medesimi valori anticlericali e nazionalistici (espressi nel Manifesto del Partito Politico Futurista Italiano), e anzi per molti storici è proprio il fronte rivoluzionario artistico a ispirare quello politico. Benedetto Croce sostiene che:
Veramente per chi abbia senso delle connessioni storiche, l’origine ideale del fascismo si ritrova nel futurismo: in quella risolutezza a

scendere in piazza, a imporre il proprio sentire, a turare la bocca ai dissidenti, a non temere tumulti e parapiglia, in quella sete del nuovo, in quell’ardore a rompere ogni tradizione, in quella esaltazione della giovinezza, che fu propria del futurismo.

Anche Prezzolini sottolinea questa origine ideale in un articolo intitolato Fascismo e futurismo (1923):

Evidentemente nel Fascismo c’è stato del Futurismo e lo dico senza alcuna intenzione. Il futurismo ha rispecchiato fedelmente certi bisogni contemporanei e certo ambiente milanese. Il culto della velocità, l’amore per le soluzioni violente, il disprezzo per le masse e nello stesso tempo l’appello fascinatore alle medesime, la tendenza al dominio ipnotico delle folle, l’esaltazione di un sentimento nazionale esclusivista, l’antipatia per la burocrazia, sono tutte tendenze sentimentali passate senza tara nel fascismo dal futurismo.

Il rapporto tra futurismo e potere conoscerà comunque, durante il Ventennio, fasi altalenanti, e rimane ancora oggi un tema piuttosto discusso.

Filippo Tommaso Marinetti (il cui rapporto con Mussolini è di certo forte, nonostante le occasionali tensioni) potrebbe rappresentare l’emblema di questa fase culturale, ed è infatti proprio alla sua figura che è dedicata la prima sala dell’esposizione. Come fondatore del futurismo, Marinetti si dedicò alla promozione del movimento e dei suoi artisti in Italia e all’estero; per questo si è scelto di riportare due suoi significativi ritratti firmati da Fortunato Depero e Rougena Zátková negli anni Venti come prime testimonianze pittoriche, nella cornice di una fotografia, datata 1931, che immortala l’artista nel suo studio. La discrepanza temporale rappresenta un’eccezione, una licenza alle parole in libertà: da qui in poi le opere esposte sono scandite dalla data delle fotografie-guida che le mostrano nei contesti d’epoca. Il percorso continua quindi con la ricostruzione dei grandi appuntamenti espositivi del tempo, dalla prima Biennale “futurista” veneziana del ’26 alla Mostra del Decennale della Rivoluzione Fascista, organizzata nel ’32 al Palazzo delle Esposizioni a Roma. A quell’evento è dedicata la monumentale installazione del Deposito, dove su otto altissimi schermi scorrono gli ingrandimenti delle foto delle sale, ognuna assegnata a un artista o a un architetto. Non mancano poi esempi di importanti rassegne internazionali – come Das Junge Italien, tenutasi a Berlino nel 1921, o Fantastic Art Dada and Surrealism, realizzata per il MoMA nel 1936 – e riproduzioni delle più influenti gallerie private, come la Casa d’Arte Bragaglia e la Galleria del Cavallino. L’epilogo, datato 1943, lo troviamo nella sala del Podium, con i bozzetti per l’ultimo, grande “ruggito” urbanistico del regime: l’E42, pensato per celebrare il ventennale della Rivoluzione fascista con l’Eur (Esposizione Universale di Roma). Di fronte, come contraltare, le voci degli artisti dissidenti – rappresentate dalla serie satirica Dux di Mino Maccari, fascista pentito – e le macabre immagini della guerra.

