La poesia, probabilmente più della prosa, è un sentiero impercorribile per molti, sul quale sono disseminate parole incomprensibili, oscure per chi ancora non ha compreso che la poesia non è altro che l’intera storia del cuore umano su una capocchia di spilli come sosteneva William Faulkner. In tal senso risulta quanto mai calzante l’esordio della prefazione, curata da Giuseppe Cerbino, alla silloge poetica di Luca Crastolla, da titolo fantiano L’ignoranza della polvere edito da Controluna nel 2018, che strizza l’occhio alla filosofia e nello specifico a Wittgestein, per il quale certi pensieri possono essere compresi da chi li ha già pensati, per “aiutare” il lettore più pigro ad entrare nella poetica e nell’universo di Crastolla. Già, perché anche il lettore meno sensibile ai versi poetici, non può non riconoscersi nella profonda emotività, negli smottamenti propri del nostro pensare, che l’autore pugliese lascia emergere tra le pagine di questo libro che può illuminare come accecare il lettore.
Crastolla attraverso un uso puntuale ed incisivo della parola tenta di universalizzare la profondità del nostro pensiero, intensa come complessità, un insieme di contraddizioni, desideri di riscatto ma anche di abruttimento, di elevarsi e abbassarsi spiritualmente, di innalzarsi verso il Cielo e di toccare il sottosuolo. L’ignoranza della polvere non sconta il compiacimento retorico in cui scivolano purtroppo molti scrittori, non solo esordienti, erigendosi a cantori (superficiali) dell’animo umano. Qui siamo di fronte ad una metapoesia, una poesia che ragiona su se stessa, sulle sue possibilità e sullo stupore che ogni volta può suscitare in primis in chi la compone, che si abbandona alla potenza della poesia, lasciando che siano le parole ad impossessarsi di lui.
Crastolla non vuole confortare il lettore, semmai lo sfida a decifrare i simboli della realtà, soprattutto di quella del sud, terra incantata e allo stesso tempo martoriata, a comprendere che la poesia deve avere anche una funzione sociale. Descrivendo la realtà, Crastolla ne coglie e trasmette le impressioni più indefinite, avvalendosi di immagini sfumate, affiancando espressioni astratte a quelle più concrete: la stagione della reticenza, bicchieri di mirto, marciapiedi urinati dalla distrazione; ponendo(si) interrogativi, esplorando l’ignoto, liberando i pensieri, le paure, evocando sensazioni ed emozioni persino mai provate davvero. Si esce dunque dall’universo individuale per approdare a quello universale; nel mezzo ci sono oggetti da rinvigorire, strade vecchie da asfaltare e come compagna di viaggio la voglia di definire l’idea stessa di poesia. Naturalmente questa ricerca comporta uno scompenso interiore che fa apparire la realtà agli occhi del poeta, come luogo di perenne conflitto, dove le cose sono “dipinte’ in chiaroscuro.
La vita è caos per Crastolla, la quale offre inquietudine e senso di inadeguatezza ai suoi abitanti imbrattati dalla polvere, ma può dare anche serenità e pace se cercassimo di alimentare quanto meno possibile le nostre paure ed incertezze, lasciando, semmai, agire in noi, quella scintilla divina che meglio ci fa conoscere noi stessi, ristorandoci dopo il tortuoso cammino. Ma al di là del contenuto della poetica di Crastolla, la domanda da porsi è che può essa ritenersi universale? L’autore riesce a concentrare in maniera viva, nelle sue settantotto pagine il lato oscuro della realtà, di noi stessi, nonché la rappresentazione drammatica delle cose che ci circondano? In gran parte vi riesce, soprattutto quando volge l’attenzione al suo sud, tuttavia, manca una dimensione spirituale più profonda, un vero e proprio confronto, e perché no, anche un duello, con il trascendente che aiuta a gettar luce sulla mutevolezza umana, storica, esistenziale e non fermarsi alle istanze proprie dell’ateismo cristiano che vuole svuotare la fede di qualsiasi senso religioso e del sacro, provando a superare il dualismo per sfociare nell’Uno per una via più naturale di pensiero, non propriamente filosofica.
Lo sguardo poetico di Crastolla è aspramente surrealistico, votato allo scomponimento dell’oggetto, sull’altra faccia di un pensiero, su un’emozione, sulla dissolvenza ed emergenza del mondo, si inserisce in un’architettura culturale e morale che mira alla scoperta e alla presa di coscienza di una nuova percezione, di un nuovo modo di sentire e raccontare le cose, ancora in fase di sperimentazione, tirando fuori tutte le potenzialità della parola. Si percepisce a tratti la paura di trovare qualcosa, durante questa faticosa ricerca, dove risulta impossibile non guerreggiare con se stessi, ma si deve guerreggiare non tanto per essere in pace con gli altri, rispettare il prossimo, in una sorta di stucchevole “peace&love”, bensì per trascendere se stessi e disabituarsi al caos, alla morte e alla presa d’atto del proprio Io perennemente lacerato sottolineato in particolare, dall’ultimo verso da pronunciare tutto d’un fiato:
Perché non stendere la pelle al sole? Perché giurarci causa e prometterci al danno?
Oggi costruirò un veliero con il legno delle segherie del corallo
Recuperò una prua dalle stive della gentilezza e dell’incuranza
La negherò ostinatamente all’approdo di un paragrafo d’inchiostro
Dammi la tua parola che non hai letto la mia…
[..] ognuno di voi, vessato dal segno ha scavato idrografie sommerse per scongiurare la sete spaccata della terra su cui muoviamo a stento…
<<Nelle attualità del vento pigiavo l’aria contro le parole. Ho tutto l’incidente, ancora, tra le mani insieme al taglio corto dei tuoi versi disarginati>>, si legge ad un certo punto di una poesia, e si percepisce il desiderio del poeta di trovare un equilibrio tra la natura, il mondo esterno e quello interiore, un’armonia poetica, che magari troveremo nella sua prossima opera.