Non mancano, tra le sale, focus tematici dedicati a personalità-chiave per la cultura del ’900: si tratta sia di personaggi che aderiscono al partito, come Luigi Pirandello e Margherita Sarfatti, sia di intellettuali d’opposizione, come Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Carlo Levi e Alberto Moravia. Anche in campo artistico non mancano le figure di “artisti ribelli” al culto del duce e alla retorica monumentale: pensiamo al gruppo europeista dei Sei di Torino o alla Scuola romana di stampo espressionista. Si può affermare che, a livello teorico, il regime non sposò né rigettò ufficialmente l’opera di alcun artista, movimento o tendenza, mantenendo un atteggiamento di relativa tolleranza nei confronti di tutte le proposte estetiche. Operò a livello politico, soprattutto dopo gli anni Trenta, censurando i pensatori che si opponevano in modo esplicito all’azione mussoliniana.

Tra il 1918 e il 1943, anche in seno a un regime autoritario, fiorisce in Italia una stagione artistica e architettonica di prim’ordine, che è giusto tornare a studiare ed esporre. Ma come si può esporre del materiale inevitabilmente connotato in senso ideologico? La riflessione è quanto mai attuale, considerando le ultime polemiche riguardanti la conservazione dei monumenti fascisti ancora presenti nella penisola. Celant suggerisce e sperimenta con successo la via della contestualizzazione, per cui la comprensione dell’opera d’arte avviene nella piena consapevolezza della sua genesi, fatto che – paradossalmente – depura la visione da anacronistici giudizi morali.

 

Maria Ceraso

Maturità 2018: la versione di greco al liceo classico e i commenti grossolani degli eruditi radical chic: Aristotele non è un modello di integrazione

La versione di Aristotele? E’ davvero un’ottima scelta, perché è stata pensata per fare un dispetto al pessimo ministro dell’Interno che attualmente abbiamo. Ruota intorno al concetto che è l’amicizia con gli altri che tiene in piedi le città, Aristotele è un uomo che la sapeva lunga. Bravi al ministero, hanno scelto un brano che dà inizio alla Resistenza contro il nuovo fascismo. (fonte ANSA).

Questo il commento di Luciano Canfora al testo della versione di maturità classica di quest’anno, un brano dell’Etica Nicomachea di Aristotele. Eppure non serve essere né filologi classici né storici dell’antichità per rimanere perplessi di fronte ad un’ affermazione come questa. Precisiamo quindi un piccolo e insignificante dettaglio trascurato da Canfora: “l’amicizia che tiene in piedi le città” – si badi bene: non solo nel pensiero di Aristotele, ma nell’humus generale della cultura greca antica fino almeno all’Ellenismo – è quella tra cittadini, ossia individui di sesso maschile, adulti e formati dalla polis, che addirittura, con la Legge sulla cittadinanza di Pericle (451/450 a.C.) dovevano avere entrambi i genitori ateniesi. Tutti gli altri – meteci, figli illegittimi, donne, stranieri di passaggio, schiavi) erano in condizione di inferiorità; potremmo dire, con Orwell, che nella polis tutti gli uomini sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri, con quel che ne consegue in termini di diritti. I barbari (xenoi barbaroi) è persino superfluo nominarli: Aristotele con un non-greco che non conoscesse la sua lingua non ci avrebbe mai nemmeno parlato.

Detto ciò, possiamo alternativamente imputare a Canfora o una disarmante ignoranza – ma, dato il curriculum studiorum e le numerose pubblicazioni in materia di storia greca,  sembra decisamente poco plausibile – o un’altrettanto disarmante malafede. Perché va bene, professore, che entrambi i suoi genitori fossero in prima linea a militare contro il fascismo e che lei voglia calcare le loro orme: il pensiero politico di un individuo è faccenda personale che non può essere messa in discussione. Quello che invece deve essere messo in discussione è il fatto che un intellettuale del suo calibro cada in un errore storico così grossolano per portare acqua ad un mulino, che di questi tempi è, peraltro, già strabordante di suo e, mi creda, non ha bisogno del suo intervento. Lei che, da insegnante, in classe insegnerà sicuramente a non manipolare la storia, a non giudicarla, a non cadere in beceri anacronismi, a non prestarsi a mistificanti riletture ideologiche, lei, un esimio professore, si mette sotto i piedi tutta la sua onestà intellettuale e ci suggerisce, surrettiziamente, che Aristotele fosse un teorico dell’integrazione del mondo antico, addirittura modello per noi contemporanei.

Se volessimo fare come lei, professore, utilizzando indebitamente, a nostro uso e consumo, l’autorità di un filosofo come Aristotele per leggere e interpretare meccanicamente il presente, allora le diremmo che contro questi barbaroi (i migranti), che parlano una lingua incomprensibile, che vengono da paesi caldi, che non conoscono la democrazia e che invadono senza permesso le nostre coste, noi dovremmo organizzare una terza guerra persiana.

 

Claudia Stanghellini

Vincenzo Calì: ‘la mia poesia contempla e accetta la realtà’

Secondo Platone la poesia ha un suo statuto di dignità ontologica, e merita di più di essere relegata a una certa, divina pazzia. Nello Ione Platone, mostra come vi sia un’intimità tra l’anima cosmica e il ritmo poetico. Vi è poi il divino la cui veridicità esce dalla bocca di un poeta. A questa concezione dell’ispirazione poetica non sfugge un interessante autore siciliano che nel tempo libero va alla ricerca delle conoscenza dell’amore e lo mette nero su bianco. Il suo nome è Vincenzo Calì, classe 1973, di professione analista chimico. L’autore milazzese prenderà parte il prossimo 21 luglio ad un evento nella splendida cittadina barocca di Caltagirone, Angeli a Calatagèron, dove saranno esposte le opere d’arte del maestro Lorenzo Chinnici accompagnate dai versi di Calì che ne raccontano l’essenza e il sentimento. Ha pubblicato due raccolte poetiche: Vincikalos nel 2011 e Intro del 2013, aggiudicandosi il premio MT Bignelli per la Poesia d’Amore della XXI edizione del concorso “Garçia Lorca” 2010/2011.

Vincenzo Calì è la dimostrazione che la poesia non può essere considerata, come purtroppo ancora molti fanno, una categoria retorica e argomentativa, ma è in grado di mostrare il trascendente, la scintilla divina che è dentro di noi ed è, soprattutto, scevra da ogni forma di finzione. Ma Calì non dice l’impossibile aiutandosi con l’immaginazione superando i limiti della poesia come imitazione del reale, della natura, dice quello che c’è di più intimo in se, partendo dal reale, per giungere, come per Petrarca, alla lirica, creando bellezza non raccontandola, come dimostrano la musicalità, il colore e la sensualità dei versi del poeta siciliano che cerca di dare una forma all’essenza, in primis all’amore. Ricerca unità e armonia Calì, sia il cielo che la terra, il dolore e la gioia, l’amore e la sofferenza, toccando quel soffio aereo che coincide con i versi poetici alla maniera di Rilke. ma senza esserne l’epigono. D’altronde questo significa guardarsi dentro, ascoltarsi, anche giudicarsi e augurarsi qualcosa per se stessi, senza cercare di imitare nessuno. L’autore fa proprie anche le istanze culturali e storiche, rielaborandole non mimandole, mostrandoci, attraverso l’isolamento di alcune parole che si caricano di significato universale, come la poesia sia certamente un pensiero cognitivo che crea linguaggio, ma rimane sempre, anche nella nostra magmatica e confusa contemporaneità il cui mantra è spesso distruggere quello che è venuto prima, proponendo nuove concezioni, in nome della modernità, un respiro che si fa musica, che sia essa allegra, inquietante, triste, angosciante.

 

1. L’ispirazione per scrivere ti viene guardando solo a te stesso, alle tue esperienze, al tuo modo di guardare le cose, o osservando anche la vita degli altri?

L’ispirazione per la mia poesia parte principalmente dal bisogno di mettere sulla carta i disagi della vita, gli amori tormentati, la quotidianità, ma anche il mondo che mi circonda, le sofferenze altrui e le esperienze di chi mi sta accanto, le somatizzo quando mi scuotono e mi inducono a scrivere e nel momento in cui lo faccio, quando trasferisco sulla carta la poesia, tutto si placa, si acquieta dentro come se mi fossi confidato con un amico caro, un cerchio che si chiude, per cui sono sensibile ad ogni evento. Ricordo molti anni fa di aver scritto una bellissima poesia, in occasione di una visita fatta a mio padre in ospedale vidi il suo vicino di letto che era afflitto da una malattia grave che lo rendeva quasi deforme ed in fin di vita, ho sentito un dolore così forte dentro il mio stomaco che quasi mi ero dimenticato il motivo per il quale mi trovavo lì e in poco tempo sono dovuto andare via per la sofferenza ed il bisogno impellente di scrivere, chiuso dentro l’automobile nel parcheggio dell’ospedale e nacque così la poesia  “LUI” :

Maligna vita, beffarda ignara,
negò il nascente a sua sembianza.
Ti tengo a me,
nel pugno ho stretto, quel soffio d’aria,
dò lotta estrema, che vince i vinti.
La mano è inerme, già molle lascio, ti dono l’io.
Mi lasci vita…
Ti vedo andare, inerme e flesso a Dio obbedisco.
Ti lascio vita…

2. Secondo te la poesia deve confortare, rassicurare o è suo dovere anche turbare per smuovere in noi qualcosa?

Io credo che la poesia abbia un solo ruolo, quello di trasmettere a chi la legge le sensazioni e il patos che l’autore stesso esterna lasciando liberi tutti di fare proprio tale sentimento o legarlo ad un evento personale, qualcosa anche in cui riconoscersi.

3. Nelle tue poesie si avverte uno sguardo languido, ma lucido, consapevole riguardo alle contraddizioni e alle complessità. Accetti queste complessità o cerchi attraverso la poesia di semplificarle?

In effetti è vero, uno sguardo languido è il termine usato per eccellenza e sta a definire quel modo di osservare la vita, l’amore e le tentazioni, il proprio io che a volte si castra nel lasciar fluire gli eventi, anche quelli dell’intimità, ma senza il tentativo attraverso la poesia di alterare la realtà o rendere il boccone meno amaro, solo un vivido contemplare ed accettare.

4. Ci sono dolori che hanno perso la memoria e non ricordano perché sono dolori?

Non ci sono dolori per me che hanno perso la memoria, rimangono sempre i marker di certe cose accadute, forse ho perduto il disagio mentale di quando li ho provati, questo è sicuro e quindi a distanza di tempo posso analizzarli in modo diverso ma senza mai dimenticare.

5. Qual è la principale differenza che noti tra la prima raccolta Vincikalos e la seconda Intro?

Vincikalos poiché rappresenta la mia prima silloge poetica, risulta a chi la legge un tentativo personale di far arrivare il mio disagio interiore e mette in condizioni il lettore di osservare ed immedesimarsi, si evince un lavoro più privato quasi fosse creato per un pubblico di nicchia, senza ovviamente tralasciare la bellezza per alcuni componimenti a mio avviso magnetici e discordanti dal tema del libro. A differenza, Intro diventa il mio lavoro di crescita, un’evoluzione del tipo di scrittura che comincia a staccarsi dagli schemi anche se involontari, fino a quel momento seguiti, un osservare di più gli eventi, esaltare i profumi del mondo attorno, un emissione di passione con meno dolore, più gioia e nostalgia al contempo, che si trasforma sulla carta.

6. Il poeta è un fingitore. | Finge così completamente | che arriva a fingere che è dolore | il dolore che davvero sente. Sei d’accordo con questa poesia di Pessoa?

Pessoa è stato un grande poeta e non vorrei contestare la sua lirica seppur bella e ricca di prospettive soggettive, ma mi trovo in disaccordo con questa affermazione. La poesia per me è un magma che fuoriesce incontrollato, non sarei mai in condizioni di potere scrivere se non avessi qualcosa da dire o una forte ispirazione, non potrei mare simulare o indurre a provare un dolore a chi legge le mie poesie se prima non è passato attraverso la mia anima, io lo faccio quando lo sento ovunque mi trovo, è un bisogno impellente.

7. Chi scrive, a volte rischia di sottrarre il meglio della vita per trasferirlo nella scrittura?

No non credo sia così, penso invece che chi scrive può lasciare un segno di ciò che è meglio o peggio della vita e non toglie nulla, anzi la analizza da una prospettiva anche soggettiva e non, verbalizzandola, e questo tutti i giorni non è possibile farlo nella società contemporanea. Io direi che scrivere è un valore aggiunto per chi lo pratica.

8. Come nasce la scelta di scrivere poesie brevi e perlopiù in versi liberi?

Non c’è una spiegazione nel mio modo di scrivere, non ho studiato la metrica poetica, non sono un letterato, sono un autodidatta, il mio credo sia un dono. Il giorno che decisi di farlo, fu spontaneo e naturale e dopo la mia prima pubblicazione Vincikalos, un amico professore di lettere, mi disse che molte delle mie poesie son scritte in esametrico, ma io gli dissi che non è calcolata questa cosa e che lascio gli altri giudicare il mio stile in quanto poco esperto, io mi limito a scrivere poesie.

9. Per te nomi e aggettivi contano più dei verbi, nel senso che da soli possono esprimere un pensiero, un’azione?

No non contano più dei verbi, gli aggettivi e i nomi fanno parte insieme ai verbi del periodo e mi servono tutti per rendere fino in fondo il messaggio che voglio trasmettere.

10. Parlaci un po’ della tua partecipazione all’evento “Angeli a Calatagèron”, che avrà luogo il prossimo 21 luglio a Caltagirone.

All’evento che si terrà il 21 Luglio, potrete gustare le mie poesie istallate sotto ogni singolo quadro esposto, attraverso un percorso evocativo creato per le opere di Lorenzo Chinnici, con l’intento di raccontare la Sicilia nelle sue tradizioni, con versi anche dialettali che rendono bene il concetto che si vuole esprimere e danno colore forse a tratti anche folcloristico alle opere del maestro, tra antico e contemporaneo, tra passione e amore per la propria terra.

11. Ti piacerebbe cimentarti anche nella prosa e pensi di proseguire a scrivere in versi?

Direi che non sono interessato a scrivere in prosa, preferisco mantenere questa mia forma di scrittura che sia in versi o no, ma quella che è marchio di ciò che sono ed indice di riconoscibilità del mio lavoro.

12. Nella poesia intitolata Intro, parli di una migrazione verso te stesso, è il tuo io che dopo essersi smarrito ritorna alla casa natale, per così dire, oppure assorbi nuovi mondi esterni al tuo?

Con Intro si tratta di un ritorno al mio io, dopo una migrazione controllata, metabolizzata, senza il dolore iniziale e con nuova consapevolezza del mio corpo e della mia anima, cambia in parte il modo di scrivere, ma non attingo mai dall’esterno o da nessun autore passato e contemporaneo, in quanto una cattiva mia abitudine è quella di non leggere molti libri di poesia, non mi serve assorbire o seguire la scuola di pensiero di altri, sono autodidatta per cui mi serve solo sfogarmi o sublimare con le parole la vita e lo faccio con il mio dono inconsapevole se così vogliamo chiamarlo.

10. Nella poesia premiata Senso d’amare, contrapponi la staticità di un fiume al dinamismo dell’ansia di cercare sempre l’amore anche a tempo finito, giocando con le parole (senso, senza, ansia). L’amore per è un semplice sentimento o un moto dell’anima?

Del fiume ormai fermo, mangiai lo sgomento, è misera ansia, sono tutti termini che vogliono rappresentare l’accettazione di un amore che termina, contemplando in silenzio la fine, ma cercando come forma di negazione alla realtà, di aprire un varco ancora per poter recuperare anche a tempo scaduto, il salvabile. Una poesia dolorosa, come tale era la situazione reale e sembra sia arrivato tutto alla giuria che l’ha scelta per il premio, poiché troppo vera e troppa sofferenza per metterla sulla carta. L’amore per me è un moto dell’anima che mi fa fare cose impensabili, ma che per esistere nel tempo necessita di essere intriso di stima e condivisione, essenziali nella vita.

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